Leggere, guardare, ascoltare…

L’8 aprile uscirà in libreria Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza, una raccolta di trentadue poesie di autori palestinesi, in gran parte scritte a Gaza dopo il 7 ottobre 2023. Con la prefazione di Ilan Pappé e interventi di Susan Abulhawa e Chris Hedges. Per ogni copia venduta 5 euro a EMERGENCY. 

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Il loro grido è la mia voce
Poesie da Gaza

Pagine: 156

Codice ISBN:

9791259677587

Prezzo cartaceo: € 12

Data pubblicazione: 08-04-2025


A cura di Antonio Bocchinfuso, Mario Soldaini, Leonardo Tosti
Prefazione di Ilan Pappé
Con interventi di Susan Abulhawa e Chris Hedges
Traduzione dall’arabo di Nabil Bey Salameh
Traduzione dall’inglese di Ginevra Bompiani ed Enrico Terrinoni

La poesia come atto di resistenza. La forza delle parole come tentativo di salvezza. È questo il senso più profondo delle trentadue poesie di autori palestinesi raccolte in questo volume, in gran parte scritte a Gaza dopo il 7 ottobre 2023, nella tragedia della guerra in Palestina, in condizioni di estrema precarietà: poco prima di essere uccisi dai bombardamenti, come ultima preghiera o testamento poetico (Abu Nada, Alareer), mentre si è costretti ad abbandonare la propria casa per fuggire (al-Ghazali), oppure da una tenda, in un campo profughi dove si muore di freddo e di bombe (Elqedra). Come evidenzia lo storico israeliano Ilan Pappé nella prefazione, «scrivere poesia durante un genocidio dimostra ancora una volta il ruolo cruciale che la poesia svolge nella resistenza e nella resilienza palestinesi. La consapevolezza con cui questi giovani poeti affrontano la possibilità di morire ogni ora eguaglia la loro umanità, che rimane intatta anche se circondati da una carneficina e da una distruzione di inimmaginabile portata». Queste poesie, osserva Pappé, «sono a volte dirette, altre volte metaforiche, estremamente concise o leggermente tortuose, ma è impossibile non cogliere il grido di protesta per la vita e la rassegnazione alla morte, inscritte in una cartografia disastrosa che Israele ha tracciato sul terreno». «Ma questa raccolta non è solo un lamento», nota il traduttore Nabil Bey Salameh. «È un invito a vedere, a sentire, a vivere. Le poesie qui tradotte portano con sé il suono delle strade di Gaza, il fruscio delle foglie che resistono al vento, il pianto dei bambini e il canto degli ulivi. Sono una testimonianza di vita, un atto di amore verso una terra che non smette di sognare la libertà. In un mondo che spesso preferisce voltare lo sguardo, queste poesie si ergono come fari, illuminando ciò che rimane nascosto». Perché la scrittura, come ricordava Edward Said, è «l’ultima resistenza che abbiamo contro le pratiche disumane e le ingiustizie che sfigurano la storia dell’umanità».

Il libro è anche un’iniziativa concreta di solidarietà verso la popolazione palestinese. Per ogni copia venduta Fazi Editore donerà 5 euro a EMERGENCY per le sue attività di assistenza sanitaria nella Striscia di Gaza.

«Posso scrivere una poesia / con il sangue che sgorga».
Yousef Elqedra

«La libertà per cui moriamo / non l’abbiamo mai sentita».
Haidar al-Ghazali

«La poesia nella mia prigione / È nutrimento / È acqua e aria».
Dareen Tatour

«Se devo morire, / che porti speranza, / che sia una storia».
Refaat Alareer

«Leggete queste poesie non solo con gli occhi, ma con l’anima. Ascoltate la loro musica, il loro ritmo sottile. Che siano per voi un ponte verso la comprensione, un inno alla dignità, e un ricordo che la bellezza, anche nelle situazioni più difficili, può ancora fiorire».
dalla nota del traduttore Nabil Bey Salameh

«Forse questa raccolta contribuirà a erodere in qualche misura lo scudo di silenzio e disinteresse che garantisce immunità ai responsabili del genocidio a Gaza».
dalla prefazione di Ilan Pappé

«Non credete che nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU anziché i paesi che hanno la bomba atomica sarebbe più giusto mettere quelli che sono riusciti pur massacrati dai bombardamenti a scrivere queste poesie bellissime?».
Luciana Castellina

Curata da Antonio Bocchinfuso, Mario Soldaini e Leonardo Tosti, questa raccolta propone una selezione di poesie di dieci autori palestinesi: Hend Joudah, Ni’ma Hassan, Yousef Elqedra, Ali Abukhattab, Dareen Tatour, Marwan Makhoul, Yahya Ashour, Heba Abu Nada (uccisa nell’ottobre 2023), Haidar al-Ghazali e Refaat Alareer (ucciso nel dicembre 2023). Il volume è arricchito da una prefazione dello storico israeliano Ilan Pappé e da due interventi firmati dalla scrittrice Susan Abulhawa, autrice del romanzo bestseller Ogni mattina a Jenin, e dal giornalista premio Pulitzer Chris Hedges, ex corrispondente di «The New York Times» da Gaza.

Dal sito «sinistrainrete.info»

Quinn Slobodian

Il capitalismo della frammentazione
Gli integralisti del mercato e il sogno di un mondo senza democrazia

(Einaudi, 2023)

recensione di Pierluigi Fagan

«In che direzione si muove oggi il capitalismo? Verso la frammentazione. Non più pochi Stati-nazione ma tanti piccoli territori, senza tassazione progressiva, senza welfare, senza regole: senza democrazia.


Basta uno sguardo alle mappe del mondo degli ultimi decenni. È dagli anni Novanta che la globalizzazione ha mandato in frantumi la geografia degli Stati-nazione creandone altri e immensamente più piccoli: paradisi fiscali, porti franchi, città-Stato, enclaves blindate e zone economiche a statuto speciale. Queste nuove zone sono esonerate dalle tasse e dalle regolamentazioni dei comuni mortali. E grazie a queste zone gli ultracapitalisti credono che sia finalmente possibile ciò che sembrava impensabile fino a qualche decennio fa: sfuggire ai vincoli e alle restrizioni dei governi democratici. Lo storico Quinn Slobodian si mette simbolicamente alle calcagna dei più noti e radicali neoliberali – da Milton Friedman a Peter Thiel – in giro per il mondo cercando la residenza perfetta per le loro fantasie da mercato libero. La caccia porta dalla Hong Kong degli anni Settanta al Sudafrica degli ultimi giorni dell’apartheid, dalle neoconfederazioni al modello medievale della città di Londra. Per arrivare infine alle zone di guerra e agli oceani, tracciando la disperata e instancabile rotta per un territorio vergine dove poter liberare il capitalismo dalla morsa della democrazia» (dalla quarta di copertina del volume).

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Quinn Slobodian

Il capitalismo della frammentazione

(Einaudi, 2023)


Recensione di Pierluigi Fagan


Slobodian è uno storico canadese, già autore dell’ottimo Globalist. La fine dell’impero e la nascita del neoliberismo (Meltemi 2021), qui in indagine sull’evoluzione del sistema ideologico di certo capitalismo anglosassone ovvero l’anarco-capitalismo. Titolo originale dell’opera: Crack-Up Capitalism: Market Radicals and the Dream of a World Without Democracy che ha il merito di chiarire subito il punto centrale della questione: un mondo dominato dal mercato e il capitale, libero da ogni residua forma di democrazia.

La forma economica capitalistica sappiamo essere presente in vari modi e intensità nell’intera storia umana incluso il tardo medioevo italiano che creò e raffinò gran parte degli elementi di questa forma economica. Ma solo quando si impossessò dello stato con la Gloriosa rivoluzione inglese del 1688-89, cominciò a diventare sia la forma completa che conosciamo, sia l’unica forma di economia ammessa. Dopo quasi due secoli e mezzo, il Regno Unito arrivò ad accettare il pieno suffragio universale della forma di rappresentanza parlamentare che diciamo impropriamente “democrazia”. Dopo guerra e dopoguerra, inizia il fastidio delle élite per questa pur imperfetta forma di “democrazia”, precisamente dagli anni ’70 e le prime teorizzazioni dei think tank americani, dalla Trilaterale di Samuel Huntington in giù. A seguire, la versione con sempre meno politica ovvero democratica e sempre più dittatura prima della mano invisibile, poi del capitale finanziario detta “neo-liberismo”. L’anarco-capitalismo è la radicalizzazione ulteriore che, come da titolo originale del libro di Slobodian, sogna un mondo totalmente libero dai vincoli sociali e politici ovvero una monarchia o aristocrazia del capitale.

Tale ideologia anarco-capitalista non va presa come un canone ferreo ma come una costellazione di concetti, ispirazioni e tendenze. Può darsi che, a parte i teorici deputati a disegnare mondi di perfezione logica poco realistici che hanno il fascino dell’ideale, alcuni elementi possano essere usati per applicazioni parzialmente diverse ma concrete come sta facendo e sempre più farà Donald Trump. Vale dunque la pena di vedere cosa dice l’indagine di Slobodian.

Se il nemico per l’anarco-capitalismo è la democrazia, presupposto della democrazia è l’esistenza di uno stato per cui lo stato va smantellato. Si parte proprio dalla revisione della storia, cancellare il portato dell’ultimo secolo di pur discutibili “democrazie” liberali, ma i teorici più estremi vorrebbero in realtà cancellare gli ultimi mille anni e tornare al frazionismo localistico del medioevo europeo barbarico e poi del Sacro Romano Impero. Il tutto creando una collezione variegata di: città-Stato, paradisi fiscali, porti franchi, giurisdizioni private, parchi high-tech, distretti extradoganali, hub per l’innovazione, gated community, isole ed ex piattaforme off-shore, grandi navi in perenne crociera, “zone” speciali in cui non ci sono leggi limitative il libero spirito d’impresa. Zone (esistono – pare – ottantadue tipi diversi di zone) governate con logica d’impresa con amministratori eletti da assemblee di azionisti secondo logica per la quale una azione-un voto e non già una testa-un voto, nazioni start-up. Comunità di “individui sovrani” in cu si eccelle per merito e dove il merito è dato dall’accumulare la maggior quantità di ricchezza possibile, in ogni modo. Mano d’opera servile potrà sempre entrare momentaneamente ma senza diritti (né di cittadinanza, né sociali) e riconoscimenti formali, giusto il tempo che serve per la prestazione, fisica o di concetto, accontentandosi del prezzo pagato che sarà sempre meglio che morire di fame.

Prive di sindacati, di welfare state, con polizia ma anche magistratura (e leggi o contratti) private, da cui si può uscire o chiedere di entrare vantando gradi di omogeneità ideologica ed etnica che l’amministrazione vaglierà. Tali “zone”, al momento della scrittura del libro erano 5400, mille solo nell’ultimo decennio, seguendo il credo del capo della Pay-Pal mafia, Peter Thiel “Se vogliamo incrementare la libertà, dobbiamo incrementare il numero degli stati”. Ecco in che senso gli adepti di questo complesso ideologico si dicono “libertarians” che si traduce non già con “libertari” (che vanno dagli anarchici ai liberali), ma libertariani. Una enclave ideologica tipicamente anglo-sassone che sogna di liberarsi da tutto ciò che si frappone alla logica del mercato e dell’accumulazione del capitale.

Il tutto “piano-piano” con piccole secessioni morbide, recinzioni altrimenti motivate, rovesciamenti subdoli, piccole diserzioni dalla comunità, passo dopo passo, senza fretta, con paziente strategia pluridecennale per creare piccoli mondi di clienti e non già cittadini, in libera competizione tra loro per attrarre capitali, investimenti, talenti. Il tutto ha dato vita a una vera e propria “transitologia”, la scienza di come cambiare sistemi complessi alla faccia di quelli che ancora si baloccano con la “rivoluzione”. Raggiunta la doverosa massa critica di piccole nazioni-start up, gli stati falliranno uno appresso all’altro per soffocamento ovvero mancanza di ricchezza, capitali e capitalisti secessionisti, quindi raccolta fiscale.

Il pantheon teorico di questi anarco-capitalisti risale alla scuola austriaca, Mises ancor più di Hayek e Milton Friedman, più figlio David e nipote Peter, l’immancabile Ayn Rand, nessuno di loro apertamente così estremi ma fondando i presupposti da cui poi altri teorici hanno sviluppato il discorso. Murray Rothbard, economista e il suo fido scudiero più politico che economico Hans-Hermann Hoppe, celebre per il suo Democrazia, il Dio che ha fallito (Liberilibri 2005) sono i riferimenti centrali.

Ma il libro poi sciorina le idee di altri meno noti che però fanno capire come funziona la macchina ideologica fatta di think tank (Cato Institute, Heritage Foundation, Mont Pelerin Society, Von Mises Institute, Rockford Institute, Property and Freedom Society, Hoover Institution e molti, molti altri) con accanto i capitali di Charles Koch (e non solo, ogni magnate da una quota delle sue “donazioni” qui e là, non si sa mai) e il recente entusiasmo della coppia Thiel-Musk, talvolta Ron Paul, articoli su riviste, cattedre universitarie, allettanti convegni e seminari “tropicali”, visibilità pubblica sponsorizzata per la quale, chiunque abbia un minimo di cervello, per convinzione sincera o sinceramente voluta prostituzione intellettuale, fa carriera il che porta denaro e status sociale.

Praticamente la stessa macchina-sistema usata per il neoliberismo a partire dalla Conferenza Lippmann di Parigi del 1938. Basta riferirsi al canone centrale e apporvi qualche altra ragione, idea, proposta non importa quanto bizzarra e irrealistica nel pieno cliché dell’utopismo che infatti è tradizione inglese da Thomas Moore in poi con buona pace di Popper che infatti faceva l’inglese ma non lo era. Le idee poi non guidano pedissequamente le azioni, ma le ispirano. Tanto alla fine il punto concreto di convergenza è molto semplice, lo stesso da cui originò la rivolta baronale della Magna Charta Libertatum nel 1215: pagare minori tasse possibili -o meglio- per niente o al limite, concessione moderna e momentanea, bassa flat tax per tutti.

Case histories delle fantasie anarco-capitaliste è fatta dalla Compagnia britannica delle Indie orientali, Hong Kong ancora sotto il mandato britannico, le ZES cinesi, la Canary Warf della City di Londra, la duty-free dell’aeroporto Shannon in Irlanda, Singapore, Cayman e Bermuda, Dubai, varie gated community più piccole incluse piattaforme petrolifere pirata, San Marino, Liechtenstein, Lussemburgo, Principato di Monaco, Andorra, la secessione catalana o scozzese o tamil o fiamminga o il Québec canadese, vari casi statunitensi tra cui noti paradisi fiscali come il Delaware per anni base elettorale di Biden, le varie finte nazioni sud africane inventate per difendersi dalle accuse di razzismo segregazionista in cui si distingue il surreale caso del Ciskei (casi che hanno ispirato da Musk in giù ovvero il piccolo gruppo degli ex sudafricani che da sempre hanno mal digerito la perdita del proprio privilegio bianco coloniale che in America dialoga con le mai sopite frange razziste suprematiste e l’Alt-Right), la Brexit quindi l’Ukip. Somaliland e Puntland, Aruba, varie isolette del Pacifico, Abu Dhabi e gli Emirati in genere, la nuova Neom saudita e molti altri casi minori, teorizzati, tentati, abortiti. O casi ancora più bizzarri come l’idea di far amministrare uno stato (come l’Honduras) o una città ad una o più multinazionali o microstati “liberati”. Fino al creare nazioni cloud nel Metaverso, le clound country da portare poi nell’universo concreto con i Bitcoin come moneta denazionalizzata, in quantità fissa che non permetta inflazione. Infine, la nuova terra promessa ovvero Marte per Musk&Co, in cui riiniziare tutto d’accapo senza tradizioni ingombranti e abborrite ideologie politiche. L’agognata tabula rasa su cui rifondare la libertà assoluta dei liberi innovatori coraggiosi.

Del resto, se un libro di Theodor Herzl del 1826, Lo Stato ebraico, ispirò la nascita di uno stato reale (Israele), perché non ricreare i presupposti tramite comunità di persone omogenee per razza, classe, ideologia assimilate dagli algoritmi e riflesse nelle banche dati sempre più vaste e complesse? E cosa meglio di Internet e i social per partire?

Visto che abbiamo citato Israele e Trump come non pensare che la sparata sulla conversione di Gaza in Riviera (una Beirut dei bei tempi andati), non discenda dall’idea di farne una zona economico-finanziaria speciale con grattacieli, casinò, campi da golf e schiavi di servizio, giuridicamente chiusa in se stessa? Diventerebbe l’enclave di tutta l’imprenditoria e finanza invitata a costruire la Via del Cotone che collegherebbe l’India all’Europa e avrebbe terminale proprio sulla costa israeliana. Libera cioè esentasse, opaca ad ogni giurisdizione, totalmente depoliticizzata, amministrata come un fondo sovrano. Del resto, lo statuto giuridico di Gaza è assai incerto, una matassa inestricabile di antico possesso dell’Impero ottomano poi di quello Britannico a cui è seguita gestione egiziana, israeliana, risoluzioni Onu, pretese dell’Autorità palestinese essa stessa di statuto giuridico assai incerto. Certo, tocca sfollare due milioni di palestinesi, raderla definitivamente al suolo (lo è al circa 70% secondo l’ONU), sgombrarla e poi ricostruirla tutta daccapo, e non è questo che si sta facendo dal 7 ottobre del 2023 e che Trump ha annunciato di voler fare?

Qualcuno balbetta che non si può, che gli arabi stessi non sono d’accordo, ma quando la motrice trumpiana minaccerà dazi e ostracismi con una mano e dollari sonanti con l’altra, allaccio o slaccio da Starlink previ strano sabotaggi dei cavi di telecomunicazioni oceanici, sicuri che qualcuno seriamente si opporrà? Chi? Hamas ridotto a ricordo o Hezbollah crivellato a morte o l’Iran nel frattempo bombardato da Israele con missili che partono da aerei talmente lontani da non apparire neanche nei radar? Inoltre, una bella Zona Speciale franca sul Mediterraneo servirebbe anche a disciplinare i vari staterelli europei che ancora si ostinano a tassare e provare a normare la foga libertariana del capitale e dello sciame di capitalisti che potrebbero spostare lì la residenza e domicilio fiscale, propria e delle proprie aziende, altro che Olanda! Insomma, già si immagina una bella Trump Tower svettante nella New Gaza ora diventata un vero e proprio paradiso… fiscale, libertariano.

Donald Trump ha vinto le sue elezioni per soli due milioni di voti su 150 milioni (77 a 75 milioni contro la pur sbiadita Harris) di votanti, due terzi degli aventi diritto. Tutto quello che ha fatto e facciamo fatica a commentare data un solo mese dall’effettiva presa in carica. Già si parla di revisione costituzionale per superare il limite dei due mandati salvo scontro alla dinamite nelle prossime mid-term. Per altro, la risicata maggioranza statisticamente e non elettoralmente fondata e l’impeto assai inusuale degli atti politici di questo primo mese di presidenza, al momento si riflettono in giudizi tutt’altro che positivi nei vari sondaggi di opinione (ad esempio Gallup). La rivoluzione anarco-capitalista è appena iniziata anche se è presto per dire se e come continuerà. Che paradossalmente sia portata avanti da un presidente dello stato -ancora oggi- più potente del mondo non è contraddizione.

Per i pragmatisti le idee servono o non servono, producono effetti o meno, stanno mica lì a controllare coerenze e specifiche come quei marxisti ancora oggi alle prese con qualche rinnovata edizione critica de Il Capitale, manco fosse il Corano. I pragmatisti l’XI Tesi su Feuerbach l’hanno capita meglio dei marxisti e lasciano volentieri a questi l’interpretazione del mondo, mentre loro lo cambiano.


Pierluigi Fagan


(Tratto da: https://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/29937-pierluigi-fagan-il-capitalismo-della-frammentazione.html).


Inserito il 02/03/2025.

Dal sito «fanpage.it»

I poteri occulti del Paese, una storia che continua nel presente


Intervista a Luigi De Magistris a cura di Antonio Musella

Nel suo nuovo libro Poteri occulti (Fazi Editore, Roma, 2024) Luigi De Magistris ripercorre mezzo secolo di storia del nostro paese: dalla strage di Portella della Ginestra fino al traffico di dati dei giorni nostri, passando per la P2, le stragi del ’92 e del ’93, e chiaramente l’inchiesta Why Not” che lo ha visto direttamente protagonista.

Un viaggio nei buchi neri della storia italiana, analizzando come i poteri occulti abbiano forgiato intere stagioni politiche nel nostro paese, arrivando progressivamente ad una mimetizzazione e ad una saldatura con gli apparati dello Stato. Uno sguardo sulla storia recente, ma anche degli elementi importanti per capire il presente, visto che l’ex Sindaco di Napoli, in questa intervista a Fanpage.it, parla anche di come lo “spirito piduista” sia sopravvissuto negli anni trovando analogie con i programmi politici del governo di Giorgia Meloni.

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De Magistris e i poteri occulti del Paese: “Governo Meloni espressione del piduismo”


Intervista a Luigi De Magistris a cura di Antonio Musella


Poteri occulti indaga la storia recente del nostro paese fatta di tanti lati oscuri e buchi neri, secondo lei oggi quali sono questi buchi neri?

Soprattutto dopo le stragi del ’92 e ’93 si passa da una strategia della tensione di attacco anche militare allo Stato, alla mimetizzazione di un sistema occulto e criminale, fino al cuore dello Stato. Quindi inizia una stagione dove non si utilizzano più bombe, ma quando i poteri occulti si trovano davanti degli onesti servitori delle istituzioni, usano i proiettili istituzionali. Non c’è più lo Stato e l’anti Stato, ma si sono fusi, e questo diventa sempre più invisibile e liquido, anche se paradossalmente, il potere occulto diventa sempre più trasparente, perché assume sempre più le vesti dello Stato.


Lei individua nelle stragi del ’92 e del ’93 una svolta epocale, quella strategia stragista fu solo opera della mafia?

Assolutamente no. La strage di Capaci, dove morì Giovanni Falcone, è una strage di mafia che ha avuto effetti politici, Andreotti non fece più il Presidente della Repubblica e Craxi non fece più il presidente del consiglio. La strage di via D’Amelio dove morì Paolo Borsellino è uno dei più grandi depistaggi della storia. Borsellino capì che un pezzo di Stato stava trattando con "cosa nostra", comprende il livello di quelle “menti raffinatissime” come diceva Falcone, che erano i registi di quello che stava avvenendo, non viene ascoltato, tutti sapevano che era arrivato il tritolo per ucciderlo, e viene ammazzato. Da lì cambiano gli equilibri all’interno della repubblica, ci sono nuovi referenti, perché i vecchi referenti, in particolare la corrente andreottiana della Dc, non erano più affidabili. Quello che è inaudito è che mentre c’erano i cadaveri fumanti a terra, pezzi dello Stato prendevano l’agenda rossa di Borsellino, la borsa, compivano sequestri senza fare i verbali. Insomma fu uno dei più grandi depistaggi della storia della repubblica.


La P2 resta uno dei poteri occulti svelati nel nostro Paese, molte cose le sappiamo, altre probabilmente no, lei nel libro parla di una riproposizione del programma piduista sulla scena politica italiana, in chiave anticostituzionale, ce lo spiega?

Il piduismo non è mai finito, Gelli muore, altri protagonisti muoiono, ma la linea, cioè quella di un attacco eversivo al cuore della democrazia, e quindi alla Costituzione, è attualissimo. Oggi noi abbiamo, assetto verticistico dello Stato, repubblica presidenziale o premierato forte, controllo dei mezzi di comunicazione pubblici e privati, distruzione dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura, attacco al sindacato, stato d’eccezione, criminalizzazione del dissenso, è un progetto politico che è oggi in piedi in parlamento. Compresa la separazione delle carriere dei magistrati, un punto tanto caro a Licio Gelli. Questo governo credo che abbia nel midollo l’espressione più alta del piduismo di ultima generazione.


Il governo Meloni?

Sì, il governo Meloni. Ma attenzione, anche in maniera assolutamente trasversale. Se andiamo a vedere la commissione bicamerale che fece D’Alema ritroviamo molti di questi punti.


Lei parla di mimetizzazione dei poteri occulti e della saldatura con la massoneria e il potere criminale, questa è un po’ la trama anche della sua storia?

È questo, è esatto, è la testimonianza diretta di un uomo delle istituzioni che ha visto, non ha solo sentito o si è documentato. La mia vicenda da magistrato, il pool di investigatori, del contrasto al crimine in una delle terre più difficili d’Europa che è la Calabria, riguarda proprio questo tipo di aspetto. La ndrangheta, soprattutto quella dei colletti bianchi, e criminalità organizzata di ultima generazione, poteri occulti, quindi massonerie deviate, apparati dello Stato, non solo politica con centro destra e centro sinistra, tutte le forze politiche, ma anche pezzi di Stato. Io sono saltato proprio su quello come pubblico ministero, ci fossimo messi a fare inchieste sbagliate non avrei collezionato 117 interrogazioni parlamentari, che sono un record ancora oggi da quando esiste la repubblica e nella storia della magistratura. Ed ancora 5 anni di ispezioni, decine di procedimenti, attacchi violentissimi, coinvolgimento del capo dello Stato, del consiglio superiore della magistratura, dei ministri, eravamo arrivati proprio a quel grumo dei poteri occulti. Quel grumo fatto di criminalità organizzata sempre più mimetizzata, di apparati dello Stato, servizi segreti, logge occulte, quelle menti raffinatissime che tante volte si sono colte con ragionamenti, congetture e analisi, là noi ci avevamo messo proprio le mani dentro. Nel denaro, negli affari, nella politica, nel controllo del denaro pubblico, come se fosse un PNRR di adesso, e siamo saltati, e la mia fine di pubblico ministero deriva proprio da là.


Nel libro lei fa riferimento alla gestione dei dati personali, il traffico di dati è una arma oggi nelle mani dei poteri occulti?

È un tema assolutamente poco analizzato. Era uno dei punti dell’indagine “Why not” che mi sottrassero. Stavamo ricostruendo come al vertice di importanti compagnie di comunicazione nazionale, la più importante, c’erano personaggi che vivevano in quel mondo, tra affari, crimine, intelligence, servizi segreti ed apparati deviati all’interno delle forze di polizia. Se oggi guardiamo che una delle massime compagnie di comunicazione italiane è controllata da una fondazione, ed al vertice di questa fondazione c’è un ex capo della CIA, se vediamo cosa succede con il controllo della cybersicurezza da parte degli israeliani, se vediamo cosa avviene tra Elon Musk e Trump, diciamo che non c’è solo un tema di sicurezza nazionale, ma anche un tema di democrazia e libertà civili.


(Tratto da: https://www.fanpage.it/napoli/poteri-occulti-il-nuovo-libro-di-de-magistris-governo-meloni-espressione-del-piduismo/).


Inserito il 20/01/2025.

Dal sito di «transform!italia»

Il ritorno delle classi sociali nel dibattito sulla composizione sociale in Italia
A proposito di un volume di Pier Giorgio Ardeni

di Alessandro Scassellati

Dopo decenni in cui il dibattito pubblico e la ricerca sociologica in Italia e a livello internazionale è stato permeato dalla famosa frase di Margaret Thatcher che la società non esiste mentre “ci sono singoli uomini e donne e ci sono famiglie”, si torna a ragionare sul concetto e sul ruolo delle classi sociali nella strutturazione delle società contemporanee. Pier Giorgio Ardeni, professore di Economia politica e dello sviluppo all’Università di Bologna, ha scritto un libro importante (Le classi sociali in Italia oggi, Laterza, Roma-Bari 2024) che fa il punto su ricerche e dibattito nazionale e internazionale sulla composizione sociale con l’approccio dell’economia politica, una disciplina che a partire dai suoi fondatori (Smith, Ricardo e Marx) ha sempre studiato la relazione tra economia e società, indagando in modo particolare il tipo di ordine sociale che storicamente emerge e si struttura di fatto in relazione al mutare dell’economia capitalistica.

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Il ritorno delle classi sociali nel dibattito sulla composizione sociale in Italia


di Alessandro Scassellati


Dopo decenni in cui il dibattito pubblico e la ricerca sociologica in Italia e a livello internazionale è stato permeato dalla famosa frase di Margaret Thatcher che la società non esiste mentre “ci sono singoli uomini e donne e ci sono famiglie”, si torna a ragionare sul concetto e sul ruolo delle classi sociali nella strutturazione delle società contemporanee. Pier Giorgio Ardeni, professore di Economia politica e dello sviluppo all’Università di Bologna, ha scritto un libro importante (Le classi sociali in Italia oggi, Laterza, Roma-Bari 2024) che fa il punto su ricerche e dibattito nazionale e internazionale sulla composizione sociale con l’approccio dell’economia politica, una disciplina che a partire dai suoi fondatori (Smith, Ricardo e Marx) ha sempre studiato la relazione tra economia e società, indagando in modo particolare il tipo di ordine sociale che storicamente emerge e si struttura di fatto in relazione al mutare dell’economia capitalistica.

Di classi sociali si era praticamente smesso di parlare in Europa a partire dagli anni ’90, sia nel discorso politico sia nella percezione comune. Nel 1999, Tony Blair, uno degli alfieri della “terza via”, aveva affermato che “la lotta di classe è finita” perché “ora siamo tutti classe media” negli stili di vita e nelle aspirazioni. Nell’ambito di un capitalismo “democratico”, lo Stato doveva garantire uguali possibilità a tutti, intervenendo e contribuendo affinché tali aspirazioni degli individui si potessero realizzare sulla base del “merito” (attraverso un rafforzamento del legame tra credenziali educative, lavoro e reddito). In quei decenni, con l’avanzare dei processi di deindustrializzazione e di terziarizzazione dell’economia, i sociologi (e anche i politici) hanno sostituito le classi sociali con termini più neutri come quelli di “ceti, gruppi e fasce sociali”, legati alla distribuzione del reddito, alle professioni e alle disparità di ceto (stili di vita), genere, età, zona di origine ed etnia/nazionalità. Giuseppe De Rita e il Censis hanno cantato la “cetomedizzazione” come contraltare della terziarizzazione.

Il merito di Ardeni è quello di riaffermare, portando nuovi dati quantitativi e analisi interpretative, che il capitalismo della globalizzazione e la sua crisi (a partire dalla grande crisi finanziaria del 2008) sono stati capaci di riportarci in un mondo in cui le divisioni di classe sono tornate a contare, a fare la differenza per gli individui, perché danno luogo a disuguaglianze (di reddito, ricchezza, consumi, stili di vita, status e potere) che condizionano le concrete possibilità di vita (livello di istruzione, competenze, tipo di lavoro, reddito e sistema relazionale sociale). L’ideologia neoliberista, che ha promosso e accompagnato la “lotta di classe” dei grandi capitalisti (l’1% o il 10% più ricco) contro le classi medie e operaie e l’affermazione del capitalismo globalizzatore, ha esaltato per quattro decenni “l’individualismo metodologico”, ossia “che tutto ciò che riusciamo ad ottenere nella vita sia il risultato delle nostre scelte, delle nostre aspirazioni e del nostro sforzo. Nasciamo tutti uguali [di fronte alla legge], viviamo in un sistema che offre le stesse opportunità a tutti, impegniamoci senza lamentarci, senza dare la colpa al sistema! Tutto dipende dalla nostra performance, non conta di chi siamo figli o da dove veniamo ma solo il talento e l’impegno, ovvero il merito” (pag. 4). Le classi superiori hanno lasciato intendere che il sistema avrebbe concesso un’opportunità a tutti, al di là delle disparità sociali “originarie”, bastava volerlo (chi non ce la fa, è perché non è stato capace o non si è impegnato abbastanza, non perché era in una condizione di partenza di inferiorità), essere “imprenditori di sé stessi”, senza però che venissero alterati né i meccanismi di accumulazione né quelli della distribuzione, anzi spingendo perché venisse data maggiore libertà di movimento al capitale. Ma ora, con la crisi conclamata del capitalismo neoliberista, si rende evidente che di fatto non siamo tutti uguali (qualcuno è “più uguale degli altri”, come i maiali nella fattoria degli animali di George Orwell) e non lo siamo in ragione di differenze sociali che sono strutturate, ossia che hanno origine nell’appartenenza di classe, a gruppi sociali con caratteristiche specifiche. “Le disuguaglianze nella distribuzione del reddito, ad esempio, di cui si è venuto discutendo negli ultimi anni, non sono soltanto dovute a differenze nel merito, nelle capacità individuali e finanche nelle opportunità di acquisire un’istruzione adeguata, né semplicemente ai fallimenti dei mercati o alla scarsa concorrenzialità. Al fondo, ci sono due altri elementi all’opera che sono, ancora una volta, il “conflitto” tra capitale e lavoro – o, se si preferisce, tra redditi da capitale e redditi da lavoro – e l’ereditarietà, che consente la ripartizione del patrimonio per vie familiari, perpetuando la disparità di ricchezza. A chi già non ha è lasciata la via del “merito” in un sistema ove, però, le “enclosures” generate dall’appartenenza a club e circoli si sono fatte sempre più decisive” (pag. 7).

La narrazione di Ardeni, costruita illustrando con dettaglio i dati e le analisi sulla stratificazione sociale italiana sviluppate negli ultimi 50 anni, a partire dal libro epocale di Paolo Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, Laterza, Roma Bari 1974, ci guida nell’esplorazione dei mutamenti nella composizione sociale della società italiana. Un viaggio che parte da una descrizione “classista” della società rimasta egemone fino agli anni ’70, per poi passare ad una descrizione “stratificazionista” in cui la classe media sembra ormai occupare quasi tutto lo spazio sociale (la “cetomedizzazione”), divenuta egemone dagli anni ’80, per chiudere il cerchio e tornare oggi a rivalutare il ruolo delle classi nella composizione sociale, in presenza di una divaricazione crescente nei livelli di reddito, di un drastico rallentamento della mobilità sociale ascendente, e di una polverizzazione delle professioni medie, divise tra quelle alte e quelle basse, che contribuisce alla polarizzazione delle disparità nei redditi.

Letture interpretative diverse della struttura sociale italiana che riflettono le diverse fasi storiche delle trasformazioni del capitalismo a livello nazionale e globale nell’arco di questi cinque decenni. Con il mutare delle caratteristiche del modo di produzione capitalistico sono mutate sia le forze di produzione (risorse naturali, tecnologie, divisione del lavoro come funzione lavorativa) sia le relazioni sociali della produzione e distribuzione del reddito che innervano le particolari caratteristiche della struttura sociale (divisione in classi, ceti, strati, categorie, fasce di reddito e gruppi sociali) in ciascuna fase, dando vita a diverse formazioni sociali. Per schematizzare, dal dopoguerra abbiamo avuto due principali diverse tipologie di capitalismo: un capitalismo fordista/keynesiano dei “trenta gloriosi” (1945-1975), basato sul «compromesso tra capitale e lavoro» di stampo socialdemocratico, e un capitalismo globalizzatore regolato dal paradigma neoliberista (dal 1980 ad oggi), basato sulla centralità degli «animal spirits» del libero mercato. Ardeni è anche interessato a mostrare che nel corso del tempo non è solo variato il peso relativo delle classi, ma anche il loro peso politico, nei canali della rappresentanza, con effetti redistributivi non indifferenti.


Marx e Weber

Con un approccio economico politico si prende necessariamente avvio da Karl Marx che, partendo dagli stessi presupposti analitici di Adam Smith e David Ricardo, nei primi decenni del passaggio al capitalismo industriale è stato il primo a proporre una rappresentazione del corpo sociale in tre classi, distinte secondo la proprietà dei mezzi di produzione e la fonte del reddito: i redditieri, la classe dei proprietari della terra; i capitalisti della classe borghese, proprietari dei macchinari e delle imprese industriali; i lavoratori della classe operaia, proprietari unicamente della loro forza lavoro. È attraverso la lotta di classe tra borghesia e classe operaia che, secondo Marx, storicamente si struttura la società.

Nelle sue analisi in diretta sul campo, come si vede in Il diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte (1851) e Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, Marx applica il suo schema interpretativo, ma è costretto a parlare di frazioni e fazioni di classe per tutte le classi e specialmente per la borghesia. Ogni categoria professionale viene di fatto considerata come una classe o frazione di classe, segno della difficoltà che lo stesso Marx ha incontrato nell’usare il concetto astratto di classe nell’analizzare dei comportamenti sociali e politici concreti.

D’altra parte, con le successive trasformazioni del capitalismo, così come con la crescita del ruolo e delle funzioni svolte dalle grandi imprese e dallo Stato, un attore relativamente ancora poco strutturato a metà del XIX secolo, sono cresciuti i processi di scomposizione e ricomposizione dei fattori capitale e lavoro. Nel campo del lavoro, con il cambiamento tecnologico si sono affermati nuovi, diversi e più articolati rapporti di produzione, per cui sono emerse nuove specializzazioni e divisioni dei ruoli e delle mansioni che hanno dato vita a nuove articolate stratificazioni che hanno diluito e reso inefficace la conglomerazione del lavoro salariato in un’unica “classe operaia”. Un processo di scomposizione e ricomposizione che, insieme alla crescita dello Stato, ha portato alla nascita ed espansione di una “classe media”, formata da professionisti indipendenti, lavoro impiegatizio alle dipendenze del capitale industriale, lavoro autonomo nell’industria e nei servizi, e lavoro dipendente nella pubblica amministrazione (apparato burocratico) (sul metodo composizionista si veda il nostro articolo qui).

Al quadro di riferimento economico politico di Marx, si è poi anche contrapposto quello più eclettico di Max Weber, sostenitore del fatto che le classi non esistono solo in relazione ai mezzi di produzione. In contrapposizione al materialismo di Marx, Weber ha sostenuto che i fattori soggettivi della vita – ideologia, cultura, religione – sono altrettanto importanti rispetto al campo strettamente economico, aggiungendo al concetto di classe quelli di status e potere (inteso come influenza e controllo esercitato su persone e gruppi sociali), con l’introduzione di fattori qualitativi immateriali come onore, prestigio, rispetto, qualità morali, istruzione, stili di vita, linguaggio, arte, rituali, codici culturali e valori che rimandano alla dimensione della coscienza collettiva e dell’identità di classe o ceto, che non sono necessariamente dovuti alla ricchezza o al reddito, e che determinano stratificazioni sociali potenzialmente diverse da quelle di classe (come il ceto sociale). Secondo Weber, è la complessa interrelazione della triade classe, status e rapporti di potere (che definiscono le aggregazioni sociali in termini di partiti) che determina storicamente la struttura della società capitalistica, contribuendo a condizionare le opportunità e le scelte degli individui.


Dalle classi alle classi

L’analisi sociologico-economica italiana dagli anni ’50 agli anni ’70 ha rielaborato le nozioni di Marx e Weber. Quella di sinistra, incardinata sull’impianto marxista, ha elaborato una teoria della struttura sociale fondata sulla relazione tra divisioni di classe e disuguaglianze, a favore della classe operaia, della sua emancipazione nelle direzioni socialista, socialdemocratica e comunista. Quella di stampo liberale ha utilizzato un’impostazione americana per concepire una teoria della struttura sociale di tipo neo-weberiano incentrata sul ruolo chiave della grande e piccola borghesia, in cui le disuguaglianze nella distribuzione del reddito andavano ricercate nei diversi livelli di istruzione e qualificazione, nel potere di influenza di ceti e gruppi, nella diversa conformazione di settori economici e professioni e nel funzionamento più o meno efficiente del mercato del lavoro e del sistema economico.

In questo contesto, il lavoro di Sylos Labini ha rappresentato il tentativo ambizioso di operare una sintesi tra classificazione delle categorie economiche secondo la loro professione e secondo la fonte del loro reddito e un’analisi sullo status, lo stile di vita, il livello di istruzione, la dimensione territoriale e finanche sulle aggregazioni politiche. Nella classificazione di Sylos Labini, supportata da dati quantitativi statistici, agli inizi degli anni ’70 la società italiana era strutturata in almeno tre principali classi sociali (articolate al loro interno) definite soprattutto nell’ambito della sfera della produzione (lavoro), ma anche del modo in cui veniva ottenuto il reddito (rendite, profitti da capitale, salari e stipendi):


1. borghesia vera e propria (2,3%): formata da grandi proprietari di fondi rustici e urbani (rendite); imprenditori (industriali, immobiliari e finanziari) e alti dirigenti di società per azioni (profitti e redditi misti con elevate quote di profitto); professionisti autonomi (redditi misti, con caratteri di redditi di monopolio grazie alle tutele degli ordini professionali);

2. piccola borghesia/classi medie (45,4%):

2a. piccola borghesia impiegatizia (stipendi): costituita da impiegati pubblici e privati, tra cui insegnanti e addetti alla sanità;

2b. piccola borghesia relativamente autonoma (redditi misti): composta da coltivatori diretti, artigiani, piccoli professionisti (lavoratori autonomi), commercianti;

2c. piccola borghesia composta da categorie particolari come militari, religiosi e altri (stipendi);

3a. classe operaia (salari) (52,3% con il sottoproletariato): costituita da lavoratori salariati dell’industria e dell’edilizia (in espansione), da quelli del terziario e dai salariati agricoli (in forte riduzione);

3b. sottoproletariato: composto da coloro che restano per lunghi periodi di tempo fuori dalla sfera di produzione in quanto disoccupati.


Il focus dell’analisi di Sylos Labini era soprattutto concentrato sull’espansione della piccola borghesia (impiegatizia, commerciale e tecnica) e più in generale delle classi medie (con i ceti medi da lui considerati come una “quasi classe”) tra il 1951 e il 1971. Questa espansione veniva spiegata sulla base del progresso tecnico ed organizzativo (con l’aumento delle dimensioni e della burocratizzazione delle imprese) e della burocratizzazione dello Stato frutto della mediazione politica, dell’espansione dei servizi e della redistribuzione, e delle pratiche di clientelismo. Una delle conclusioni di Sylos Labini era che il potere politico (partiti, sindacati, burocrazia statale, gruppi della sinistra extra-parlamentare) era nelle mani di questa classe, “ma non sono i dirigenti effettivi”, “la classe dominante” (1974, pag. 71). Il suo giudizio sulla piccola borghesia è sferzante (bassa moralità, difesa ad oltranza della distinzione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale come tra lavoro direttivo e lavoro esecutivo, corruzione, clientelismo, pratiche di sottogoverno, parassitismo, corporativismo, conservatorismo, deriva fascista, con “individui famelici, servili e culturalmente rozzi” (1974, pag. XII). Mette in luce il ruolo chiave giocato dalla politica nella protezione di commercianti, liberi professionisti, piccoli imprenditori manufatturieri e nella promozione dell’espansione della piccola borghesia (attraverso la creazione di posti di lavoro, leggi e interventi amministrativi, accordi contrattuali, clientelismo) in funzione di una stabilizzazione sociale e politica. L’effetto principale di questa azione politica era stato, per Sylos Labini, che il terziario si era gonfiato oltre misura senza modernizzarsi e, quindi, senza che a questo corrispondesse un ampliamento e miglioramento dei servizi pubblici. Una situazione che aveva contribuito a provocare l’ondata di lotta di classe della classe operaia a partire dalla seconda metà degli anni ’60.

Sylos Labini era interessato a riflettere sulla possibilità di alleanze sociali e politiche che potessero favorire o impedire le riforme sociali. Ragionava sui possibili rapporti tra sinistra politica (PCI e PSI) e classe operaia (allora ancora economicamente in ascesa) con le classi medie per realizzare le riforme della pubblica amministrazione, della sanità, dell’urbanistica, dell’università e gli investimenti in edifici scolastici e universitari, ospedali1. Sosteneva che occorreva puntare sulla piccola borghesia degli intellettuali, scienziati, tecnici e dirigenti e che bisognava guardare all’esperienza emiliana e di altre regioni “rosse”, dove si era attuata un’alleanza organica fra ceti medi e classe operaia, con un’evidente egemonia dei primi (1974, pag. 107).

L’analisi di Sylos Labini ha aperto un vivace dibattito con contributi di Luciano Gallino, Alessandro Pizzorno, Massimo Paci, Arnaldo Bagnasco, Carlo Trigilia, Antonio Negri e Carlo Donolo che è durato fino agli anni ’80 e nel corso del quale si è affermata l’idea che vi siano almeno quattro caratteristiche che definiscono le classi: il reddito, secondo le sue fonti; la professione e il tipo di lavoro; le condizioni di vita e i riferimenti socio-culturali, ovvero lo stile di vita; i rapporti di potere. Dal punto di vista della ricerca empirica, però, solo le prime due sono state investigate, dato che solo per queste erano disponibili dati statistici. Le altre due sono quindi rimaste confinate nel campo delle riflessioni teoriche a sostegno dei risultati empirici ottenuti con le ricerche delle prime due.

Con gli anni ’80 il quadro analitico di riferimento muta, al mutare del quadro sociale ed economico. Il sistema economico italiano entra in una fase turbolenta di instabilità e rallentamento della crescita (alta inflazione, “svalutazioni competitive”, contenimento dei salari, riduzione della scala mobile, ristrutturazioni e chiusure aziendali, aumento della disoccupazione, aumento del debito pubblico e crisi fiscale dello Stato). Sono anni in cui la classe operaia e dei tecnici non cresce più, mentre si continua ad allargare la fascia del pubblico impiego, del terziario commerciale e dei servizi. Le classi sociali non spariscono, ma restano sullo sfondo. Arrivano i modelli di analisi socio-metrici posizionali2 messi a punto negli Stati Uniti a partire dagli anni ’40 (in gran parte frutto di un’operazione di mistificazione e di manipolazione del pensiero di Max Weber, mettendo sullo stesso piano potere, autorità legale e burocrazia), per cui si afferma che non ci sono più le classi (si sono “dissolte”), che la società è “liquida”, che tutto è solo middle class, mentre il potere è burocrazia (James Burnham, La rivoluzione manageriale, 1941) nella quale lavorano persone della classe media scelte sulla base del merito. Così, il focus del dibattito scientifico si sposta dalle classi alla stratificazione sociale (soprattutto sugli strati che compongono i ceti medi) e su due aspetti a questa strettamente legati: quello della mobilità sociale (orizzontale, ascendente e discendente, ossia la possibilità di passare da un gruppo/strato sociale ad un altro) e quello delle disuguaglianze (di reddito e status).

È stato un tentativo di offuscamento del fatto che la storia dell’economia politica degli ultimi quattro decenni è stata caratterizzata da una guerra di classe tra capitale (i dominanti) e lavoro (i dominati) che, come ha sostenuto il finanziere Warren E. Buffett nel 2006, il capitale ha vinto a mani basse (attraverso la «contro-offensiva neoliberale»), per cui aveva notato che lui, un investitore miliardario pagava un’aliquota fiscale più bassa della sua segretaria. Una lotta di classe contro i lavoratori, i loro diritti acquisiti nei “trenta gloriosi”, le politiche di redistribuzione del reddito e di protezione sociale. D’altra parte, come notava Luciano Gallino nel 2012, “la più grande vittoria della classe dominante, di certo, è aver fatto credere agli altri di non esistere più”. Come sottolinea Ardeni, un offuscamento anche del fatto che le barriere per le scelte degli individui derivano ancora dalle divisioni presenti nella struttura sociale: “è un dibattito il cui risvolto ideologico, in realtà, maschera il tentativo di “andare oltre” le classi sociali per rendere le condizioni di origine ineffettuali, come non sono, e per agire solo “a valle”, sui meccanismi di funzionamento del mercato” (pag. 9). In sostanza, non si tratta di abbattere le barriere tra i gruppi sociali, ma di intervenire sulle storture ed inefficienze dei mercati che non permetterebbero agli individui di fare le loro libere scelte, avendo tutti a disposizione le medesime opportunità. Sono state proposte nuove classificazioni (affinamenti della suddivisione della società in tre classi) – come quella del neo-weberiano John Goldthorpe, nota come EPG (che raggruppa le occupazioni in base alla situazione di lavoro e alla situazione di mercato) e adottata anche nello schema europeo ESEC (European Socio-Economic Classification) – e sono state fornite nuove stime, come quelle di Antonio Schizzerotto e dei suoi collaboratori, anche se le fonti statistiche hanno continuato ad essere problematiche (soprattutto quelle sulla distribuzione dei singoli ruoli occupazionali).

Il 1992 è stato un anno di svolta per l’Italia con la fine della “prima Repubblica” e del suo sistema di partiti, la più grave crisi finanziaria italiana del dopoguerra (con la svalutazione della lira, l’uscita dal Sistema monetario europeo e una pesantissima “manovra” del governo Amato) e la firma del Trattato di Maastricht che porta all’Unione Europea e apre la lunghissima stagione delle politiche neoliberiste di austerità (che hanno previsto tagli dei servizi pubblici, privatizzazioni, contenimento di salari e stipendi, riduzione degli investimenti in beni pubblici, delocalizzazioni produttive). Si passa al sistema elettorale maggioritario all’insegna della “governabilità”. Innovazione e investimenti (soprattutto pubblici) restano al palo, mentre la struttura produttiva ed occupazionale va riducendosi e frammentandosi (con imprese di piccola dimensione). Rallenta di molto la crescita della produttività del lavoro. Si punta su “flessibilità” e precarizzazione, aumentando i contratti a tempo determinato, a tempo parziale, a progetto e saltuari. Le fasce più deboli soffrono di più la disoccupazione e la precarietà dei loro rapporti lavorativi. Prende il via un processo di drastica riduzione di artigiani e lavoratori autonomi, la piccola borghesia autonoma. Anche il lavoro qualificato, sia dipendente sia autonomo, viene colpito. Si riduce il ruolo della contrattazione collettiva, mentre cresce quello della contrattazione individuale (con un conseguente indebolimento del sindacato). Mentre salari e stipendi non aumentano, anzi ristagnano o arretrano, grazie a politiche fiscali favorevoli, i redditi da capitale e altre fonti (rendite, profitti, capital gains), fortemente influenzati dall’ereditarietà, crescono, alimentando le disuguaglianze e il processo di finanziarizzazione crescente dell’economia (si veda il nostro articolo qui).

Mentre il paese attraversa una fase difficilissima e il mondo del lavoro va mutando (ad esempio, si amplia l’occupazione nei settori dei servizi che adesso forniscono anche il maggiore contributo al PIL) – e con esso la struttura sociale – l’analisi e l’interpretazione di quanto avviene si fa più frammentaria. “La narrazione dominante è quella che enfatizza il ruolo della tecnologia, non solo nelle nuove professioni che vanno affermandosi e in come trasforma le vecchie, ma anche nei consumi e negli stili di vita. L’idea che si sia entrati in una società post-industriale si fa strada al punto che pare che lavori e professioni legati all’industria non esistono più, che il lavoro manuale vada scomparendo e che l’economia di oggi sia tutta ‘servizi e tecnologia’. Nelle imprese di tutti i settori le figure si sono moltiplicate, con una stratificazione che riflette competenze e livelli di qualificazione diversi e mansioni diverse. Alla frammentazione sul piano produttivo – anche retributivo – corrisponde una frammentazione sul piano sociale, che non è che la naturale evoluzione di una società matura in cui il livello di reddito ha consentito – tra gli anni Settanta e Novanta – la quasi totale generalizzazione di stili di vita e consumi tipicamente urbani, quelli che un tempo erano solo piccolo borghesi, alla grande maggioranza dei cittadini (con delle differenze, è ovvio, date comunque dal livello assoluto del reddito). In questo processo, però, è progressivamente sbiadita l’antica identità sociale delle classi che ora si ‘assomigliano’ tutte, per un verso (nella domanda di servizi minimi, nelle aspirazioni sociali e culturali), mentre continuano a differenziarsi, e di molto, sul piano della condizione occupazionale e professionale. Tutti si sentono classe media, pur non essendolo, secondo un processo di omologazione che rende evidente quanto la società dei consumi di massa sia estesa“ (pag. 70).

Negli anni 2000, in presenza di un’economia sostanzialmente bloccata, che non cresce e in cui anche il processo di terziarizzazione verso la modernizzazione dei servizi sembra bloccarsi, gli studi condotti segnalano che anche l’evoluzione della struttura sociale si è bloccata. La mobilità sociale ascendente è rallentata sino a quasi fermarsi e torna l’idea della cristallizzazione delle divisioni di classe, secondo nuove linee di frattura. Si sviluppano anche analisi e dibattiti sulla scomparsa della classe operaia (ma mentre diminuisce quella industriale, aumentano i salariati nei servizi e nelle occupazioni impiegatizie, con sempre più ampie fasce di lavoro precario, part-time e sotto-remunerato, una segmentazione che investe, donne, giovani e immigrati – un proletariato post-industriale) e della classe media. Quest’ultima viene investita da una crisi che è economica, ma che riguarda anche gli stili e le condizioni di vita, le aspettative e finanche le attitudini culturali. Con l’introduzione di flessibilità e precarizzazione, parti delle classi medie si vedono scivolare verso la classe operaia. Un processo di declassamento che genera insicurezza, malessere, paura risentimento e rabbia che viene scaricata contro i deboli, i poveri e i fragili che sono visti solo come un peso per i cittadini «laboriosi» e «rispettosi delle leggi» del ceto medio.

Al tempo stesso, però, nelle nuove condizioni lavorative, più precarie e frammentate, si riduce l’identificazione tra gli individui e il loro lavoro non più visto come un percorso di vita. La stessa classe operaia, oltre a ridursi, si frammenta, mentre il conflitto sociale si disperde e si spezzetta in micro-conflitti. Si riduce la mobilità sociale ascendente, mentre aumenta quella orizzontale, tra professioni e condizioni diverse ma equivalenti sul piano del reddito e dello status. Soprattutto, il precariato è divenuto la nuova condizione proletaria contemporanea e investe sia la classe operaia sia la classe medio-bassa impiegatizia.


La struttura sociale italiana oggi

Ardeni offre una descrizione della situazione odierna (al 2023) delle classi sociali in Italia, riprendendo lo schema di riferimento di Sylos Labini, integrato da alcune modifiche. Ciò che emerge è che la classe operaia pesa ancora per circa un quarto (23,4%), ma è divisa tra una componente garantita e una precaria (attiva soprattutto nell’articolato mondo dei servizi – logistica, manutenzione, distribuzione commerciale, ristorazione, pulizie). Che la classe media è certamente maggioritaria (65,6%), con quella medio-bassa che è più rilevante e anch’essa divisa tra garantiti e precari, mentre quella medio-alta, insieme alla borghesia (11,%), pesa per circa un quarto.

La composizione della forza lavoro occupata indica che ancora il 30,2% dei lavoratori è nell’industria, il 27,1% è nei settori del terziario “maturo” (commercio, pubblici esercizi, trasporti e comunicazioni), il 23,5% è nel terziario dei servizi e il 17,3% nel settore pubblico. Il lavoro dipendente rappresenta quasi i quattro quinti del totale (78,6%): di questo il lavoro operaio (qualificato e non) pesa per un terzo (33,4%) e, se sommato al lavoro impiegatizio esecutivo, arriva al 47,9%, mentre il lavoro impiegatizio qualificato assomma al 30,4%. La precarietà, trasversale alle classi, riguarda oltre un terzo della forza lavoro dipendente, soprattutto femminile e giovanile3.

Si profila una struttura sociale di classe che è sostanzialmente inalterata dagli anni ’90, la risultante di un paese fermo, la cui economia non cresce più e la cui struttura sociale si è cristallizzata. In termini di reddito, la classe media si è ridotta (e sono le fasce alte a guadagnarci di più). La mobilità tra le classi si è ingessata, con una prevalenza della mobilità discendente su quella ascendente (sia quella intergenerazionale sia quella intragenerazionale). Tuttavia, la classe media sembra essersi estesa a (quasi) tutte le classi sociali dal punto di vista degli stili di vita e dei consumi, delineando però una frattura in aumento tra redditi alti e redditi bassi che segnala la chiusura delle classi medio-alte. Un vero e proprio arroccamento che si estende alle classi superiori che adottano una strategia di “secessione privata dalla società” che rafforza l’appartenenza alla propria classe/casta4.

La distribuzione del reddito mostra che il reddito medio delle famiglie italiane è fermo da più di 30 anni5. Sono cresciuti i lavoratori poveri («working poor»), quelli che sono in «povertà relativa», anche nei settori «di punta» (quelli del «made in Italy» e della metalmeccanica che lavorano per i mercati esteri) di un’economia ormai basata soprattutto su ristorazione, turismo, grande distribuzione, logistica e servizi poveri ormai fortemente dipendenti dalla manodopera migrante a basso salario. Difatti, tra il 2014 e il 2023 l’incidenza della povertà assoluta tra gli occupati è passata dal 4,9% al 7,6%, e tra gli operai dal 9% al 14,6%. Circa 5,7 milioni di dipendenti guadagnano in media meno di 11 mila euro lordi annui, ma la fascia del lavoro a bassa retribuzione è ancora più ampia: vanno infatti aggiunti oltre 2 milioni di dipendenti con salari medi inferiori ai 17 mila euro lordi annui.

Inoltre, non c’è più una corrispondenza univoca tra posizione lavorativa (classe sociale) e reddito, a causa di due fattori determinanti: il capitale accumulato (anche nella forma di beni immobili) e il livello di istruzione. Quest’ultimo è diventato un motore di mobilità sociale molto meno potente rispetto al passato, superato dall’appartenenza di classe, per cui si sta diffondendo l’idea che si possa anche rinunciare ad un titolo di studio. “Il livello di istruzione dipende dal reddito e dalle aspettative (e aspirazioni) e varia con la famiglia di origine e l’orientamento culturale familiare (ovvero dalla classe sociale). Più basso è il reddito, meno si spende (si investe) in istruzione e capitale umano. ‘Far studiare i figli costa, ma se poi questi non fanno neppure carriera, perché non hanno il padre con una certa posizione, allora non ne vale la pena’” (pag. 11). Per cui ogni anno oltre 450mila giovani tra i 18 e i 24 anni abbandonano la scuola prematuramente, mentre circa 55mila se ne vanno via dall’Italia, prendendo atto che non c’è posto per tutti. Oltre al tema del rapporto tra istruzione, distribuzione del reddito e classi sociali, Ardeni offre un’analisi della questione di genere, di quella dell’inattività e dei NEET (si veda anche il nostro articolo qui), e dei divari territoriali.

Infine, Ardeni è anche interessato ad esplorare i temi della rappresentanza politica delle classi, la loro rappresentanza nel discorso pubblico e l’evoluzione recente del quadro politico italiano in relazione alla struttura sociale descritta. Cerca di analizzare come si è riflessa la divisione di classe sulle proposte politiche e delle forze in campo. Si interroga sul fatto che visto che le classi esistono ancora – e con esse i divari che le separano – chi rappresenta, oggi, le classi popolari? Da anni ormai non c’è più un partito della classe operaia, ma non c’è neanche un partito che faccia della classe dei precari (i nuovi proletari) la propria base (anche perché nessuno più mette in discussione l’esistenza della precarietà come dello sfruttamento para-schiavistico degli immigrati – per un’analisi sulla relazione bassi salari e immigrazione, si veda il nostro articolo qui). Emerge il quadro di “una società che è andata separandosi dal potere politico in cui si sente, evidentemente, sempre meno rappresentata, evidenziando, però, una rottura preoccupante perché riguarda le fasce meno protette” (pag. 245) delle classi popolari dei non garantiti. Ardeni si domanda se si può fare qualcosa, almeno, per rimettere in moto l’ascensore sociale: “L’esercito dei tanti precari, degli esclusi, dei marginalizzati, potrebbe essere aggregato in una proposta progressista, non difensiva, né “contro” le classi medie e garantite. La mobilità sociale potrebbe essere riattivata, non tanto verso le posizioni alte, quanto verso quelle medie e medio-alte. Dando così nuovi stimoli anche a quella classe media che languisce, che sopravvive culturalmente ed economicamente” (pag. 247).

Attualmente assistiamo al crescente distacco tra parte debole e marginalizzata del corpo sociale e il sistema politico. Un’economia ferma, in cui produttività e reddito complessivo non crescono, in cui la mobilità sociale è ferma “sta portando le classi medie e medio-basse su posizioni difensive, reclamando la chiusura delle frontiere (di classe) e maggiore protezione. Ed è sulla difesa del ceto medio che ormai si gioca lo scontro politico, dimentico di quelle fasce popolari e marginali che pure esistono. La sinistra, la cui ragion d’essere si fondava sul consenso delle classi popolari, non ha più una prospettiva da opporre e pare aver rinunciato anche solo alla possibilità di un’alternativa. Così, si assiste al progressivo allontanamento di quelle masse dalla stessa prospettiva democratica: escluse, non hanno più voce, non partecipano più, mentre i partiti nell’agone politico si spartiscono il consenso delle classi medie. Un’involuzione che prepara solo il terreno a un’involuzione della democrazia, minandone le basi alla radice” (pag. 252).


30/12/2024


Alessandro Scassellati


(Tratto da: Alessandro Scassellati, Il ritorno delle classi sociali nel dibattito sulla composizione sociale in Italia; disponibile su: https://transform-italia.it/il-ritorno-delle-classi-sociali-nel-dibattito-sulla-composizione-sociale-in-italia-2/).


Note

1 Proprio nel decennio ’70 sono state realizzate alcune delle principali riforme del dopoguerra: l’approvazione della legge sul divorzio nel 1972, con la vittoria del No al referendum abrogativo del 1974, l’approvazione dello Statuto dei lavoratori nel 1974 e l’approvazione della legge 194 sull’aborto, l’istituzione del Servizio sanitario nazionale e l’abrogazione dei manicomi nel 1978. Perseguendo una strategia di attenzione e apertura alla classe media, il PCI raggiunse l’apice con le elezioni del 1975 e 1976.

2 Si tratta di studi descrittivi che raggruppano coloro che condividono posizioni simili nelle relazioni di dominio e subordinazione nelle sfere dell’economia e del lavoro e in quelle della distribuzione di vantaggi e svantaggi che determinano le condizioni di vita.

3 Il miglioramento degli indici del mercato del lavoro non rappresenta di per sé una condizione sufficiente di inclusione se non è affiancato da qualità e stabilità dei rapporti di lavoro: l’occupazione è uno strumento di protezione dal rischio di povertà solo quando il lavoro è stabile, tutelato, sicuro e dignitoso. Il reddito da lavoro non è più in grado di proteggere le persone e il loro nucleo familiare da un grave disagio economico e sociale. Bisogna aggiungere che nel 2023 oltre la metà degli impiegati a tempo parziale avrebbe voluto lavorare di più (era in un part-time involontario, in sostanza), un fenomeno che colpisce di più le donne, in particolare quelle più giovani, che non arrivano a 10mila euro lordi all’anno, mentre il 34% degli occupati laureati (circa 2 milioni di persone) hanno un inquadramento professionale più basso rispetto al titolo conseguito (sono «sovra-istruiti»). Ci sono poi 3 milioni di contratti a termine, persone che lavorano per 6-8 mesi in media all’anno, un milione di persone che lavorano a chiamata (con una media di 50-60-70 giorni all’anno), e un milione di persone che fa lavoro somministrato, mentre sono aumentate le collaborazioni, gli apprendisti e le partite IVA (spesso finte, inquadrate come dipendenti a tempo pieno senza godere dei «privilegi» dei colleghi regolarmente assunti).

4 Si tratta di un fenomeno di segregazione sociale volontaria, con le «comunità recintate», le isole private, i super-yacht, i paradisi fiscali e tanti privilegi esclusivi dei super-ricchi, che il filosofo politico Michael J. Sandel (Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali del mercato, Feltrinelli, Milano 2013; Democracy’s discontent. America in search of a public philosophy, Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge, MA 1998) definisce «sky-boxification of society», utilizzando la metafora delle cabine di lusso per i vip negli stadi di baseball, mentre i poveri stanno sotto il sole o la pioggia.

5 Eurostat ha certificato – con i dati pubblicati nel «Quadro di valutazione sociale» che monitora il progresso sociale in tutta Europa – che il reddito disponibile reale lordo delle famiglie è in calo e l’Italia è fanalino di coda in Europa (Grecia a parte): dal 2008 persi 6 punti mentre la media Ue è aumentata di 10. Se nei 27 paesi dell’Unione – prendendo come riferimento il 2008, l’anno della grande crisi – la media dei redditi disponibili nell’ultimo anno sale da 110,12 a 110,82, in Italia cala da 94,15 a 93,74. Rispetto alla media europea, dunque, in Italia il reddito disponibile reale risulta inferiore di oltre 17 punti, a dimostrazione di come le condizioni economiche delle famiglie siano gravi e continuino a peggiorare. Per quanto riguarda il reddito l’Italia rispetto al 2008 ha fatto meglio solo della Grecia – qui nel 2022 il reddito lordo disponibile era al 72,1 rispetto a quello del 2008 – mentre resta lontana dalla Germania con il 112,59 nel 2023. La Francia supera il 2008 – 108,75 nel 2022 – mentre la Spagna è ancora indietro (95,85) ma è in fortissima ripresa.


Inserito il 12/01/2025.

Dal periodico «Sinistra Sindacale»

Fabrizio Bertini, Maurizio Da Re, Giorgio Ferrari, Vincenzo Miliucci, Giorgio Nebbia
(con contributi di Paolo Mencarelli, Gian Marco Martignoni, Antonio Schina; prefazione di Stefano Galieni)

Dario Paccino
Dall’imbroglio ecologico alla crisi climatica

(Centro di Documentazione Pistoia Editrice, 2024)

recensione di Marco De Palma

«Dario Paccino è stato partigiano, giornalista, divulgatore scientifico, militante del movimento antinucleare e del movimento del ’77, e soprattutto uno dei primi e più efficaci ecologisti italiani. Ha partecipato alla Resistenza italiana, con il nome di battaglia Santi. Ha fondato insieme a Valerio Giacomini la prima associazione naturalistica in difesa della natura, Pro Natura, e la rivista «Natura e Società». Dal febbraio 1979 al giugno 1986 è stato direttore responsabile del periodico «Rosso vivo», rivista di critica marxista all’ecologia dominante.

Nel 1972 pubblicò il suo libro più famoso, L’imbroglio ecologico, diventato un classico dell’ecologia politica in Italia (ripubblicato nel 2021), in cui denuncia il contenuto ideologico dell’ecologia, che il rispetto dell’uomo e della natura è strutturalmente incompatibile con il modello di sviluppo capitalistico e che l’ecologia pensata e tradotta politicamente, senza tener presenti i rapporti sociali di produzione e di forza, rappresentava un imbroglio. […]» (dalla quarta di copertina del volume).

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Con Dario Paccino

alle radici dell’ecologismo anticapitalista


Volumetto collettaneo molto denso e stimolante il numero 10 della collana “I quaderni dell’Italia antimoderata” edita dal Centro di Documentazione di Pistoia, andato in stampa lo scorso settembre. Al centro la figura, l’impegno e il pensiero critico di Dario Paccino (1918-2005), intellettuale marxista, partigiano durante la Resistenza, militante del movimento antinucleare e del movimento del ‘77, nonché tra i primi veri ecologisti italiani, noto soprattutto per il suo L’imbroglio ecologico. L’ideologia della natura del 1972 (ripubblicato nel 2021).

Da allora ne è passata di acqua (e di alluvioni!) sotto e sopra i ponti, e ciò che sosteneva Paccino è ormai davanti agli occhi di tutti (per lo meno di quanti cercano di capire realmente come stanno le cose). Parlare astrattamente di natura, di salvaguardia o peggio ancora di “sviluppo sostenibile”, senza mettere in discussione il sistema capitalistico di produzione e consumo, la sua materialità fatta di saccheggio, devastazione, inquinamento, rifiuti e sfruttamento criminale delle risorse, degli ambienti e degli esseri viventi, compresi gli umani, significa semplicemente barare, imbrogliare, mistificare la realtà e dare un ulteriore alibi “eco-ideologico” agli agenti del capitale, ai padroni dell’economia e del mondo. Avallare in sostanza quello che in termini più recenti è stato definito “greenwashing”, un semplice rifarsi il trucco al fine di restare al comando senza toccare minimamente la sostanza del problema.

A un certo punto, parlando dei padroni, Paccino li definisce addirittura “grotteschi”, proprio perché perpetuando la loro opera di miope accaparramento (accumulazione) e distruzione fanno finta di non rendersi conto che porteranno (e stanno appunto velocemente portando) il sistema Terra al collasso, con la possibile/probabile estinzione di massa della stessa specie umana.

Del resto, possiamo aggiungere noi oggi, i super ricchi cavalieri dell’Apocalisse alla Elon Musk (potere economico-finanziario + potere tecnologico-mediatico + potere biopolitico e militare) si stanno anche attrezzando per evacuare il pianeta in caso di crisi irreversibile.

Ma le cento pagine di Dario Paccino. Dall’imbroglio ecologico alla crisi climatica offrono numerosissimi altri spunti di riflessione e di attualità. Sono davvero tanti e, dai contributi di Giorgio Nebbia e di Vincenzo Miliucci a quelli di Giorgio Ferrari, Maurizio Da Re o Gian Marco Martignoni, è davvero difficile ripercorrerli in modo soddisfacente, sebbene anche solo sommario. Pertanto mi limiterò solamente ad un ultimo accenno. Nella scheda curata da Antonio Schina, ad esempio, dedicata alle pubblicazioni di «Rosso vivo» (un’altra delle tante imprese editoriali cui si diede Dario Paccino), si può leggere: “La guerra, la terza guerra mondiale, viene dichiarata il 6 agosto 1945 e gli Stati Uniti, sotto la crescente pressione delle multinazionali ostacolate nel loro saccheggio planetario, progettano di trasformarla in guerra nucleare, possibilmente circoscritta al Sud, con minacce di estenderla nel nostro continente e nel Sud Est asiatico […] la qualità della vita, per strati sempre più larghi della società, appare un puro miraggio, per un lato per la conseguenza della nuova divisione internazionale del lavoro e dei gravami imposti dagli Stati Uniti per addossarci il peso della loro crisi, per l’altro per la continua espulsione di lavoro vivo a causa di quello incorporato nelle nuove tecnologie e, per l’altro ancora, per le risorse ognor più crescenti assorbite dagli armamenti, per cui è come se fosse scritto nella Bibbia o nel Capitale che prima del pane, delle case, degli ospedali e delle scuole, vengono gli arsenali”.

Ucraina, Palestina, crisi dell’Onu, scontro imperialista all’orizzonte con la Cina, crisi europea, pericolo ecatombe termonucleare, stupidità (ops) intelligenza artificiale ecc… Più attuale di così? Come sempre, ‘de te fabula narratur’.


Marco De Palma


(Tratto da: Marco De Palma, Con Dario Paccino alle radici dell’ecologismo anticapitalista, in «Sinistra Sindacale», n. 22-23/2024, 16 dicembre 2024).


Inserito il 17/12/2024.

Altro materiale su Dario Paccino nella sezione Storia – Storie

Arrivano i nostri. Una controstoria socialista dalla parte dei Pellerossa di Paolo Mencarelli

Dario Salvetti, Gea Scancarello

Questo lavoro non è vita
La lotta di classe nel XXI secolo. Il caso Gkn

(Fuoriscena, 2024)

presentazione di Dario Salvetti

«Il 9 luglio 2021, i 422 dipendenti della Gkn di Campi Bisenzio (Firenze), fabbrica che produce semiassi per l’industria automobilistica, ricevono una email con la quale viene comunicato l’avvio della procedura di licenziamento collettivo per cessazione di attività. Lavoratrici e lavoratori non restano immobili nella rassegnazione, reagiscono immediatamente, raggiungono i cancelli dell’azienda, presidiati da guardie private, e riescono a entrare. Non lo fanno per rabbia, ma per difendere un diritto e per proteggere il proprio territorio dalla delocalizzazione e dall’impoverimento. Comincia così la lotta operaia più lunga e più strutturata degli ultimi decenni. Una lotta allo stesso tempo potente e fragilissima, che va conosciuta e sostenuta perché ci riguarda tutti. La mobilitazione, da un lato, vuole opporsi a un abuso e, dall’altro, avvia un corpo a corpo con il capitale di straordinaria forza e intensità. Un corpo a corpo non isolato ma in convergenza con movimenti e lotte che attraversano tutto il Paese, seppur spesso sottotraccia. Mentre questo libro va in stampa, lavoratrici e lavoratori sono ancora lì, hanno costituito un Collettivo di fabbrica, hanno allestito un loro piano industriale credibile e hanno avviato la procedura di azionariato popolare per sostenerlo, che si è chiusa con oltre un milione di euro di sottoscrizioni. In questi ultimi anni sono stati pubblicati molti libri che hanno raccontato la crisi e le falle del modello capitalistico di produzione e sviluppo, mancava però ancora un libro sul lavoro, che raccontasse la lotta di classe nel XXI secolo. Questo libro non è solo la storia di una singola battaglia, ma un manifesto che parla a ciascuno di noi, trasversalmente al proprio mestiere. Perché il lavoro è vita. Ma questo lavoro, sfruttato, sottopagato, che ammala il corpo e la mente, in cui puoi essere licenziato in tronco con una email, non lo è più. È necessario gridarlo con consapevolezza, e farlo collettivamente» (dalla quarta di copertina del volume).

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«Mi sembra un ottimo giorno per fare questo post. Su cui ho tardato e avrei tardato ancora. Ma oggi mi sembra proprio il giorno giusto per segnalare che, alla fine, gli attacchi sguaiati e anonimi alla lotta ex Gkn e a tutta la sua narrazione producono e produrranno alla lunga solo un suo rafforzamento.

Si, avete fatto l’ennesimo errore clamoroso e ne verrete travolti. Ma torniamo a noi.

Questo libro si è portato dietro mille dubbi e indecisioni. Sono arrivato alla sua pubblicazione dovendo lavorare sulla mia testa in continuazione per analizzare la sua utilità e necessità. Perché conosco, conosciamo come Collettivo e come Rsu, tutti i rischi connessi a un simile passo.

Viviamo in un mondo dove sono i progetti collettivi che vengono messi a disposizione di nomi individuali e non nomi individuali che si mettono a disposizione di progetti collettivi. E questa categoria interpretativa rischia di essere usata contro la lotta stessa.

Perché è un libro collettivo ma è al contempo individuale. Perché per forma, modalità, natura della conversazione, non poteva che a un certo punto trovare una firma individuale. Anche perché la conversazione voleva e ha voluto andare su una serie di considerazioni che riguardano cosa lascerà questa lotta. E al contempo se oggi qualcuno leggerà le nostre considerazioni, quelle mia e di Gea Scancarello, è per l’incredibile e drammatica vicenda collettiva che da tre anni riguarda Gkn.

Ed è un libro collettivo perché la parte di diritti d’autore che mi riguarda è intestata alla Società Operaia di Mutuo Soccorso e perché ogni euro andrà a sostenere la cassa di mutuo soccorso che da sempre aiuta come metodo le resistenze operaie. Non è che la cedo, non l’ho nemmeno mai avuta.

E, in un mondo di pandori della Ferragni, io e Gea abbiamo avuto remore anche a dire questo. Che questo libro è oggi uno degli strumenti di mutuo aiuto a disposizione della lotta.

Abbiamo avuto remore, remore, remore. Perché dovunque ti giri c’è palude e perché ti chiedi se alzare un nome, un testo, una copertina, una bandiera, sopravviverà al fango.

Poi, come spesso accade, ti rendi conto che il mutualismo è proprio una delle cose che gli avversari della lotta attaccano con più fango. E che tante delle risposte le hai già date proprio lì, compreso sul rapporto tra lotta collettiva e traiettorie individuali.

E allora, senza remore, questo è il libro, i proventi vanno alla Soms, è uno dei tanti strumenti a disposizione della narrazione di questa lotta (ci sono altri libri, documentari e spettacoli) e questo è il form per invitarci a presentarlo:


https://forms.gle/UeVYeChqVdpbytaM7


Mi permetto – ultima volta – una nota personale: ho avuto il piacere di fare qualche documentario, di firmare questo libro. Ma faccio il metalmeccanico, quarto livello, contratto a tempo indeterminato. E se si parla di soldi, penso in effetti mi spettasse un inquadramento contrattuale superiore perché maneggiavo in autonomia i robot. E questo è il mio stato. E se c’è qualcuno che da tempo prova a cambiarlo, non sono io ma il capitale che prova a espellermi in ogni modo dal processo produttivo. E fino a che non ci riuscirà, sul tema, non c’è altro da aggiungere.

E non si tratta di non parlare delle nostre opinioni sul mondo. Si tratta di ribadire la trappola.

Da quel 9 luglio 2021 il capitale prova a spostare l’attenzione su quanto siamo anticapitalisti, per distrarre l’attenzione su quanto nella fattispecie lui sia antioperaio».


19 novembre 2024


Dario Salvetti


(Tratto dalla pagina Facebook dell’autore, consultata il 24/11/2024).


Inserito il 24/11/2024.

Dal sito «transform-italia.it»

I padroni del mondo
Il capitalismo controllato dai grandi gestori patrimoniali

di Alessandro Scassellati

Come funziona oggi il capitalismo? Chi sono i suoi protagonisti? Con quali strumenti e logiche operano? Cerchiamo delle risposte con la lettura del libro di Alessandro Volpi, I padroni del mondo. Come i fondi finanziari stanno distruggendo il mercato e la democrazia (Laterza, Roma-Bari 2024).

Sta emergendo una società capitalista finanziarizzata in cui pochi grandi gestori patrimoniali possiedono e controllano sempre di più i nostri sistemi e le nostre strutture fisiche più essenziali, fornendo i mezzi più basilari di funzionamento e riproduzione sociale.

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I padroni del mondo: il capitalismo controllato dai grandi gestori patrimoniali


di Alessandro Scassellati


Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio, per farsi coraggio, si ripete: «Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene». Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio.

Dal film L’odio di Mathieu Kassovitz


Volendo ragionare sulla struttura e gli attori del capitalismo odierno, a cominciare da quello statunitense che è il centro egemonico di questa formazione sociale ormai globale, credo che si possano identificare due tipologie di soggetti strategici fondamentali. Da un lato, c’è un gruppo formato in modo maggioritario da esponenti di un capitalismo dinastico (dinastie con almeno due o tre generazioni di accumulazione del capitale alle spalle) che è stato via via rinforzato da nuovi arrivi – i Gates, i Bezos, i Musk, e gli Zuckerberg e altri esponenti del “capitalismo delle piattaforme” – nell’ultima generazione. Insieme questi due gruppi di grandi capitalisti costituiscono quell’0,1% o 1% della popolazione mondiale che esercita il controllo sulle global corporations industriali e finanziarie e che secondo il premio 2001 Nobel Joseph Stiglitz “controlla il 90% della ricchezza mondiale”1. Dall’altro lato, ci sono delle strutture finanziarie “corporate” privatizzate di relativa recente formazione – i fondi finanziari -, solo in parte controllate dal primo gruppo, che sono state magistralmente descritte dall’economista e docente di storia contemporanea all’Università di Pisa Alessandro Volpi nel libro I padroni del mondo. Come i fondi finanziari stanno distruggendo il mercato e la democrazia, Laterza, Roma-Bari 2024.

Non mi dilungo troppo sulla prima tipologia di soggetti – i capitalisti dinastici e gli imprenditori di successo di prima generazione –, rimandando per l’analisi delle loro logiche di comportamento e forme di organizzazione economiche e politiche ad una serie di articoli che ho scritto nel recente passato2. Si tratta di un gruppo che ha esageratamente beneficiato dal sistema neoliberista di regolazione del processo di accumulazione del capitale che ha consentito loro di rafforzare il proprio dominio economico, politico e culturale sulla società americana e sul mondo, costruendo monopoli, eludendo e non pagando le tasse (con un uso smodato di consulenti, paesi a fiscalità “agevolata” e di veri e propri paradisi fiscali “legali” e illegali che hanno un onere normativo molto leggero, un onere informativo molto limitato e accordi fiscali molto favorevoli) e facendo stagnare i salari. È parlando di loro che possiamo dire che negli ultimi decenni è riemersa con forza una società «patrimoniale» in cui la ricchezza, in particolare la ricchezza dinastica ereditata (6 su 10 americani più ricchi sono eredi di fortune trasmesse loro da antenati e genitori ricchi3), è il determinante cruciale delle loro possibilità di vivere in modo separato dal resto delle persone e della società4. Questi ultra-ricchi parlano di risolvere la crisi climatica o di porre fine alle disuguaglianze, ma ciò a cui sono realmente interessati è sopravvivere o sfuggire a chiunque sia più povero di loro5. Gli economisti dell’Università di Berkeley, Emmanuel Saez e Gabriel Zucman6, hanno calcolato che i tagli fiscali da 1,5 trilioni di dollari della prima amministrazione Trump hanno aiutato le 400 dinastie miliardarie più ricche negli Stati Uniti (quelle della «lista Forbes 400») a pagare nel 2018 un’aliquota fiscale media del 23%, mentre la metà inferiore delle famiglie americane ha pagato un’aliquota del 24,2%. Nel 2018, per la prima volta nella storia moderna degli Stati Uniti, il capitale è stato tassato meno del lavoro. Dal 1980, la quota della ricchezza americana di proprietà delle 400 dinastie americane miliardarie è più che quadruplicata mentre la quota di proprietà della metà inferiore della popolazione americana è diminuita. Le 130mila famiglie più ricche in America ora possiedono quasi quanto il 90% meno ricco (117 milioni di famiglie). Secondo Saez e Zucman, se l’1% più ricco della popolazione americana pagasse un’aliquota fiscale del 60%, lo Stato federale USA incasserebbe circa 750 miliardi di dollari in più l’anno, sufficienti per pagare asili nido per tutti i bambini, un programma di infrastrutture e molto altro7.

Venendo a quelli che Volpi definisce come “i padroni del mondo”, si tratta di fondi finanziari speculativi – a cominciare dalla “triade” composta da Vanguard, Black Rock e State Street – che oggi sono più forti dei singoli Stati, decisivi nella tenuta delle monete (in particolare, del dollaro) e del debito pubblico8, e proprietari di enormi quote di economia reale (banche e imprese industriali e commerciali). Ancora marginali all’inizio del nuovo millennio, hanno cavalcato le crisi (quelle finanziarie del 2008 e 2011, la crisi pandemica da CoVid-19 e la successiva fase inflattiva) che hanno travolto molti dei grandi operatori che dominavano il mercato finanziario, e hanno beneficiato dell’operato dei governi e delle banche centrali (sia della fase del “quantitative easing” sia di quella di rialzo dei tassi, entrambe determinate da FED e BCE), e hanno sfruttato, accelerandolo, il processo in corso dagli anni ’80 di smantellamento degli Stati sociali e di privatizzazione dei beni comuni della società (ossia il trasferimento di beni, imprese e servizi dal pubblico al privato). Il libro di Volpi spiega come sia stata possibile questa enorme concentrazione del capitalismo che è arrivata a cancellare l’idea stessa del mercato (per questo Volpi auspica una separazione tra mercato e capitalismo – pp. 123-124). Traccia un quadro chiaro dei numeri di questo monopolio e ricostruisce le storie dei protagonisti di questa incredibile scalata di potere.


Il potere monopolistico dei fondi finanziari

Fra gli anni ’70 e ’80 sono nati dei fondi finanziari negli Stati Uniti che a partire dai primi anni 2000 hanno accumulato degli enormi patrimoni. Coloro che avevano fondato queste snelle organizzazioni avevano scelto, in origine, di presentarle come “fondi passivi”, ossia come dei fondi “che si limitavano a replicare alcuni indici scelti con grande cura, potendo promettere ai clienti, proprio per l’abbattimento dei costi di gestione consentito dalla natura passiva, un servizio quasi gratuito” (pag. 6). Riuscendo a tenere bassi i costi per i risparmiatori – grazie alle intuizioni del fondatore di Vanguard, John “Jack” Bogle, che hanno portato a puntare sulla replicazione dell’andamento di alcuni indici (veri e propri algoritmi) senza un intervento diretto del gestore, creando strumenti come gli ETF (exchange traded fund) – si sono presentati come gli interpreti di una nuova finanza “democratica” (in realtà, una colossale operazione di marketing: «Il più grande inganno del diavolo è far credere che non esiste», diceva, parafrasando Baudelaire, il perfido Kayser Soze nel film I soliti sospetti), allargando la platea di coloro che potevano avere accesso ai mercati finanziari (pag. 118).

Inizialmente hanno fatto fatica ad affermarsi, ma dopo i fallimenti dei grandi colossi finanziari tradizionali, travolti da crisi finanziarie come quella del 2008, sono riusciti a diventare sempre più attraenti, riuscendo anche a stabilire strette relazioni con la politica (ad esempio, Volpi cita il rapporto intimo fra il fondatore di Black Rock, Larry Fink, e il segretario del Tesoro, Timothy Geithner, durante la crisi del 2008 – pag. 120). L’enorme potere che questi soggetti hanno acquisito certifica l’incapacità di buona parte della politica di svolgere un qualsiasi ruolo di interposizione e controllo, per cui questi grandi monopoli privati assumono ruoli e dimensioni pubbliche. Recentemente il CEO di Black Rock Larry Fink ha ribadito che “lavoriamo con entrambe le amministrazioni e stiamo dialogando con entrambi i candidati”. Alcuni veterani della società di gestione patrimoniale hanno ricoperto ruoli di alto livello nel Tesoro dell’amministrazione Joe Biden.

Il Tesoro di Trump, d’altro canto, era gestito dall’ex direttore informatico di Goldman Sachs, Steven Mnuchin, che aveva fatto fortuna come gestore di hedge fund. Uno dei principali finanziatori delle campagne presidenziali di Trump, nel 2024 e nel 2020, è il miliardario CEO del fondo immobiliare Blackstone, Stephen Schwarzman, che nel 2022 è stato proclamato l’amministratore delegato più pagato nel settore dei servizi finanziari degli Stati Uniti. Schwarzman è un mega-donatore del Partito Repubblicano ed è stato il finanziatore numero uno di Wall Street per le campagne politiche nel ciclo elettorale del 20209. In un articolo recente, Volpi ha provato ad interpretare la sfida tra Harris-Walz e Trump-Vance alle presidenziali USA come uno scontro tra il capitalismo finanziario della “triade” (apparentemente schierato con il partito democratico) e quello che ne vuole indebolire il monopolio (Musk, Mellon e altri miliardari che hanno finanziato a piene mani la campagna di Trump).

Nessun controllo politico-istituzionale è stato esercitato anche sulla loro struttura proprietaria, caratterizzata da frequenti e oscure partecipazioni incrociate che non consentono di capire chi realmente decida al loro interno. “Black Rock è posseduto per il 14% da Vanguard, il 6,7% dalla stessa Black Rock e per un altro 4,5% da State Street. Segue poi una decina di fondi più piccoli. Vanguard è posseduta per il 13,5% da Black Rock, per il 9,5% da Vanguard e per il 3% da State Street cui si aggiungono altri fondi di minori dimensioni. State Street Corporation è posseduta per il 12,6% da Vanguard, per l’8,1% da Black Rock e per il 5% da State Street. In altre parole, i tre più grandi soggetti economici e finanziari del pianeta sono posseduti gli uni dagli altri in una sequenza che non permette di comprendere chi sia il vero proprietario, al di là delle figure dei vari Ceo, talvolta ancora identificati con i ‘padri’ fondatori” (pag. 8). Poi, questi tre fondi possiedono azioni di altri fondi (ad esempio, come il Berkshire Hathaway di Warren Buffett e Capital Research and Management), banche (JP Morgan Chase, Wells Fargo, Citigroup, Morgan Stanley, Goldman Sachs, Bank of America, UBS) e assicurazioni (come United Health Group, Elevance Health, Prudential Financial e Centene Corporation) che a loro volta sono azionisti della “triade”. Data questa totale mancanza di trasparenza (facilitata spesso anche dalla domiciliazione nei paradisi fiscali), Volpi si domanda se questa è democrazia e libero mercato, per concludere che “siamo di fronte ad una opacissima autocrazia” (pag. 8).

Alla luce del risultato delle ultime elezioni presidenziali statunitensi, si potrebbe obiettare a Volpi che Donald J. Trump, Elon Musk e Peter Thiel (il miliardario responsabile dell’ascesa di JD Vance alla vicepresidenza) ritengano che capitalismo e democrazia debbano divorziare e che la “democrazia liberale” debba trasformarsi in “democrazia oligarchica” (a questo proposito, si veda il mio articolo qui) se si vuole promuovere l’innovazione e l’accumulazione del capitale. L’attacco è portato direttamente contro il ruolo dello Stato federale. Se ne vogliono scardinare le funzioni. Musk, l’uomo più ricco del mondo che ha investito 132 milioni di dollari nella campagna di Trump, è destinato a guidare il nuovo Dipartimento per l’efficienza governativa (Doge), l’agenzia che, secondo Trump, condurrà un “audit finanziario e delle prestazioni completo dell’intero governo federale e formulerà raccomandazioni per riforme drastiche”. Musk ha proposto di tagliare di 2 trilioni di dollari il budget federale, corrispondente a poco meno di 1/3 di quest’ultimo. L’obiettivo è lo “slash-and-burn”, il fare terra bruciata per arrivare allo “Stato minimo” con la drastica riduzione della burocrazia (almeno 1/3) per “decostruire il deep-State” (a partire dai vertici militari e dell’intelligence), la radicale privatizzazione del sistema del welfare e di altre funzioni regolative e gestionali. Sarà una guerra complicata e difficile da vincere considerati gli evidenti conflitti di interesse in campo e dato che i dipendenti del governo federale godono di forti tutele occupazionali che ostacolerebbero l’approccio di Musk alla riduzione dei costi, rendendolo forse impossibile. In ogni caso, l’approccio Trump-Musk finirebbe per mettere nelle mani dei grandi fondi finanziari i beni, le operazioni e i servizi attualmente gestiti dallo Stato, insieme alla totalità dei risparmi di lavoratori e cittadini.

In pochi anni, Vanguard, Black Rock, State Street e pochissimi altri fondi (come, ad esempio Macquire10), grazie alla straordinaria liquidità raccolta da risparmiatori alla ricerca di una protezione da uno Stato sociale in via di progressivo smantellamento, e quindi disponibili a sottoscrivere polizze sanitarie e pensionistiche, oltre che alla ricerca di rendimenti sempre più elevati che compensassero la stagnazione, se non addirittura l’arretramento, di stipendi e salari, sono diventati azionisti di controllo delle principali società del pianeta, come Apple, Microsoft, Amazon, Meta, Netflix, Tesla, Nvidia, Open Ai, Exxon Mobil, Chevron e dell’88-96% delle società del listino di Wall Street Standard & Poor 500 (il valore azionario era solo il 7% nel 2001, oggi è il 30%; per una lista delle principali società di cui la “triade” detiene rilevanti quote azionarie vedi pp. 86-87). Da “passivi”, i fondi sono diventati “attivi”, per cui esercitano il diritto di voto nelle assemblee societarie (i diritti di voto della “triade” nelle assemblee degli azionisti nelle S&P 500 sono ormai oltre il 33%), spingendo gli amministratori a perseguire la “massimizzazione del valore per gli azionisti” (la cosiddetta “shareholder value orientation”)11.

Allo stesso tempo, questi stessi fondi sono penetrati nelle società pubbliche e nelle tante multiutility (società di servizi) a cui sono affidate proprietà e gestione di monopoli naturali, delle reti e delle infrastrutture che sono vitali per la sovranità di un paese (dalle reti idriche, energetiche e di comunicazione ai “servizi ambientali”, elettricità, gas e autostrade)12. “Con veloci scalate o con partecipazioni strategiche questi soggetti finanziari sono diventati assolutamente rilevanti nella definizione delle scelte in materie dal chiaro impatto pubblico: in sintesi, salute, previdenza, infrastrutture e beni pubblici sono diventati oggetto di pochissimi grandi player, la cui logica è soltanto quella di garantire rendimenti finanziari a breve termine, in sostanza dividendi e remunerazioni obbligazionarie, fidando sulla propria capacità di occupare tutti gli spazi delle decisioni, dalla definizione dei prezzi alle dinamiche produttive e ai principi di erogazione dei servizi e condizionando in modo vincolante una politica che ha deciso di affidarsi ad un simile monopolio in nome di un mercato cancellato dagli stessi fondi monopolisti. È naturale che lungo questo tracciato il culto del dividendo, che deve remunerare il grande azionista e il piccolo risparmiatore, partecipe del fondo, sostituisce ogni altra valutazione in merito a forza lavoro, investimenti, ambiente e costo dei servizi” (pp. 5-6).

Secondo Volpi, oggi ci troviamo davanti ad uno sterminato potere economico-finanziario che costituisce “un vero cartello, dai confini sconosciuti alla storia contemporanea, che possiede le Borse [come la Chicago Mercantile Exchange], determina i prezzi, ha partecipazioni decisive nel sistema produttivo globale e garantisce i rendimenti a milioni di risparmiatori dipendenti per la loro stessa esistenza dai pochissimi membri di tale cartello. Lo stesso cartello controlla le agenzie di rating [Fitch, Moody’s e Standard & Poor’s], che decidono le sorti dei debiti pubblici degli Stati, gran parte della stampa economica, le principali banche del pianeta [a cominciare da JP Morgan Chase, la più grande e il braccio bancario della “triade”], le assicurazioni, la farmaceutica [Johnson & Johnson, Pfizer, Bristol Myers Squibb, Merck, AbbVie, AstraZeneca], l’industria militare [Lockheed Martin, Northrop Grumman Corporation, Raytheon, Boeing, Hulliburton], le società hitech [GAFAM], l’intera filiera alimentare e quella dell’energia, compresa quella delle rinnovabili. Passano da tale cartello anche le principali piattaforme turistiche, gli alberghi [Hilton e Marriott], gli airbnb, il gioco d’azzardo e molta parte dell’entertainment [e dello sport professionistico, a cominciare dal calcio]” (pp 6-7). Volpi documenta l’incredibile onnipresenza di questi fondi che in Italia sono tra i maggiori azionisti di Banca Intesa, Unicredit, Mediobanca, Monte Paschi di Siena, Ubi, BPM, Prysmian, Azimut, Atlantia, Leonardo, Autostrade d’Italia, ENEL, Snam, ACEA, Iren, A2A, Hera, Telecom Italia, Ferrari, Stellantis, Delfin (la holding finanziaria della famiglia Del Vecchio) e di tante altre principali società13.

Nel 2022, i primi 10 fondi del pianeta hanno registrato attivi per 44 mila miliardi di dollari e tre soli – Black Rock, Vanguard e State Street – ne gestiscono circa la metà (pari ad un quinto del PIL mondiale, ma con solo 35 mila dipendenti). Da sola, Black Rock gestisce 11,5 trilioni di dollari di asset (pari a 5 volte il PIL italiano e a un terzo di quello USA), rendendola la più grande società di investimento sulla Terra14. Gli stessi 10 fondi detengono ormai il 30% delle prime 500 società mondiali (non quelle cinesi, però, dato che i fondi USA non sono riusciti ad entrare in Cina – pp. 85; 146-148) (pp. 77; 80). “I giganti della finanza sono in grado di fare i prezzi dei mercati attraverso gli strumenti della finanza derivata (le scommesse) che creano in maniera pressoché infinita. Con tali strumenti riescono a garantire alti rendimenti ai risparmiatori che affidano loro i propri risparmi e, con queste risorse, comprano porzioni decisive della proprietà delle imprese e delle società, di cui manipolano i titoli così da ottenere dividendi sempre più rilevanti. In tal modo i grandi fondi operano una radicale concentrazione del potere economico e sostituiscono, in gran parte, la finanza all’economia e alla produzione, trasformando i profitti in rendimenti finanziari. In ultima analisi sono tali fondi a decidere i prezzi e, di conseguenza, a scegliere cosa deve continuare ad essere oggetto della produzione e a quali condizioni. L’apparente democraticità delle gestioni patrimoniali svuota le politiche economiche e fa appassire i sistemi di Welfare” (pag. 79).

Rispetto all’inflazione e al debito pubblico, Volpi arriva anche ad essere “complottista”: “I grandi fondi generano l’inflazione, alimentando la speculazione sui prezzi [ad esempio, su petrolio, gas e materie prime agricole]. La Bce alza i tassi e non compra più il debito degli Stati. I grandi fondi, che hanno generato la speculazione, accettano di comprare a tassi elevati, quindi con alte remunerazioni, e solo se possono entrare nei servizi pubblici e nelle imprese e nelle banche italiane più remunerative” (pp. 90; 97; 104-108; 134-135). “I crescenti deficit pubblici non faranno altro che ampliare il ruolo dei mercati privati nel favorire la crescita economica”, ha affermato di recente Fink. Però, in questo grande casinò dell’economia, nota Volpi, “c’è chi perde sempre: il mondo del lavoro che prima paga il conto dell’inflazione, poi subisce i danni dei tassi alti e infine non conosce aumenti retributivi perché, quando i tassi scendono, bisogna tutelare i profitti” (pag. 188).

L’Europa ha un peso limitato rispetto alla assoluta centralità degli Stati Uniti. Questo è uno dei grandi crucci che Mario Draghi ha espresso nel suo rapporto sulla competitività europea: vorrebbe che si creassero dei “campioni finanziari europei”, specializzati anche nel venture capital (per finanziare le start up innovative), per evitare il drenaggio dei risparmi europei verso gli USA da parte della “triade” e degli altri fondi finanziari statunitensi (in proposito si veda il mio articolo qui). Le prime 10 società europee che si occupano di risparmio gestito (spesso partecipate da fondi statunitensi) hanno attivi per poco meno di 13 mila miliardi e quelle che gestiscono più di mille miliardi sono solo 5. La francese Amundi, controllata dal Crédit Agricole, gestisce da sola quasi 2 mila miliardi. L’unica italiana tra le prime 10 è Generali (nona) con meno di 800 miliardi di asset gestiti e in gran parte con fondi finanziari internazionale come azionisti (pp. 81-82).


L’accumulazione attraverso la destrutturazione e distruzione dello Stato sociale

Una delle principali preoccupazioni di Volpi è quella di chiarire quali sono i meccanismi attraverso i quali i fondi finanziari stanno distruggendo lo Stato sociale (inteso come una serie di servizi pubblici gratuiti e universali, erogati in base al reddito, dalla sanità, all’istruzione, alle pensioni, che facevano crescere il reddito reale dei lavoratori), rendendo i cittadini dei soggetti finanziari. Si tratta di un modello politico-sociale riconducibile al neoliberismo permeato da teorie dello “Stato minimo” (antisocialdemocratiche in Europa e anti-New Deal negli USA) e da politiche di austerità e di radicale deregolazione statale e privatizzazione del sistema di welfare, per cui “esiste un legame evidente fra l’idea che serva una continua riduzione del gettito fiscale, per consentire ai mercati di scatenare le proprie doti salvifiche, e la brusca contrazione della spesa pubblica. Senza entrate infatti è difficile mantenere lo Stato sociale a meno di non supplire al minor gettito con il ricorso all’indebitamento pubblico” (pag. 3) sempre più costoso e difficilmente sostenibile (soprattutto in tempi di inflazione), che in Italia ha quasi raggiunto i 3 mila miliardi di euro (138% del PIL), un livello che dovrà essere drasticamente ridotto per la fine della deroga al Patto di stabilità europeo15. Uno schema che gli economisti neoliberisti chiamano “affamare la bestia”16.

Si tagliano le tasse (con la “guerra alle tasse”), soprattutto ad alcune categorie e fasce di reddito (a quelle basse si danno dei bonus o si taglia il cuneo fiscale una tantum, però si riduce o abbandona la progressività17), per lasciare ai cittadini più risorse ma, con minori entrate pubbliche, si indeboliscono i conti dell’INPS e si rende più difficile mantenere la spesa per i servizi essenziali che così tornano ad essere a pagamento, come accadeva negli anni ’50. Di fatto, con la fine dell’universalismo e della gratuità dei servizi pubblici e la privatizzazione, si obbligano i cittadini a “comprare” i servizi essenziali sul mercato. Se i servizi non sono più coperti dallo Stato attraverso la spesa pubblica e vengono privatizzati, “i cittadini e le cittadine devono dotarsi di assicurazioni private che coprano i servizi non più garantiti dallo Stato stesso” (pag. 35).

È in questo contesto che si è determinata una rapida transizione “dai modelli sociali del Welfare a forme di privatizzazione dei servizi essenziali, a cominciare dalla sanità, che implica la trasformazione della cittadinanza in fruitrice dei prodotti della finanza globale. In altre parole, la scomparsa della dimensione pubblica conduce all’affermazione di strutture privatizzate che sono finanziate dai risparmi dei singoli, indirizzati verso fondi sempre più grandi che tendono a sostituire gli Stati. I cittadini, così, attraverso il risparmio diventano soggetti finanziari che affidano le loro sorti a gestori in grado di monopolizzare la liquidità disponibile. La sanità e la previdenza ‘complementari’ assumono una rapida e crescente centralità in un simile panorama e modificano la natura dei loro destinatari che devono consegnarsi alle ‘strategie’ dei gestori dei fondi per provvedere alla propria salute e alla propria pensione” (pp. 3-4). Soprattutto, se vivono in un paese come l’Italia dove le pensioni non sono state rivalutate dal 1996 al 2023 (con gli over 65 che sono aumentati di 2,5 milioni) e la spesa sanitaria pubblica, già molto più bassa rispetto agli altri grandi paesi europei, subirà ulteriori riduzioni nei prossimi anni, passando dal 6,7% del PIL nel 2023 al 6,3% nel 2024 fino al 6,2% nel 2025. Sono circa 11 milioni gli italiani che dispongono di una polizza sanitaria, in larga parte riconducibile ai contratti collettivi di categoria che hanno spinto il mondo del lavoro italiano in tale direzione18. Polizze assicurative e sanità e previdenza “complementare” sono “vendute” da fondi di investimento che in Italia (pronti presto ad accaparrarsi anche quote del Tfr, il trattamento di fine rapporto) sono in larghissima parte gestiti dalle banche e hanno bisogno di una vasta gamma di “prodotti finanziari”, in grado di soddisfare le richieste di rendimento di diverse tipologie di clienti. “Tali prodotti sono generati con grande fantasia dai principali fondi internazionali che si pongono così al vertice di una catena dove sono presenti anche banche e fondi pensione di natura istituzionale: un’’industria della finanza’ che, fidando su una domanda in crescita costante, comprende grandi produttori di titoli, grandi rastrellatori di risparmi e grandi organizzazioni, come nel caso dei sindacati, che partecipano alla raccolta e alla destinazione dei medesimi risparmi. Qui emerge in tutta evidenza il citato legame tra privatizzazione e finanziarizzazione” (pp. 35-36). Per cui, alla fine, i fondi comuni, le compagnie di assicurazione e i fondi pensione italiani (come le Casse di previdenza), proprio per assicurare maggiori rendimenti, investono pochissimo o per nulla in Italia, ma comprano per la maggior parte titoli del debito di altri paesi, azioni e obbligazioni estere messe in circolazioni dai grandi fondi finanziari internazionali (magari emesse dalle grandi società americane di cui sono tra i principali azionisti).

Il progressivo smantellamento del welfare negli ultimi 20 anni, indotto dal taglio fiscale e dalle privatizzazioni di servizi e imprese pubbliche, ha favorito “lo spostamento di risorse verso fondi finanziari che le hanno utilizzate per diventare i pivot decisivi dell’intero sistema economico mondiale, approfittando anche delle debolezze della stessa politica, fin troppo accecata dalla religione del mercato. Lo smantellamento degli Stati sociali si è accompagnato infatti alla convinzione che proprio i mercati finanziari fossero il luogo dove poter creare i redditi e la ricchezza che economie della produzione non riuscivano più a generare nelle parti del mondo guidate dal cosiddetto capitalismo maturo. Privatizzazione e finanziarizzazione si sono così saldate su più piani: i cittadini risparmiatori sono approdati attraverso i fondi alla finanza e la finanza si è sostituita all’economia reale moltiplicando gli strumenti disponibili, venduti agli stessi cittadini risparmiatori.

Tramite questi strumenti un numero sempre più limitato di fondi è riuscito a determinare i prezzi dei beni, operando sulle principali Borse del mondo continue e colossali scommesse che hanno fruttato rendimenti decisamente alti, tanto da attrarre volumi di risparmio in costante crescita. In questa nuova dimensione, i prezzi non erano più il portato dell’offerta e della domanda reali ma diventavano il risultato, predeterminato, di un mostruoso gioco d’azzardo a senso unico” (pp. 4-5).

In questo modo, la finanza acquista una centralità nella vita quotidiana di milioni di persone, rendendo determinante il ruolo dei grandi fondi finanziari che gestiscono migliaia di miliardi di euro e dollari di risparmi, possiedono larga parte delle imprese dell’economia reale e sono in grado di condizionare le sorti del pianeta in misura maggiore delle politiche. Di recente, il «Guardian» ha pubblicato un articolo dal titolo Taglia e brucia: il private equity è fuori controllo?, sottolineando come “dai club di calcio alle compagnie idriche, dai cataloghi musicali alle case di cura, il capitale [finanziario] privato si è infiltrato in quasi ogni aspetto della vita moderna nella sua infinita ricerca di massimizzare i profitti. … Non è solo che centinaia di milioni di noi interagiscono ogni giorno con almeno un’azienda di proprietà di private equity. Sempre più persone, soprattutto quelle relativamente povere, possono trascorrere quasi tutta la loro vita in sistemi di proprietà di una o dell’altra società di private equity: i finanzieri sono i loro proprietari di casa, i loro fornitori di elettricità, il loro passaggio per andare al lavoro, i loro datori di lavoro, i loro medici, i loro esattori”.

I fondi finanziari possiedono sempre di più il mondo fisico e finanziario che ci circonda, per cui tutte le nostre vite fanno ora parte dei loro portafogli di investimento.


13/11/2024


Alessandro Scassellati


(Tratto da: https://transform-italia.it/i-padroni-del-mondo-il-capitalismo-controllato-dai-grandi-gestori-patrimoniali/).


Note

1 Negli USA, pur tenendo conto delle partecipazioni indirette in fondi pensione e comuni, il 10% più benestante dei residenti americani costituisce l’80% di coloro che posseggono azioni di corporations americane. L’1% più ricco di loro ne possiede il 40%.

2 Sui temi relativi all’accumulazione del capitale, al processo di globalizzazione, e al ruolo delle élites capitalistiche e degli Stati-nazione si vedano i miei articoli: Accumulazione del capitale e globalizzazione. Il ruolo dei capitalisti e degli Stati-nazione, «Transform! Italia», 17 novembre 2021, https://transform-italia.it/accumulazione-del-capitale-e-globalizzazione-il-ruolo-dei-capitalisti-e-degli-stati-nazione/; Capitalismo dinastico, politica e accumulazione di capitale negli Stati Uniti, «Transform! Italia», 25 agosto 2021, https://transform-italia.it/capitalismo-dinastico-politica-e-accumulazione-di-capitale-negli-stati-uniti/; Far pagare le tasse alle global corporations e ai ricchi, «Transform! Italia», 9 giugno 2021, https://transform-italia.it/far-pagare-le-tasse-alle-global-corporations-e-ai-ricchi/. Si vedano anche L. Khalili, How to Get Rich, «London Review of Books», 23 September 2021, https://www.lrb.co.uk/the-paper/v43/n18/laleh-khalili/how-to-get-rich; L. Khalili, In clover – What does McKinsey do?, «London Review of Books», 15 December 2022, https://www.lrb.co.uk/the-paper/v44/n24/laleh-khalili/in-clover.

3 In Germania, le dinastie industriali più ricche (Quandt, Flick, Porsche, etc.) – che controllavano imprese come BMW, Porsche, Volkswagen, Daimler-Benz, BASF, Bayer, Krupp, Rheinmetall e altri giganti industriali che negli ultimi 80 anni sono stati il motore del modello economico tedesco – fecero fortuna aiutando, favorendo ed essendo favorite dal Terzo Reich di Hitler (ad esempio, oltre ad impossessarsi di imprese di proprietà di imprenditori ebrei, hanno utilizzato il lavoro forzato e schiavistico). Dopo la guerra, grazie al clima politico della Guerra Fredda, queste dinastie capitalistiche sono sfuggite a un attento esame e all’epurazione.

4 Sul tema della nuova società patrimoniale si veda T. Piketty, Capital in the Twenty-First Century, Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge, MA 2014; edizione italiana, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano 2014.

5 Il fenomeno dei paradisi fiscali è strettamente legato a quello della «secessione privata dalla società» – fenomeno di segregazione sociale (con le «comunità recintate», le isole private, i super-yacht e tanti privilegi esclusivi dei super-ricchi) – che il filosofo politico Michael J. Sandel (Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali del mercato, Feltrinelli, Milano 2013; Democracy’s discontent. America in search of a public philosophy, Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge, MA 1998) definisce «sky-boxification of society», utilizzando la metafora delle cabine di lusso per i vip negli stadi di baseball, mentre i poveri stanno sotto il sole o la pioggia – da parte delle imprese globali e dei ricchi che le controllano, che ha ridotto le basi fiscali degli Stati in tutto il mondo e limitato la loro capacità di ridistribuire i benefici economici derivanti dall’integrazione commerciale e di intervenire direttamente nell’economia per sostenere la domanda aggregata.

6 E. Saez e G. Zucman, The triumph of injustice. How the rich dodge taxes and how to make them pay, W.W. Norton, New York 2019; Progressive wealth taxation, «Brookings Papers on Economic Activity», 2019, https://www.brookings.edu/wp-content/uploads/2019/09/Saez-Zucman_conference-draft.pdf.

7 Negli USA nel 1966, il picco della crescita americana del dopoguerra, la percentuale massima della tassazione del reddito era dell’83% e fino agli anni ’70 era al 70%, mentre la riforma fiscale di Reagan del 1986 aveva stabilito solo due aliquote, 14% e 28%, più un’addizionale del 5% in alcuni casi, eliminando una serie di deduzioni e di tassazioni agevolate, come quella sui capital gain. Solo con la presidenza Clinton l’aliquota più alta era risalita al 39,6%, reintroducendo però le deduzioni, mentre con Trump è scesa al 37%.

8 Il debito mondiale è stimato intorno ai 310 mila miliardi di dollari, di cui circa 100 mila sono costituiti da debiti pubblici (93% del PIL globale). Si tratta di cifre record, quasi raddoppiate rispetto al 2015. Per pagare gli interessi sul solo debito pubblico serve una quantità di risorse finanziarie pari al 15-17% del PIL globale. I grandi fondi statunitensi stabilizzano l’enorme debito pubblico USA – 33,4 mila miliardi di dollari, pari a circa il 131% del PIL, con il deficit di bilancio che è cresciuto fino a 1.833 miliardi di dollari per l’anno fiscale 2024 – con acquisti di titoli federali.

9 Blackstone è il più grande gestore di asset alternativi al mondo e il più grande locatore commerciale sulla Terra. La società di investimento possiede e gestisce oltre 300 mila unità abitative in affitto negli Stati Uniti. Blackstone ha sfrattato i proprietari di case in numerosi Stati, contribuendo a una crescente crisi di senzatetto, che è cresciuta del 12% nel 2023. Il «Guardian» ha riassunto in modo succinto quanto sia diventata potente Blackstone: “Blackstone è il più grande locatore commerciale della storia. Negli ultimi due decenni, ha preso silenziosamente il controllo di condomini, case di cura, alloggi per studenti, archi ferroviari, studi cinematografici, uffici, hotel, magazzini logistici e data center. Blackstone non possiede solo immobili, possiede tutto, o almeno è così che può sembrare quando inizi a esaminare la sua sconcertante gamma di risorse. Se indossi Spanx, ti sei mai abbinato a qualcuno su Bumble, hai soggiornato in un hotel Hilton o in un resort Centre Parcs, hai visitato Legoland, Madame Tussauds, il London Dungeon o un parente anziano in una casa di cura Southern Cross, hai incontrato un’azienda che forma, o ha recentemente formato, parte dell’impero Blackstone”. Sebbene BlackRock e Blackstone siano aziende diverse, hanno storie sovrapposte e BlackRock possiede il 6,56% di Blackstone, il che la rende il secondo maggiore azionista. Il maggiore azionista di Blackstone è Vanguard, che ha una quota del 9,05%. Il quarto maggiore è State Street, che possiede il 4,12%. In agosto, Schwarzman ha organizzato una festa di inaugurazione della sua casa per 200 persone nella villa neoclassica francese da 27 milioni di dollari a Newport, Rhode Island. È stato un evento modesto rispetto alla grande festa che ha organizzato nella sua tenuta di Palm Beach, in Florida, per il suo 70° compleanno, nel 2017. Quella festa in abito da sera è stata di per sé un seguito al suo 60° compleanno multimilionario, nel 2007, che è diventato un simbolo del tipo di eccesso di Wall Street che ha portato alla crisi finanziaria globale. La festa di Palm Beach, che secondo alcuni resoconti è costata più di 10 milioni di dollari, ha visto gondole veneziane, cammelli arabi, acrobati mongoli e una torta gigante a forma di tempio cinese. Gwen Stefani ha fatto una serenata a Schwarzman mentre Jared Kushner, Ivanka Trump e diversi membri del gabinetto di suo padre guardavano.

10 L’australiano Macquarie è il più grande gestore patrimoniale al mondo in termini di proprietà di infrastrutture. Afferma che ogni giorno qualcosa come cento milioni di persone in tutto il mondo utilizzano le sue infrastrutture e nella maggior parte dei casi pagano per utilizzarle. Ma praticamente nessuno di loro ha idea che Macquarie controlla tali asset. Ed è progettato in questo modo.

11 Una visione resa famosa da Milton Friedman e da Michael C. Jensen, un altro economista premio Nobel e docente all’Harvard Business School, secondo i quali l’unica responsabilità sociale di un’azienda è quella di aumentare i profitti per gli azionisti, per cui i managers dovrebbero sempre prendere delle decisioni per massimizzare i profitti. In un famoso articolo sul «New York Times Magazine» il 13 aprile 1970, Friedman ha sostenuto che, poiché l’amministratore delegato è un “dipendente” degli azionisti, deve agire nel loro interesse, dando loro il massimo rendimento possibile (“the business of business is business”). Se agisce diversamente, ad esempio donando fondi aziendali a una causa ambientale o a un programma antipovertà, deve ottenere tali fondi da clienti (attraverso prezzi più alti), lavoratori (attraverso salari più bassi) o azionisti (attraverso rendimenti più bassi). Quindi, secondo Friedman, finisce per imporre semplicemente una “tassa” su altre parti e utilizza i fondi per una causa sociale di cui non ha alcuna competenza specifica. Sarebbe meglio consentire a clienti, lavoratori e investitori di usare quei soldi per fare i loro contributi di beneficenza se lo desiderano. La normalizzazione della supremazia degli azionisti e dei mercati finanziari fu consolidata durante la presidenza Reagan attraverso le modifiche apportate alle leggi federali sulle imposte sul reddito e a quelle sugli strumenti finanziari, compresa un’attenuazione delle norme antitrust. Queste modifiche hanno promosso l’ascesa degli investitori attivisti, che sono entrati nei consigli di amministrazione e nei comitati esecutivi delle corporations, e hanno liberato gli amministratori delegati (CEO) dalla necessità di dover perseguire altri obiettivi – a cominciare dall’aumento dei salari in relazione all’aumento della produttività – che non fossero la massimizzazione del profitto per gli azionisti. Le performances dei CEO sono state in gran parte legate alle stock options (il diritto di acquistare azioni ad un prezzo fisso in una data futura) e ad altri bonus, incentivandoli anche ad utilizzare i riacquisti di azioni (i buy-backs, consentiti dalla Securities and Exchange Commission a partire dal 1982) per aumentare quotazioni e utili delle azioni (riducendone il numero sul mercato) e, a loro volta, le retribuzioni da portare a casa. È così che è rapidamente ed enormemente aumentata la disuguaglianza: si è passati da un rapporto medio di 20 a 1 tra la retribuzione del CEO e quella di un impiegato di livello medio nel 1965 all’attuale rapporto di 312 a 1. Allo stesso tempo, i licenziamenti in massa e i tagli dei salari dei dipendenti sono stati spesso salutati con entusiasmo dagli operatori finanziari perché tagliavano i costi e causavano rialzi dei prezzi delle azioni.

12 In riferimento all’Italia, Volpi analizza il caso della privatizzazione di Telecom, ora TIM, e le vicende relative alle battaglie per la vendita della rete delle telecomunicazioni (pp. 43-53) nelle quali sono coinvolti fondi come Vanguard, Black Rock, Macquire (già presente in Autostrade per l’Italia e in Open Fiber, la rete concorrente di TIM), KKR (Kohlberg Kravis Roberts & Co), Banca di investimenti norvegese, Fondo pensionistico canadese, con anche il coinvolgimento diretto di Cassa Depositi e Prestiti (che gestisce il risparmio postale italiano). Per fondi come Vanguard, Black Rock e State Street si tratta di una battaglia di una guerra globale che li vede controllare oltre il 20% dei colossi delle telecomunicazioni mondiali a partire da T-Mobile, Verizon, Comcast e At&T. Volpi ricostruisce anche le vicende relative alla privatizzazione di Autostrade per l’Italia (pp. 53-56) dove, accanto a Cassa Depositi e Prestiti, si trovano i fondi Blackstone e Macquarie. Ci sono poi i casi delle partecipate dallo Stato italiano o dalle amministrazioni locali – Poste Italiane, Ferrovie dello Stato, Snam, Terna, Saipem, Leonardo, Enav, Ita (ex Alitalia), ENI, ENEL, A2A, IREN, ACEA, Hera e Italgas – in gran parte quotate in Borsa e in cui sono già presenti o stanno per entrare nell’azionariato (come in FS) i grandi fondi finanziari internazionali (pp. 57-76). È venuta avanti una “economia mista” pubblico-privata assai diversa da quella del passato: i soci “industriali” sono sostituiti da soci “finanziari”, “dove le dinamiche dell’investimento a medio e lungo termine sono sostituite da una sorta di ‘trimestralizzazione’ degli utili che devono remunerare in forma immediata gli azionisti. Tra cui lo Stato, che utilizza i dividendi solo per trovare le risorse necessarie a realizzare sempre più difficili leggi di bilancio, a prescindere da qualsiasi altra idea di politica industriale o tariffaria” (pag. 61). Per cui nelle multiutility, ad esempio, si cancella qualsiasi dimensione pubblica nei settori più vicini ai bisogni dei cittadini perché diventa assai difficile aumentare la qualità del servizio e il volume degli investimenti rispetto a quelli che sono partoriti dalle tariffe pagate dagli utenti (pp. 68; 75). Insomma, prevalgono le finalità finanziarie, ossia l’inseguimento dei dividendi, sulle logiche industriali.

13 In Italia, Black Rock è uno degli investitori più presenti a Piazza Affari. Il mega-fondo vanta quote in tutte le 40 blue chip del Ftse/Mib per un valore aggregato di 24,8 miliardi di euro.

14 Black Rock ha un enorme flusso di nuove risorse che i clienti le affidano: solo nel terzo trimestre del 2024 sono affluiti in Black Rock ben 221 miliardi di dollari e da inizio anno la raccolta di nuovo denaro è stata di 360 miliardi, dieci volte il livello della manovra di bilancio del governo italiano. Nel 2023 il gruppo ha prodotto un utile operativo di 6,6 miliardi su 17,8 miliardi di ricavi e un utile netto di 5,7 miliardi. Sono livelli di profittabilità operativa che viaggiano oltre il 40%. Nel triennio 2019-2021 la marginalità operativa correva a livelli del 46% sui ricavi. Solo negli ultimi 5 anni si sono cumulati profitti netti per oltre 25 miliardi di dollari. E ogni anno viene girato agli azionisti un dividendo sopra i 750 milioni di dollari. Il titolo Black Rock capitalizza 157 miliardi di dollari e negli ultimi 20 anni ha dato un rendimento totale, tra apprezzamento del titolo e dividendi, del 1.320% con un rendimento medio annuo del 15% negli ultimi 20 anni. Per cui, 10mila dollari investiti nell’azione Black Rock 20 anni fa oggi varrebbero 142 mila dollari. Quanto a Fink, solo come piccolo socio ha in portafoglio lo 0,2% del capitale e le sue 340 mila azioni personali valgono 340 milioni di dollari.

15 È evidente che con il ripristino del Patto di stabilità – la strada dell’austerità scelta dall’Unione Europea, insieme a quella della costruzione di una economia di guerra – e con la decisione della BCE di non acquistare più i titoli di Stato e di inasprire le condizioni per le banche che usano come garanzia gli stessi titoli del debito pubblico, sarà molto complicato tenere in piedi una spesa pubblica decente e capace di garantire i servizi fondamentali. Si prevedono pesanti sacrifici: ridurre dello 0,4% l’anno il rapporto deficit/PIL per riportarlo al 3% comporterebbe un taglio della spesa annua di 13 miliardi per un rientro quadriennale o di 7 per un rientro settennale.

16 Secondo gli economisti neoliberisti e la loro “trickle down economics”, una politica che prevede meno tasse per tutti, e soprattutto per coloro con i redditi più alti, dovrebbe promuovere una forte crescita in grado di dare nuovo, e significativo, gettito. Una cosa che non si è mai verificata.

17 In Italia, il sistema fiscale continua a colpire redditi da lavoro, beni e consumi materiali, con l’effetto di determinare una pressione gigantesca, e spesso insostenibile, su quella parte della società, a iniziare dai lavoratori dipendenti, che sta impoverendosi. I redditi da capitale sono tassati solo con un’aliquota del 26%. È il 40% dei contribuenti che sorregge, da solo, il 100% del sistema fiscale. C’è un’evasione superiore ai 100 miliardi all’anno. Nei paradisi fiscali ci sono quasi 200 miliardi di euro provenienti dall’Italia. Ci sono crediti non riscossi dall’Agenzia per le entrate per 1.100 miliardi di euro. Oltre il 70% dell’evasione riguarda l’1,3% dei contribuenti più ricchi, quelli che hanno debiti fiscali per oltre 500 milioni di euro. Ora, inoltre, il governo si muove sulla base dell’idea del “fisco amico”, prevedendo sanatorie, condoni e concordati preventivi “collaborativi” (con i lavoratori autonomi e le imprese), e l’introduzione della flat tax Irpef, il taglio dell’Ires e il superamento dell’Irap. Al tempo stesso, si esclude qualsiasi revisione degli estimi catastali e aumento dell’imposta di successione, neppure per i miliardari, o l’introduzione di una patrimoniale.

18 Sono oltre 8 milioni i lavoratori e le lavoratrici che accedono alle polizze attraverso i contratti collettivi a cui è stata riservata la possibilità di garantire ampi margini di minor pressione fiscale rispetto ad altre forme di impiego (pp. 40-41). I fondi finanziari che operano in tale settore sono ormai oltre 300 in Italia e, tuttavia, attraggono ancora solo una parte della spesa privata in sanità. Gli italiani/e spendono infatti per la sanità privata circa 40 miliardi l’anno, ma si tratta per oltre l’85% di una spesa “diretta”, che non è intermediata dai fondi e che proviene quasi interamente dai redditi medio-alti. Sono i redditi medio-bassi che si stanno progressivamente indirizzando verso la spesa sanitaria intermediata dai fondi.


Inserito il 17/11/2024.

Dal quotidiano «La Stampa»

Ilan Pappé: «Israele non avrà mai pace né sicurezza se non metterà fine all’occupazione»

Intervista di Francesca Paci

È appena uscita per Fazi Editore una Brevissima storia del conflitto tra Israele e Palestina, dello storico israeliano Ilan Pappé.

Questo libro è una guida indispensabile per capire una pagina di storia controversa, oscurata da potenti interessi politici, e trovare una soluzione che dia giustizia e pari diritti a tutti coloro che vivono oggi nella Palestina storica.

L’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 e gli orrori che ne sono seguiti hanno sconvolto il mondo. Ma il conflitto israelo-palestinese non è iniziato quel giorno. E neppure nel 1967, quando Israele ha occupato la Cisgiordania, o nel 1948, quando è stato proclamato lo Stato ebraico. È iniziato nel 1882, quando i primi coloni sionisti sono arrivati in quella che era la Palestina ottomana. Il celebre storico israeliano – autore del bestseller internazionale La pulizia etnica della Palestina – ricostruisce qui la vicenda di due popoli che ora condividono una sola terra. Dalle origini del sionismo come movimento coloniale alla pulizia etnica del 1948, dalla resistenza palestinese all’occupazione, al fallimento della soluzione dei due Stati, fino al 7 ottobre 2023 e alle politiche genocide nella Striscia di Gaza, Pappé fa luce con chiarezza e competenza sui principali eventi, personaggi e processi storici per spiegare come mai questo sanguinoso conflitto lungo oltre un secolo sia diventato tanto insolubile.

Riprendiamo dal quotidiano «La Stampa» un’intervista allo storico sulla guerra in corso.

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Ilan Pappé: «Israele non avrà mai pace né sicurezza se non metterà fine all’occupazione»


intervista di Francesca Paci


Su Tel Aviv piomba la risposta degli ayatollah e il Medioriente si blinda, l’orizzonte prima della pioggia. Il commento dello storico israeliano Ilan Pappé, critico irriducibile del sionismo a cui è dedicato anche il suo ultimo libro Brevissima storia del conflitto tra Israele e Palestina (Fazi), è lapidario: «Israele non avrà mai pace né sicurezza finché non metterà fine all’occupazione di milioni di palestinesi». Nessun cedimento alla memoria del 7 ottobre, all’alba del primo anniversario. Pappé scuote la testa canuta: «La pulizia etnica iniziata nel ’48 è la causa, la guerra la risposta». Chiusa lì, occhio per occhio.

L’invasione del Libano, i missili iraniani su Israele. Siamo già oltre il baratro?

«Alla fine l’Iran dovrà trattenersi, non può affrontare una guerra regionale. In Israele invece la leadership politica è convinta che il potere militare sia l’unica strada, non considera alcuna soluzione diplomatica e vede il controllo dell’intera Palestina storica come l’unica chance di pacificare un Paese spaccato tra religiosi e laici. Per questo, come in Libano, Israele insisterà con la forza: non so se schiaccerà la terza intifada iniziata il 7 ottobre, ma non rimuoverà il vero ostacolo alla pace che non è Hezbollah né l’Iran bensì l’occupazione di milioni di palestinesi».

Nel libro racconta una società lacerata tra lo Stato d’Israele, che difende il proprio essere democratico, e lo Stato di Giudea, in odor di teocrazia. L’abbiamo vista nelle proteste del 2023 contro Netanyahu che però sta recuperando. Che Paese è oggi Israele?

«Un anno dopo il 7 ottobre Israele è quel che era prima, un Paese fratto dove lo Stato di Giudea guadagna terreno. I più laici stanno facendo le valigie e quelli che restano si condannano al silenzio, perché rifiutano la teocrazia ma non hanno un piano per la Palestina. Israele è ormai guidato da una élite messianica che sogna di modellare il nuovo Medioriente con la complicità di un mondo sempre più a destra e in spregio delle Nazioni Unite».

C’è chi chiama terrorismo la risposta israeliana al pogrom del 7 ottobre. È così e crede sia plausibile paragonare Israele, Hamas e Hezbollah?

«Hamas ha indubbiamente compiuto un massacro di civili. Ritengo però che la risposta d’Israele sia stata del tutto sbagliata, non tanto all’inizio, a caldo, ma dopo, quando ha deciso di punire con Hamas l’intera popolazione di Gaza. Il 7 ottobre non è la causa di quella politica genocidiaria ma il pretesto, l’opportunità per il movimento dei coloni di fare pulizia etnica a Gaza e in Cisgiordania. La vita stessa degli ostaggi, per la prima volta nella storia dello Stato ebraico, è stata tutt’altro che una priorità».

Lei è un implacabile critico del sionismo. Neppure dopo il massacro dei kibbutz più pacifisti ha deposto le armi?

«Quei kibbutz definiti pacifisti sono stati costruiti sulle rovine dei villaggi palestinesi distrutti prima e dopo la nascita d’Israele mentre chi li ha attaccati appartiene alla terza generazione di profughi. Nel ’48 è stato il sionismo di sinistra a incoraggiare i coloni, cacciando le popolazioni indigene e creando a Gaza il mega campo profughi che dopo il ’67 sarebbe diventato una mega prigione. Non puoi vivere accanto a una prigione e pensare che là dentro ti amino perché li aiuti. Sto con tutte le vittime del 7 ottobre ma non con il loro progetto sionista che è stato e sarà sempre un problema perché è immorale e non funziona».

Da un lato c’è Israele ostaggio di coloni irriducibili, dall’altro una causa palestinese a cui l’islamismo ha scippato la matrice anticoloniale volgendola in religiosa. Di Israele ci ha detto, del fronte opposto?

«Il movimento anticolonialista palestinese non è diverso dagli altri: quando la sinistra ha ottenuto dei risultati è stata premiata dal consenso, quando lo ha mancato la gente ha cercato un’alternativa. Penso che gran parte dei palestinesi non voglia Hamas ma la liberazione e che veda il movimento islamico come l’unica forza in lotta per la liberazione. Se Oslo avesse funzionato i laici guiderebbero oggi i palestinesi, invece dal 1993 le cose sono andate sempre peggio e l’islam è rimasto l’estrema trincea della resistenza. Mi spaventa più l’involuzione israeliana delle oscillazioni ideologiche palestinesi perché storicamente, fuori dall’occidente, l’islam e la sinistra sono riusciti a lavorare nella stessa direzione».

In Iran, dove nel ’79 le sinistre affiancarono Khomeini salvo esserne poi annientate, avrebbero molto da ridire…

«È vero, in Iran non ha funzionato ma in Tunisia sì. Ogni Paese ha la sua storia e comunque l’islam politico iraniano deve essere riformato se vuole giocare un ruolo nella regione».

Non ha paura di evocare il genocidio dei palestinesi additando Israele. Ammetterà che gli altri non sono tutti angeli.

«Non idealizzo Hezbollah né Hamas. La violenza politica è evidente, la sua radice meno. In Libano prima della fase coloniale, esisteva un’identità collettiva in cui le religioni convivevano. Il settarismo è arrivato con le potenze straniere».

La strada di Hezbollah è lastricata dalle lapidi di Samir Kassir, May Chidiac, Gebran Tueni, intellettuali uccisi per le loro critiche. C’è un Ilan Pappé nel mondo islamico?

«Ne conosco molti. Ma nelle guerre di liberazione le critiche non sono benvolute, dubito che i partigiani italiani in lotta contro i nazifascisti ambissero al confronto democratico».

Ripete che c’è un prima del 7 ottobre. Può, nel dopo, un Iran ridimensionato riaprire gli Accordi di Abramo e il piano due popoli per due Stati?

«Quella di due popoli per due Stati è una strada morta. E non vedo speranza nella politica israeliana futura: continuerà a virare a destra. Inoltre, non sono i popoli ma i regimi a volere gli Accordi di Abramo. E se gli Stati arabi diventassero democratici sarebbero ancora più ostili a Israele perché la causa palestinese incarna un sogno che essendo ancora in potenza potrebbe correggere gli errori dei Paesi già decolonizzati. L’unica via d’uscita dalla violenza è un’iniziativa internazionale volta a far nascere uno Stato democratico dal fiume al mare».

Uno Stato binazionale?

«Uno Stato per gli ebrei e i palestinesi, rifugiati compresi».

E come dovrebbe chiamarsi?

«Il nome non conta, potrebbe chiamarsi Nuova Palestina».

Una provocazione. E Israele?

«Gli ebrei dovrebbero accettare di non essere più maggioranza nel nuovo Stato. L’alternativa è la guerra, seguita dalla scomparsa d’Israele. Non puoi pensare di vivere opprimendo un altro popolo in eterno».

La pace si fa con i nemici, insegna Oslo: Israele potrebbe stringere la mano a Hamas?

«Dividersi la terra è impossibile. Forse non lo era nel ’67 ma ora le colonie sono ovunque. Alla Palestina toccherebbe il 22%: non si parla di strette di mano ma di contenuti».

In Italia, a ridosso dell’anniversario del 7 ottobre, la senatrice Liliana Segre è stata accusata di sionismo. Riemerge l’antisemitismo in occidente?

«L’antisemitismo c’è sempre stato e non sparirà. Credo però che oggi il razzismo sia peggiore dell’antisemitismo e che il bersaglio siano i musulmani. Mi dispiace per Segre ma focalizzarsi su un singolo è sbagliato. Ci sono tre tipo di antisemitismo: quello classico di antica matrice cattolica, quello radicato in alcuni ambienti musulmani minoritari e quello derivante dalla confusione tra ebraismo e Stato d’Israele che il sionismo ha molto voluto e che serve a Israele ma danneggia gli ebrei. Il sionismo è da sempre il male per gli ebrei».

Hanno visto di peggio, direi. Sono stati sterminati ben prima della nascita d’Israele.

«L’idea di Herzl che per battere il nazionalismo nazista servisse un nazionalismo sionista è folle. Non a caso il sionismo nasce in Europa: non sarebbe mai venuto in mente agli ebrei del mondo arabo perché lì la convivenza era nei fatti. L’antisemitismo dilaga dalla sovrapposizione tra identità ebraica e Israele. L’unica luce oggi arriva dai giovani ebrei che, specie in America, iniziano a rifiutare quell’equivalenza».



Intervista a cura di Francesca Paci



(Tratto da: Francesca Paci, Intervista a Ilan Pappé: «Israele non avrà mai pace né sicurezza se non metterà fine all’occupazione», in «La Stampa», 2 ottobre 2024).




Dal sito «DOPPIOZERO»

Enzo Traverso

Gaza davanti alla storia

(Roma-Bari, Editori Laterza, 2024)

recensione di Marco Revelli

«La distruzione di Gaza è una conseguenza dell’attacco del 7 ottobre o l’epilogo di un lungo processo di oppressione e sradicamento? I palestinesi hanno il diritto a resistere all’occupazione? Parlare di genocidio è antisemitismo? Enzo Traverso, uno dei più autorevoli storici del nostro tempo, va alla radice del conflitto israelo-palestinese chiamando in causa la storia e offre una interpretazione critica che rovescia la prospettiva unilaterale dalla quale ci siamo abituati a osservare ciò che sta accadendo a Gaza» (dalla quarta di copertina).

Presentiamo una recensione che del libro di Traverso fa Marco Revelli, un politologo più che mai impegnato nell’analizzare i guasti della nostra civiltà contemporanea.

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Enzo Traverso

Gaza davanti alla storia

(Roma-Bari, Editori Laterza, 2024)

recensione di Marco Revelli


Enzo Traverso è uno storico e intellettuale tra i più autorevoli, con un profilo internazionale di alto rilievo. Ha insegnato in Francia, dove si è trasferito dal 1985, a Paris VIII, all’École des hautes études en Sciences sociales, come full professor all’Université de Picardie e infine negli Stati Uniti, alla prestigiosa Cornell University. Nella sua ampia bibliografia (una quindicina di testi, in gran parte pubblicati in francese e in inglese, oltre che in italiano) figurano i grandi temi della violenza nel XX secolo (in particolare il fondamentale testo su La violenza nazista. Una genealogia, del 2002); della cultura ebraica nella diaspora e del suo ruolo nell’autocoscienza della modernità; del senso e del significato di Auschwitz e della Shoah nella vicenda intellettuale postbellica. È uno dei quattro curatori, insieme a Marina Cattaruzza, Marcello Flores e Simon Levis Sullam, della monumentale Storia della Shoah pubblicata dalla UTET nel 2019. Ha dunque le carte perfettamente in regola per affrontare l’impervio tema cui è dedicato questo suo ultimo lacerante testo.

Gaza davanti alla storia non è un libro di storia, per il banale fatto che – l’autore lo dichiara fin dall’incipit – si occupa di un’attualità tuttora in corso. È piuttosto un libro sul presente visto alla luce della storia. Un’operazione in esplicita controtendenza, e quindi in sé coraggiosa, in tempi in cui il vezzo prevalente, e non privo di malizia, è la de-storicizzazione sistematica di ciò che accade, con una visione puntiforme degli eventi – siano essi il 24 febbraio per l’Ucraina, il 7 ottobre per Israele, o prima ancora l’11 settembre per gli Stati Uniti –, quasi che l’orrore scaturisca dall’istante, da una qualche “perversione morale”, senza nulla alle radici, né sul piano evenemenziale né su quello culturale. E come se i dispositivi argomentativi a vantaggio dei “nostri” e viceversa a condanna degli “altri” fossero innocenti nel loro carattere inedito e non invece riproposizioni di consolidati e già condannati stereotipi valoriali. Qui invece, al contrario, ogni fatto – e si tratta soprattutto di fatti violenti, della violenza estrema con cui la guerra identitaria contemporanea si esprime –, e soprattutto ogni “discorso”, è visto sullo sfondo di ciò che si è compiuto e pensato “prima”, nel processo temporale lungo il quale i protagonisti in conflitto si sono formati e hanno elaborato (e insieme trasfigurato e/o snaturato) le proprie rispettive identità e pratiche. 

Grazie a questo approccio – come ha scritto Iain Chambers in una densa recensione sul Manifesto – Enzo Traverso “ha il coraggio di fare delle connessioni che in questi giorni e settimane sono invariabilmente bloccate, rifiutate e censurate per difendere l’indifendibile”. Come ad esempio “l’intreccio tra la modernità occidentale e la Shoah” nel cuore di tenebra del secolo scorso, da una parte, e “l’attuale spostamento della responsabilità europea per la Shoah sul mondo arabo, attraverso il sostegno incondizionato allo stato di Israele e l’imposizione ai palestinesi del peso di portare la colpa occidentale” dall’altra (si pensi all’atteggiamento della Germania). Un ordine del discorso, questo, che mostra quanto il punto di vista di Traverso – come dichiara lui stesso nell’Introduzione – si situi “fuori dal coro”, nel senso che “non coincide con gli assiomi di quella piccola parte del mondo che chiamiamo Occidente, la quale pretende di detenere il monopolio, oltre che del potere, della morale”. Non coincide con l’assioma che vede i palestinesi nella parte dei carnefici e gli israeliani in quella delle vittime; che esclude la qualifica di genocidio nell’operato di Tsahal nella Striscia; che definisce Israele come uno Stato limpidamente democratico e Hamas come un’entità esclusivamente terroristica; che identifica antisionismo e antisemitismo; che condanna come inequivocabilmente stragista lo slogan From the river to the Sea… Come si vede ce n’è abbastanza per condannare al rogo, per eresia, l’intero pamphlet, nel clima uniformato del nostro sistema mediatico, se non fosse che ognuna di queste affermazioni – su cui ovviamente si può dissentire – non è proposta apoditticamente, ma fondata, sia pur sinteticamente, su elaborazioni e riflessioni scientificamente accreditate, e filiere di studi ben radicate.

Prendiamo, ad esempio, la prima delle connessioni di cui parla Chambers, ovvero l’assonanza, stabilita da Traverso nel primo capitolo, tra i tentativi di rovesciare oggi il rapporto di colpa per la carneficina in corso nella Striscia a favore di un’Israele legittimata dal diritto-dovere all’autodifesa, e le retoriche che nel secondo dopoguerra nella Germania vinta tentarono di ribaltare la Schuldfrage – la questione della colpa – presentando l’operato tedesco come reazione (comprensibile) a una sofferenza e a una sfida prevalente. Una sorta di vittimizzazione del carnefice. Lo so che il paragone farà trasalire d’indignazione più di un lettore. Come assimilare i fautori postumi dell’assoluzione del nazismo ai sostenitori della legittima difesa da parte degli eredi delle vittime di allora di fronte a una nuova mortale minaccia? Traverso qui si riferisce al tentativo fatto da Heidegger nel 1948 di utilizzare le enormi sofferenze subite dalla popolazione tedesca durante e dopo la guerra mondiale per presentare la Germania come vittima. Operazione che Herbert Marcuse stigmatizzò duramente scrivendo al collega filosofo che così si poneva “fuori dal Logos”. E che fallì nella stessa Germania perché “i tedeschi sapevano che, quando il fuoco divorava le loro città e nuvole di fumo si alzavano in cielo dalle macerie, la Wehrmacht, la polizia e le SS stavano commettendo crimini ben più gravi di quelli che loro stessi avevano subito”. Ma che tuttavia sarebbe stata riproposta, in forma meno brutale, una trentina di anni più tardi, da un grande storico tedesco, Ernst Nolte, all’ origine dell’Historikerstreit – il grande dibattito sul passato hitleriano –, in cui i crimini nazisti erano descritti come “reattivi”, “biasimevoli certo, ma nati nella lotta contro una minaccia molto reale incarnata dal bolscevismo, il ‘prius logico e fattuale’ dei totalitarismi del XX secolo e della guerra sul fronte orientale”. 

Ora, si chiede l’autore, non è forse Hamas, l’autore del massacro del 7 ottobre, il prius logico di tutto ciò che è seguito, sui corpi dei palestinesi di Gaza? Non è il richiamo alla sua “presenza”, il fattore utilizzato retoricamente dai difensori dell’operato di Israele nella Striscia per invocarne l’assoluzione? E presentare appunto quella carneficina che dura ormai da otto mesi come la difesa legittima di un aggredito contro l’aggressore? Tanto più che gli ambienti conservatori tedeschi che negli anni ’80 fecero proprie le posizioni di Nolte sono gli stessi che oggi mandano assolto Netanyhau e il suo governo stragista con argomentazioni sostanzialmente simili. Certo, per quelli come me, e in buona misura tutta la mia generazione, che ha posto i fondamenti della propria morale storica e politica sull’orrore assoluto di quella persecuzione, un simile accostamento appare come un pensiero quasi impensabile. Presuppone il superamento di una linea rossa che si credeva invalicabile. E tuttavia il carattere tragico del tempo che viviamo sta nel fatto che quella linea, inviolabile nel pensiero, viene quotidianamente offuscata nei fatti. E ben vengano scritti come questo, che ci impongono di confrontarsi con ciò.

Analogo ragionamento può essere fatto a proposito dell’“Orientalismo”, che costituisce il tema del secondo capitolo. L’Orientalismo, come l’ha definito Edward Said in un noto saggio del 1978, è il modo in cui l’Occidente ha rappresentato se stesso come superiore moralmente rispetto a un Oriente relegato nella dimensione dell’arretratezza e della barbarie. Esso ha costituito la base antropologico-culturale in forza della quale sono state giustificate in termini di civiltà le violenze e i massacri con cui si sono costituiti i rapporti di dominio coloniale, e si sono definite le gerarchie razziali, incarnando l’incapacità dell’Occidente “di definire sé stesso se non in opposizione all’alterità radicale di un’umanità coloniale, non bianca e gerarchicamente inferiore”. Ora, il luogo comune che “descrive Israele come un’isola democratica in mezzo all’oceano oscurantista del mondo arabo e Hamas come un esercito di belve assetate di sangue”, suggerisce Traverso, ne è una inquietante riproposizione. Tanto più inquietante in quanto proviene da quella stessa cultura ebraica che, un secolo fa, ne era stata ferocemente colpita. 

Si tratta di una materia che lui ben conosce, questa della discriminazione degli ebrei nell’Europa dei nascenti colonialismi e nazionalismi, per averla studiata nei suoi testi su Gli ebrei e la Germania o sul cosmopolitismo ebraico, quando la “linea del colore”, quella che all’interno dell’Orientalismo dominante segnava il confine tra uomini e no in base alla pelle bianca, ne poneva gli ebrei al di fuori, tra gli Untermenschen, i sotto-uomini. E faceva, per contrappunto, della loro intellighentzjia un fattore di progresso straordinario (“Esclusi dal potere, gli ebrei incarnavano la coscienza critica dell’Europa. Il loro pensiero, faceva da ‘contrappunto’ al discorso dominante”). “Ospiti indesiderati” dell’Occidente, ne costituivano la risorsa culturale più dinamica. Oggi che invece sono passati dalla parte giusta della “linea del colore”, e sono diventati del tutto “bianchi”, perfettamente a loro agio nella grande famiglia dell’eccellenza occidentale grazie alla potenza del proprio Stato e alla fedeltà alle alleanze giuste, le loro dirigenze politiche (uomini, non dimentichiamolo, come Itamar Ben Gvir, Bezalel Smotrich, Israel Katz…) possono replicare nei confronti dei loro più immediati vicini arabi le stesse argomentazioni che un secolo fa li avevano condannati e segregati, senza tracce di disagio. E può apparire come evoluzione naturale anziché come sconvolgente paradosso, “la singolare alleanza tra i suprematisti ebrei di Israele e i suprematisti bianchi degli Stati Uniti, che sono tra i più entusiasti difensori delle colonie in Cisgiordania, così come l’abbraccio tra i falchi della destra filoisraeliana e i leader del Rassemblement National di Marine Le Pen nel parlamento francese”. In fondo – ci ricorda Traverso – gli Übermenschen di Tsahal manovrano con perizia da razza superiore i sofisticati strumenti dell’Intelligenza artificiale per pianificare la distruzione sistematica di Gaza, strade, ospedali, case, chiese, biblioteche, università, musei, cimiteri…, per non parlare della caccia mirata agli abitanti, braccati da un capo all’altro della striscia. Operano “scientificamente”, la barbarie appartiene agli altri. Perché mai non dovrebbero essere considerati degni di entrare nella schiera eletta dei dominatori dai suprematisti di ultima generazione di tutto il mondo? 

Si può definire tutto ciò “genocidio”? Una parola, inutile ripeterselo, di per sé mortale, perché se accettata per definire ciò che Israele fa nella Striscia, potrebbe prestarsi alla blasfema assimilazione dell’operato delle vittime di ieri a quello dei loro carnefici. Minaccerebbe la caduta della qualifica di vittime per antonomasia degli ebrei, consumata per loro stessa mano. Traverso conosce bene il problema. È stato sua materia di studio quando ha lavorato sul tema caldo Comparare la Shoah e sulle “Questioni etiche, storiografiche, educative della deportazione e dello sterminio” per Insegnare Auschwitz. Qui, citando lo storico Omer Bartow, ci avverte che la Convenzione delle Nazioni Unite “ha posto l’asticella molto in alto” nella definizione del concetto, suscitando così la propensione a “identificare il genocidio come un evento di portata, chiarezza ideologica ed efficienza burocratica analoghe” allo sterminio degli ebrei, creando una sorta di “divario” tra l’immaginario popolare che ne presuppone l’identificazione totale con la Shoah e il significato legale del termine che in realtà è a maglie assai più ampie. Si giustifica così il monito della Corte internazionale di Giustizia sul rischio che sia in corso un genocidio nella striscia di Gaza, e si spiega anche perché alcuni studiosi d’indubbia autorità in materia, come il professore di Genocide and Holocaust Studies Raz Segal (confortato dal parere di Dirk Moses, entrambi non certo sospettabili di sentimenti “antisemiti”), abbia potuto dichiarare che Gaza costituisce un “textbook case of genocide” (“un caso da manuale di genocidio”). Se infatti, come recita la norma, si deve affermare che il genocidio si configura quando vengono commessi atti “con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale (atti quali “l’uccisione di membri del gruppo; lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo”), è difficile negare che l’uccisione indiscriminata di decine di migliaia di civili, tra cui in prevalenza donne e bambini, la distruzione di ospedali, fonti idriche ed energetiche, infrastrutture essenziali come fognature e depuratori, non ultimo l’impedimento manu militari all’afflusso di alimenti, medicine, generi di assoluta necessità, si avvicinino molto alla fattispecie in questione. Molti di noi, io tra questi, si sono finora avvicinati all’uso di questo termine con molta reticenza, in qualche modo con pudore, più che altro per la consapevolezza di quanto dolore possa procurare nelle vittime della deportazione o nei loro famigliari se riferito allo “Stato degli ebrei”, quasi uno svalutare l’assolutezza della loro sofferenza. Ma resta il fatto che non c’è parola che possa resistere a lungo al peso dei fatti che essa “nomina”. Non c’è significante che possa sottrarsi a lungo alle pretese del proprio significato. E il testo di Traverso ci richiama a questa impietosa realtà.

Gaza davanti alla storia affronta poi un gran numero di altri temi, ognuno dei quali meriterebbe uno spazio incompatibile con quello di una semplice recensione: la questione delle fake news per esempio, costruite e diffuse per rendere ancor più atroce la già orrenda realtà del 7 ottobre; la trasformazione antropologica dei soldati israeliani, nati e cresciuti nella logica di guerra contro un nemico assoluto; la vexata quaestio delle memorie incrociate, ovvero dell’uso virtuoso o vizioso della memoria già affrontato da Primo Levi quando mise in guardia contro il rischio di credere che la Shoah procuri a Israele “uno status di innocenza ontologica”, ecc. Ci sarà il modo e l’opportunità di ritornarvi se, come è auspicabile, il dibattito (anziché l’anatema) su questo libro sarà scelto come occasione per una riflessione per quanto possibile serena sul nostro stato di civiltà. Qui però vorrei ancora soffermarmi, sia pur brevemente, su un aspetto del libro che mi ha ispirato un sostanziale dubbio e una nota di dissenso. Ed è la parte in cui si affronta il tema della violenza. Della violenza degli oppressi, per dirla con Sartre. Diciamolo pure senza fronzoli: dei metodi di lotta di Hamas come espressione della resistenza palestinese.

Intendiamoci. Traverso non è affatto indulgente nei confronti del 7 ottobre. Non ne nega né attenua l’orrore e la necessaria condanna. Esso – scrive – “è un crimine che nulla può giustificare e che deve essere condannato”. E poco prima aveva precisato: “L’attacco del 7 ottobre fu atroce. Pianificato con cura, fu ben più letale del massacro di Der Yassin o di altri simili commessi dall’Irgun nel 1948. Il suo scopo era quello di diffondere il terrore e non è giustificabile”. Ma – aggiunge – “deve essere analizzato e non solo condannato”. E costruisce questa analisi a partire dalla constatazione che “questi mezzi incongrui e riprovevoli sono stati utilizzati in una lotta legittima contro un’occupazione illegale, disumana e inaccettabile”. Sforzandosi di guardare gli eventi per una volta non con gli occhi di noi occidentali, americani o europei che siamo, ma con quelli dei palestinesi. E utilizzando l’ampio strumentario argomentativo della letteratura simpatetica con le lotte di liberazione anticoloniali (“L’uomo colonizzato si libera nella e attraverso la violenza” – Franz Fanon). In quest’ottica inscrive l’azione di Hamas nella categoria e nel più ampio repertorio delle azioni di un classico “movimento di liberazione nazionale”, in quanto espressione, anche se non unica, della Resistenza palestinese. Ne definisce la pratica terroristica (non certo negata) come “risvolto dialettico del terrorismo dello stato israeliano” la cui legittimazione non è equiparabile: “Il crimine del primo sta nell’uso di mezzi illeciti; quello del secondo sta nel suo stesso scopo, da cui deriva”. Ed è qui che, per quanto mi riguarda, sorge un’obiezione.

Non credo che il 7 di ottobre possa essere assimilato ai tanti precedenti atti, anch’essi indubbiamente terroristici, compiuti dai tradizionali movimenti di liberazione nazionale. Gli attentati nei bar di Algeri da parte del FLN, quelli nei bordelli di Saigon per opera dei Vietcong, le stesse azioni dei nostri Gap nelle città occupate… Qui c’è qualcosa di più terribile, non solo nelle modalità del massacro, ma nei suoi obiettivi. Credo infatti che nei piani di chi ha programmato per mesi e mesi, e organizzato quella vera e propria “azione di guerra” non ci fosse solo l’obiettivo di terrorizzare il nemico, di colpirlo oltre che nella sua componente militare pure tra i civili, ma che fosse anche messa in conto, e consapevolmente ricercata, la rappresaglia indiscriminata di Israele contro la stessa gente di Gaza. Che i capi di Hamas cercassero quel martirio di massa, come strumento di propaganda e di proselitismo. Obiettivo pienamente raggiunto data l’ottusità criminale con cui il governo di Netanyhau si è gettato nella trappola e ha firmato la propria condanna globale. Questo colloca tuttavia Hamas in un comparto diverso dai tradizionali movimenti di resistenza. La sua vocazione martiriologica, questa ricerca accanita del sacrificio della propria stessa popolazione per il trionfo della causa, rinvia a radici altre, più torbide, affondate nella sfera inquinata di una sacralità perversa, che rende difficile l’applicazione dei tradizionali cliché.

Detto questo, appare invece molto convincente la denuncia che Traverso fa delle conseguenze regressive di tutto quanto accade, e soprattutto del dispositivo narrativo e argomentativo messo in campo dal sistema mediatico e politico occidentale per neutralizzare o quantomeno contenere l’ondata di indignazione nell’opinione pubblica. In particolare della dissennata equiparazione tra antisionismo e antisemitismo, e più in generale della ricodificazione di ogni critica all’operato del governo di Israele come forma più o meno velata di antisemitismo. È in forza di questa operazione che siamo costretti quotidianamente a essere spettatori dell’apparente aberrazione per cui gli antisemiti di ieri si attribuiscono oggi il ruolo di giudici addetti ad assegnare l’infamante qualifica di antisemitismo a chi da sempre si era battuto contro il loro razzismo. Spettacolo particolarmente sconvolgente qui da noi, dove i post-fascisti di Meloni – gli “eredi delle leggi razziali del 1938 oggi al governo”, quelli che celebrano come padre fondatore quel Giorgio Almirante che come capo-redattore di «La difesa della razza» predicava il “razzismo del sangue” –, dispensando patenti di antisemitismo a chi si azzarda a criticare Israele “possono affermare la loro appartenenza al campo occidentale, stigmatizzare la sinistra e condurre politiche xenofobe contro i migranti”. 

Come dar torto a Traverso quando constata che “combattere l’antisemitismo diventerà sempre più difficile dopo averne sfigurato e distorto la natura così sfacciatamente.” Se “in nome della lotta all’antisemitismo è possibile condurre una guerra genocida, molte persone oneste inizieranno a pensare che sarebbe meglio abbandonare una causa così dubbia. Nessuno potrà evocare l’Olocausto senza suscitare sospetti e incredulità; molti arriveranno a credere che si tratti di un mito inventato per difendere gli interessi di Israele e dei suoi alleati”. E sarebbe una perdita secca per tutti noi, che nel lunghissimo dopoguerra seguito al ’45 abbiamo coltivato la memoria della Shoah come “religione civile”. “La sacralizzazione rituale dei diritti umani attraverso il ricordo delle vittime”, come scrive Traverso, perderebbe “tutte le sue virtù pedagogiche. I nostri orientamenti morali, epistemologici e politici sarebbero irrimediabilmente annebbiati”.

Ci aiutano, e contribuiscono a salvare la grandezza della cultura ebraica nel mondo, i tanti ebrei che, minoranza in Israele ma presenti e attivi nel contesto internazionale, a cominciare dagli Stati Uniti, manifestano apertamente il proprio dissenso per l’operato del governo israeliano, unendo al cordoglio per il massacro del 7 ottobre la deprecazione per la carneficina di questi mesi nella Striscia. Sono gli eredi di quella straordinaria cultura diasporica – cosmopolitica, umanistica, illuministicamente razionalista – che tanto ha contribuito a dare all’Occidente un’autocoscienza critica e un’anima progressista (e a cui Traverso ha dedicato molti suoi studi: si pensi al suo Cosmopoli. Figure dell’esilio ebraico-tedesco). Sono un antidoto importante contro l’ondata di antisemitismo che prendendo origine dalle residue radici della destra radicale globale, e virulentizzandole con le sostanze tossiche della guerra, rischia di contaminare con gli spettri del passato il nostro già precario presente.


1 Luglio 2024


Marco Revelli


(Tratto da: Marco Revelli, Traverso, Gaza davanti alla storia, sul sito: https://www.doppiozero.com/traverso-gaza-davanti-alla-storia).

Dal sito di «la Nef»

Emmanuel Todd

La sconfitta dell’Occidente

(Roma, Fazi Editore, 2024)

recensione di Christophe Geffroy

«La sconfitta dell’Occidente, a cui fa riferimento il titolo di questo saggio dello storico e sociologo francese Emmanuel Todd – bestseller in Francia con oltre ottantamila copie vendute –, è duplice. Si tratta infatti di una sconfitta esterna, la guerra in Ucraina, ma soprattutto di una sconfitta interna: il declino demografico, morale ed economico delle società occidentali. Todd chiama in causa le classi dirigenti dell’Occidente, in primis quella degli Stati Uniti, con il conflitto russo-ucraino a fare da lente di ingrandimento e a contrapporre, secondo l’autore, una Russia stabilizzata, di nuovo grande potenza, a un Occidente in preda al nichilismo e in crisi irreversibile di egemonia. Utilizzando le risorse della sociologia, dell’antropologia e dell’economia, Todd pone a confronto le “oligarchie liberali occidentali” con la “democrazia autoritaria russa” per spiegare le ragioni profonde dei cambiamenti geopolitici in atto» (dalla quarta di copertina).

Presentiamo un’analisi del controverso testo di Todd, appena uscito anche in Italia per Fazi Editore, comparsa sulla rivista cristiana francese «la Nef».

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Emmanuel Todd

La sconfitta dell’Occidente

(Roma, Fazi Editore, 2024)

recensione di Christophe Geffroy


Il libro di Emmanuel Todd La sconfitta dell’Occidente ha suscitato un diffuso rifiuto da parte del mondo dei media, un rifiuto che mette in dubbio la nostra capacità di discutere argomenti che sono aperti per natura.


Un libro di Emmanuel Todd è sempre un evento editoriale, poiché egli ha occupato un posto molto specifico nel panorama intellettuale francese. Proveniente dalla sinistra liberale – si dichiara “conservatore di sinistra” –, si presenta come uno spirito libero che non disdegna di interpretare Cassandra. Un tempo coccolato dagli intellettuali, li ha progressivamente alienati difendendo, in economia e sull’Europa, posizioni considerate troppo “sovraniste”, un crimine difficile da perdonare in questi ambienti. Con il suo nuovo lavoro, La sconfitta dell’Occidente, è riuscito a riunire l’unanimità dei benpensanti contro di lui. È impressionante notare un simile rifiuto da parte della “grande” stampa che critica Todd per la sua “putinofilia” («Libération»), per essere “in linea con la propaganda russa” («Le Monde»), o addirittura per aver ripetuto “senza sfumature le argomentazioni del Cremlino per giustificare l’invasione dell’Ucraina” («La Croix»). Rifiuto massiccio e ancora poche analisi critiche veramente approfondite.

La questione della guerra in Ucraina è diventata un caso da manuale dell’impressionante peso dell’unilateralità e dell’incapacità di gran parte del mondo politico e mediatico di discutere temi contingenti e prudenziali, che dovrebbero quindi, per definizione, essere aperti a dibattiti contraddittori. Tuttavia, influenzata dal messianismo americano, la politica, soprattutto in termini di relazioni internazionali, tende sempre più a ridursi a una lotta manichea tra il campo del bene e quello del male, cancellando tutte le sfumature e le sottigliezze che permettono di comprendere la complessità delle situazioni. Il nemico viene demonizzato (Milošević e Saddam Hussein ieri, Putin oggi) per giustificare questa lotta contro il male che non può lasciare altro risultato che lo schiacciamento della bestia infame, insomma una vittoria totale senza negoziazione possibile. Questo restringimento di pensiero ci porta a non percepire più la diversità del mondo, e a credere di essere noi stessi al centro di esso o almeno a credere che noi rappresentiamo “la comunità internazionale” e che tutto il mondo la pensa come noi secondo gli stessi valori – i nostri ovviamente – che tutti ci invidierebbero. Tuttavia, questa guerra ha rivelato quanto fosse isolato l’Occidente, con la maggior parte dei paesi del pianeta che non condannavano l’attacco russo, e alcuni addirittura lo sostenevano. Naturalmente non è il numero a dimostrare la correttezza di una posizione, ma dovremmo comunque cercare di capire una situazione del genere.

Possiamo parlare di ricerca della pace (come fa Papa Francesco), pace che presuppone necessariamente il compromesso e non solo la vittoria ad ogni costo (le migliaia di morti nel conflitto ci sembrano lontanissime), senza essere subito accusati di essere un “munichois1 o un “putiniano”?


Una Russia “stabilizzata”?

Esaminiamo concretamente cosa c’è di così scioccante nell’opera di Emmanuel Todd.

Quest’ultimo non giustifica la guerra intrapresa dai russi contro l’Ucraina, cerca di capirla e di analizzare la situazione di Russia, Stati Uniti ed Europa per delinearne il possibile esito. Per capirlo, Todd non innova e usa i soliti argomenti: l’espansione della NATO verso il confine russo, l’ingerenza straniera in Ucraina durante la “Rivoluzione arancione” (2004-2005) e quella di Maidan (2014), che spodesta un presidente filo-russo democraticamente eletto, il fatto che Donbass e Crimea sono storicamente regioni russe popolate da russi, la persecuzione della lingua e della cultura russa da parte dei governi ucraini dal 2014, ecc. Todd menziona anche i “neonazisti ucraini”, evidenziati nei discorsi di Putin per giustificare la sua aggressione. Questi certamente esistono, ma Todd ne limita fortemente la portata, anche se mette in dubbio il silenzio dell’Occidente di fronte, ad esempio, al fatto che Stepan Bandera, che combatté al fianco dei nazisti durante la guerra, è un eroe nazionale dal quale prende il nome uno dei principali viali di Kiev. Putin aveva avvertito che considerava questi elementi una minaccia esistenziale contro la Russia e che avrebbe reagito anche con la guerra. E lo ha fatto. Questo non dovrebbe sorprenderci.

Dove Todd innova è nella descrizione della “stabilità russa” e dell’instabilità occidentale che la porta al “nichilismo”, per questo parla di “sconfitta dell’Occidente” e quindi di vittoria russa, secondo lui inevitabile. Spiega questa “stabilità russa” con un’economia restaurata da Putin che nel 1999 ha recuperato un paese dall’orlo del caos: oggi in Russia si vive meglio rispetto a vent’anni fa. Sin dalle prime sanzioni economiche del 2014, la Russia si è adattata a non dipendere troppo dall’Occidente, tanto che le nuove sanzioni decretate dall’Unione Europea dopo l’invasione del 22 febbraio 2022 hanno avuto poco effetto sulla Russia, essendo stata la principale vittima… la stessa Europa, fortemente dipendente dal petrolio e dal gas russi.

Ma, per sostenere le proprie affermazioni, Todd si basa soprattutto sui numeri: il sostanziale calo, in Russia, dei tassi di morte per alcolismo, suicidio e omicidio, così come quello della mortalità infantile, cifre ormai inferiori a quelle degli Stati Uniti. Per il nostro autore, queste cifre riflettono “uno stato di pace sociale, la riscoperta da parte dei russi […] che un’esistenza stabile era possibile” (p. 39). Todd vede la prova della sua analisi anche nel fatto che la Russia, il cui PIL è circa il 3% di quello dell’Occidente, riesce a produrre più armi dei suoi avversari della coalizione. Lo collega anche al fatto che la Russia, in proporzione alla sua popolazione, produce molti più ingegneri degli Stati Uniti o della Francia (23,4% degli studenti, contro il 7,2% degli Stati Uniti), dove i giovani sono attratti da campi redditizi come il diritto, scuole di finanza o di business.

La Russia, in questa tabella, ha tuttavia un punto debole fondamentale: la sua bassa fecondità, che condivide con tutto l’Occidente (1,5 figli per donna). Questo punto è essenziale e ci permette di capire perché la Russia, contrariamente a quanto ci viene detto, sta conducendo una guerra a bassa intensità in Ucraina. Sebbene Putin sia stato sicuramente sorpreso dalla resistenza ucraina, ha comunque impegnato solo 120.000 uomini nel suo attacco all’Ucraina, perché cerca di salvare i suoi soldati per una lunga guerra. Todd giudica quindi assurda l’ipotesi di una volontà russa di invadere parte del Nord Europa, perché non dispone di abbastanza risorse umane.

In breve, Todd non vede Putin come l’erede di Stalin, lo vede come una continuazione della storia russa a capo di una “democrazia autoritaria”, con tutto ciò che questo implica in quanto alle restrizioni alle libertà – lo vediamo chiaramente da come tratta i suoi avversari –, rompendo però con il comunismo in quanto difende l’economia di mercato e la libertà di movimento, pur mantenendo uno Stato centrale onnipotente.


Un Occidente in crisi?

Dall’altro lato, Emmanuel Todd dipinge un Occidente in crisi, le nostre democrazie liberali diventate “oligarchie liberali”: oligarchie, perché la disconnessione tra élite e popolo, quest’ultimo non sentendosi più rappresentato, è diventata un luogo comune, e gli studi di David Goodhart, Christophe Guilluy e Jérôme Fourquet lo dimostrano sufficientemente; liberale, perché la tutela delle minoranze è diventata l’ossessione dell’Occidente.

Questo quadro è ulteriormente offuscato da quello che Todd chiama “stato zero” della religione che ha colpito l’Occidente a partire dagli anni 2010. Egli distingue infatti tre fasi della religione: “attiva”, quando la pratica è forte; “zombie”, quando la pratica è residua, ma esistono ancora i tre riti di passaggio (battesimo, matrimonio e morte) che presuppongono ancora una cultura religiosa; e la “fase zero” in cui non rimane più nulla, con la cremazione che diventa la maggioranza e il matrimonio tra persone dello stesso sesso che diventa legge.


Il crollo della religione

Questo crollo della religione, e del protestantesimo in particolare che era stato per Todd "la matrice del decollo dell’Occidente" (per l’importanza data all’istruzione), ha portato a un circolo vizioso che ha colpito soprattutto gli Stati Uniti: allora quella era la religione che promuoveva l’istruzione, il suo sviluppo fino al livello universitario, “ristratifica la popolazione, spegne l’etica egualitaria che l’alfabetizzazione di massa aveva diffuso e, oltre a ciò, ogni senso di appartenenza a una comunità. L’unità religiosa e ideologica è frantumata. Inizia allora un processo di atomizzazione sociale” (p. 258). Todd vede l’emergere del “nichilismo” nei termini di questa evoluzione, la cui forma più completa è la negazione della realtà che si manifesta particolarmente nel peso della lobby LGBT e nella rivoluzione “trans” (che un uomo può diventare un donna e viceversa). Adornandosi di “valori tradizionali” contro questa “decadenza occidentale”, la Russia sta sviluppando un influente soft power con il resto del mondo.

Siamo lungi dall’essere esaustivi. Questa breve panoramica, tuttavia, mostra un’analisi che è ovviamente criticabile, ma che non merita il disprezzo mostrato dai nostri media. Noteremo in particolare l’importanza che Todd attribuisce alla famiglia e alla sua struttura (su questo non abbiamo potuto concentrarci), nonché alla religione. Sono due punti essenziali che dovrebbero rassicurarci, noi cristiani, che difendiamo la centralità della famiglia e che pensiamo che le nostre società stanno perdendo la loro anima scristianizzandosi. Ciò che ci differenzia da Todd è che egli non prevede in alcun modo una possibile ripresa del cristianesimo in Occidente: certi numeri gli danno certamente ragione, ma egli ignora le motivazioni di una gioventù cristiana affamata di assoluto che tuttavia esiste in paesi come la Francia e gli Stati Uniti.

Christophe Geffroy

(Traduzione di Leandro Casini)


(Tratto da: Christophe Geffroy, La défaite de l’Occident, analyse du livre d’E. Todd.

Emmanuel Todd, La défaite de l’Occident, Gallimard, 2024, 384 pages, 23 €.

© LA NEF n° 368 Avril 2024, mis en ligne le 29 avril 2024; reperibile al link: https://lanef.net/2024/04/29/la-defaite-de-loccident-analyse-du-livre-de-todd/).


Note

1 Munichois = sostenitore del Patto di Monaco del 1938 tra Germania, Italia, Inghilterra e Francia, parola con cui in francese si indica una persona troppo arrendevole di fronte a una dimostrazione di forza.


Inserito il 19/09/2024.

Dal sito di «Carmilla»

Florence Macleod Harper

Addio Russia!
Una testimone della rivoluzione del 1917

(Firenze, Lorenzo de’ Medici Press, 2024)

recensione di Giorgio Bona

«Florence fu una delle prime corrispondenti di guerra e una delle poche giornaliste occidentali a lasciare un resoconto immediato delle prime fasi della Rivoluzione.

Arrivò a San Pietroburgo attraverso la Siberia su un treno lungo e sporco, dividendo il suo tempo nella città della Rivoluzione tra gli ospedali del personale in prima linea. Fu testimone degli eventi che andavano da febbraio a luglio del 1917.

Nei suoi reportage da giovanissima inviata c’è tutto l’ardore dell’età dentro un evento di così grande portata, visto con entusiasmo e anche con una ferma e curiosa capacità analitica che appare entro una scrittura sempre fresca e ironica, capace di raccontare la realtà e mostrare ai suoi lettori la verità con un’appassionata partecipazione. Una testimonianza viva, una descrizione dal vero minuziosa, che non lascia indietro nulla di quello che accadde in quei lunghi mesi: cortei, scioperi, scontri a fuoco, carestie e tragedie al fronte».

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Florence Macleod Harper

Addio Russia!
Una testimone della rivoluzione del 1917

(Firenze, Lorenzo de’ Medici Press, 2024)

recensione di Giorgio Bona

Florence Macleod Harper (1886-1946) era una giornalista canadese appena ventisettenne al momento del suo viaggio in Russia, inviata speciale dal quotidiano statunitense «Frank Leslie’s Illustrated Newspaper» (più tardi «Leslie’s Weekly», di proprietà dell’incisore, illustratore ed editore Frank Leslie), con l’incarico di coprire la Prima guerra mondiale sul fronte orientale.

Florence fu una delle prime corrispondenti di guerra e una delle poche giornaliste occidentali a lasciare un resoconto immediato delle prime fasi della Rivoluzione.

Arrivò a San Pietroburgo attraverso la Siberia su un treno lungo e sporco, dividendo il suo tempo nella città della Rivoluzione tra gli ospedali del personale in prima linea. Fu testimone degli eventi che andavano da febbraio a luglio del 1917.

Nei suoi reportage da giovanissima inviata c’è tutto l’ardore dell’età dentro un evento di così grande portata, visto con entusiasmo e anche con una ferma e curiosa capacità analitica che appare entro una scrittura sempre fresca e ironica, capace di raccontare la realtà e mostrare ai suoi lettori la verità con un’appassionata partecipazione. Una testimonianza viva, una descrizione dal vero minuziosa, che non lascia indietro nulla di quello che accadde in quei lunghi mesi: cortei, scioperi, scontri a fuoco, carestie e tragedie al fronte.

Questi articoli rimasero a lungo dimenticati, anche se tanto si era scritto degli eventi che caratterizzarono quel periodo, ma sicuramente rappresentano una testimonianza che, riscoperta, dà luce a molte ombre che resterebbero oscure ancora ai giorni nostri.

Come scrive Gian Piero Piretto in Quando c’era l’URSS. 70 anni di storia culturale sovietica (Cortina, 2020), la parola dominante della Rivoluzione fu: fare a pezzi il passato per ripartire dalla tabula rasa con un mondo inedito fondato su principi e valori diversi e opposti ai precedenti, irrimediabilmente inquinati; autocrazia zarista, economia rurale stagnante, terrorismo, violenza e repressioni.

Distruggeremo tutto il mondo della violenza fino alle fondamenta, scandiva l’Internazionale. Non era la prima volta che nella storia russa si pensava di farla finita con un vecchio sistema per ripartire da zero.

Secondo il suo racconto Florence Macleod Harper capì rapidamente che la rivoluzione era inevitabile:


In effetti ne ero così certa che vagai per la città, su e giù per la Nevskij, osservandola e aspettandola come una parata circense.


E ancora:


Alcuni studenti si unirono a questa piccola folla di forse cinquanta donne e una di loro cominciò a fare un discorso. Notai che gli operai che attraversavano il ponte non potevano procedere, ma venivano respinti dai poliziotti di guardia all’imbocco (…)

La folla cominciò a crescere fino a contare circa duecento persone. Improvvisamente alcune donne cominciarono a cantare. C’era qualcosa di familiare nella melodia che stavano cantando (…)

Ho sentito cantare molte volte la Marsigliese, ma quel giorno per la prima volta la sentii cantare come dovrebbe essere. La gente era della stessa classe e la cantava per lo stesso motivo dei francesi che la cantarono per la prima volta più di cento anni fa. Il giorno della rivolta era arrivato. La bandiera rossa della rivoluzione veniva alzata. La Russia stava per essere irrorata di sangue.


L’impatto su Florence Harper non fu positivo. Si rese conto di avere davanti un paese di grande estensione, cerniera tra Europa e Asia, ed era lo stato europeo più arretrato. L’immagine di una pessima condizione della popolazione dove la povertà era così diffusa e la situazione allo stremo era tale che un deputato della Duma aveva riferito come nelle campagne la presenza di scarafaggi e insetti nelle case fosse da considerare una ricchezza. (Francoise-Xavier Coquin, La Révolution russe, 1974).

Chi guidava il tumulto? Chi aveva messo in subbuglio gli operai? Chi aveva portato i soldati dall’altra parte della barricata?

La risposta sta nel termine “spontaneità”, perché il grande movimento partì per un’adesione totale di ogni parte. Momenti di radicale inversione di percorso rispetto al cammino del paese fino a quel momento che si interruppe bruscamente, rinnegamento di un passato definito erroneo e ormai superato, un’adesione convinta alla nuova realtà che si aveva davanti.

Gli scritti di Florence Macleod Harper sulla sua permanenza in Russia apparvero per la prima volta nel 1918 da una piccola realtà editoriale dedita all’editoria di viaggio e di esplorazione. Nell’edizione originale erano presenti fotografie che il fotografo, poi regista e produttore, Donald C. Thompson (1885-1947) realizzò durante il periodo della rivoluzione e che dovevano essere pubblicate sul periodico cui collaborava l’autrice.

L’attività di Thompson in quel caso non ebbe molta fortuna e non trovò il riscontro che meritava, e la stessa autrice è oggi dimenticata sia come scrittrice che come giornalista.

Merito dell’editore che ha riportato a galla questi scritti, con la presenza di un QR code sottostante che, attivato, permetterà di scorrere moltissime fotografie del periodo scattate dal seguito di Harper.


Giorgio Bona


(Tratto da: https://www.carmillaonline.com/2024/06/21/addio-russia/).


Inserito il 25/08/2024.

Benedetta Tobagi

Le stragi sono tutte un mistero

(Laterza, 2023)

🔴 recensione di Paolo Mencarelli 🔴

«L’Italia è il Paese dei misteri. I colpevoli delle stragi non sono mai stati trovati né sono mai stati puniti. Tutto viene insabbiato e non si riesce mai a trovare il bandolo della matassa per chiudere definitivamente la stagione dolorosa delle bombe, la cosiddetta ‘strategia della tensione’, e consegnarla alla storia. Ogni volta sembra di ricominciare da capo: piazza Fontana, piazza della Loggia e stazione di Bologna sono soltanto alcune delle tappe di una laica via crucis che non ha mai fine e su cui ogni anno emergono particolari, false piste, rivelazioni vere o false. Se però sbirciamo oltre il muro delle tante assoluzioni, le cose non stanno proprio così. Ormai le testimonianze e le carte ci permettono di ricostruire con precisione quanto è successo in quella fase storica. Se Pasolini, in un suo articolo molto famoso, scriveva “io so, ma non ho le prove”, ora possiamo dire che sappiamo e abbiamo le prove, di molto, se non di tutto, e spesso possiamo pure fare nomi e cognomi di esecutori e mandanti» (dalla quarta di copertina del volume).

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Benedetta Tobagi

Le stragi sono tutte un mistero

(Laterza, 2023)


recensione di Paolo Mencarelli


“...il depistaggio insieme all’impunità genera caos.”

(p. 37)


Per l’ottima collana Fact Checking: la Storia alla prova dei fatti (Laterza) Benedetta Tobagi ha scritto un volume che si può tranquillamente definire imprescindibile per orientarsi su di un argomento sicuramente complesso ma che troppo spesso viene ritenuto ormai avvolto in un alone di mistero inestricabile, quello appunto relativo alle stragi che hanno costellato la storia della nostra Repubblica. L’autrice è tra le persone più titolate a parlarne. Non solo ha una scrittura fluente e al tempo stesso precisa, ma unisce varie competenze: è infatti una giornalista molto apprezzata, una storica della resistenza e dell’Italia repubblicana con una particolare sensibilità per l’alta divulgazione e infine una studiosa molto esperta di archivi ministeriali e processuali sui quali ha fatto una ricerca che si raccomanda per rigore e puntualità (Segreti e lacune. Le stragi tra servizi segreti, magistratura e governo, Einaudi, 2023). Alla “madre di tutte le stragi”, quella del 12 dicembre 1969, Tobagi ha dedicato uno studio importante che ne evidenzia soprattutto la lunghissima storia processuale: Piazza Fontana. Il processo impossibile (2019), mentre ha ottenuto una rilevante attenzione di critica e di pubblico con La Resistenza delle donne (2022, vincitore del Premio Campiello).

Benedetta Tobagi si occupa quindi ormai da molti anni di questi temi ed è tra le animatrici, insieme a Cinzia Venturoli e Ilaria Moroni, della “Rete degli archivi per non dimenticare” (https://www.memoria.san.beniculturali.it/). Si è impegnata anche nella didattica e nella formazione dei docenti su strategia della tensione e terrorismi dimostrando, tra l’altro, come ci si possa occupare con grande equilibrio e rigore scientifico di eventi che pure hanno toccato profondamente e dolorosamente la propria vita. Benedetta è infatti figlia di Walter Tobagi, giornalista del «Corriere della Sera» ucciso a soli 33 anni da un gruppo della galassia armata filobrigatista il 28 maggio1980.

Le questioni storiografiche e politiche sollevate dal volume meriterebbero una trattazione molto più articolata e attenta. Su questi aspetti tornerò prossimamente con una rassegna critica più ampia e articolata, intanto queste brevi note hanno il solo scopo di segnalare l’uscita di un testo molto utile proprio come bussola orientativa. Il primo obiettivo non da poco è infatti quello di non perdersi nel vasto mare di una pubblicistica assai disomogenea per metodi di indagine e tagli interpretativi. Tra i titoli più importanti a cui si ispira esplicitamente la stessa Tobagi e che comunque varrebbe la pena conoscere e discutere nel dettaglio sono da segnalare almeno: A. Giannuli, La strategia della tensione. Servizi segreti, partiti, golpe falliti, terrore fascista, politica internazionale: un bilancio definitivo (Ponte alle Grazie, 2018), M. Dondi, L’eco del boato. Storia della strategia della tensione 1965-1974 (Laterza,2015) e, per quanto attiene alla manovalanza neofascista e neonazista la cui storia si intreccia con quella del MSI, da vedere D. Conti, Fascisti contro la democrazia. Almirante e Rauti alle radici della destra italiana 1946-1976 (Einaudi, 2023).

In coerenza con l’intento della collana (Fact checking) i titoli dei capitoli sono una sarcastica dichiarazione d’intenti: “Non sapremo mai chi è stato”, “Piazza Fontana l’hanno fatta le Brigate Rosse”, “Tutta colpa degli amerikani?”, ecc.; inevitabile, giusto e sacrosanto anche il riferimento a “I misteri d’Italia” che tali in larga parte oramai non sono, con una richiesta di grande valore civile e politico: “Togliete il segreto di Stato!”.

Il volume, tra i numerosi pregi, si raccomanda caldamente anche per la capacità di fare costante riferimento all’attualità politica. Tobagi ad esempio smonta in modo magistrale, dati storici e giudiziari alla mano, con grande accuratezza e precisione filologica, il ricorrente vittimismo degli ambienti neofascisti dei gruppi esterni ed interni al MSI che, ieri come oggi, sarebbero stati oggetto di persecuzioni da parte di una fantomatica magistratura “rossa”. Un piagnisteo insistente e petulante, un vittimismo sistematico che mal si accorda con il virilismo pseudo eroico ostentato nei simboli e nelle roboanti dichiarazioni. E qui emerge in modo limpido la forte promiscuità tra il partito di Almirante e i gruppi apertamente sovversivi come Ordine Nuovo (ON) e Avanguardia Nazionale (AN), al contrario del duro scontro (anche fisico, soprattutto dal 1972/73) che contraddistinguerà il rapporto tra il PCI e le formazioni della nuova sinistra e soprattutto con il terrorismo di sinistra.

Il filo “nero” (visto il massiccio e decisivo coinvolgimento dei gruppi neofascisti) che lega i vari capitoli è l’attenzione posta sulla cosiddetta “guerra non ortodossa” o “guerra controrivoluzionaria” teorizzata e praticata a partire dalla metà degli anni Sessanta del secolo scorso da un insieme di soggetti italiani (pezzi di servizi legati alla destra eversiva, settori della DC più oltranzisti in chiave atlantista almeno fino al 1972, associazioni e servizi semilegali legati ad ambienti Nato e Usa) che con vari mezzi “irregolari” hanno operato con il fine di “destabilizzare per stabilizzare” il sistema politico e l’assetto costituzionale repubblicano. Dall’infiltrazione nei gruppi dell’estrema sinistra agli scontri di piazza fino a veri e propri attentati indiscriminati contro le mobilitazioni sindacali e politiche. L’avanzata anche nell’Europa continentale dei movimenti giovanili studenteschi e operai, la presenza in Italia del più forte e radicato partito comunista d’Europa insieme ad una forte pressione sociale da parte dei metalmeccanici nell’autunno del 1969 avevano suscitato non poco allarme intorno ad un possibile allentamento della fedeltà al blocco occidentale del nostro paese e a possibili maggioranze coinvolgenti anche il PCI. Tobagi però insiste molto, a mio avviso giustamente, sul ruolo di soggetti interni, italiani, soprattutto pezzi di padronato già critici durante il periodo del centrosinistra organico e ora (1969-1970) preoccupatissimi di perdere potere nei luoghi di lavoro, più che su di una presunta unica regia Usa dietro molti attentati che hanno costellato la nostra storia repubblicana.

Il volume non rinuncia a problematizzare espressioni e concetti a volte considerati indiscutibili ed evidenti. E’ il caso di “strage di Stato”, espressione divenuta di uso comune negli ambienti della sinistra alternativa e non solo dopo l’uscita del celebre (per chi si occupa di queste cose) La strage di Stato scritto da un collettivo di giornalisti militanti dopo l’attentato di Piazza Fontana per contrastare uno dei primi clamorosi depistaggi, quello che indirizzò le indagini verso gli ambienti anarchici (caso Valpreda).

Il “bigino” sulle storie processuali delle stragi da Piazza Fontana a Bologna risulta estremamente utile, cosi come le pagine dedicate a Ordine Nuovo nelle sue varie articolazioni territoriali a partire dalla cellula veneta di F. Freda e G. Ventura, al centro dei più gravi attentati della storia della nostra repubblica.

Oggi sostanzialmente tutto quel periodo viene troppo frettolosamente ricondotto e ridotto sotto la plumbea etichetta di “anni di piombo” e identificato con le complesse vicende delle Brigate Rosse, mentre l’intera fase neofascista dei terrorismi egemonizzata da ON (e limitrofi), ovvero 1969-1975, non la conosce più nessuno, se non la ristretta cerchia degli addetti ai lavori. A sancire la scomparsa dalla memoria pubblica dello stragismo e golpismo c’è stata anche la decisione di individuare la data del ritrovamento del corpo di Moro, quindi l’8 maggio e non il 12 dicembre, come data di riferimento per la “Giornata delle vittime del terrorismo”. Tobagi (e anche chi scrive) preferirebbe, al posto di “anni di piombo”, la più congrua e meno lugubre definizione di Cinzia Venturoli di “anni affollati”, anni contraddittori che hanno visto però anche un tentativo generoso e sempre messo in discussione di allargamento della sfera dei diritti civili, sociali e politici, dallo Statuto dei Lavoratori alla legge sul divorzio, la riforma dello stato di famiglia, il Sistema sanitario nazionale, la chiusura dei manicomi, ecc. Tra i contributi più significativi è utile ancora oggi Anni settanta (Einaudi) di Giovanni Moro, figlio di Aldo, altra riprova di come si possa trasformare un dolore privato nella spinta a capire con rigore un periodo storico.

Il libro andrebbe letto consultando i materiali più dettagliati forniti dal documentatissimo sito della “Rete degli archivi per non dimenticare” (https://www.memoria.san.beniculturali.it/), sito imprescindibile con sezioni dedicate a materiali storici e giudiziari; ma è utile, se non indispensabile, proprio per orientarsi per avere almeno alcune coordinate fondamentali su di un argomento complesso ma comprensibile.


10 luglio 2024


Paolo Mencarelli


Inserito il 11/07/2024.

Dal sito di «Pandora Rivista»

Mario Caciagli

Addio alla provincia rossa
Origini, apogeo e declino di una cultura politica

(Roma, Carocci editore, 2017)

recensione di Alessandro Ambrosino

La recente scomparsa di Mario Caciagli, professore emerito di Scienza Politica all’Università di Firenze, ci spinge a rendergli omaggio proponendo sul nostro sito una recensione a uno dei suoi lavori sul campo dedicati a un tema a noi molto caro: la cultura politica delle popolazioni della provincia toscana, quella “Toscana rossa” di cui è sempre più difficile trovare le tracce ai nostri giorni.

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Mario Caciagli

Addio alla provincia rossa
Origini, apogeo e declino di una cultura politica

(Roma, Carocci editore, 2017)

recensione di Alessandro Ambrosino


Secondo gli specialisti della politologia è possibile riconoscere in gran parte dell’Europa particolari territori che si caratterizzano per una loro peculiare “cultura politica”. Molte sono in Europa le regioni che si distinguono per la loro bandiera, il comportamento di voto, i quadri di valori, le strutture organizzative e le tradizioni politiche dei gruppi sociali che le abitano. Per tratteggiare le principali caratteristiche di questi territori, tuttavia, un criterio istituzionale che li paragoni a semplici enti dotati di una propria personalità giuridica non basta ed è necessario accostarsi ad essi con un approccio socio-culturale. Quest’ultimo, infatti, permette di cogliere le trasformazioni di lungo periodo che avvengono nel rapporto fra la politica e la società, locale o nazionale poco importa, sia nella sua dimensione spaziale che temporale.

Certamente, regione politica non è sinonimo di regione amministrativa poiché spesso le divisioni culturali dei territori non corrispondono ai limiti imposti dai legislatori. Ma proprio l’assenza di confini certi, complicando le comparazioni e le analisi, rende più avvincente il percorso di indagine e la definizione delle culture politiche in cui l’Europa si è divisa e continua a dividersi, assumendo forme di partecipazione e appartenenza sociale sempre nuove1.


Tema principale del saggio di Caciagli è proprio la descrizione approfondita di una delle culture politiche più importanti e radicate dello spazio europeo, ovvero la cultura “comunista”, declinata nella sua variante italiana. Delle due grandi culture politiche territoriali del sistema italiano la “bianca” è scomparsa con la DC, mentre la “rossa” ha avuto una lunga agonia2. Il lavoro del politologo fiorentino si può quindi intendere come una vera e propria narrazione delle trasformazioni a cui è andata incontro quest’ultima nel corso del Novecento, dalle sue origini nella società agricola a cavallo fra XIX e XX secolo in turbolenta trasformazione, fino alla sua crisi negli anni Novanta del secolo scorso e alla sua definitiva dissoluzione in quest’ultimo decennio.

Ciò che però rende il saggio particolarmente innovativo è la scelta dell’autore di limitare lo spazio della ricerca al microcosmo del Medio Valdarno Inferiore, una delle zone più “rosse” della Toscana “rossa” e noto centro di produzione conciaria. Attraverso quattro cicli di interviste effettuate nel corso di più di vent’anni a “elettori costanti” del PCI e delle formazioni sue eredi (PDS, DS, Rifondazione Comunista e, recentemente, il PD) il fenomeno della cultura “comunista” all’interno dei sei comuni del Comprensorio del cuoio (San Miniato, Fucecchio, Castelfranco di Sotto, Montopoli Valdarno, Santa Maria a Monte e Santa Croce sull’Arno), non solo viene inquadrato nel contesto della trasformazione socio-economica dell’area, che evolve da zona agricola mezzadrile e solo parzialmente industriale a comprensorio a prevalenza industriale e di servizi, ma viene rivissuto come una vera e propria “storia familiare” dei suoi abitanti.

Il Medio Valdarno Inferiore, trovando un’espressione di valore scientifico, diviene quindi specchio delle lente ma costanti trasformazioni della cultura politica afferente alla sinistra e privilegiato punto d’osservazione sui comportamenti sociali degli individui che si sono sentiti appartenenti a quella determinata comunità politica. Con una prosa quasi narrativa vengono fatti scorrere di fronte al lettore i pensieri politici e le emozioni di operai metalmeccanici, studenti, casalinghe, contadini, mezzadri e piccoli imprenditori, ma anche di amministratori, sindacalisti, tesserati al Partito e piccoli dirigenti capaci di riflessioni semplici ma allo stesso tempo profonde, di cui l’autore, insieme ad un’ingente quantità di fonti d’archivio secondarie quali documenti delle parrocchie, certificati anagrafici e comunicazioni dalle sezioni di partito più piccole e provinciali, si serve per costruire l’impianto scientifico del libro e dare conto dei cambiamenti della cultura politica “di sinistra”, dal periodo delle lotte mezzadrili degli anni Quaranta-Cinquanta fino alla sua definitiva scomparsa nella società contemporanea3.

Caciagli identifica la spiegazione di questa decadenza dai ritmi lunghi nella diversa natura della cultura politica “rossa” italiana rispetto a quelle di altri territori europei. In Francia, ad esempio, il PCF poneva quasi solamente il proletariato di fabbrica al centro delle sue attenzioni, così la cultura operaia della banlieu parigina venne completamente travolta dal crollo dell’URSS e dalla deindustrializzazione degli anni Ottanta. In Italia, invece, le classi di riferimento del PCI erano anche i ceti medi e soprattutto i mezzadri, che videro nel Partito un solido punto di riferimento per riscattarsi ed emanciparsi dalla vita nei campi. Fu dunque nelle campagne, ma con il compatto supporto degli operai, che la cultura politica rossa trovò il sostegno più sicuro per la sua sopravvivenza. Alla sua guida si pose il PCI che la rifondò dopo l’esperienza della Guerra e delle lotte degli anni Quaranta-Cinquanta subentrando al PSI, il quale ne aveva gettato le basi durante le lotte sociali di fine Ottocento.

Il Partito, nelle zone di suo insediamento, piantò i semi di una lunga tradizione fatta di valori quali l’etica del lavoro, la solidarietà, la partecipazione e soprattutto il radicamento sul territorio, elementi che, grazie all’istituzione del «socialismo municipale»4, guidarono la grande trasformazione di regioni agricole in regioni industriali. In un ambiente politico poco polarizzato, i governi locali contribuirono alla crescita di fittissime reti di piccole e medie imprese gestite spesso da ex mezzadri che attribuirono sì a sé stessi ma soprattutto all’appoggio dato dal Partito alle loro battaglie il merito del loro riscatto sociale. Quando le condizioni materiali dei mezzadri cambiarono, la fedeltà politica si mantenne e si trasmise alla generazione successiva.

Certamente, va ricordato che tutto questo avvenne anche grazie a quella che Caciagli definisce «la corona»5, ovvero tutta una serie di enti e associazioni satelliti che, rifondando miti e riti vecchi e nuovi (dalle Feste dell’Unità, alla Casa del Popolo fino al mito dell’URSS come laboratorio di una via alternativa di sviluppo e uguaglianza), giocarono un ruolo fondamentale nel mantenimento di una forte egemonia territoriale, trasformando la percezione dei comunisti di essere «diversi e superiori» rispetto al centro romano, antagonista politicamente6. Come spiega l’autore: «Conservando molti dei valori tradizionali, la centralità dei municipi e le politiche assistenziali, la subcultura rossa italiana […] divenne sempre più interclassista secondo un’ideologia popolar-progressista in piena consonanza con la strategia del “blocco sociale” del PCI»7.

La crisi di questo mondo, sia nel microcosmo del Comprensorio, sia in tutto il resto delle “regioni rosse”, arrivò con l’avvento della società postindustriale, la fine del Partito e l’indebolimento della vita associativa, in un contesto nuovo dove «gli interessi hanno preso il sopravvento sull’ideologia»8. Essendo radicalmente cambiati i modelli di riferimento e le abitudini, la trasmissione della cultura rossa, soprattutto alle nuove generazioni scolarizzate, divenne dapprima difficile ed in seguito impossibile. Fu quindi la somma di trasformazioni locali, nazionali ed internazionali che sfarinò gli elementi centrali della subcultura comunista della quale restarono, e restano, solo alcuni valori, su tutti la solidarietà e la giustizia sociale, ma svincolati dalla politica e limitati ad un livello individuale.

Per questi motivi, a conclusione del lavoro, Caciagli definisce la subcultura rossa «un’epopea del Novecento»9, riconoscendola cioè come una narrazione epica che si realizzò nell’area del Cuoio, in Toscana ed in molte aree del Paese per un trentennio, fondendo tutti gli elementi sopracitati in un insieme culturale e riuscendo a farlo funzionare come identità a sostegno della propria politica, ma ormai relegata ad «archeologia della politica europea»10.


La definizione di cultura politica

Quasi tutti gli scienziati sociali concordano sul fatto che l’agire politico non è guidato unicamente dalla ragione poiché a quest’ultima si accompagnano e si sovrappongono continuamente emozioni e sentimenti. Fu proprio a partire da questo assunto che, negli anni Sessanta, Gabriel Almond e Sydney Verba, in un saggio destinato a diventare un classico della scienza politica, formularono la definizione di cultura politica intendendo: «l’insieme degli orientamenti psicologici […], delle convinzioni, degli atteggiamenti e dei giudizi dei singoli verso il sistema politico»11.

Il concetto serviva ai due studiosi soprattutto per avere una solida base interpretativa su cui costruire delle innovative ricerche di carattere comparativo sul grado di stabilità di cinque regimi democratici (Stati Uniti, Gran Bretagna, Messico, Italia e Germania), il grado del loro sviluppo e, nel quadro delle teorie funzionaliste molto in voga in quel contesto accademico, l’efficienza dei loro governi. Stabili erano la Gran Bretagna e gli USA, deboli le altre tre ed in particolare l’Italia, affetta da parrocchialismi. Vi sarebbero state, dunque, più culture politiche, ma quella “civica” anglosassone si configurava come “meta finale” dello sviluppo politico e pietra di paragone a cui fare riferimento. Tale impostazione verticistica, posizionando la cultura bianca americana ed inglese in cima alla scala delle culture politiche, permetteva di individuarne anche altre, come quella dei neri o quella delle donne, ma esse venivano considerate devianti dalla cultura dominante e destinate ad essere da questa assorbite. La critica che ne seguì puntualizzò come la “cultura civica” così intesa costituisse una vera e propria «ipoteca normativa» che inficiava i risultati e le classificazioni della ricerca. La conseguenza logica, come ha spiegato Caciagli, fu che si costruisse nel tempo «il pregiudizio che si debba prefigurare una cultura politica unitaria. Invece le culture politiche sono plurali e distinte […] e hanno pari possibilità di sopravvivenza»12.

L’approccio almondiano, che preannunciava l’omogeneizzazione non solo delle subculture distinte per sesso, classe sociale o religione ma anche delle differenze territoriali, fu contestato da Daniel Elazar, il quale sostenne che gli Stati Uniti non hanno una cultura politica uniforme ma molte culture politiche regionali13. Se ciò valeva per gli USA, a maggior ragione non esistono culture politiche omogenee in Europa, dove per secoli i gruppi sociali si sono divisi per lingue, politiche, confessioni religiose e strutture economiche14. Tali differenze hanno accompagnato i processi di costruzione di stati unitari, spesso rendendo il percorso accidentato, e hanno giocato un ruolo fondamentale nella costruzione di regionalismi e di culture politiche regionali15. Certamente i due termini non sono sinonimi, anzi: «una cultura regionale non comporta necessariamente la coscienza di un’identità regionale, meno che mai un movimento regionalista»16, però spesso essa si rivela un utile schema interpretativo per definire i modelli di comportamento politico.

Il caso italiano in questo senso è esemplare: vi si ritrovano regionalismi, corrispondenti a periferie storico-identitarie riconosciute costituzionalmente in cinque regioni a statuto speciale17, e due grandi “subculture politiche regionali”. Queste ultime furono analizzate per la prima volta da Carlo Trigilia il quale, partendo dall’osservazione della continuità del comportamento di voto sia nelle zone “rosse” del centro che nelle zone “bianche” a tradizione democristiana del Nordest, dimostrò che vi era una robusta rete di strutture politiche radicata sul territorio e una tradizione secolare di appartenenza allo spazio politico che aveva contribuito al solido sviluppo delle due subculture18. Per quanto, dunque, fossero diversi i valori fra comunisti e democristiani, il minimo comun denominatore era la presenza di un’identità politica data dal fattore spaziale e dalla consapevolezza della dimensione storica della cultura politica di riferimento.

In conclusione, spiega Caciagli, si può rielaborare il paradigma almondiano fatto da orientamenti psicologici e credenze, ma non si può trascurare che la cultura politica si sostanzia in un contesto definito: «un contesto storico di lunga durata […] e un contesto territoriale che non è uno spazio vuoto ma un prodotto […] che nel tempo storico le generazioni hanno trasformato. È uno spazio sociale che dà senso di appartenenza»19.


Cosa resta oggi della cultura politica?

Nel 1984, anno della raccolta della prima serie di interviste e anno in cui il PCI ricevette il massimo consenso alle elezioni europee, un orgoglioso agricoltore di Marti disse: «Chi ha sempre dovuto faticare non può non essere comunista. Siamo nati con queste idee, ci siamo cresciuti, come si fa a cambiare? E poi si vede che il partito merita»20. A distanza di trent’anni il contesto sociale nel quale la politica si trova ad operare è radicalmente cambiato. Alcune fra le ultime interviste avevano rilevato mutamenti quasi antropologici e la completa scomparsa di tutti i simboli, i miti e i riti di cui la cultura politica comunista si nutriva. «Prevale l’egoismo. Siamo cambiati noi», diceva nel 2005 un assessore comunale di Fucecchio, mentre il segretario dei DS di Montopoli aggiungeva: «oggi c’è poca memoria storica e troppa televisione»21.

Tali affermazioni, anche fin troppo emotive trattandosi di un saggio di scienza politica, forniscono però una prima ipotesi esplicativa del declino della subcultura rossa. Gli accenni al mutamento delle abitudini quotidiane si riferiscono alla rottura dei legami interpersonali sui quali si fondava il comune sentire politico. La televisione, per esempio, aveva radicalmente mutato le forme della comunicazione politica ed era andata a sostituire non solo il ruolo di aggregazione e propagazione politica della casa del popolo, ma anche i vecchi modelli di trasmissione familiare di valori e lealtà di ideologia. Contava anche la fine della conflittualità, sia sul piano locale che nel rapporto con il centro, ora che i governi di Roma erano cambiati e proponevano «scelte politiche fondate […] su issue concrete dell’offerta elettorale e non […] fedeltà inamovibili»22.

Fondamentale, però, era anche la variabile della prosperità economica diffusa, che, raggiunta proprio grazie al modello di sviluppo proposto da quella stessa cultura politica, aveva poi finito per rivelarsi un’arma a doppio taglio. Nelle parole di Caciagli: «L’idea di progresso che la cultura coltivava […] aveva finito con il risolvere la tensione singolo/collettivo in una rottura a favore dell’individualistico. Il benessere […] aveva portato con sé altri obiettivi, di costume e di valori»23.

Caciagli sembra dunque suggerire che con la perdita della trasmissione della memoria storica, sia per via di eventi storici che per i fenomeni di secolarizzazione, accrescimento dei livelli di reddito e post-industrializzazione, la subcultura rossa sia definitivamente tramontata. Eppure, al di là di un diffuso pessimismo per l’attuale situazione culturale e sociale, nelle interviste 2005-2006 si tentò anche di rintracciare quanto e se qualche valore di riferimento fosse sopravvissuto. Risultò che il sentimento di appartenenza alla comunità e il senso di solidarietà, sebbene non più veicolati dalla politica e percepiti in maniera assistenzialistica più che di modifica sociale, fossero visti come il più importante lascito di una tradizione «che viene da lontano e […] fortemente presente nel tessuto associativo»24. L’eredità della subcultura rossa, dunque, doveva essere ricercata nel ruolo aggregativo delle associazioni, le quali, viste come l’emanazione contemporanea di un antico passato di solidarismo antecedente alla rielaborazione culturale fatta dal PCI e radicato nel locale25, avevano di fatto sostituito il Partito nell’impegno sociale concreto e nella trasmissione degli ideali.

Se la subcultura rossa è quindi da considerarsi esperienza conclusa, alcune delle sue componenti sono probabilmente disperse nell’ambiente e potenzialmente potrebbero essere riaggregate, sia pure impastate con miscele politiche diverse. Non è certo questa la sede per discutere approfonditamente di cosa avverrà nel Comprensorio e, più in generale, in tutto il Paese, dal punto di vista dei sentimenti di appartenenza politica dei gruppi sociali. Quel che è certo, però, è che in un quadro generale di parallela dispersione dei valori legati ad una visione ideologica della politica e autonoma sopravvivenza di impegno civico e interesse per i problemi della cosa pubblica26, sarà necessario fornire spazi di discussione e riaggregazione sociale innovativi e funzionali in misura sempre maggiore.


25 luglio 2017


Alessandro Ambrosino


(Tratto da: Alessandro Ambrosino, Recensione del volume: Mario Caciagli, Addio alla provincia rossa. Origini, apogeo e declino di una cultura politica, in «Pandora Rivista», oggi in: https://www.pandorarivista.it/articoli/addio-alla-provincia-rossa-cultura-politica-caciagli/).


Note

1 M. Caciagli, Regioni d’Europa, Bologna, Il Mulino, 2006, p. 131.

2 M. Caciagli, Addio alla provincia rossa, Roma, Carocci, 2017, retro di copertina.

3 Su questo punto Caciagli è preciso: sostenendo che «come in Europa, le regioni rosse in Italia appartengono al passato» egli si pone in diretta polemica con Ilvo Diamanti, il quale sostiene, al contrario, una sopravvivenza della cultura politica “rossa”, per quanto «forse rosa», le cui evidenze empiriche andrebbero ricercate nelle amministrazioni locali e nelle reti associative. Cfr. M. Caciagli, Addio alla provincia rossa, cit., p. 337 e I. Diamanti, Mappa dell’Italia politica. Bianco, rosso, verde, azzurro… e tricolore, Bologna, Il Mulino, 2009.

4 M. Caciagli, Addio alla provincia rossa, cit., p. 105 e segg.

5 Ibidem, op. cit., p. 133 e segg.

6 Ibidem, op. cit., p. 345.

7 M. Caciagli, Regioni d’Europa, cit., p. 145.

8 Ibidem, op. cit., p. 146.

9 M. Caciagli, Addio alla provincia rossa, cit., p. 359.

10 Ibidem, op. cit., p. 376.

11 G. Almond, S. Verba, The Civic Culture: Political Attitudes and Democracy in Five Nations, Princeton, Princeton University Press, 1963.

12 M. Caciagli, Regioni d’Europa, op. cit., p. 132.

13 D. Elazar, The American Mosaic: The Impact of Space, Time and Culture on American Politics, Boulder, Westview, 1994.

14 M. Caciagli, Regioni d’Europa, op. cit., p. 132.

15 Si vedano su questo punto i noti lavori di Stein Rokkan sui cleavage ed in particolare sul rapporto centro-periferia. S. Rokkan, State Formation, Nation Building and Mass Politics in Europe, Oxford, Oxford University Press, 1999.

16 K. Rohe, Regionale (politische) Kultur: Ein sinvolles Konzept für die Wahl- und Parteiforschung?, in D. Oberndörfer e K. Schmitt (a cura di), Parteien und regionale politische Traditionen in der Bundesrepublik, Berlino, Duncker & Humbolt, 1991.

17 Una prima descrizione delle regioni a statuto speciale e delle loro diversità soprattutto linguistiche si trova in G. Nevola, Altreitalie. Identità nazionale e regioni a statuto speciale, Roma, Carocci, 2003.

18 C. Trigilia, Sviluppo economico e trasformazioni sociopolitiche dei sistemi territoriali a economia diffusa. Le subculture politiche territoriali, Milano, Feltrinelli, 1981. Oltre a Caciagli, chi ha ripreso gli studi con questo schema di analisi è stato Marco Almagisti nei suoi lavori sul Veneto. Si veda M. Almagisti, Una democrazia possibile. Arretratezza socioculturale, clientelismo, trasformismo e ribellismo dall’Unità ad oggi, Roma, Carocci, 2016.

19 M. Caciagli, Addio alla provincia rossa, cit., p. 31.

20 Intervista rilasciata il 18 settembre 1984 e citata in M. Caciagli, Addio alla provincia rossa, cit., p. 78.

21 Interviste rilasciate il 28 maggio 2005 e il 19 settembre 2005. Citate in M. Caciagli, Addio alla provincia rossa, cit., pp. 346-347.

22 M. Caciagli, Addio alla provincia rossa, cit., pp. 348-349.

23 Ibidem, op. cit., p. 349.

24 Intervista rilasciata il 12 maggio 2005. Citata in M. Caciagli, Addio alla provincia rossa, cit., p. 350.

25 Cfr. su questi argomenti Robert Putnam, convinto che le origini dei valori civici dell’Italia centrale siano da ricercarsi addirittura nei Comuni medioevali. R.D. Putnam, Making Democracy Work: Civic Traditions in Modern Italy, Princeton, Princeton University Press, 1993.

26 Cfr. M. Almagisti, P. Messina (a cura di), Cultura politica, istituzioni e matrici storiche, Padova, Padova University Press, 2014.


Inserito il 19/05/2024.

Addio a Giovanna marini

Vogliamo ricordarla con le sue canzoni popolari e di lotta.

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Dal sito dell’Istituto Ernesto De Martino

Quando abbiamo saputo la notizia della morte di Giovanna, ieri sera, eravamo nel chiuso delle nostre case; sapevamo che stava male eppure ci è mancato il fiato. Stamattina all'Istituto Ernesto de Martino le voci provenienti dalla nastroteca erano un coro di dolore e sgomento: ora chi racconterà di loro?, chi riproporrà quei canti con la consapevolezza e il rigore che ha sempre caratterizzato il lavoro di Giovanna come interprete del canto di tradizione orale?

La storia di Giovanna Marini, nata in una famiglia di musicisti, si è sempre intrecciata a storie collettive: prima il Nuovo Canzoniere Italiano, poi i Dischi del Sole, l'Istituto Ernesto de Martino, la Scuola Popolare di Musica del Testaccio. In questi legami e grazie a questi è cresciuta la sua esperienza di compositrice, ricercatrice del canto popolare, didatta presso le università francesi e poi al Testaccio. 

A noi piace ricordarla anche come narratrice: i suoi racconti erano vulcanici e divertentissimi, pieni di personaggi veri e mitologici che diventavano quasi personaggi familiari.


Grazie Giovanna per il tempo che ci hai dedicato, per le canzoni che hai scritto e che hai cantato.


Un abbraccio a tutti i suoi familiari e soprattutto ai suoi figli Silvia e Francesco.

Luciano Canfora

Dizionario politico minimo

a cura di Antonio Di Siena

(Roma, Fazi Editore, 2024)

Un lessico essenziale in cinquanta voci per comprendere le grandi questioni politiche del nostro tempo

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“Antifascismo”, “Capitalismo”, “Costituzione”, “Democrazia”, “Guerra”, “Libertà”, “Occidente”, “Populismo”, “Potere”, “Propaganda”, “Sovranità”: sono solo alcune delle cinquanta voci che compongono questo Dizionario politico minimo di Luciano Canfora. Intervistato da Antonio Di Siena, il grande storico e filologo spazia dall’antichità al mondo contemporaneo, dalla politica alla storia, dalla filosofia alla cultura, per aiutare il lettore a capire la complessità di parole di cui si dà troppo spesso per scontato il significato. E, per il tramite di quelle, approfondire le principali questioni politiche del nostro tempo. Con straordinaria lucidità, competenza e chiarezza espositiva, in questo volume Canfora condensa oltre cinquant’anni di riflessione storico-politica, offrendo tanto ai suoi numerosi estimatori quanto ai “neofiti” un prezioso strumento di comprensione critica della realtà. In alcune voci parla il raffinato ed erudito accademico, in altre l’uomo, il pungente osservatore del mondo che non ha ancora smesso di interrogarsi su di esso. In tutte emerge con forza un pensiero schietto e disincantato, sempre fuori dagli schemi, capace – anche grazie al costante richiamo al passato e alla grande conoscenza del mondo antico – di fornire una lettura alternativa del presente. Piccolo breviario laico contro il diffuso analfabetismo politico, Dizionario politico minimo è un testo destinato a diventare un punto di riferimento nel dibattito intellettuale.

Dal giornale «il Fatto Quotidiano»

La storia è conflitto e il “politicamente corretto” è da fessi

di Luciano Canfora

Un’anticipazione dal Dizionario politico minimo di Luciano Canfora (a cura di Antonio Di Siena, Fazi Editore, 2024).

L’Occidente si è convinto di essere il mondo intero, ma non è così. L’Islam, la cultura cinese e africana producono altre sensibilità e modi di pensare.

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La storia è conflitto e il “politicamente corretto” è da fessi


di Luciano Canfora


Qualche tempo fa, una scuola superiore di Edimburgo ha deciso di non proporre più come lettura agli studenti Il buio oltre la siepe perché, secondo gli insegnanti, il romanzo promuove una narrazione in cui i neri sono salvati da un bianco. L’editore inglese di Roald Dahl ha modificato i testi dei suoi libri eliminando le parti in cui lo scrittore, con il suo stile irviverente, connotava i personaggi negativi con caratteristiche fisiche di bruttezza e di grassezza. Il dipartimento di Studi classici dell’Università di Princeton ha deciso di eliminare l’obbligo di studio del greco e del latino, nonché la sua conoscenza intermedia, e sostituirlo con lo studio della razza e dell’identità degli Usa. Tutto ciò per migliorare l’inclusività e l’equità dei curricula e combattere il razzismo sistemico perché, come ha scritto più di qualcuno, i classici sarebbero complici di varie forme di esclusione, schiavitù, segregazione, supremazia bianca, destino manifesto, genocidio culturale ecc. Una furia iconoclasta che bandisce libri e abbatte monumenti dedicati a personaggi accusati di razzismo. Finirà che ci diranno di abbattere il Colosseo perché simbolo di schiavitù e l’arco di Tito perché antisemita?

Ci si affretti a convocare subito delle ditte specializzate. Aggiungendo all’elenco tutte le statue di Giulio Cesare, colpevole del genocidio gallico (almeno 800.000 morti), e poi quelle dedicate a Gengis Khan, Ivan il Terribile e papa Borgia, per altre ragioni. Radiamo al suolo tutto, così non resta nessuno e abbiamo risolto il problema. Senza ovviamente dimenticare tutta la storia degli Usa, ma non fino alla guerra di secessione, fino a ieri. Perché se il principio è questo allora tutti i manuali di storia americana vanno abrogati e non se ne deve parlare proprio. Finirà l’unico argomento di storia sarà la biografia di Joe Biden, quindi sarebbe un corso di studi piuttosto facile.

Battute a parte, la verità è che stiamo parlando della stupidità universale, non di altro. Dopodiché tutte queste affermazioni sono anche false. Tutte le fasi della storia, remota e recente, sono conflittuali, non sono a senso unico.

La storia del mondo greco-romano, ad esempio, non è soltanto la storia di chi comandava, ma anche quella di chi si ribellava. Non è solo il pensiero di chi sosteneva la giustezza della schiavitù, ma anche di chi la riteneva assolutamente contro natura. La storia è un conflitto. Se uno non ha il coraggio di affrontarlo seriamente, la via più comoda e fatua consiste nel semplificare, abrogare, eliminare, cancellare, tornare all’età della pietra. Poi c’è questa faccenda di ritoccare i testi. Tempo fa lessi un piccolo romanzo molto divertente in cui il nuovo direttore di una casa editrice si mette in testa di ristampare Tolstoj cambiando il titolo del suo più celebre romanzo. Non più Guerra e Pace ma solo Pace, perché “guerra” è una parola pericolosissima. E poi come ci si pone nei confronti della morte dei personaggi più iconici? Non muore nessuno e vissero tutti felici e contenti. Siamo su un livello in cui, citando Leopardi, non so se il riso o la pietà prevale. Non si può commentare. C’è da constatare, però, che i cosiddetti progressisti ai quattro angoli del pianeta, soprattutto nel mondo americano, si sono convinti che questa sia una forma di progressismo. La verità è che sono degli ignoranti pericolosi.

Più che una forma di galateo lessicale, per l’antropologa Ida Magli il politicamente corretto è una sofisticata tecnica di lavaggio del cervello. Promuоve un’autocensura spontanea e insinua distorsioni lessicali della realtà che, alla lunga, impediscono la formazione linguistica dei concetti. Il che equivale a impadro nirsi del pensiero. Se così fosse, la direzione intrapresa è quella di un “pensiero unico” in cui le idee diventano limitate e immutabili.

Per fortuna non dovunque. Accadrà in determinati ambienti del mondo euro-americano, che però non è tutto il pianeta. L’illusione ottica occidentale è di essere il mondo intero. Mi dispiace, ma non è così.

L’Islam ha caratteristiche tutte sue e molto specifiche, a volte apprezzabili, molto spesso negative. Il mondo cinese ha un’eredità culturale di migliaia di anni. L’Africa fingiamo che non esista, o che sia popolata soltanto di barbari, mentre ha ospitato civiltà antichissime. Tutto questo produce tante altre sensibilità, modi di pensare, volendo anche modi di censurare e modi di prevalere, modi di lottare che l’Occidente si deve rassegnare a ritenere altrettanto legittimi quanto i suoi. Ragion per cui la spinta ossessiva all’autocensura del linguaggio e dei comportamenti è un po’ pestare l’acqua nel mortaio.

Resisterà nel nostro pezzo di mondo, almeno finché non succede qualcosa di abbastanza traumatico da cancellare questa roba, spostando necessariamente il focus su questioni più sostanziali. In un certo senso il conflitto in Europa orientale ha indotto molti a parlare in modo più veridico, gettando la maschera e dicendo le cose come stanno. La dolcezza dell’inganno lessicale comincia a dimostrarsi inutile e quindi lentamente esce di scena, passa nelle pagine interne.

Poi, naturalmente, nel nostro mondo l’autocensura dei mezzi di comunicazione è strutturale, non c’è neanche bisogno di indicare il giorno in cui è incominciata. Ed essendo tale agevola moltissimo questo tipo di devianze che però, ripeto, non costituiscono un problema generalizzato. Resta inerente e circoscritto a un certo mondo, e siccome ci siamo dentro tutti i giorni temiamo possa diventare l’universo intero. Così non è.


Luciano Canfora


(Tratto da «il Fatto Quotidiano», Anno 16, n. 120, 1 maggio 2024).


Inserito il 03/05/2024.

Antony Loewenstein

Laboratorio Palestina

Come Israele esporta la tecnologia dell’occupazione in tutto il mondo

(Roma, Fazi Editore, 2024)

«Un tragico e inquietante resoconto di come Israele sia diventato un fornitore di strumenti di violenza e repressione brutale, dal Guatemala al Myanmar e ovunque se ne sia presentata l’occasione».

Noam Chomsky


«Una lettura irrinunciabile su un aspetto nascosto e scioccante della colonizzazione israeliana dei palestinesi. Abbiamo atteso a lungo un libro come questo che svela in che modo Israele utilizza l’oppressione della Palestina per potenziare le sue industrie militari e di sicurezza. Loewenstein mostra chiaramente che questo tipo di esportazione è oggi il contributo più significativo di Israele alla violazione globale dei diritti umani».

Ilan Pappé

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Antony Loewenstein


Laboratorio Palestina

Come Israele esporta la tecnologia dell’occupazione in tutto il mondo


Prefazione di Moni Ovadia. Traduzione di Nazzareno Mataldi

Fazi Editore, 2024


Il complesso militare-industriale di Israele utilizza i Territori Occupati palestinesi come banco di prova per le armi e le tecnologie di sorveglianza che esporta in tutto il mondo. Per oltre cinquant’anni, infatti, l’occupazione illegale della Cisgiordania e della Striscia di Gaza ha fornito allo Stato israeliano un’esperienza formidabile nel controllo di una popolazione “nemica”, i palestinesi. In questo libro il giornalista d’inchiesta Antony Loewenstein indaga per la prima volta questa inquietante realtà, mostrando come la Palestina sia diventata il laboratorio perfetto per l’industria israeliana della difesa e della sorveglianza, e come le tattiche israeliane di occupazione siano sempre più il modello per le nazioni che vogliono colpire le minoranze non gradite. Dalle tecniche di polizia alle munizioni letali, dal software di spionaggio Pegasus ai droni utilizzati dall’Unione Europea per monitorare i migranti nel Mediterraneo, Israele è oggi un leader mondiale nei dispositivi militari e di intelligence che alimentano i conflitti più violenti del pianeta. Nel libro, grazie a documenti inediti, Loewenstein denuncia anche il sostegno israeliano ad alcuni dei regimi più spietati degli ultimi settant’anni, tra cui il Sudafrica dell’apartheid, il Cile di Pinochet, la Romania di Ceaușescu, l’Indonesia di Suharto e il Ruanda prima e durante il genocidio del 1994.
Laboratorio Palestina – vincitore del Walkley Book Award per il miglior libro del 2023, il più prestigioso riconoscimento giornalistico in Australia – è una magistrale opera di giornalismo investigativo che fa luce sulle responsabilità di Israele nella violazione dei diritti umani nel mondo.


«Come essere umano ed ebreo, so che l’uguaglianza e la giustizia tra israeliani e palestinesi sono l’unico modo per risolvere questo conflitto. Questo libro è il mio contributo per porre fine a decenni di discriminazione e rivelare i meccanismi segreti grazie ai quali è potuta durare tanto. Il futuro non è ancora scritto».

Antony Loewenstein


«Un libro ammirevole, documentato e basato su prove, sul lato meno conosciuto dell’occupazione. Fornisce un ritratto di Israele, uno dei dieci maggiori esportatori di armi al mondo, che commercia in morte e sofferenza e le vende a chiunque voglia comprarle».

Gideon Levy, «Haaretz»


«Un trionfo del giornalismo d’inchiesta».

Avi Shlaim, professore emerito di Relazioni internazionali all’Università di Oxford


«Laboratorio Palestina vede la luce nel momento più opportuno come monito agli israeliani a liberarsi del loro fascismo».

dalla prefazione di Moni Ovadia


Inserito il 04/04/2024.

Dal giornale «il Fatto Quotidiano»

Elena Basile

L’Occidente e il nemico permanente

(Roma, PaperFirst, 2024)

Prefazione di Luciano Canfora

Esce un volume dell’ex ambasciatrice Elena Basile, acuta osservatrice geopolitica e diplomatica, che critica l’approccio dell’Occidente ai conflitti attuali nel mondo: «Sono passati due anni dallo scoppio della guerra in Ucraina, che continua a seminare lutti e disperazione. Un nuovo conflitto è sorto in Medio Oriente, come conseguenza della mancata soluzione alla questione palestinese che si trascina da più di un secolo. Le due crisi presentano il rischio di trasformarsi in guerre globali e nucleari, e i loro resoconti mediatici si basano sulla stessa narrativa dominante, sebbene gli scacchieri internazionali siano molto diversi: prevale un approccio di stampo etico e religioso, lo scontro tra il bene e il male, rispetto a un’analisi razionale e storica. Come mai? Non è una coincidenza. L’autrice illustra come i giochi strategici globali siano frutto di una visione patologica del mondo dell’Occidente che, braccato dal declino che esso stesso ha creato, porta avanti disegni imperialistici ed espansionistici, focalizzandosi sulla supremazia militare e relegando in un angolo diplomazia e mediazione: si allontana così l’idea di un Occidente sano, possibile protagonista del nuovo riformismo, e si alimenta il bisogno di un nemico permanente, che è ormai dato per scontato dai governanti occidentali».

Presentiamo la prefazione che lo storico Luciano Canfora ha scritto in apertura del volume.

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I “buoni” e il nemico prêt-à-porter


di Luciano Canfora


Questo libro di Elena Basile, che scaturisce dalla approfondita conoscenza che l’autrice ha della storia diplomatico-militare, risulta illuminante. La ricchezza dei dati e il disvelamento delle connessioni e degli intrecci supportano la tesi espressa nel titolo del volume. Nel solco di tali indagini, si possono prospettare ulteriori scenari.

All’origine della più che secolare vicenda che abbiamo alle spalle vi è il suicidio dell’Europa. Suicidio determinato dalla scelta dell’impero britannico di fermare con la guerra la crescita prorompente e l’allarmante rivalità del ben più giovane impero tedesco. Tale fu la genesi della Grande guerra (1914-1918). Al termine della quale il bastone di comando passò dal malconcio impero britannico al ben più moderno “impero” degli Stati Uniti d’America.

Ma la guerra suicida aveva anche fatto sorgere il nuovo “nemico assoluto”: il comunismo. Non più “spettro” letterario, ma dura formazione politico-statale non disposta a farsi soverchiare. Ora il “nemico assoluto” era ancora più a Oriente, sulla carta geografica. Anche per questo era un “nemico” perfetto. Un nemico rispetto al quale l’“Occidente” tutto poté dispiegare, dando a credere di investirsi di una sorta di moderna “crociata”, tanto la forza quanto la propaganda: ora alternandole, ora coniugandole. Ragion per cui davvero il 1941-1945 costituì una anomalia, dalla quale – scampato il pericolo – furono prese quanto più rapidamente possibile, e con adeguata profusione di oratoria fremente, definitive distanze. Sappiamo chi ha vinto.

Le cose divennero un po’ meno agevoli quando l’“usato sicuro” (“mondo libero” versus “impero del male”, “chiesa del silenzio” etc. etc.) risultò non più calzante. E anzi, per un breve tratto, parve addirittura opportuno, o comunque utile, plaudere alla democrazia ritrovata grazie nientemeno che a Corvo Bianco. E i cultori meno avveduti della “filosofia della storia”, della storia proclamarono, allora, addirittura la conclusione: culminante appunto nella imminente vittoria universale della democrazia (cioè dell’“Occidente”).

Ma non durò. Quando l’Europa, raccolta sotto le insegne di una Unione a trazione tedesca cresciuta di dimensioni geografiche ed essenzialmente economico-finanziarie, cominciò a scoprire che l’ex “impero del male” era un partner interessante e foriero di reciproci vantaggi, il Grande Fratello dovette correre ai ripari. Il che poteva, consentendogli il Patto Atlantico (anch’esso in crescita vertiginosa) di affermare se stesso nel resto del mondo e, al tempo stesso, tenere per mano l’Europa.

In breve fu aggiornato il lessico: non più l’“impero del male” ma la “democratura” fu il “nemico”. Adattata all’incessante flusso degli eventi, l’antica litania poté ricominciare, con ritocchi stilistici e sommovimenti “arancioni”. (Altrove provvedevano le primavere arabe, ma anche la distruzione dell’Iraq o il bombardamento sulla Serbia).

Il “nemico” era da capo lì: “Il bieco storione del Volga”, come si espresse un dì un giornalista emotivo nelle focose polemiche degli anni Cinquanta.

Ma nascevano anche nuovi imbarazzi. Che fare della Cina? In assenza di un altro Kissinger che riuscisse daccapo a metterla contro la Russia. Era un problema. Per le api operose che costruiscono l’opinione pubblica nel “mondo libero” si apriva un dilemma non da poco: bisogna scrivere che va a rotoli o invece che è ormai pericolosa perché troppo forte? Bisogna demonizzarla e smascherarla perché non più comunista ma iper-capitalistica, o è meglio ripiegare sul classico e ribadire che incarna più che mai il mostro comunista?

Viene in mente Benedetto Croce, che scrive nel periodico «La città libera» del 14 settembre 1945: Durezza della politica. Là Croce prendeva spunto dalla sorpresa di alcuni di fronte al fatto che, sconfitto ormai l’Asse, il nuovo governo inglese, non più conservatore ma laburista, accantonasse, pur sollecitato, ogni ipotesi di buttar giù Francisco Franco, a suo tempo sorretto dall’Asse e agevolato dai conservatori inglesi. Ormai – rilevava – i laburisti, giunti al governo, se la cavano con l’argomento “Ogni popolo è padrone di darsi il governo che vuole”. Con lucida freddezza Croce osservava: in politica, le parole che ammantano l’azione non hanno, né pretendono di avere, un contenuto di verità. “Se gli interessi inglesi”, soggiungeva, “entreranno in conflitto con quelli spagnoli, si assisterà a una rapida mutazione di stile, e la crociata sarà bandita in nome della morale”. Vera vocabula rerum amisimus lamentava lo storico latino Sallustio.

Così, l’“Occidente” non ha mai perso il vezzo di voler fare la lezione al mondo, nel mentre che ha come obiettivo primario di egemonizzarlo, convogliando intorno a sé satelliti contro il “nemico”: con ogni mezzo, dall’assassinio mirato al predicozzo.


Luciano Canfora


(Tratto da: Luciano Canfora, I “buoni” e il nemico prêt-à-porter, in «il Fatto Quotidiano», Anno 16, n. 64, 5 marzo 2024).


Inserito il 05/03/2024.

Due volumi su Umberto Terracini

Tra i fondatori del Pcd’I nel 1921, carcerato dal fascismo, nel Pci del dopoguerra fu messo ai margini per le sue posizioni spesso controcorrente. Togliatti lo volle presidente dell’Assemblea Costituente.

Pertini disse di lui: “Dovessi descrivere la sua vita traccerei una linea retta”.

Dal giornale «il Fatto Quotidiano»

Claudio Rabaglino

Umberto Terracini
Un comunista solitario

(Roma, Donzelli Editore, 2024)

recensione di Gad Lerner

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Terracini, compagno e rompiscatole


di Gad Lerner


Nel celebre quadro dedicato da Renato Guttuso a I funerali di Togliatti, tra la folla in lutto si riconoscono tutti i protagonisti del comunismo mondiale passato e presente riuniti intorno al defunto segretario del Pci: Lenin, Stalin, Rosa Luxemburg, Ho Chi Minh, Breznev, Angela Davis. Poi gli intellettuali amici da Neruda a Luchino Visconti, Giangiacomo Feltrinelli, Sartre, Quasimodo fra gli altri. Vicino al feretro, insieme alla vedova Nilde Iotti, riconosciamo l’intero gruppo dirigente del partito, viventi e scomparsi: da Gramsci a Berlinguer passando per Longo, Pajetta, Amendola, Di Vittorio, Alicata, Ingrao, Trombadori…

Solo uno ne manca. Ed è un’assenza strana perché Umberto Terracini, fondatore del partito, quel giorno c’era eccome. Come gli spettava, inaugurò in prima fila il picchetto d’onore a Botteghe Oscure e fu il primo a tenere l’orazione commemorativa, davanti a un milione di persone, in piazza San Giovanni. L’assenza di Terracini nell’affresco ufficiale della nomenklatura – che in seguito Guttuso finse di ridimensionare a dimenticanza – simboleggia per esclusione l’unicità e la grandezza del comunista che ha attraversato la storia del XX secolo con intrepido coraggio, innato senso di giustizia, capacità di sopportazione delle ingiustizie patite e poi signorile modestia nel condividere le rivincite a lui concesse in una vita davvero avventurosa e straordinaria.

Stiamo parlando dell’uomo che ha trascorso 6183 giorni di detenzione ininterrotta dal 1926 al 1943 sotto il regime fascista, più di qualunque altro detenuto politico. E che per felice nemesi storica presiederà l’Assemblea Costituente con competenza giuridica e autorevolezza da tutti riconosciuta.
Grazie a Claudio Rabaglino disponiamo finalmente di un’ottima biografia, a quarant’anni dalla morte del comunista solitario, come viene definito nel sottotitolo, che non mi soddisfa perché quel rompiscatole di Terracini, ragionando sempre di testa sua dentro a una comunità politica cui non smise mai di essere devoto, fu personalità amatissima, davvero popolare. Spero che molti giovani leggano le pagine di questa vita incredibile, per restarne affascinati come succedeva a noi negli anni Settanta. Ho ritrovato un’intervista a «Lotta continua», nelle cui file militava il figlio Massimo Luca, in cui raccontava la sua prima esperienza al Cremlino di Mosca nel 1921, poco dopo aver fondato il Pcd’I. Aveva 26 anni. Riferiva le discussioni con i mostri sacri della rivoluzione russa, ma anche le scorpacciate di caviale e i congressisti stanchi che andavano a sdraiarsi nella camera da letto dello zar, adiacente la Sala Imperiale in cui si svolgeva il congresso. A Mosca Terracini conobbe Alma Lex, la prima moglie che, tornata in Unione Sovietica durante la sua prigionia, conservò e gli restituì quarant’anni dopo le farfalle, ovvero le cartine di sigaretta scritte con inchiostro simpatico in cui dal carcere Terracini le comunicava forte dissenso (condiviso dal suo fraterno amico Gramsci) sulle politiche e sui metodi imposti da Stalin a Togliatti e al partito italiano. Il dissenso si aggravò in seguito al patto stipulato dall’Urss con la Germania di Hitler nel 1939; ma Terracini veniva guardato con sospetto dagli altri detenuti comunisti già prima, quando, scontati cinque anni di isolamento, fu trasferito a Civitavecchia. Nel 1942, addirittura, lui e Camilla Ravera vennero espulsi dal partito per decisione del direttivo dei confinati a Ventotene. Proprio lui, il più conosciuto fra i fondatori del partito, grazie anche alla sua apprezzatissima vis oratoria, l’imputato a cui fu comminata la condanna più severa dal Tribunale speciale fascista (22 anni, 9 mesi e 5 giorni), sopportò anche questa umiliante esclusione senza venir meno alla lealtà nei confronti dei compagni. Intanto il regime ricorreva a ogni sopruso per spezzarne la tempra. Quando da Ponza protesta perché è stata trasferita la compagna Frine Grespi con cui aveva instaurato una relazione, questa è la disposizione del prefetto di Littoria: “Nessuna richiesta di un detenuto politico come lui, per giunta ebreo, può essere accolta”.

Verrà riammesso nel Pci per volontà di Togliatti tornato da Mosca solo nel 1945, e col parere contrario di vari dirigenti come Amendola, Scoccimarro, Secchia, gelosi del suo prestigio e sospettosi della sua indipendenza di giudizio.

In effetti gli darà del filo da torcere lungo tutto il dopoguerra. Togliatti lo tiene ai margini del gruppo dirigente, ma capisce che Terracini è l’uomo più credibile da spendere per rappresentare l’originalità del comunismo italiano alla guida dell’Assemblea Costituente. Ma a Botteghe Oscure avrebbero dovuto fare i conti con un tipo ribelle che era stato in carcere la prima volta nel lontano 1916 per un comizio nel Vercellese contro la guerra. Arrestato per giunta insieme a Maria Giudice, antesignana del femminismo italiano, che all’epoca aveva già avuto otto figli fuori dal matrimonio e in seguito avrebbe messo al mondo la scrittrice Goliarda Sapienza. C’è da stupirsi se già negli anni Venti del secolo scorso Terracini si pronunciava in favore del divorzio? Se nel 1945 proporrà il voto ai diciottenni? Se nel 1947 da presidente a Montecitorio se n’è infischiato della grande stampa (firme illustri comprese, da Gorresio a Zatterin) che trovava scandalosa la sua convivenza more uxorio con una donna già sposata? Lui che conosce bene la vita del carcere proporrà un emendamento, ovviamente bocciato, per limitare le pene detentive alla durata massima di 15 anni.
Molti anni dopo, nel 1974, fu l’unico tra i comunisti a opporsi al finanziamento pubblico dei partiti, facendo presente che “nell’opinione pubblica questa legge è considerata una nuova manifestazione dell’avidità della classe politica”.

Più conosciuta è la contrarietà di Terracini alla linea del Compromesso storico con la Democrazia Cristiana. La esprimeva nei congressi e anche nei seguitissimi comizi, intanto che si rafforzava il legame fra il vecchio dirigente comunista e i giovani dei movimenti nati alla sinistra del Pci. Fiero avvocato antifascista, indulgente con gli estremisti, mai però un cedimento nella ferma condanna del brigatismo rosso. Potrei continuare a lungo, attingendo alla miniera preziosa di questa biografia. Mi colpisce la sensazione di incontrarvi un uomo riuscito a mantenersi giusto, e non per furbizia, anche quando la sua parte sbagliava. Quando morì a 88 anni nel 1983, disse di lui Sandro Pertini: “Se dovessi descrivere graficamente la vita di Umberto Terracini prenderei una penna e traccerei una linea retta”.


Gad Lerner


(Tratto da «Il Fatto Quotidiano», Anno 16, n. 52, 22 febbraio 2024).


Inserito il 27/02/2024.

Dal sito di «Articolo Uno»

David Tozzo

Umberto Terracini
Comunista eretico, radicale libero

(Roma, Edizioni Efesto, 2020)

recensione di Alessandro Sitta

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Terracini, una storia di libertà.

Saggio su un uomo e sul suo partito


di Alessandro Sitta


Il centenario della nascita del Partito Comunista d’Italia ha riacceso il dibattito sulle grandi figure che di tale evento furono protagoniste. In questa discussione si inserisce il libro di David Tozzo Umberto Terracini. Comunista eretico, radicale libero, edito da Efesto, che, arricchito da uno scritto di Federico Fornaro e da una postfazione di Arturo Scotto, ci presenta in maniera viva ed affascinante la figura di questo nostro Padre della Patria, ci racconta la sua drammatica biografia umana e politica e analizza i tratti salienti del suo pensiero e della sua attività istituzionale, con l’ausilio delle parole di Terracini stesso.

Giovane avvocato proveniente da una famiglia della borghesia genovese, Terracini fu uno dei protagonisti assoluti della nascita e del primo radicamento del Partito comunista in Italia, dalla scissione di Livorno, passando per la fondazione insieme a Gramsci della rivista «L’Ordine nuovo», fino alla partecipazione al vivo e acceso dibattito del primo comunismo internazionale al fianco di personaggi quali Lenin e Trotskij.

Perseguitato e incarcerato dal regime fascista in quanto comunista ed ebreo, Terracini trascorse quasi vent’anni tra carcere e confino, prima di unirsi alla guerra di Liberazione nazionale. Proprio al periodo della prigionia nell’arcipelago pontino risale la sua espulsione dal Partito comunista, dovuta ad alcune sue posizioni considerate non in linea con l’ortodossia staliniana (si era opposto convintamente sia alla nozione di “socialfascismo” sia al patto Molotov-Ribbentrop), espulsione poi rientrata all’alba della nascita della Repubblica.

Eletto all’Assemblea Costituente, ne divenne in seguito presidente dopo le dimissioni di Saragat, offrendo un contributo fondamentale alla stesura dell’atto di nascita della nostra democrazia. Ininterrottamente membro del Senato fino alla sua morte, nel 1983, fu per diverse legislature capogruppo del Pci e concentrò la sua intensa attività politica sulla difesa della democrazia progressiva e la lotta per i diritti dei lavoratori.

Cosa resta di vivo, di attuale, perfino di necessario, della biografia e del pensiero di questo grande uomo politico? Tra i tanti, tre sono, a mio parere, i punti che vale la pena di sottolineare.

In primo luogo, la relazione fortissima, inscindibile, che si dà, nella figura di Terracini, tra biografia e messaggio politico. Leggendo le pagine della sua vita e i suoi discorsi, ci si rende conto di come per lui la militanza comunista non fosse solo e soltanto una scelta ideale, ma innanzitutto un impegno valoriale ed esistenziale profondo, pagato sulla propria pelle con anni di prigionia e di lotta. Così, come ben sottolinea Tozzo, l’antifascismo e la lotta per la democrazia appaiono in Terracini tutt’uno con la sua scelta preferenziale per gli ultimi, per gli esclusi, per coloro cui l’orizzonte comunista deve offrire una possibilità di redenzione.

In secondo luogo, tratto saliente della biografia politica di Terracini appare il suo essere insieme pensatore critico, autonomo e indipendente (perfino eretico, scrive Tozzo) e contemporaneamente membro organico di quel Partito comunista che, proprio a causa della sua eterodossia, arrivò addirittura ad espellerlo. Lungi dall’essere una contraddizione, questo aspetto si rivela invece fecondissimo. In un’epoca nella quale assistiamo, da un lato, alla fioritura di partiti personali, costruiti attorno all’obbedienza a un leader, costitutivamente incapaci di sopportare e valorizzare pluralismo e critica interna, e, dall’altro lato, a uomini politici talmente innamorati delle proprie convinzioni da spingersi fino al narcisismo, l’esempio di Terracini ci mostra come l’autonomia del singolo non debba necessariamente essere negata dal partito ben organizzato, ma al contrario possa esserne inverata, sintetizzata in un’unità superiore e più generale che le restituisce un senso che altrimenti da sola non avrebbe (un’efficienza e una concretezza, direbbe Terracini) in una sorta di aufhebung che rivela la ragione e il senso profondi di una militanza politica comune.

L’ultimo aspetto, infine, riguarda la natura stessa dell’esperienza comunista in Italia. La vita e il pensiero di Terracini mostrano come, al netto di errori, ritardi e ingenuità, la storia del PCI sia stata una storia di libertà e per la libertà. E questo non soltanto per il prezzo di sangue pagato durante la lotta al nazifascismo, non soltanto per il ruolo determinante giocato prima, dopo e durante la fase costituente, ma anche perché, come la biografia stessa di Terracini dimostra, il pluralismo insito in quell’esperienza ne ha fatto lievito della crescita democratica e culturale italiana. Come scrive Scotto nella postfazione al volume: “Il partito… entra nelle pieghe della società, attraverso un tessuto di luoghi e di strutture associative che gli consentono un radicamento sociale diffusissimo e inedito nelle democrazie occidentali, diventa attraverso le sue riviste ed i suoi giornali il perno del rinnovamento… della cultura italiana”. Una storia per molti aspetti irripetibile ma che costituisce ancora oggi una formidabile lezione per tutti quei partiti che aspirino a rappresentare istanze collettive di progresso e ad incidere sulla realtà.


4 marzo 2021


Alessandro Sitta


(Tratto da: https://articolo1mdp.it/terracini-una-storia-di-liberta-saggio-su-un-uomo-e-sul-suo-partito/).


Inserito il 27/02/2024.

Dal sito “Canzoni contro la guerra” antiwarsongs.org

Stalingrado degli Stormy Six

Dopo Stalingrado tutto cambiò. Il 2 febbraio 1943 i sovietici misero fine all’assedio della città sul Volga da parte delle truppe dell’Asse con la resa dell’ultimo soldato tedesco. Fu il momento della svolta nell’andamento della Seconda guerra mondiale: da Stalingrado i sovietici iniziarono il cammino che li avrebbe portati vittoriosi due anni dopo fino al cuore del Reich, a Berlino.

La battaglia di Stalingrado costò alle due parti un milione e mezzo tra morti e dispersi (vedi l’articolo nella sezione “Storia – Storie”: 2 febbraio 1943: Stalingrado, la svolta).
Il gruppo musicale Stormy Six compose nel 1975 la canzone Stalingrado nell’ambito dell’album Un biglietto del tram, un classico esempio di musica impegnata e militante. Erano gli anni della contestazione giovanile e studentesca, dei mille gruppi di sinistra extraparlamentare, dell’ondata politica che premiò il PCI alle elezioni. Insomma, il clima giusto per accogliere canzoni di protesta, militanti, politiche, e il brano Stalingrado ne è senza dubbio un brillante esempio.

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Stalingrado

Fame e macerie sotto i mortai

Come l’acciaio resiste la città

Strade di Stalingrado di sangue siete lastricate

Ride una donna di granito su mille barricate


Sulla sua strada gelata la croce uncinata lo sa

D’ora in poi troverà Stalingrado in ogni città


L’orchestra fa ballare gli ufficiali nei caffè

L’inverno mette il gelo nelle ossa

Ma dentro le prigioni l’aria brucia come se

Cantasse il coro dell’Armata Rossa


La radio al buio e sette operai

Sette bicchieri che brindano a Lenin

E Stalingrado arriva nella cascina e nel fienile

Vola un berretto, un uomo ride e prepara il suo fucile


Sulla sua strada gelata la croce uncinata lo sa

D’ora in poi troverà Stalingrado in ogni città 

Gli Stormy Six nel 1974.

Fonte della foto: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/1/19/Stormy1974.jpg

Dal sito «stonemusic.it»

Chi erano gli Stormy Six

di Claudia Marzetti

La carriera del gruppo milanese degli Stormy Six raccontata in dieci canzoni.

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La carriera degli Stormy Six in 10 brani


Tra il 1965 e il 1983 gli Stormy Six hanno costruito una carriera piena, diventando maestri della canzone d'autore e ottenendo un grande successo europeo e nazionale. Ecco la loro carriera in 10 brani.

Nel 1966 uscì il primo 45 giri degli Stormy Six, contenente Oggi piango, cover di All or Nothing del gruppo mod Small Faces, e soprattutto Il mondo è pieno di gente, primo singolo originale composto da Franco Fabbri.

Il primo LP, LE IDEE DI OGGI PER LA MUSICA DI DOMANI (1969) è preceduto dall'uscita di Lui verrà/L'amico e il fico, secondo 45 giri sempre pubblicato dalla Bluebell. È il 1967, i Rolling Stones si preparano alla loro prima tourneé italiana, e gli Stormy Six vengono scelti come uno dei gruppi spalla.

Dopo alcune uscite come Alice nel Vento e Il venditore di fumo, nel 1971 gli Stormy Six realizzano Leone, che diventerà un tormentone estivo. Per l'omonimia con il Presidente della Repubblica dell'epoca, Giovanni Leone, il gruppo inizia ad avere un'aura politica che diverrà sempre di più un marchio di fabbrica.

La manifestazione infatti è la prima canzone esplicitamente politica. Viene rilasciata nel 1971, anno in cui gli Stormy Six entrano a gamba tesa nel settore della "canzone politica". E si scontrano anche con la censura applicata dalla Commissione d'ascolto della RAI sul loro album L'UNITÀ, UN CONCEPT ALBUM.

Sotto il bam-bù è il tentativo della casa discografica di rimettere gli Stormy Six su dei binari innocui. Il testo del brano, che dovrebbe far parte di UN DISCO PER L'ESTATE, viene modificato dal gruppo. La RAI lo boccia, e la casa discografica è costretta a pubblicare Sotto il bam-bù con un testo ulteriormente rimaneggiato. Questo episodio di censura diventa uno strumento politico nelle mani della stampa di opposizione.

GUARDA GIÙ DALLA PIANURA viene inciso nel 1973, in collaborazione per la prima volta con Umberto Fiori, Carlo De Martini e Tommaso Leddi. L’album è una testimonianza delle proteste di diversi Paesi nel mondo.

Il 1975 è l'anno di Stalingrado e La Fabbrica, tra i brani di maggior successo del gruppo. L’album che li contiene, UN BIGLIETTO DEL TRAM, viene pubblicato dalla Cooperativa L’Orchestra, nata da pochi mesi con il progetto di diventare un’etichetta discografica indipendente.

Dopo il grande riscontro di Stalingrado e La Fabbrica, che diventano dei veri e propri inni a festival, manifestazioni, occupazioni, feste dell’Unità, i nuovi fan degli Stormy Six rimangono spiazzati da CLICHÉ, il successivo album del gruppo, totalmente strumentale. Nonostante lo sgomento del nuovo pubblico, l’album viene apprezzato ampiamente dalla critica jazz internazionale.

Con L’APPRENDISTA gli Stormy Six entrano con piena dignità nel mondo del prog. Ancora una volta vengono pubblicati da L’Orchestra (in collaborazione con il Consorzio Comunicazione Sonora, connubio delle più importanti etichette discografiche indipendenti dell’epoca). È con MACCHINA MACCHERONICA, nel 1980, che il gruppo diventa davvero europeo, vincendo il premio come miglior album rock dell’anno, attribuito dalla critica discografica tedesca, che scarta invece i Police, al secondo posto.

AL VOLO è l’ultimo album pubblicato durante i principali anni di attività degli Stormy Six: viene rilasciato nel 1982, e poco tempo dopo la band decide di sciogliersi, per riunirsi occasionalmente (per dirne due, a Torino nel 1997, al Festival Settembre Musica e a Cividale del Friuli nel 2005, al Mittelfest).


Claudia Marzetti


(Tratto da: https://stonemusic.it/47825/la-carriera-degli-stormy-six-in-10-brani/).

Dal settimanale «La Lettura»

Gian Piero Piretto

L’ultimo spettacolo

I funerali sovietici che hanno fatto storia

(Novara, Raffaello Cortina Editore, 2023)

recensione di Massimo Zamboni

Nella sua rassegna di funerali sovietici Gian Piero Piretto accosta le esequie di Lenin e Stalin a quelle di personaggi scomodi per il regime: Majakovskij, Pasternak, Anna Achmatova e il popolarissimo cantautore Vysockij.

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Gian Piero Piretto

L’ultimo spettacolo

I funerali sovietici che hanno fatto storia

(Novara, Raffaello Cortina Editore, 2023)


recensione di Massimo Zamboni


«Noi condanniamo l’atto assurdo e ingiustificato di Majakovskij. È una morte stupida e vile. Noi non possiamo fare a meno di protestare decisamente contro la sua dipartita». Noi. La riprovazione ufficiale si arroga il diritto di esprimersi a nome dell’intero popolo sovietico, pronunciandosi in quella prima persona plurale. Il colpo di pistola che mette fine alla vita del poeta è letto come un atto di ribellione estrema, un’accusa di fallimento di un intero sistema. Occorre ribaltarne i termini, mettendo in atto a giustificazione la sua burrascosa vita sentimentale, quei «meschini sentimenti personali» derivanti dal vecchio mondo. Ma a dispetto delle parole d’ordine nessuno potrebbe persuadere a un ripudio le centocinquantamila persone che spontaneamente andranno a recare l’ultimo omaggio alla salma nella camera ardente al Circolo degli Scrittori, assieme all’impressionante moltitudine che seguirà il feretro. Una manifestazione di sgomento popolare che mescola la devozione alla curiosità, e si assomma come significato agli arredi funebri in pura sostanza futurista (la corona composta da martelli, viti, bulloni, «ghirlanda di ferro per un poeta di ferro») e al dovere da parte delle autorità di riportare a una dimensione controllata un evento così imbarazzante.

Quell’irreparabile fuga di Vladimir Majakovskij dal byt, dall’estenuante marcire quotidiano, non può essere tollerata nella società dell’uomo nuovo. Si impone un recupero pubblico, condensato in future tonnellate di bronzo e marmo, di ovazioni postume. La più celebre, quella di Stalin: «Majakovskij è stato e resta il migliore e più talentuoso poeta della nostra epoca sovietica». In una terra dove si può morire per una poesia – per dirla con Nadežda Jakovlevna Mandel’štam, moglie di Osip Mandel’štam – non è bene lasciare alle masse i loro cantori.


* * *


Questa è una delle tante discrasie messe in mostra da Gian Piero Piretto nel suo L’ultimo spettacolo (Raffaello Cortina Editore). La determinazione di una gestione pubblica della cerimonia funebre, l’innesto di una liturgia rigorosissima, la convenienza politica, l’appassionata partecipazione popolare, spontanea e assieme indotta, costruiscono un unicum che forse soltanto in quel Paese si è saputo esprimere in dimensioni impensabili altrove. Le grandi morti che si susseguono dagli anni della rivoluzione a oggi solcano la società sovietica e russa, imponendosi come spettacoli necessari.

I funerali sovietici che hanno fatto sto ria, per riprendere il sottotitolo del libro, sono sempre eventi pubblici. Il testo di Piretto spazia in più campi, anche spiazzanti tra loro: come assimilare nelle stesse pagine Vladimir Lenin e Evgenij Prigožin, Sergej Esenin e Iosif Stalin, Jurij Gagarin e Boris Pasternak, Anna Achmatova, Michail Gorbaciov e molti altri, fino a quella lapide che riporta a dimensione naturale l’immagine di un capomafia, con tanto di abito che si suppone elegante e una Mercedes a coronamento dello status raggiunto? È la grandiosità della cerimonia organizzata a porsi come denominatore.

Per meglio afferrare l’entità del fenomeno, basterebbe scorrere i vari link YouTube che Piretto opportunamente dissemina nel libro, come tasselli di una mappatura: dai funerali di Pasternak, inquadrati dalle telecamere irritate dell’Apparato, a quelli di Piotr Kropotkin, a Gagarin per quanto riguarda gli intellettuali e gli eroi. Molto più note universalmente le esequie dei grandi condottieri, da Lenin a Stalin a Sergej Kirov. Propaganda, imbroglio, verità, verosimiglianza? La sacralità che percorre quei riti, e che i mausolei posteriori cercano in qualche modo di arginare in strutture architettoniche di eguale portata; la perfezione dei movimenti; le scenografie imperiali: sembra di assistere a una costruzione teatrale, più che a cronache di fatti. E quegli sguardi più attoniti, più spaventati dei partecipanti: «Di dove viene quest’uomo / di ogni uomo più umano», in tanti sembrano chiedersi di Lenin, esprimendosi attraverso le parole del poema di Majakovskij. L’onnipresenza di Stalin, tiranno shakespeariano sempre in mostra nei funerali di Stato, ripreso, fotografato, esibito, colto in primo piano dalle telecamere nel portare sulle spalle la bara dell’assassinato Kirov tra le ali della folla. Anche da cerimonie come queste, sapientemente edificate, passa la creazione del suo mito. Fino alla sua improvvisa scomparsa, cui Piretto dedica un lungo ed esauriente capitolo intitolato Dio è morto! Fiumi di lacrime! dove si colgono l’incredulità e lo smarrimento di un intero impero per lo spegnersi inammissibile di quella guida dalle caratteristiche quasi divine.


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E cosa accade nella nuova Russia post-sovietica? Nessun onore di Stato per il funerale di Gorbaciov, profilo tenuto volutamente basso per scoraggiare la partecipazione pubblica, l’attuazione di sistemi di controllo e un freddo telegramma dal Cremlino. La Russia di Vladimir Putin non consente orazioni che possano suggerire una comparazione tra le epoche.

Piretto racconta la vera idolatria della morte messa in atto invece per le sepolture dei componenti della compagine Wagner, dove il processo di minimizzazione del valore della vita umana persegue logiche di negazione dei decessi, per non appesantire un bilancio di guerra elevatissimo. Gli uccisi valgono come rotelle di un ingranaggio superiore, nulla di più. È una morte giusta, affrontata in nome della Patria.

Differente il caso del loro leader Evgenij Prigožin, su cui si chiude il libro. La sua morte accidentale non si può evitare. A lui spetta un non-funerale, insiste Piretto, un depistaggio informativo che obbliga i suoi sostenitori a rimbalzare da un cimitero all’altro per intercettare una cerimonia che non è voluta. Smentite, conferme, le parole taglienti di Putin che nel telegramma di condoglianze lo chiama «uomo dal destino difficile», arrivato a ottenere «i risultati desiderati». Un cinico macigno timbale verso l’ex eroe della Russia, responsabile di un intollerabile fallito tradimento. Fino all’annuncio postumo da parte del suo ufficio stampa, che soltanto a inumazione avvenuta potrà rivelare il luogo della sepoltura.

Tutto questo è gestione del potere. Tornando all’umano, come non concludere con la scomparsa del popolarissimo cantautore Vladimir Vysockij? Quasi una ennesima beffa, avvenuta proprio durante i giochi olimpici di Mosca del 1980. Nonostante il silenzio ufficiale, in una città tirata a lucido per le telecamere internazionali la notizia corre, centinaia di migliaia di persone disertano le competizioni per invadere la piazza del teatro Taganka dove è allestita la camera ardente. La voce del cantante rimbalza nelle strade dalle centinaia di magnetofoni che riportano in vita le sue canzoni, si mescola al pianto, al nome urlato. Ancora una volta, come Esenin, come Majakovskij – tutti poeti «dissipati» dalla loro generazione, seguendo l’azzeccata definizione di Roman Jakobson – un ubriacone scomposto, intossicato e ingestibile ha saputo incarnare in sé il vero cuore del popolo sovietico. «Io non amo la certezza piena / è meglio se i freni non rispondono»: un’altra mente generosa è scomparsa, in accordo con «l’amara tradizione della poesia russa» evocata dalle parole del regista teatrale Jurij Ljubimov a lui contemporaneo: quella di non saper proteggere in vita i suoi figli migliori. Tutti tanto amati e pianti da mettere in affanno una autorità statale che avrebbe voluto essere incoercibile.


Massimo Zamboni


(Tratto da: Massimo Zamboni, Mosca in lacrime per l’ubriacone, in «La Lettura», n. 628, «Corriere della Sera», 10 dicembre 2023).


Inserito il 29/12/2023.

Segnalazioni librarie

Nando Simeone

Ottobre 1917 e il Biennio Rosso 1919-1920
La rivolta contadina nella Terra di Lavoro di Caserta

(Roma, Edizioni Karl&Rosa, 2023)

Nel cuore di un’Europa sconvolta da eventi epocali, questo libro scava profondamente nella storia, esaminando una parte meno conosciuta ma fondamentale del passato italiano ed europeo.

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Nando Simeone

Ottobre 1917 e il Biennio Rosso 1919-1920
La rivolta contadina nella Terra di Lavoro di Caserta

(Roma, Edizioni Karl&Rosa, 2023)


Da Caserta a Berlino, da Budapest a Roma, da Londra a New York l’intero continente è pervaso da uno spirito rivoluzionario. Tra i lavoratori c’è un profondo senso non solo di malcontento ma di collera e di rivolta contro le condizioni pre e postbelliche. Tutto l’ordine esistente nei suoi aspetti politici, sociali ed economici viene messo in causa dalle masse della popolazione da un capo all’altro d’Europa: abbiamo sia le occupazioni delle fabbriche che le occupazioni delle terre ed importanti conquiste sociali e politiche.

Questa opera appassionante offre una prospettiva dettagliata delle lotte operaie e contadine che hanno agitato l’Italia con particolare attenzione ai settori più avanzati come quelli nella terra del lavoro di Caserta, e del loro ruolo nel contesto più ampio del Biennio Rosso.

Questo libro è imprescindibile per coloro che desiderano conoscere ed immergersi nella storia del XX secolo, esplorando il tessuto delle lotte sociali, l’importanza dell’intreccio tra la rivolta operaia e la rivolta contadina e il contesto europeo in cui tutto ciò si è verificato. È adatto sia ai lettori esperti che a chi vuole approcciare questo capitolo affascinante della storia italiana.

· Scopri le radici delle rivolte contadine che hanno plasmato il destino della Provincia di Caserta durante il Biennio Rosso.

· Comprendi il ruolo delle forze produttive mature, dei rapporti di classe e dell’ecosistema sociale nel contesto del periodo.

· Esplora come il fascismo rappresenti la vendetta e la reazione della classe dominante in risposta al panico che aveva provato nel settembre del 1920, mentre allo stesso tempo, rappresenta una lezione su ciò che dovrebbe essere un partito politico: centralizzato, unito e con idee chiare. Un soggetto politico che deve essere attento nella scelta delle condizioni ma allo stesso tempo deciso nell’applicare i metodi necessari nell’ora decisiva.

· Indaga come la mancanza di una leadership politica abbia influito sul corso degli eventi,

· Apri una discussione sulla necessità di nuove forme di organizzazione e pensiero, come l’eco-socialismo, per affrontare le sfide attuali e future.

Il sistema capitalistico mondiale si trova in una storica bancarotta, incapace di risolvere le crisi ecologiche, sociali e alimentari. Di fronte a questa moderna barbarie, è necessario rispondere con un nuovo internazionalismo eco-socialista universale. La questione ecologica rappresenta la questione sociale e politica centrale del XXI secolo, e quindi costituisce la grande sfida per il rinnovamento del pensiero marxista nel nostro tempo.


(Tratto da: https://www.edizionikarlandrosa.it/titolo/ottobre-1917-e-il-biennio-rosso/).


Inserito il 28/12/2023.

Dal sito «cabiriamagazine.it»

Dimenticata militanza
Un ritratto politico di Gian Maria Volonté

di Caterina Sabato, Attilio Pietrantoni, Susanna Terribile, Patrizio Partino

«Io cerco di fare film che dicano qualcosa sui meccanismi di una società come la nostra, che rispondano a una certa ricerca di un brandello di verità. Per me c’è la necessità di intendere il cinema come un mezzo di comunicazione di massa, così come il teatro, la televisione. Essere un attore è una questione di scelta che si pone innanzitutto a livello esistenziale: o si esprimono le strutture conservatrici della società e ci si accontenta di essere un robot nelle mani del potere, oppure ci si rivolge verso le componenti progressive di questa società per tentare di stabilire un rapporto rivoluzionario fra l’arte e la vita».

Gian Maria Volonté

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“Io cerco di fare film che dicano qualcosa sui meccanismi di una società come la nostra, che rispondano a una certa ricerca di un brandello di verità. Per me c’è la necessità di intendere il cinema come un mezzo di comunicazione di massa, così come il teatro, la televisione. Essere un attore è una questione di scelta che si pone innanzitutto a livello esistenziale: o si esprimono le strutture conservatrici della società e ci si accontenta di essere un robot nelle mani del potere, oppure ci si rivolge verso le componenti progressive di questa società per tentare di stabilire un rapporto rivoluzionario fra l’arte e la vita” .

Gian Maria Volonté

Anche attraverso queste parole possiamo delineare la figura di Gian Maria Volonté, rimpianto attore capace di coniugare perfettamente talento, straordinario mimetismo e impegno politico. Quest’ultimo è il lato di certo più discusso, forse meno conosciuto. Nasce proprio da qui l’esigenza del filmaker, produttore e montatore Patrizio Partino di riprendere il discorso politico su Gian Maria Volonté con il documentario: Dimenticata Militanza – Un ritratto politico di Gian Maria Volonté.
Co-prodotto da Zi&Pa Pictures e Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, ad oggi è disponibile una versione da 15 minuti, ma il progetto ne prevede una estesa alla quale Partino e la sua troupe continuano a lavorare intensamente anche attraverso la campagna di crowdfounding ((https://it.ulule.com/dimenticatamilitanza/) con cui chiunque può contribuire con una minima offerta. Il progetto è denso di partecipazione, ricerca e documentazione e già nella versione “breve”  traccia un ritratto definito del Volonté impegnato politicamente e socialmente, un’immagine dell’uomo pubblico oltre che dell’attore.
Così in Dimenticata Militanza, tra le immagini di repertorio di lavoratori rabbiosi, in lotta per i propri diritti, tra le assemblee affollate e gli slogan gridati al padrone, troviamo il Volonté militante alle prese con le prove di uno spettacolo di protesta sulla morte dell’Anarchico Pinelli. Un attore che ha dato a loro (al movimento operaio) voce e corpo anche attraverso l’indimenticabile interpretazione di Lulù Massa in La classe operaia va in paradiso di Elio Petri del 1971. Volonté sullo schermo incarna l’operaio medio durante i tumulti nelle fabbriche italiane: uno stakanovista alienato, nevrotico, una “macchina” da sfruttare fino all’esaurimento. Oltre la sala , l’attore milanese si è sempre schierato dalla parte dei lavoratori, presenziando in prima linea a comizi e assemblee.

Abbiamo rivolto alcune domande a Patrizio Partino riguardo questo suo ambizioso progetto e la sua visione di Gian Maria Volonté attore e militante.



Dimenticata Militanza: intervista a Patrizio Partino, regista del documentario 


di Susanna Terribile


Da cosa nasce l’esigenza di raccontare l’impegno politico di Volonté? Il titolo Dimenticata Militanza può essere considerata una risposta a questa domanda o si riferisce anche ad altro?

Oggi essere politicamente impegnati appare come qualcosa fuori dal tempo. Di politica si parla poco e male, sempre in modalità “chiacchiera da bar”. Ed è per questo che certe formazioni politiche (o antipolitiche come amano definirsi) sono riuscite a farsi strada. Tutto è ridotto allo slogan, alla battuta più trucida che si possa trovare. È come se si fosse reso tutto meno serio e più (fintamente) accessibile a tutti. Quando invece la politica e il fare politica sono cose molto serie, complesse e importanti per cui è necessario studiare. È qualcosa che ovviamente anche io non conosco a dovere e non so gestire, che non fa parte dei miei studi. Proprio per questo si deve evitare di portare ad un livello superficiale tutto, rischiando di cadere nello stereotipo e nel pregiudizio. Dunque tutto nasce dalla necessità di tornare un attimo a riflettere. Ragionare sul momento che stiamo vivendo senza lasciarsi andare, appunto, a pericolose e anche pigre semplificazioni. Volonté come modello di un modo di vivere la politica e di avere un proprio, elaborato pensiero politico. Il titolo si riferisce infatti tanto a questo lato di Volonté, poco conosciuto e ricordato, quanto proprio a un rimosso atteggiamento, a una rimossa volontà di pensare e cercare di capire.


È stato agevole reperire il materiale d’archivio o hai incontrato ostacoli di qualche natura? Nella ricerca del materiale è spuntato fuori qualcosa di inaspettato che ti ha fatto modificare l’idea di partenza? 

Il progetto nasce nell’ambito del Premio Cesare Zavattini, dunque con l’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico di Roma che metteva a disposizione i suoi materiali per tutti i finalisti. Per questo motivo non è stato difficoltoso rinvenire il repertorio, giocavo in un certo senso “in casa”. Facendo ricerche in archivio sono uscite fuori nuove cose non rintracciate a un primo sguardo sul materiale. Per dire, ci sono alcuni cineracconti sul Vietnam molto affascinanti, dove la voce narrante è proprio di Volonté. Non sono andati ad intaccare la linea originale su cui era impostato il progetto, ma indubbiamente è stata una buona scoperta.


Come si è evoluto il vostro pensiero riguardo G.M. Volonté durante tutto il lavoro? O meglio, la vostra idea iniziale di Volonté attivista e militante ha subito un cambiamento lavorando il materiale che avete avuto tra le mani?

Il materiale e la scoperta di certi filmati hanno la loro importanza. Ma la cosa che più va ad influenzare l’andamento del documentario e la ricerca continua che stiamo facendo sono di certo le interviste. È l’elemento che più degli altri ha il sapore dell’approfondimento, della scoperta. A loro modo sono imprevedibili, non facilmente cesellabili. Per quanto poi agli intervistati si facciano delle domande ben precise e non improvvisate proprio per non deragliare con troppa facilità rispetto al fulcro del racconto, è difficile che non escano ad un certo punto fuori racconti, momenti intimi e inediti. Che ci portano a riflettere di nuovo su ciò che stiamo facendo e su ciò che vogliamo raccontare. Credo sia inevitabile, però c’è da dire che è anche una fortuna per un lavoro del genere. Inietta ulteriore curiosità e stimola a continuare assiduamente il lavoro che si sta facendo.


Nella “versione breve” è presente la testimonianza di Oreste Scalzone, fondatore di Potere Operaio e amico di Volonté, e l’attore in video di repertorio parlare in difesa degli operai, contro la guerra in Vietnam o nelle immagini di Ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli di Elio Petri. Puoi già dirci qualcosa sugli interventi della versione estesa?

Nella versione breve, i quindici minuti erano ovviamente limitanti. Stringevano troppo il materiale così come l’intervista ed è stato necessario selezionare fin troppo cosa inserire e cosa invece dover lasciare fuori. Nella versione estesa l’idea è di dare ovviamente dovuto respiro ai materiali che sono stati un po’ troppo sacrificati, potendosi soffermare meglio su alcuni momenti, dando il giusto spazio alle congiunzioni tra un evento e l’altro, alle “cavalcate temporali”. Oltre al fatto che il numero degli intervistati sarà maggiore. Come già detto però, queste sono praticamente delle ipotesi. Sono intenzioni di cui terremo conto, ma che sono pronte a trasformarsi o adattarsi durante il corso della realizzazione a favore di nuove connessioni e nuovi spunti. Ma insomma, questo è un atteggiamento quasi necessario direi, un requisito importante se non essenziale quando si lavora su e per un progetto simile.

[…]


Quali parti oggi Volonté avrebbe interpretato in un cinema sempre più impoverito dal punto di vista sociale?

Prendiamo uno dei registi con cui Volonté ha collaborato più volte, Francesco Rosi. Un regista che dall’anno della scomparsa di Volonté fino alla sua morte nel 2015 ha realizzato solo un film, ossia La tregua. Mancanza di stimoli? Non sentiva più la necessità di fare cinema? Ecco pensando a questo, ho la forte impressione che anche un personaggio come Gian Maria Volonté avrebbe faticato a trovare stimoli veri per continuare a fare il suo lavoro secondo i suoi criteri. Avrebbe atteso invano di ricevere offerte per interpretare un certo tipo di personaggi, come quelli interpretati negli anni sessanta e settanta. Così come penso che, se fosse sopravvissuto alla malattia, anche Elio Petri avrebbe di molto rallentato la sua attività professionale fino a fermarsi. In un cinema dove sembra non esserci più bisogno di un determinato tipo di film e di conseguenza di un determinato tipo di registi, dove non ci sono più produttori desiderosi di investire su quei film, autori come Petri (ma anche Vancini e Damiani) avrebbero smesso di dirigere per mancanza di stimoli. Non di materiale, ma di stimoli sì. Ecco però a pensarci… riguardo al materiale per tirare su certi film… Fosse stato ancora vivo Petri negli anni novanta, probabilmente qualcosa alla 1992 ma con un piglio più diretto e caustico sarebbe uscito fuori prima e sarebbe uscito oltretutto nei cinema.


Come pensi che Volonté, se fosse sopravvissuto agli anni ’90, si sarebbe approcciato con la nuova realtà mediatica? Alla luce di quanto hanno fatto alcuni suoi colleghi impegnati politicamente che hanno scelto o di sottrarsi alla luce dei riflettori o di scendere a compromessi, quale sarebbe stato secondo te l’atteggiamento di Volonté?

Difficile pensare che uno come Volonté sarebbe sceso a compromessi. Molto difficile pensarlo, davvero. Per uno che ha fatto della sua vita una battaglia continua e che ha pagato molto per i suoi atteggiamenti, tanto nel lavoro quanto nella salute. Credo che se fosse ancora tra noi, Volonté avrebbe ormai scelto di eclissarsi e scomparire lentamente, anziché dover arrivare a quelle mezze misure che lui stesso avrebbe schifato tempo prima. Avrebbe dunque deciso di farsi da parte, ma non prima di aver protestato con violenza in occasione della discesa in campo di Berlusconi così come contro il potere sempre più penetrante della televisione. E credo che, nella sua intimità e senza dirlo a nessuno, avrebbe sofferto molto per la situazione attuale, dove appunto quella spinta di mettersi perennemente in prima linea per un bene collettivo sembra essersi dissolta nel nulla.


Intervista a cura di Caterina Sabato, Attilio Pietrantoni e Susanna Terribile


(Tratto da: Caterina Sabato, «Dimenticata militanza» – Un ritratto politico di Gian Maria Volonté, in https://www.cabiriamagazine.it/gian-maria-volonte-documentario/; Susanna Terribile, «Dimenticata militanza»: intervista a Patrizio Partino, regista del documentario, in https://www.cabiriamagazine.it/gian-maria-volonte-indimenticabile-militante-intervista-al-regista-patrizio-partino/).


Inserito il 08/12/2023.

Dalla rivista «Per il Sessantotto»

Il cinema politico di Gian Maria Volonté

di Sergio Dalmasso

Lo storico del movimento operaio Sergio Dalmasso ricostruisce, per la rivista «Per il Sessantotto», la carriera cinematografica di Gian Maria Volonté, scandendo anche le fasi che attraversa il cinema italiano dagli anni Sessanta fino ai Novanta del secolo scorso.

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Il cinema politico di Gian Maria Volonté

di Sergio Dalmasso


Gian Maria Volonté nasce a Milano nel 1933. Si diploma nel ’57 all’Accademia nazionale di arte drammatica e svolge immediatamente intensa attività teatrale e televisiva. Partecipa alla versione televisiva dell’Idiota, da Dostoevskij, e a quella teatrale del Vicario che suscita scandalo e censure per le accuse al comportamento di Pio XII di fronte allo sterminio degli ebrei.

L’esordio nel cinema avviene nel 1960. Lavora, quindi, in La ragazza con la valigia di Zurlini , in vari film mitologici, in Un uomo da bruciare (1962) dei fratelli Taviani e Valentino Orsini, ispirato all’impegno contro la mafia del sindacalista Salvatore Carnevale, in Le quattro giornate di Napoli di Nanni Loi, nel Terrorista di Gianfranco De Bosio.

Acquista popolarità nel ruolo di banditi cinici, con barba incolta e sguardo crudele, anche se destinati alla sconfitta, nella grande stagione del western italiano con Per un pugno di dollari (’64) e Per qualche dollaro in più (’65) di Sergio Leone, o in un personaggio spassoso e caricaturale nell’Armata Brancaleone di Monicelli.


Il cinema degli anni ’60

Gli anni ’60 ripropongono, però, la dimensione politica del cinema, presente nel neorealismo degli anni ’40 e poi sostanzialmente scomparsa nel decennio successivo.

A fine anni ’50, film come Le notti di Cabiria, Il grido, Le notti bianche sembrano interpretare esteticamente la crisi di una società che sta subendo profondi mutamenti. Nel ’59, il festival di Cannes proietta anche in Italia la rivoluzione della nouvelle vague francese.

Immediatamente dopo, La dolce vita, L’avventura, Rocco e i suoi fratelli rappresentano la consapevolezza drammatica delle trasformazioni in corso, del processo di integrazione capitalista, del boom, dell’affermarsi di una società capitalisticamente avanzata, nello sfaldarsi etico, esistenziale e sociale davanti all’affermarsi della società industriale.

All’inizio del decennio, ricompare un cinema centrato sul ventennio fascista, affrontato in modo opposto a quanto suggerito da Barthes:


Il fascismo … ci obbliga a pensarlo esattamente, analiticamente, politicamente: la sola cosa che l’arte possa farne è di renderlo credibile, di dimostrare come venga, non a che cosa assomigli; in breve, non vedo altro modo che di trattarlo alla Brecht.1


I nostri registi scelgono la strada opposta, mostrando a che cosa il fascismo sia assimilabile: barbarie, violenza, sopraffazione e cadendo nella trappola segnalata da Adorno per cui nella letteratura impegnata anche il genocidio diventa un bene culturale e quindi diventa più facile continuare insieme il gioco nella civiltà che lo ha prodotto2.

La ripresa di un cinema antifascista produce, tra il ’60 e il ’63, oltre 40 film su guerra, fascismo, resistenza, tutti segnati da un legame con la commedia italiana (Risi, Salce, Comencini…) in cui il quadro storico non è mai approfondito, ma fa semplicemente da sfondo:


Il filone cinematografico sul fascismo valse quale contributo a fornire al piccolo borghese italiano (per consolarne i suoi dissensi e ottenere i suoi consensi) una sorta di lavacro storico del suo passato, con alcune conclusioni timidamente epiche, che lo facessero sentire in qualche modo partecipe di una fase eroica e irripetibile in modo che, così informato di avere già vissuto in lontane stagioni, direttamente o per delega, il suo giorno da leone, potesse coscienziosamente legittimare il morbido e opaco presente.3


I molti esordi registici del periodo (si parla, da parte delle case produttrici, di una “operazione giovani”) dimostrano il cambiamento in atto e come la dinamica che smuove il cinema e la cultura sia parte della dinamica politico-sociale del paese. Questo produrrà inizialmente speranze che prevarranno sul pessimismo di una sinistra che ha quasi introiettato la sconfitta; il risveglio, dopo il mancato cambiamento (quasi una riproposizione di un logica gattopardesca) sarà, ancora una volta, difficile. Questo avviene in coincidenza con la trasformazione e riduzione del ruolo dell’intellettuale:


Dissoltosi quel margine di autonomia sociale che all’intellettuale era tradizionalmente concesso nei confronti della classe stessa di cui mediava e sistemava l’ideologia in campo culturale, mentre il tradizionale compito di fabbricare e di distribuire le ideologie viene assunto in proprio dal capitale attraverso i mass-media, l’industria culturale, l’organizzazione della scuola e della università … man mano che questo processo di razionalizzazione va avanti e si perfeziona, cade per l’intellettuale la possibilità di raffigurarsi come un ideale e disinteressato produttore di idee, perché egli è sempre più chiaramente un salariato (tecnico specializzato) al servizio del capitale.4


Cambia anche il ruolo e l’impostazione delle riviste cinematografiche. Ad una lettura “impressionistica” del film, basata semplicemente sul gusto, si è sempre più sostituito lo storicismo marxista che ha fondato una solida metodologia critica, legata alla prassi politica. Accanto ai molti meriti, questo storicismo ha spesso limitato le valenze specifiche del linguaggio cinematografico, riconducendo il cinema ad un discorso più complessivo per la trasformazione della cultura e della società, come tutti i fenomeni artistici sono ricondotti alla realtà storico sociale che li ha prodotti. In questo quadro si sono mossi «Cinema sessanta» e «Cinema nuovo» (dal suo direttore Aristarco, tutta proiettata sulla variante lukacsiana dello storicismo) e parzialmente «Cineforum», che modifica nettamente la propria impostazione nel ’68, e «Filmcritica» che accoglierà letture strutturaliste.

Le trasformazioni del marxismo negli anni ’60 (da organica concezione del mondo ad un maggior interesse per le sue valenze metodologiche) portano ad una rivalutazione della autonomia e specificità della pratica cinematografica e ad un diverso ruolo dell’intellettuale. La critica allo storicismo è particolarmente presente in «Ombre rosse», nei «Quaderni Piacentini», nella prima fase di «Giovane critica», ma soprattutto in «Cinema e film», che tenta di capovolgere il ruolo del critico (non più dal film alla società e alla storia, ma dal film al sistema cinema che lo ha determinato).

In questo quadro, si hanno gli esordi di De Seta, Bertolucci, Pasolini, dei Taviani, la svolta di Antonioni, lo scandalo dell’iconoclasta Pugni in tasca di Bellocchio5. Non a caso, lo stesso Bellocchio sui «Quaderni Piacentini» aveva stroncato Le quattro giornate di Napoli, colpendo le pratiche archeologiche e imbalsamatorie del cinema resistenziale6.

Questo cinema mette oggettivamente in discussione l’interpretazione maggioritaria del marxismo anni ’50-primi anni ’60, il socialismo “resistenziale”. Compare con insistenza il rifiuto della propria classe di origine, la sartriana concezione del borghese traditore dei propri padri e della propria classe: è una produzione che si colloca, usando una espressione di Adelio Ferrero, nelle coordinate dell’autocoscienza borghese e che precede, per significato e uso politico, la forte connotazione anticapitalistica che si tenterà di darle nel ’68.

Il movimento studentesco ha scarsa capacità di proporre o di utilizzare un “altro cinema”. Il dibattito, iniziato al festival di Pesaro del ’68, privilegia un cinema didattico, rivolto al movimento di classe, ma di breve periodo e di scarso valore, di cui, terminata la fase alta di protesta resta poco:


Nel volger di pochi anni, con il riflusso del movimento e le sue lacerazioni interne, rimangono molti proclami e pochi tentativi concreti: oscillanti fra l’immediatezza del documento e una equivoca disposizione commemorativa, schiacciato da un apparato verbale meramente tautologico. Non solo: come è accaduto per altri aspetti della contestazione, le sue istanze più vitali vengono recuperate e neutralizzate dall’ideologia e dalle pratiche dominanti.7


Non si afferma, quindi, in Italia, l’ipotesi di uso politico del cinema. Prevale, invece, un “Cinema politico”, con una forte estensione tematica: resistenza, antifascismo, mafia, trame reazionarie, lotte operaie, recupero di parti dimenticate o cancellate della nostra storia e di figure significative (Mattei, Sacco e Vanzetti). I temi politici risultano spettacolarizzati, con molto spazio dato all’eroe, positivo o negativo, e alla struttura dei fatti. Nonostante alcune eccezioni, la grande eredità del neorealismo è svilita ed impoverita8.


I “travestimenti” di Volonté

A fine anni ’60, Volonté diviene un attore simbolo, quasi sinonimo di artista impegnato che caratterizza un film con la sua stessa presenza, interpretando sempre opere ispirate all’attualità anche se dietro alla cornice storica o mitologica. Lavora con Lizzani in Banditi a Milano, con i Taviani, nel ruolo del sovrano conservatore, in Sotto il segno dello scorpione, con Damiani in Quien sabe?, il western italiano che, più di ogni altro, coniuga l’ambientazione in Messico con temi rivoluzionari e anti-yanquees (da ricordare l’interpretazione gigionesca di Lou Castel, anch’egli impegnato politicamente, non solo sullo schermo), l’ufficiale nordista nell’apologo western di Godard Vento dell’est. Il maggiore successo giunge in seguito al sodalizio con Elio Petri nelle interpretazioni del commissario di polizia in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), dell’operaio, soggetto al mito del benessere e del consumo, in La classe operaia va in Paradiso (1971), sino al ruolo del politico, tanto simile ad Aldo Moro, in Todo modo (1976), tratto dal testo di Sciascia. Nel primo, il regista fonde elementi del film inchiesta con la struttura del giallo tradizionale, mettendo sotto accusa i principi della Legge e dell’Ordine, di un potere al di sopra di ogni morale. L’Oscar per il miglior film straniero sanziona il nascere di un genere che caratterizzerà i primi anni ’70. Più deboli i due film successivi, in particolare Todo modo, parabola sulla crisi del potere DC, costellato da sospetti, delitti, corruzione e dal massacro finale.

Eccezionali le capacità mimetiche dell’attore che sembra entrare nei personaggi, parlare, muoversi in una immedesimazione totale con loro. Costante pure la collaborazione con Rosi, da Uomini contro (1970), tratto da Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu e denuncia del militarismo, al Caso Mattei (1972) a Lucky Luciano (1973), riletture di parti della storia italiana che il grande regista napoletano dimostra di che lacrime grondi e di che sangue, mettendo in luce la corruzione, il condizionamento dei legami internazionali, i rapporti strettissimi tra mafia e potere politico e tra la mafia italiana e quella di oltre oceano. Nel Caso Mattei, a dieci anni di distanza da uno dei suoi capolavori, Salvatore Giuliano, Rosi riprende l’intreccio fra cronaca e ricostruzione documentaria, tra fiction e inchiesta giornalistico-politica, girata con ritmo serrato e capacità di porre domande e problemi allo spettatore. Volonté riesce a trasformarsi nei ruoli del presidente dell’ENI, del gangster italo-americano, come nell’ufficiale della prima guerra mondiale o del presidente della corrotta DC. La collaborazione con Rosi proseguirà anche in anni successivi, con Cristo si è fermato ad Eboli (1979) o Cronaca di una morte annunciata (1987).

La ricostruzione di pagine della nostra storia prosegue, nei primi anni ’70, con Sacco e Vanzetti (1971) e Giordano Bruno, ambedue di Giuliano Montaldo, drammatica ricostruzione, il primo, della tragica vicenda dei due anarchici italiani condannati a morte negli USA degli anni ’20, e al tempo stesso, accusa al razzismo e alla intolleranza proprie soprattutto delle società ricche ed “avanzate”, e poco riuscita ed eccessivamente predicatoria biografia, il secondo, del filosofo in lotta contro l’Inquisizione della Chiesa cattolica e quindi contro i più brutali ed oppressivi strumenti del potere. Del ’75 è Il sospetto con cui Francesco Maselli continua un coerente discorso politico sulle contraddizioni del comunismo italiano. Ambientato in una funerea Torino anni ’30, il cui inverno sembra specchio della durezza e freddezza dei sentimenti, Il sospetto, narrando la pericolosa missione di un fuoruscito che cadrà nelle mani della polizia fascista, coniuga una pagina di storia (il “tutti in Italia” del partito nella fase “estremistica” che precede la svolta dei fronti popolari) con la drammatica solitudine esistenziale del militante. Usando la struttura di un poliziesco e conciliando la spettacolarità con il rigore di un saggio politico-morale, Maselli si inserisce nel dibattito del partito negli anni ’30, evocando figure di dissidenti storici (qualcuno ha evocato Silone e Koestler). In una atmosfera quasi kafkiana, Volonté è l’interprete ideale, anche per la passione politica che emerge nel film, fonte di dibattito nel PCI di Berlinguer che da tempo ha teorizzato il compromesso storico.

Non frequenti, in questi anni, ma di grande rilievo le interpretazioni in film stranieri. Nell’Attentato (1972) di Boisset interpreta il ruolo del rivoluzionario marocchino Ben Barka, rapito ed assassinato dai serviti segreti del suo paese con la complicità di quelli francesi ed americani. Diretto dal cileno Miguel Littin, significativamente autore di Compañero presidente e vicino alle posizioni rivoluzionarie del MIR, interpreta Actas de Marusia, storia di un massacro (1976). L’opera è più debole della precedente Tierra prometida dello stesso regista e risente certamente del dramma vissuto per il colpo di Stato del ’73 e il conseguente sradicamento. La tragica rappresentazione della repressione di una comunità di minatori non può non evocare la distruzione delle libertà democratiche e la violenza del colpo di Stato. Volonté è il leader della lotta sindacale e politica, è colui che, anche nella sconfitta, tenta di far conoscere ad altri le modalità e finalità degli scioperi, perché la memoria non si perda.

Sempre per un regista straniero, Goretta, Volonté torna a lavorare nell’83, dopo una lunga assenza per motivi di salute. La morte di Mario Ricci, che gli vale la Palma d’oro come miglior attore a Cannes, segna un forte cambiamento di stile, con recitazione più misurata e meno enfatica, più introspettiva e meno esasperata. Sullo stesso tono l’interpretazione del Caso Moro (1986), dove il leader democristiano è tanto diverso da quello di Todo modo. Gli ultimi anni poco aggiungono, ad eccezione della splendida, misurata, quasi pudica, interpretazione del giudice in Porte aperte (1990) di Gianni Amelia. Ancora una volta, nella inchiesta su un delitto nella Sicilia degli anni ’30, ritorna l’interrogarsi sul ruolo dell’intellettuale, del potere, dell’autorità. Il tiranno Banderas di José Luis Garcia Sanchez è il suo ultimo film. La morte, a 61 anni, gli impedisce di terminare Lo sguardo di Ulisse di Anghelopoulos (sarà sostituito da Harvey Keitel). Scompare con lui, l’ultimo, ma forse l’unico attore che per un periodo non breve, è stato sinonimo di impegno, che ha caratterizzato con la sua stessa presenza opere, non sempre di eguale valore di più registi per un decennio circa del nostro cinema.


Difficile dire quanto di maniera e di artificio estenuato vi sia nella recitazione di un mostro mimetico come Volonté. Difficile, quindi, valutarne il significato e l’importanza. La sua presenza sullo schermo ha avuto sempre qualcosa di magnetico, persino di inquietante. L’attore possedeva mezzi tecnici e finezze stilistiche che sapeva perfettamente dosare sotto l’occhio della macchina da presa, evitando smorfie ed eccessi, o dando a smorfie ed eccessi il valore di sottolineature necessarie alla definizione del personaggio. Poteva anche riuscire insopportabile. Più spesso era persuasivo, lucido e netto in ogni gesto.9


Sergio Dalmasso


(Tratto da: Sergio Dalmasso, Il cinema politico: Gianmaria Volonté, in «Per il Sessantotto», n. 16, 1998, oggi disponibile: https://www.sergiodalmasso.com/wp-content/uploads/2018/07/Per-il-68-N%C2%B016-Il-cinema-politico-di-Gianmaria-Volont%C3%A9.pdf).


Note

1 Roland Barthes, “Sade-Pasolini”, in «Le Monde», 16 giugno 1976.

2 Theodor W. Adorno, Dialettica dell’impegno, in «Angelus novus», n. 11, 1968.

3 Lino Miccichè, Il cinema italiano degli anni ’60, Venezia, Marsilio, 1975, p. 40.

4 Romano Luperini, Marxismo e intellettuali, Venezia, Marsilio, 1974.

5 Per le polemiche suscitate dall’esordio di Bellocchio cfr. Carmelo Adagio, A proposito de “I pugni in tasca”, in Prima del ’68, cultura e politica negli anni ‘60, Quaderno di documentazione n. 3 di «Alternative Europa».

6 Cfr. Marco Bellocchio, “Le quattro giornate di Napoli”, in «Quaderni Piacentini», n. 7-8, 1963.

7 Adelio Ferrero, Il cinema italiano degli anni ’60, Firenze, Guaraldi, 1977, p. 36.

8 Discutendo sulle varie e diverse proposte di cinema politico, i «Cahiers du cinéma» sostengono che un certo cinema progressista di contenuto che non tocca l’essenziale, e cioè la modificazione del rapporto degli spettatori, riproduce e ripropone la divisione reale, di classe, nella unità fittizia del pubblico per cui i soggetti di classe diventano soggetti di spettacolo.

9 In Fernaldo Di Giammatteo, Nuovo dizionario universale del cinema, Roma, Editori Riuniti,1996, p. 1393.


Inserito il 08/12/2023.

Dal sito «ricorrenzeoggi.it»

52 anni di Imagine
La canzone simbolo di John Lennon

di Sandro Pollini

L’11 ottobre 1971 il singolo di Imagine veniva pubblicato negli USA. Sia il singolo che l’omonimo album divennero il maggior successo commerciale di John Lennon in tutta la sua carriera solista.

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52 anni di Imagine

La canzone simbolo di John Lennon usciva nell’ottobre 1971


di Sandro Pollini


John Lennon e Imagine sono un binomio ormai indissolubile. Il geniale ex Beatles è stato autore e interprete di centinaia di canzoni che hanno fatto la storia del rock, sia con i Fab Four sia nella sua straordinaria carriera solista. Tuttavia, quando pensiamo a lui è immediata l’associazione mentale con il brano pubblicato come singolo negli Stati Uniti l’11 ottobre 1971 e nel Regno Unito 4 anni dopo.

Lennon aveva iniziato a scrivere la sua canzone più famosa quando i Beatles non si erano ancora sciolti, ma fu solo dopo la fine del quartetto di Liverpool che mise a punto il suo capolavoro. Il brano venne fortemente influenzato dalla nuova compagna Yoko Ono, in particolare dalla sua raccolta di poesie Grapefruit del 1964. Altra fonte di ispirazione, come rivelò lo stesso Lennon in un’intervista a «Playboy» nel 1980, fu un libro di preghiere regalatogli dall’attore e attivista afro-americano Dick Gregory. A prescindere da questi riferimenti iniziali, Imagine è un brano essenzialmente politico in cui l’autore auspica un mondo nuovo costruito sulla completa eliminazione del sistema economico e sociale vigente.


52 anni di Imagine: come nacque la canzone simbolo di Lennon

Un pezzo al pianoforte già vicino a ciò che sarebbe stato il brano finale venne creato da Lennon durante le sessioni di registrazione di Let It Be nel gennaio 1969. La versione definitiva fu però composta solo all’inizio del 1971 nella tenuta di Lennon e Yoko a Tittenhurst Park nel Berkshire. La registrazione venne realizzata il 27 maggio all’Ascot Sound Studios, lo studio casalingo di John Lennon a Tittenhurst Park. Il 4 luglio dello stesso anno venne aggiunta una sessione di archi allo studio Record Plant di New York. Il brano venne prodotto da Lennon e Yoko Ono insieme a Phil Spector, leggendario produttore discografico che aveva lavorato anche con i Beatles su Let It Be.

Dal punto di vista melodico, Imagine è una dolce ballata per pianoforte in tonalità di Do maggiore, ma la sua fama è dovuta principalmente alle liriche intrise di poetico idealismo. Il suo invito a immaginare un mondo senza barriere nazionali e religiose, senza disuguaglianze sociali, rendono questo brano un vero e proprio canto di protesta. Nella stessa intervista del 1980, Lennon spiegò il significato di Imagine definendola “anti-religiosa, antinazionalista, anticonformista e anticapitalista”, ma nonostante questo riusciva ad essere accettata perché “ricoperta di zucchero”. E poi concludeva con il suo caustico umorismo: “devi far passare il tuo messaggio politico mettendoci un po’ di miele”. L’ex Beatle arrivò a definire esplicitamente la sua canzone più famosa come virtualmente il Manifesto Comunista benché precisando di non sentirsi parte di nessun movimento politico.


Imagine dopo Lennon: l’eredità di un mito

Sia il singolo Imagine che l’omonimo album divennero il maggior successo commerciale di John Lennon in tutta la sua carriera solista. Il singolo vendette più di 1,7 milioni di copie nel solo Regno Unito. È anche una delle canzoni che hanno avuto più cover nella storia della musica, con versioni di oltre 200 artisti. Tra le più note quelle di Joan Baez, Madonna, Stevie Wonder, Elton John, Lady Gaga e perfino Zucchero in duetto con Randy Crawford.

È stata anche oggetto di molte storiche versioni dal vivo da parte di artisti famosi e meno conosciuti. La più celebre è sicuramente quella dei Queen che la eseguirono alla Wembley Arena il 9 dicembre del 1980, il giorno dopo l’assassinio di Lennon, come omaggio all’artista scomparso. La più toccante è stata quella del pianista tedesco Davide Martello che la suonò la mattina del 14 novembre 2015 a Parigi, sul marciapiede davanti alla sala da concerti Bataclan dove il giorno prima era avvenuto un sanguinoso attentato terroristico.


Sandro Pollini


(Tratto da: Sandro Pollini, 52 anni di Imagine: la canzone simbolo di John Lennon usciva nell’ottobre 1971, in https://www.ricorrenzeoggi.it/11-ottobre-imagine-canzone-john-lennon/ [NB. Il sito ricorrenzeoggi.it non è più attivo]).


Inserito il 02/12/2023.

Testo e traduzione

Imagine

di John Lennon

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Imagine

Di John Lennon

Dall’album: Imagine – EMI, 1971


Imagine


Imagine there’s no heaven

It’s easy if you try

No hell below us

Above us only sky

Imagine all the people

Living for today…


Imagine there’s no countries

It isn’t hard to do

Nothing to kill or die for

And no religion too

Imagine all the people

Living life in peace…


You may say I’m a dreamer

But I’m not the only one

I hope someday you’ll join us

And the world will be as one


Imagine no possessions

I wonder if you can

No need for greed or hunger

A brotherhood of man

Imagine all the people

Sharing all the world…


You may say I’m a dreamer

But I’m not the only one

I hope someday you’ll join us

And the world will live as one



Immaginate


Immaginate che non ci sia alcun paradiso

Se ci provate è facile

Nessun inferno sotto di noi

Sopra di noi solo il cielo

Immaginate tutta la gente

Che vive solo per l’oggi


Immaginate che non ci siano patrie

Non è difficile farlo

Nulla per cui uccidere o morire

Ed anche alcuna religione

Immaginate tutta la gente

Che vive la vita in pace


Si potrebbe dire che io sia un sognatore

Ma io non sono l’unico

Spero che un giorno vi unirete a noi

E il mondo sarà una cosa sola


Immaginate che non ci siano proprietà

Mi domando se si possa

Nessuna necessità di cupidigia o brama

Una fratellanza di uomini

Immaginate tutta la gente

Condividere tutto il mondo


Si potrebbe dire che io sia un sognatore

Ma io non sono l’unico

Spero che un giorno vi unirete a noi

E il mondo sarà una cosa sola


(Traduzione a cura di Ermanno Tassi)


(Testo e traduzione della canzone tratti da: https://www.riflessioni.it/testi_canzoni/lennon.htm).

Il “muro di Lennon” nell’isola di Kampa a Praga.

Fonte della foto: https://www.prague.eu/it/oggetto/luoghi/128/muro-di-john-lennon-zed-johna-lennona

Dal sito de «L’Indipendente»

La controrivoluzione delle élite
di cui non ci siamo accorti

Intervista a Marco D’Eramo a cura di Andrea Legni


Fisico, poi studente di sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi, giornalista di «Paese Sera», «Mondoperaio» e poi per lungo tempo de «il manifesto», Marco D’Eramo ha di recente pubblicato il saggio Dominio. La guerra invisibile contro i sudditi (ed. Feltrinelli, 2020), un libro prezioso che, con uno stile agevole per tutti e dovizia di fonti, spiega come l’Occidente nell’ultimo mezzo secolo sia stato investito da una sorta di rivoluzione al contrario, della quale quasi nessuno si è accorto: quella lanciata dai dominanti contro i dominati. Una guerra che, almeno al momento, le élite stanno stravincendo e che si è mossa innanzitutto sul piano della battaglia delle idee per (ri)conquistare l’egemonia culturale e quindi le categorie del discorso collettivo. Una chiacchierata preziosa, che permette di svelare il neoliberismo per quello che è, ovvero un’ideologia che, in quanto tale, si muove attorno a parole e concetti chiave arbitrari ma che ormai abbiamo assimilato al punto di darli per scontati, ma che – una volta conosciuti – possono essere messi in discussione.

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La controrivoluzione delle élite
di cui non ci siamo accorti


Intervista a Marco D’Eramo a cura di Andrea Legni


Ci parli di questa rivoluzione dei potenti contro il popolo, cosa è successo?

Nella storia i potenti hanno sempre fatto guerra ai sudditi, se no non sarebbero rimasti potenti, questo è normale. Il fatto è che raramente i sudditi hanno messo paura ai potenti: è successo nel 490 a.C., quando la plebe di Roma si ritirò sull’Aventino e ottenne i tribuni della plebe. Poi, per oltre duemila anni, ogni volta che i sudditi hanno cercato di ottenere qualcosa di meglio sono stati brutalmente sconfitti. Solo verso il 1650 inizia l’era delle rivoluzioni, che dura circa tre secoli, dalla decapitazione di re Carlo I d’Inghilterra fino alla rivoluzione iraniana, passando per quella francese e quelle socialiste. Da cinquant’anni non si verificano nuove rivoluzioni.


E poi cosa è successo?

Con la seconda guerra mondiale le élite hanno fatto una sorta di patto con i popoli: voi andate in guerra, noi vi garantiamo in cambio maggiori diritti sul lavoro, pensione, cure, eccetera. Dopo la guerra il potere dei subalterni è continuato a crescere, anche in Italia si sono ottenute conquiste grandiose come lo Statuto dei Lavoratori, il Servizio Sanitario Nazionale ed altro. A un certo punto, le idee dei subordinati erano divenute talmente forti da contagiare le fasce vicine ai potenti: nascono organizzazioni come Medicina Democratica tra i medici, Magistratura Democratica tra i magistrati, addirittura Farnesina Democratica tra gli ambasciatori. In Italia come in tutto l’Occidente le élite hanno cominciato ad avere paura e sono passate alla controffensiva.


In che modo?

Hanno lanciato una sorta di controguerriglia ideologica. Hanno studiato Gramsci anche loro e hanno agito per riprendere l’egemonia sul piano delle idee. Partendo dai luoghi dove le idee si generano, ovvero le università. A partire dal Midwest americano, una serie di imprenditori ha cominciato a utilizzare fondazioni per finanziare pensatori, università, convegni, pubblicazioni di libri. Un rapporto del 1971 della Camera di Commercio americana lo scrive chiaramente: «bisogna riprendere il controllo e la cosa fondamentale è innanzitutto il controllo sulle università». Da imprenditori, hanno trattato le idee come una merce da produrre e vendere: c’è la materia prima, il prodotto confezionato e la distribuzione. Il primo passo è riprendere il controllo delle università dove la materia prima, ovvero le idee, si producono; per il confezionamento si fondano invece i think tank, ovvero i centri studi dove le idee vengono digerite e confezionate in termini comprensibili e affascinanti per i consumatori finali, ai quali saranno distribuite attraverso giornali, televisioni, scuole secondarie e così via. La guerra si è combattuta sui tre campi della diffusione delle idee, e l’hanno stravinta.


Quali sono le idee delle élite che sono divenute dominanti grazie a questa guerra per l’egemonia?

La guerra dall’alto è stata vinta a tal punto che non usiamo più le nostre parole. Ad esempio, la parola “classe” è diventata una parolaccia indicibile. Eppure Warren Buffet, uno degli uomini più ricchi del mondo, lo ha detto chiaramente: «certo che c’è stata la guerra di classe, e l’abbiamo vinta noi». O come la parola “ideologia”, anche quella una parolaccia indicibile. E allo stesso tempo tutte le parole chiave del sistema di valori neoliberista hanno conquistato il nostro mondo. Ma, innanzitutto, le élite sono riuscite a generare una sorta di rivoluzione antropologica, un nuovo tipo di uomo: l’homo oeconomicus. Spesso si definisce il neoliberismo semplicemente come una versione estrema del capitalismo, ma non è così: tra la teoria liberale classica e quella neoliberista ci sono due concezioni dell’uomo radicalmente differenti. Se nel liberalismo classico l’uomo mitico è il commerciante e l’ideale di commercio è il baratto che si genera tra due individui liberi che si scambiano beni, nel neoliberismo l’uomo ideale diventa l’imprenditore e il mito fondatore è quello della competizione, dove per definizione uno vince e l’altro soccombe.


Quindi rispetto alle generazioni che ci hanno preceduto siamo diventati un’altra specie umana senza accorgercene?

L’idea che ogni individuo è un imprenditore genera una serie di conseguenze enormi. La precondizione per poter avviare un’impresa è avere qualcosa da investire, e se non ho capitali cosa investo? A questa domanda un neoliberista risponde: «il tuo capitale umano». Questa è una cosa interessantissima perché cambia tutte le nozioni precedenti. Intanto non vale l’idea del rapporto di lavoro come lo conoscevamo: non esiste più un imprenditore e un operaio, ma due capitalisti, dei quali uno investe denaro e l’altro capitale umano. Non c’è nulla da rivendicare collettivamente: lo sfruttamento scompare, dal momento che è un rapporto tra capitalisti. Portando il ragionamento alle estreme conseguenze, nella logica dominante, un migrante che affoga cercando di arrivare a Lampedusa diventa un imprenditore di sé stesso fallito, perché ha sbagliato investimento. Se ci si riflette bene, la forma sociale che meglio rispecchia questa idea del capitale umano non è il liberalismo ma lo schiavismo, perché è lì che l’uomo è letteralmente un capitale che si può comprare e vendere. Quindi non credo sia errato dire che, in verità, il mito originario (e mai confessato) del neoliberismo non è il baratto ma lo schiavismo. Il grande successo che hanno avuto i neoliberisti è di farci interiorizzare quest’immagine di noi stessi. È una rivoluzione culturale che ha conquistato anche il mondo dei servizi pubblici. Per esempio le unità sanitarie locali sono diventate le aziende sanitarie locali. Nelle scuole e nelle università il successo e l’insuccesso si misurano in crediti ottenuti o mancanti, come fossero istituti bancari. E per andarci, all’università, è sempre più diffusa la necessità di chiedere prestiti alle banche. Poi, una volta che hai preso il prestito, dovrai comportarti come un’impresa che ha investito, che deve ammortizzare l’investimento e avere profitti tali da non diventare insolvente. Il sistema ci ha messo nella situazione di comportarci e di vivere come imprenditori.


Ritiene che l’ideologia neoliberista abbia definitivamente vinto la propria guerra o c’è una soluzione?

Le guerre delle idee non finiscono mai, sembra che finiscano, ma non è così. Se ci pensiamo, l’ideologia liberista è molto strana, nel senso che tutte le grandi ideologie della storia offrivano al mondo una speranza di futuro migliore: le religioni ci promettevano un aldilà di pace e felicità, il socialismo una società del futuro meravigliosa, il liberalismo l’idea di un costante miglioramento delle condizioni di vita materiali. Il neoliberismo, invece, non promette nulla ed anzi ha del tutto rimosso l’idea di futuro: è un’ideologia della cedola trimestrale, incapace di ogni tipo di visione. Questo è il suo punto debole, la prima idea che saprà ridare al mondo un sogno di futuro lo spazzerà via. Ma non saranno né i partiti né i sindacati a farlo, sono istituzioni che avevano senso nel mondo precedente, basato sulle fabbriche, nella società dell’isolamento e della sorveglianza a distanza sono inerti.


Così ad occhio non sembra esserci una soluzione molto vicina…

Invece le cose possono cambiare rapidamente, molto più velocemente di quanto pensiamo. Prendiamo la globalizzazione: fino a pochi anni fa tutti erano convinti della sua irreversibilità, che il mondo sarebbe diventato un grande e unico villaggio forgiato dal sogno americano. E invece, da otto anni stiamo assistendo a una rapida e sistematica de-globalizzazione. Prima la Brexit, poi l’elezione di Trump, poi il Covid-19, poi la rottura con la Russia e il disaccoppiamento con l’economia cinese. Parlare oggi di globalizzazione nei termini in cui i suoi teorici ne parlavano solo vent’anni fa sembrerebbe del tutto ridicolo, può essere che tra vent’anni lo sarà anche l’ideologia neoliberista.


Intanto chi è interessato a cambiare le cose cosa dovrebbe fare?

Occorre rimboccarsi le maniche e fare quello che facevano i militanti alla fine dell’Ottocento, ovvero alfabetizzare politicamente le persone. Una delle grandi manovre in questa guerra culturale lanciata dal neoliberismo è stata quella di ricreare un analfabetismo politico di massa, facendoci ritornare plebe. Quindi è da qui che si parte. E poi bisogna credere nel conflitto, progettarlo, parteciparvi. Il conflitto è la cosa più importante. Lo diceva già Machiavelli: le buone leggi nascono dai tumulti. Tutte le buone riforme che sono state fatte, anche in Italia, non sono mai venute dal palazzo. Il Parlamento ha tutt’al più approvato istanze nate nelle strade, nei luoghi di lavoro, nelle piazze. Lo Statuto dei Lavoratori non è stato fatto dal Parlamento per volontà della politica, ma a seguito della grande pressione esterna fatta dai movimenti, cioè dalla gente che si mette insieme. Quindi la prima cosa è capire che il conflitto è una cosa buona. La società deve essere conflittuale perché gli interessi dei potenti non coincidono con quelli del popolo. Già Aristotele lo diceva benissimo: i dominati si ribellano perché non sono abbastanza eguali e i dominanti si rivoltano perché sono troppo eguali. Questa è la verità.


1° novembre 2023


Intervista a cura di Andrea Legni


(Tratto da: Andrea Legni, La controrivoluzione delle élite di cui non ci siamo accorti: intervista a Marco D’Eramo, sul sito https://www.lindipendente.online/2023/11/01/la-controrivoluzione-delle-elite-di-cui-non-ci-siamo-accorti-intervista-a-marco-deramo/?fbclid=IwAR2P1SzSGKGqkHzYxutW53BcctDLsVxleXflesDo9Co8fMhSuNC8kavScps).


Inserito il 22/11/2023.

Dal sito della rivista «L’Indice»

Benedetta Tobagi

La Resistenza delle donne

(Torino, Einaudi, 2022)

Santina Mobiglia intervista Benedetta Tobagi

Una ricerca sull’universo delle partigiane nella Resistenza italiana al nazifascismo condotta negli archivi documentali e fotografici degli Istituti storici della Resistenza del nostro paese. Presentiamo un’intervista alla scrittrice in cui essa anticipa alcuni contenuti e qualche conclusione tratta dalla sua preziosa indagine.

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Intervista a Benedetta Tobagi sul volume La Resistenza delle donne


Il suo libro La resistenza delle donne è un caleidoscopio di figure e di esperienze che raccontano la presenza femminile nella Resistenza sul filo dell’intreccio tra liberazione collettiva e personale, a partire dalla ormai vasta raccolta di testimonianze scritte e audiovisive e con un uso originale delle immagini fotografiche. Come è maturato o è andato precisandosi in lei questo progetto?

In realtà proprio dalle immagini ha preso le mosse il mio lavoro e grazie a uno spunto esterno, tramite una segnalazione all’Einaudi di Barbara Berruti, storica dell’Istituto della Resistenza di Torino, riguardo a un poco noto materiale fotografico conservato nel loro archivio. Appena avuta la notizia, non ho esitato un attimo a prendere contatti per esaminare le immagini di cui ho colto subito il forte potenziale di spaesamento che ben si legava al potenziale narrativo delle testimonianze femminili, per loro natura antiretoriche e controcorrente. Anche per questo ci avevano messo del tempo a emergere, a essere raccolte in forma scritta o audiovisiva, ma ci sono, e ho capito che attraverso le fotografie si apriva uno spazio nuovo per lavorarci. Mi sono così immersa nella ricerca, aiutata da Berruti sul piano iconografico per allargarla ad altri archivi, e ho preso una serie di decisioni, per esempio non andare a cercare le ultime partigiane per intervistarle, perché su questo c’è già molto materiale raccolto ed è in corso il grande progetto Noi partigiani dell’Anpi per documentare le loro storie, ma rivolgermi invece ai molti libri che si trovano nelle biblioteche, a partire da Compagne (Einaudi, 1977) di Bianca Guidetti Serra, una vera pietra miliare per aver dato voce alle donne senza istruzione e lavoratrici, e utilizzare l’immenso patrimonio d’interviste raccolte a partire dagli anni settanta. Non sono una specialista della Resistenza, dunque mi sono messa a leggere, studiare, mentre andava chiarendosi l’ossatura del libro, che doveva far parlare le immagini all’interno di un racconto più ampio e volutamente divulgativo.


Particolarmente interessante la lunga serie di immagini perché si integrano nel discorso, mai semplici documenti fotografici ma fonte di suggestioni, riflessioni, congetture, domande. In che modo hanno potuto interrogarla, o persino guidarla, nel procedere del suo lavoro?

Proprio l’osservazione delle fotografie mi faceva scattare quasi naturalmente delle associazioni a momenti, situazioni evocate nelle testimonianze, e di qui ho tratto i nuclei tematici su cui è costruito il libro in una dimensione corale, tesa a mettere in risalto ciò che accomunava le esperienze vissute dalle donne, sia come combattenti armate sia nella resistenza civile organizzata nei Gruppi di difesa della donna, che le vide coinvolte in numero imponente (circa 70.000, in base ai dati ufficiali del CLN nel luglio 1944). Scartato l’approccio prosopografico o geografico delle loro vicende, e da sempre contraria a un inserimento puramente esornativo delle immagini, mi sentivo interrogata e persino provocata dalle fotografie stesse, dalle atmosfere che suggerivano mentre andava palesandosi subito molto forte l’intreccio tra liberazione collettiva e personale che ho cercato di inseguire tematizzandolo con singole messe a fuoco e da angolature diverse, rispettando una coralità in cui pure alcuni profili si stagliano con maggiore nettezza, ritornano, diventano riconoscibili e familiari.

Vorrei fare un accenno, quasi una storia nella storia da mettere in controluce, ai problemi che ho dovuto affrontare perché non sempre nelle fotografie sono precisamente identificati i soggetti, né dove o quando siano state scattate, pur negli immensi repertori che si trovano online: consultando degli studiosi mi è anche capitato di scoprire delle discrepanze nelle inventariazioni, con immagini di donne combattenti in Iugoslavia o in Spagna presentate come partigiane italiane. Anche questo è un aspetto non trascurabile della ricerca, come altre domande che mi sono posta: perché di alcune circostanze pur note sono molto rare le immagini? Che cosa invece viene considerato così rappresentativo da essere ricostruito, come sappiamo, a posteriori? Assenze e presenze comunque significative e pur sempre da interpretare nella sovrabbondanza persino travolgente di materiali disponibili.


Dal libro emerge un universo femminile variegato – di cui fanno parte donne di ogni classe e ceto sociale, in svariati luoghi geografici, con diverse motivazioni o atteggiamenti soggettivi – capace di un protagonismo collettivo inedito e al tempo stesso di scelte individuali autonome, in molti casi anche in contrasto aperto con gli stessi uomini della famiglia, talvolta persino antifascisti. Vogliamo commentare questi aspetti cruciali di rovesciamento o ribellione contro ruoli femminili tradizionalmente imposti?

Sono i temi di fondo che attraversano tutti i capitoli, variamente declinati. C’è innanzitutto un rovesciamento dei ruoli di maternage e assistenza per quei lavori femminili di cura tipicamente considerati umili e servili, dalla cucina al rammendo al bucato, ora invece rivendicati come fondamentali per l’esistenza stessa dei partigiani: “perché voi, senza di noi, non fate niente”, afferma una donna con la consapevolezza di far parte a pieno titolo di una lotta collettiva. E c’è un collettivo femminile, di apprendimento e rispetto reciproco, di assunzione progressiva di compiti da parte di donne delle più varie provenienze: se alcune di loro, soprattutto operaie, erano già diventate comuniste o socialiste nel lavoro in fabbrica, altre ricordano le leggi razziali del 1938, come momento di maturazione dell’antifascismo, ma per la maggior parte la scelta di impegno nella Resistenza è dettata dal bisogno di reagire di fronte a circostanze immediate, alla violenza nazifascista nell’Italia occupata. Va detto che le donne sono state le vere volontarie della Resistenza perché non avevano gli obblighi di coscrizione dei maschi, e rischiavano di più: oltre alla vita, anche la loro reputazione, per una scelta trasgressiva rispetto ai costumi del tempo, sfidando la morale collettiva e le convenzioni sociali fino a pagarne poi i costi, come raccontano alcune, con l’isolamento nel loro ambiente del dopoguerra. Ci furono fratture generazionali all’interno delle famiglie ma anche scelte guidate da una relazione personale, dall’amore per un uomo, un padre, un fratello, in una coesistenza di esperienze che furono comunque di grande emancipazione, di scoperta di libertà e possibilità per migliaia di donne. Anche di scoperta del proprio corpo, imparando a farne o non farne un uso provocante per ingannare il nemico in determinate situazioni, con veri aneddoti teatrali in cui gli stereotipi in cui erano state ingabbiate sono trasformati in un’arma, in uno strumento di potere.


Nell’insieme della popolazione, quello femminile non è comunque un mondo idilliaco nel suo libro: si ricordano, oltre alle collaborazioniste, le indifferenti, le borsaneriste…

Certamente, non volevo darne una visione idealizzata. C’erano anche le donne che sbattevano la porta in faccia alle partigiane, ben presenti nei loro ricordi. E quelle che nella guerra trovavano l’occasione di fare traffici con la borsa nera, praticando una sorta di emancipazione cinica e individualistica. D’altronde vediamo anche oggi molte manifestazioni del femminile in carriera, che sono sicuramente nefaste e del tutto indifferenti al destino delle altre donne.

C’erano poi quelle che tradivano perché innamorate magari di un repubblichino mettendo al primo posto la speranza del matrimonio: che i tradimenti per vicissitudini amorose fossero più frequenti fra le donne che tra gli uomini è motivo di indignazione ricorrente nelle testimonianze, mentre non dovrebbe forse stupire visto che all’epoca trovare marito era pur sempre ritenuto fondamentale per la propria realizzazione all’interno del modello dominante di vita femminile come moglie e madre di famiglia, mentre meno grave per un uomo era rimanere scapolo. Al contrario sappiamo che le donne resistevano di più alle torture, dunque comportamenti molteplici, che aggiungono valore a quante hanno saputo fare delle aspettative materne una risorsa portandole fuori dalla casa, e ne abbiamo esempi non solo tra i temperamenti ribelli. Un rispecchiamento insomma, da non trascurare, delle analoghe divisioni presenti nel mondo maschile, che va anche evidenziato e contribuisce dunque a illuminare la scelta etica controcorrente e coraggiosa delle donne impegnate nella Resistenza.


Si avverte, reso esplicito nella conclusione del libro, un suo coinvolgimento personale nel bisogno di ricerca di “antenate” che possano “aiutarci a dirigere meglio i nostri passi”. Dal suo punto di vista di donna, distante da loro di almeno tre generazioni, quali le lezioni di quella “moralità della Resistenza” femminile che sembra essere una chiave di lettura del suo lavoro?

Ogni generazione va alla ricerca dei suoi propri antenati e antenate, e proprio in questi tempi di disimpegno, indifferenza, lontananza, mi ha veramente toccato molto la capacità di lotta e di impegno collettivo femminile in un cammino che è stato anche di crescita personale, di presa di coscienza di modelli introiettati, con la capacità di far convergere sensibilità diverse. Ne è un esempio il racconto di Ada Gobetti di come sapesse coinvolgere delle donne cominciando magari a chiedere loro di fare delle calze per i ragazzi in montagna e poi, sulla base di questa naturale empatia o spirito materno, farle sentire più partecipi, capaci di discutere e imparare, assumere pian piano responsabilità maggiori. Sono atteggiamenti che dovremmo riprendere anche oggi verso le giovani generazioni: partire dal concreto per inserirlo poi in un disegno più ampio di trasformazione sociale. Anche allora le esperienze erano molto frastagliate, c’erano suore, infermiere, casalinghe, e se la fede politica, il sentimento risorgimentale e patriottico era molto importante per alcune non lo era certo per tutte, in una diversità di modi di essere, di agire nel mondo che può dare molta forza e ispirazione alle sensibilità più diverse. Le donne hanno, più degli uomini, molti modi di lottare, e la filigrana di allora si sovrappone benissimo all’oggi se ti interroghi sul tuo tempo e su cosa puoi fare tu. Penso ad esempio a un documentario molto bello di Benedetta Argentieri che cito (I am the Revolution, 2018) in cui, in tre teatri delicatissimi, la Siria in guerra, l’Iraq e l’Afghanistan, vediamo donne, in armi o senz’armi, che sono importanti agenti del cambiamento. Come Selene Biffi, un’imprenditrice sociale a lungo impegnata con le afghane, che ora lavora con le donne ucraine. La sua battaglia? Mettersi al servizio delle donne nei teatri di guerra o sotto i regimi repressivi, costruendo reti a sostegno del lavoro femminile, che possono diventare molto trasformative. Uscire dallo schema per cui la donna deve essere considerata solo vittima in questi contesti è ciò che avvicina molte situazioni attuali alla nostra Resistenza: una leva sociale potentissima, un catalizzatore del cambiamento.


Non mancano, in conclusione, riflessioni sulla delusione postbellica, sull’invito a tornare nei ranghi “zitte e buone” misto a una retorica commemorativa che presentava le donne resistenti come al tempo stesso “angelicate e virilizzate”, spogliandole dell’identità conquistata: “Il fascismo è finito, ma il patriarcato è ancora in gran forma”, lei scrive, e anche a opera del “fuoco amico” dei partiti in cui militano. Si può dire tuttavia che proprio dalla loro genealogia prenda le mosse il difficile cammino del protagonismo femminile nello spazio pubblico dell’Italia repubblicana?

Per anni l’icona della donna partigiana è stata la foto famosissima di una donna dai lunghi capelli neri con il suo fucile su uno sfondo di montagne innevate: identificata solo nel 2011 come Prosperina Vallet, valdostana: compariva nell’unico cartellone dedicato alla resistenza femminile nella mostra di Milano dell’estate ’45. Da allora non molto si era mosso nell’attenzione al tema se nel 1965, al grande convegno del Cln a Torino, Ada Gobetti dovette intervenire tirando le orecchie agli organizzatori perché, diceva, possibile che nessuno dica una parola sulle donne? Solo più tardi, dagli anni settanta, cominciarono a fiorire gli studi, non a caso insieme al nuovo femminismo, che portarono a mettere in luce l’ampiezza e il valore della partecipazione delle donne alla Resistenza, la sua funzione seminale nell’alfabetizzazione sui diritti per le battaglie e conquiste successive. Emergeva così un quadro complesso, dai molti risvolti personali e sociali, nel segno di una pluralità evocata dalle tante fotografie che ho potuto “cucire” analizzandole nel mio libro in cui, dopo le “grandi speranze”, parlo anche della “tristezza” del dopo 25 aprile, quando perlopiù alle donne non venne concesso di sfilare nelle strade delle città liberate. La loro storia, come del resto la questione femminile, rimase a lungo in secondo piano e, se era più prevedibile nel mondo cattolico, risulta stridente per le forze di sinistra, in particolare comuniste, anche se il Pci aveva sfornato una serie di dirigenti straordinarie, donne in gran parte provenienti dal mondo del lavoro. Ciò che fa impressione è che per molti aspetti sia ancora un problema irrisolto, dalla parità salariale ai riconoscimenti politici, proprio mentre nelle ultime settimane si fa un gran parlare dell’affermazione di una donna di destra in un percorso che è tutto individuale e competitivo, senza nulla di femminista. Insieme alla buona salute del patriarcato, a tener ferme le donne come una catena è stata la ritrosia, che ho potuto constatare in molti racconti: per modestia, forse per non mettere in ombra gli uomini in casa propria, tendono a fare un passo indietro, a minimizzare il loro ruolo, come fa una donna che non solo teneva la contabilità partigiana ma è stata anche torturata. Sono convinta che ancora oggi ci siano linee di tensione non pacificate, faglie ancora aperte su cui molto resta da fare. Della Resistenza delle donne ho voluto descrivere i costi umani insieme all’entusiasmo che ha dato un senso alla loro vita. Volevo fossero presenti entrambe le dimensioni, perché il chiaroscuro è l’essenza della comprensione.


30 novembre 2022


Santina Mobiglia


(Tratto da: Santina Mobiglia, «Perché voi, senza di noi, non fate niente». Intervista a Benedetta Tobagi, in: https://www.lindiceonline.com/osservatorio/perche-voi-senza-di-noi-non-fate-niente-intervista-a-benedetta-tobagi/).


Inserito il 08/10/2023.

Letteratura al lavoro

A fronte alta malgrado tutto

di Valerio Evangelisti

«Sostituire un lavoratore che muore costa sempre meno che introdurre modifiche al processo produttivo». In questa frase c’è il succo del sistema capitalista: il profitto non guarda in faccia le sue vittime.

Il breve scritto di Valerio Evangelisti che riportiamo rappresenta l’Introduzione al volume di Alberto Prunetti Amianto. Una storia operaia (pubblicato da Edizioni Alegre nel 2014 e riproposto da Feltrinelli nel 2023), in cui un figlio ricostruisce il percorso di vita e di morte del padre operaio che in fabbrica ha respirato tutte le combinazioni degli elementi delle tavole chimiche, tutto tranne l’ossigeno.

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A fronte alta malgrado tutto


Avete tra le mani un libro terribile e bellissimo. Detto questo, ci sarebbe poco da aggiungere. Ogni lettore noterà da sé la verità della mia constatazione. Ciò che scriverò sotto il giudizio iniziale è dunque, in certa misura, superfluo.

Dolore, divertimento, pena, riflessione, compartecipazione. Quanti testi moderni riescono a suscitare una tale gamma di sentimenti? Eppure ho provato tutto ciò leggendo la storia narrata da Alberto Prunetti. Una nuvola di sensazioni alternanti e contrapposte, quali solo uno scrittore vero riesce a condensare.

Sulla bravura di Prunetti non avevo dubbi. Le prime cose che lessi di lui erano le sue disavventure tragicomiche di pizzaiolo a Londra. Seguirono racconti, un romanzo (Il fioraio di Perón), ricostruzioni storiche in chiave narrativa (Potassa), antologie, molte traduzioni, molte introduzioni e curatele di scrittori sudamericani (pochi, in Italia, conoscono l’Argentina e la sua cultura quanto Prunetti).

Non immaginavo però di ritrovarmi così commosso – autenticamente commosso – nel leggere le righe che ha voluto dedicare a suo padre. E così coinvolto in una vicenda che, purtroppo, non è ancora finita.

Renato Prunetti, operaio tubista e saldatore, era fiero della sua professione e della sua bravura. Solo che doveva coprirsi d’amianto per svolgere il lavoro. L’amianto uccideva lentamente, e lui non lo sapeva.

Quando fu noto, il padronato cercò di tenere nascosto il più possibile il male compiuto, poi di ritardare le misure riparatorie. Scegliere altre forme di protezione avrebbe compromesso un ciclo collaudato, e obbligato a spese senza rientri sul piano del profitto. Sostituire un lavoratore che muore costava (e costa) sempre meno che introdurre modifiche nel processo lavorativo. Direi anzi che oggi costa meno ancora. L’Ilva, e non solo l’Ilva, ce lo ricorda.

Alberto Prunetti assiste al logorio progressivo del padre. La vicenda è al tempo stesso angosciante e, nelle prime pagine, quasi divertente, ma solo perché, pur consapevoli dell’esito (ci è stato anticipato fin dalle prime righe), non lo abbiamo ancora “vissuto”. Prunetti calibra benissimo il contagocce delle emozioni. La sua bravura di scrittore la si vede, la si tocca grazie a una lingua vivissima e naturale, impreziosita da espressioni idiomatiche. Una costruzione stilistica raffinata e tuttavia avvertita dal lettore come spontanea, quale è.

Si passa da un’infanzia tutto sommato felice, scandita da corse in bicicletta tra cumuli di veleni, all’inizio del dramma. Con, in mezzo, la lunga parentesi “normale” dell’uomo – Renato – soddisfatto di ciò che fa, del suo essere indispensabile per chi lo impiega, delle sue veniali trasgressioni (un bicchiere di vino, qualche esplosione di esuberanza), della protezione che assicura alla famiglia. Con la morte già nelle membra, a sua insaputa. Seguirà l’iter avvilente, burocratico e giudiziario, percorso dal figlio perché sia sancito che fu un delitto. Fino a una deludente soluzione di compromesso, che non voglio anticipare.

Due note conclusive. C’è chi ritiene che la classe operaia sia tramontata per sempre, sostituita dal “lavoro cognitivo” (a cui vorrebbe approdare Alberto Prunetti, salvo trovarsi a sguazzare in un pantano di precarietà e frustrazione). Falso. Basta guardare fuori dai confini occidentali per scoprire che la classe operaia, espunta in un luogo, riappare in un altro. Ed è ancor più sfruttata. Gli operai delle maquiladoras del Messico, delle Filippine, dell’India ecc. sono forse “proletariato cognitivo”?

Non prendiamoci in giro. Sono proletariato e basta. Di storie come quella di Renato potrebbero narrarcene a centinaia.

Seconda nota. Senza volere santificare il suo martirio, è certo che l’orgoglio di Renato Prunetti per ciò che faceva aveva basi concrete, materiali. Saldava, forgiava, ridisegnava i metalli. Ne andava fiero. Anche i suoi momenti di ribellione traevano origine da tali abilità.

Si può irridere un simile passato. Pubblicare romanzetti di successo in cui la fabbrica è solo sfiorata, richiamata nel titolo e poi ignorata. Ma quel passato implicava fierezza, onorabilità, senso di appartenenza, ribellione ai soprusi. Ciò che oggi si cerca di cancellare con ogni possibile, sporco espediente, perché in quella condizione esistenziale, prima ancora che materiale, risiedeva l’antitesi prima allo sfruttamento. Un operaio con la fronte bassa non è un operaio, ma un involucro funzionale a produrre miseria propria e ricchezza altrui.

Renato Prunetti la fronte alta la tenne sempre, anche quando fu ormai prossimo a morire. Per fortuna lascia un figlio capace di far rivivere il senso di una resistenza umana con una bravura che mette i brividi.


Valerio Evangelisti


(Tratto da: Valerio Evangelisti, A fronte alta malgrado tutto, Introduzione al volume: Alberto Prunetti, Amianto. Una storia operaia, Milano, Feltrinelli, 2023, pp. 5-7).


Inserito il 06/10/2023.

Dal sito Sinistrainrete.info

Vincent Bevins

Il Metodo Giacarta
La crociata anticomunista di Washington e il programma di omicidi di massa che hanno plasmato il nostro mondo

(Torino, Einaudi, 2021)

recensione di Patrizio Paolinelli

«Leggendo Il Metodo Giacarta molti miti americani cadono come birilli pagina dopo pagina. Un Paese i cui esponenti politici da sempre non fanno altro che riempirsi la bocca di parole come “libertà” e “democrazia” si rivelano oppressori privi di ogni scrupolo morale (fratelli Kennedy compresi) quando si tratta di impedire l’autodeterminazione di altri popoli. In una battuta: potete essere liberi se siamo noi a comandare».

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Vincent Bevins

Il Metodo Giacarta

La crociata anticomunista di Washington e il programma di omicidi di massa che hanno plasmato il nostro mondo

(Torino, Einaudi, 2021)


Recensione di Patrizio Paolinelli

Sarà per il clima culturale che c’è oggi in Italia ma è passato praticamente sotto silenzio un libro umanamente e politicamente sconvolgente: Il Metodo Giacarta. La crociata anticomunista di Washington e il programma di omicidi di massa che hanno plasmato il nostro mondo (Torino, Einaudi, 2021, pp. 340, 30,00 euro). L’autore è Vincent Bevins, un coraggioso giornalista statunitense ottimamente inserito nel circuito della stampa mainstream nord-americana.

Il libro consiste in un’inchiesta durata dieci anni e suffragata da documenti ufficiali, informazioni desecretate, pareri di storici, testimonianze dirette. Dall’inchiesta emerge senza ombra di dubbio che in ventitré nazioni del Terzo mondo la Guerra fredda fu in realtà caldissima causando la morte di milioni di donne e uomini di sinistra per mano diretta e indiretta degli Stati Uniti. Ovviamente il bersaglio principale erano i comunisti e il metodo Giacarta prende il nome dalla strategia di sterminio totale degli avversari politici sperimentata da Washington in Indonesia. Nazione in cui, tra il 1965 e il 1966, fu eliminato dalla faccia della terra il terzo più grande partito comunista del mondo, che all’epoca contava circa tre milioni di iscritti. Possono sembrare tanti, ma all’epoca l’Indonesia contava circa 200 milioni di abitanti.

Va detto che il Partito comunista indonesiano non programmava alcuna presa del Palazzo d’Inverno, in Parlamento contava su una piccola pattuglia di rappresentanti, aveva accettato le regole del gioco democratico ed era autonomo sia dall’Unione Sovietica che dalla Cina. Non rappresentava dunque un pericolo. Oltretutto all’epoca la scena politica indonesiana era dominata dal padre dell’indipendenza, Ahmed Sukarno, leader di grande prestigio internazionale. Nonostante ciò per i vertici dell’amministrazione statunitense i comunisti indonesiani costituivano un problema e optarono per la soluzione più disumana facendo trucidare con metodi spaventosi un milione di civili per mano di Suharto, un oscuro generale la cui scalata ai vertici dell’esercito indonesiano fu favorita da Washington.

La macchina della morte avviata a Giacarta fece scuola per le violente repressioni che seguirono in Centro e Sud America, in Medio Oriente e altrove. La linea politica era chiara: fare tabula rasa di chiunque parlasse di giustizia sociale: dai socialisti ai cattolici di sinistra, dai comunisti ai sindacalisti. Occorreva creare un terrore generalizzato in grado di annichilire qualsiasi velleità di cambiamento. Torture, massacri, sparizioni, colpi di stato erano strumenti utilizzati con assoluta disinvoltura sotto la regia di Washington. Ovviamente questi incredibili crimini contro l’umanità vennero commessi e pilotati dagli Stati Uniti con la complicità delle élite borghesi dei singoli paesi interessate a mantenere i loro privilegi. Ma soprattutto, e qui sta la novità introdotta dal metodo Giacarta, a sporcarsi le mani di sangue furono gli eserciti locali, opportunamente addestrati negli States, risolvendo così un enorme problema politico per l’amministrazione di Washington. La quale era già intervenuta decine di volte dentro e fuori il proprio “giardino di casa” per reprimere rivolte popolari, defenestrare governi progressisti o semplicemente indipendenti da Washington. Un interventismo sistematico e aggressivo che aveva reso gli USA invisi alla maggioranza delle nazioni uscite da poco dal colonialismo e che si erano riunite nel Movimento dei Paesi non allineati.

Ma per Washington non essere allineati con loro non solo era inammissibile, significava fare il gioco dell’Unione Sovietica o comunque favorire l’espansione dei comunisti nei Paesi dove godevano del consenso ottenuto attraverso regolari elezioni. E così misero in piedi una mostruosa rete internazionale del terrore in un mix di associazioni anticomuniste, guerre clandestine, pressioni economiche, attentati, campagne mediatiche, omicidi, colpi di stato. Lo scopo era duplice: da un lato, eliminare fisicamente chi si opponeva all’ingerenza americana (e i comunisti erano in prima linea non tanto in nome del socialismo quanto della sovranità nazionale); dall’altro, liquidare il fronte dei Paesi non allineati. Come sappiamo gli USA raggiunsero l’obiettivo: rinunciando all’etica rivelarono lo spirito del capitalismo.

Dopo la mattanza dei comunisti il Partito Comunista Indonesiano venne messo fuori legge e l’Indonesia divenne uno dei più fedeli alleati di Washington. Il rovescio della medaglia fu che, da Paese indipendente e guida del Terzo mondo, l’Indonesia smise di contare qualcosa sullo scacchiere internazionale e da allora vive in regime di libertà vigilata… dallo zio Sam. Così è stato per tutti gli altri Paesi in cui gli USA insediarono le dittature militari. In nome dell’anticomunismo gli Stati Uniti si sono liberati di potenziali rivali economici come appunto l’Indonesia e poi il Brasile e l’Argentina; si sono appropriati delle loro risorse energetiche; hanno favorito le élite nazionali più reazionarie, irresponsabili e predatorie; hanno relegato fino ad oggi questi e altri Paesi al ruolo di comparse della storia.

Leggendo Il Metodo Giacarta molti miti americani cadono come birilli pagina dopo pagina. Un Paese i cui esponenti politici da sempre non fanno altro che riempirsi la bocca di parole come “libertà” e “democrazia” si rivelano oppressori privi di ogni scrupolo morale (fratelli Kennedy compresi) quando si tratta di impedire l’autodeterminazione di altri popoli. In una battuta: potete essere liberi se siamo noi a comandare. Bevins giunge alla conclusione che i comunisti credettero davvero alle parole della democrazia, mentre gli Stati Uniti la calpestavano coi fatti. A uscirne a pezzi è anche la tanto osannata stampa americana. La cui complicità nell’attuazione dei programmi di controllo dei Paesi del Terzo mondo, di demolizione del Movimento dei non allineati e di demonizzazione dei comunisti è stata talmente palese da non costituire un mistero per nessuno (e comunque per tutti valga, La fabbrica del consenso, di Noam Chomsky e Edward S. Herman, Tropea Editore, Milano, 1998).

Il titolo e il sottotitolo del libro di Bevins traducono fedelmente gli originali in inglese e sono ricchi di significati. Innanzitutto l’anticomunismo si presenta davvero come una crociata. Perché così come i fanatici puritani fuggiti dall’Europa sterminarono i nativi americani in nome di Dio, allo stesso modo i fanatici anticomunisti dell’amministrazione USA sterminarono i comunisti in nome della libertà. L’espressione “omicidi di massa” contenuta nel sottotitolo è invece un espediente per evitare di parlare di programmi di annientamento degni della soluzione finale perpetrata dai nazisti. Oltretutto, come è noto, durante la Guerra fredda i nazisti furono usati ampiamente dalla Cia in Sud-America. Infine, senza lo sterminio dei comunisti su scala internazionale il mondo di oggi non sarebbe com’è. Ossia: non si sarebbe affermata la globalizzazione capitalistica a guida statunitense.

Dal libro di Bevins gli Stati Uniti escono fuori come una potenza che fa strame dei valori professati, utilizza senza limiti il linguaggio della violenza, adotta una politica imperialista e rappresenta la continuità storica del colonialismo europeo. Muovendosi con questa logica è inevitabile il disprezzo dei diritti umani e dei più elementari principi di tolleranza. In tal senso l’inchiesta di Bevins scuote le coscienze e contribuisce a dare un’idea chiara di come l’impero americano si affermi nel mondo passando su montagne di cadaveri.


Patrizio Paolinelli


(Tratto da: Patrizio Paolinelli, La rinuncia all’etica e lo spirito del capitalismo, in https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/26362-patrizio-paolinelli-la-rinuncia-all-etica-e-lo-spirito-del-capitalismo.html).


Inserito il 24/09/2023.

victor Jara

(1932-1973)


Oggi ricordiamo Victor Jara, poeta, regista teatrale, cantante, attivista politico e membro del Partito Comunista Cileno.

Victor Jara fu arrestato l'11 settembre 1973, il giorno del colpo di stato militare organizzato da Pinochet. Per quattro giorni fu picchiato, torturato, gli furono rotte le braccia e, infine, il 16 settembre 1973, fu fucilato nello Stadio Nazionale di Santiago, divenuto una prigione per migliaia di oppositori cileni. Il suo corpo fu trafitto da 34 proiettili. Aveva 41 anni.

Dopo il colpo di stato, la musica e le canzoni di Victor Jara, conosciute in tutta l'America Latina, divennero parte della resistenza alla dittatura militare cilena e alle dittature di altri paesi dell'America Latina.

Invito alla lettura, da «il manifesto»

Eros Francescangeli

«Un mondo meglio di così»
La sinistra rivoluzionaria in Italia (1943-1978)

(Roma, Viella, 2023)

Eros Francescangeli intervistato da Alessandro Santagata

Rendendo omaggio a una celebre canzone di Vasco Rossi, si intitola Un mondo meglio di così l’ultimo libro di Eros Francescangeli dedicato alla storia della sinistra rivoluzionaria in Italia dal 1943 al 1978 (Viella, pp. 364, euro 32). Frutto di anni di ricerche in archivi sparsi in tutta Italia, può essere considerato la più aggiornata e completa storia di un fenomeno che è stato oggetto di ricostruzioni spesso approssimative. Ne abbiamo discusso con l’autore, tra i fondatori del quadrimestrale «Zapruder», rivista di storia della conflittualità sociale.

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Sognare la rivoluzione nella società italiana del lungo dopoguerra


Un mondo meglio di così di Eros Francescangeli indaga le «nuove» sinistre dal ’43 al ’78, per Viella


Rendendo omaggio a una celebre canzone di Vasco Rossi, si intitola Un mondo meglio di così l’ultimo libro di Eros Francescangeli dedicato alla storia della sinistra rivoluzionaria in Italia dal 1943 al 1978 (Viella, pp. 364, euro 32). Frutto di anni di ricerche in archivi sparsi in tutta Italia, può essere considerato la più aggiornata e completa storia di un fenomeno che è stato oggetto di ricostruzioni spesso approssimative. Ne abbiamo discusso con l’autore, tra i fondatori del quadrimestrale «Zapruder», rivista di storia della conflittualità sociale.


Nelle prime pagine una certa attenzione viene dedicata alla definizione del fenomeno, sfrondando aggettivazioni fuorvianti o incomplete e spesso usate come sinonimiche come: «sinistra extra-parlamentare; nuova; estrema; radicale; intransigente; anti-sistemica; antagonistica, etc. Cosa è stata allora la «sinistra rivoluzionaria» e chi ne ha fatto parte?

Erano quei soggetti politici che ritenevano che per realizzare una società di liberi e uguali non fosse percorribile, o comunque sufficiente, la strada del gradualismo riformista. Volevano insomma «fare la rivoluzione». Per questo penso che l’espressione «sinistra rivoluzionaria» sia, storiograficamente parlando, la più corretta. Peraltro fu utilizzata prima, durante e negli anni immediatamente successivi al 1968 come lemma autorappresentativo, prima che si affermasse il più “bonario” «nuova sinistra». Ma, differentemente dalla sfera anglosassone, in Italia il soggetto in questione non era “nuovo”: si richiamava a tradizioni culturali che avevano alle spalle decenni di storia: l’anarchismo, il consiliarismo, il marxismo-leninismo nelle sue molteplici varianti.


I capitoli dedicati alle esperienze post-’45 sono forse tra i più innovativi. In particolare, la riflessione sulle organizzazioni che hanno aperto la strada alle mobilitazioni degli anni Sessanta. Assumendo questa prospettiva, si spiega che bisogna evitare interpretazioni «sessantottocentriche. Ci può spiegare cosa si intende?

Il discorso è articolato. In sintesi, pur riconoscendo l’enorme importanza del Sessantotto come cardine di questa storia (che attivò una serie di importanti processi aggregativi, tra cui anche quello de «il manifesto»), le organizzazioni della sinistra rivoluzionaria esistevano ben prima del 1968 e, qui in Italia, furono quelle che pianificarono e gestirono politicamente il Sessantotto studentesco e le proteste operaie dell’anno successivo. Due eventi-processo che “rimescolarono” gli assetti organizzativi precedenti a spese delle correnti più “tradizionali” (anarchici, bordighisti e trockisti ma anche operaisti).


Dalla ricostruzione emerge che lo sviluppo del filone operaista è stato uno spartiacque. Come mai?

Come reazione a fenomeni contemporanei (il cosiddetto neocapitalismo, gli eventi del 1956, la decolonizzazione, la rivoluzione cubana), nella seconda metà degli anni ’50, si svilupparono alcune culture politiche che “aggiornarono” tradizioni precedenti. Se l’anti-burocratismo libertario-comunista diede vita – grazie al contributo di Giulio Seniga, Arrigo Cervetto e Pier Carlo Masini – all’esperienza eterodossa di Azione comunista e l’antimperialismo marxista-leninista generò il filone terzomondista (grazie all’attività di Giangiacomo Feltrinelli), il consiliarismo degli anni ’20 si inverò in neo-operaismo. Grazie ai contatti con il gruppo francese di Cornelius Castoriadis, tale filone fu quello che riuscì a intercettare meglio di altri i disagi generazionali della gioventù nata a cavallo della Seconda guerra mondiale e – soprattutto – la voglia di riscatto del proletario-migrante. A riguardo sono emblematiche l’esperienza dei «Quaderni rossi» (promossa da Raniero Panzieri), di «Classe operaia» (dove spiccava la figura di Mario Tronti) e de «Il Potere operaio» di Pisa (in cui militò il gotha del Sessantotto italiano: Sofri, Della Mea, Luperini, Cazzaniga).


Il libro ha il pregio di non schiacciare la storia della sinistra rivoluzionaria esclusivamente su quella della violenza politica e della lotta armata. Le osservazioni su questi due elementi sono però puntuali e definiscono orizzonti strategici e culturali differenti. Può azzardare una sintesi?

Si può dire che la militanza rivoluzionaria a sinistra e l’opzione della lotta armata non furono fenomeni coincidenti e chi scelse la prima strada (che fu poi quella maestra) non risolse esclusivamente la propria militanza nell’uso della forza. Anzi, il grosso delle attività lambiva altri ambiti: l’ampliamento delle libertà individuali e collettive, la controinformazione, le vertenze sociali, la produzione culturale, la tutela dei diritti degli “esclusi”. Ma penso che debba altresì essere detto a chiare lettere che il fenomeno della lotta armata e l’esercizio della forza a vari livelli (dagli scontri di piazza agli espropri proletari», dall’antifascismo militante agli attentati dimostrativi) furono parte integrante della storia della sinistra rivoluzionaria. Un non trascurabile sottoinsieme, insomma.


Alessandro Santagata


(Tratto da: Eros Francescangeli intervistato da Alessandro Santagata, Sognando la rivoluzione nella società italiana del lungo dopoguerra, in «il manifesto», anno LIII, n. 204, 30 agosto 2023).


Inserito il 10/09/2023.

Andrea Mazzoni

Spartaco il ferroviere

Vita morte e memoria del ragionier Lavagnini antifascista

Prefazione di Manuele Marigolli, Nota introduttiva di Roberto Bianchi

(Prato, Pentalinea editore, 2021)

Nota introduttiva di Roberto Bianchi

Spartaco Lavagnini (Cortona, 1889 - Firenze, 1921) fu attivista del sindacato dei ferrovieri, figura importante del socialismo fiorentino e redattore del settimanale del PSI di Firenze «La Difesa»; avverso alla linea riformista di Filippo Turati, fondò il giornale «L’Azione comunista» e contribuì alla scissione di Livorno e alla nascita del Partito Comunista d’Italia.

Fu il primo segretario della sezione fiorentina del PCdI, fondata il 7 febbraio 1921; venti giorni dopo, il 27 febbraio, nel pieno delle violenze fasciste di quell’anno, alcuni appartenenti a una squadraccia nera fecero irruzione nella sede del giornale in Via Taddea e freddarono Spartaco Lavagnini con quattro colpi di pistola a bruciapelo.

A questo martire dell’antifascismo e del comunismo lo storico Andrea Mazzoni ha dedicato una preziosa ricerca pubblicata in questo volume di cui riportiamo la nota introduttiva.

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Andrea Mazzoni

Spartaco il ferroviere

Vita morte e memoria del ragionier Lavagnini antifascista

(Prato, Pentalinea editore, 2021)

Nota introduttiva di Roberto Bianchi


Questo corposo lavoro di Andrea Mazzoni ha il merito di ricostruire per la prima volta con dovizia di documentazione la biografia di Spartaco Lavagnini, valorizzando il suo percorso politico e sindacale su cui ha pesato a lungo una certa vaghezza di riferimenti in prevalenza celebrativi, comprensibilmente dovuta alla memoria (che ha per così dire ‘sommerso’ la vicenda storico-biografica) della vittima dello squadrismo fascista. Assassinato poco più che trentenne dai tuttora ignoti sicari fiorentini, Lavagnini era già assai noto a Firenze e in Toscana, tanto da dar vita appena dopo la sua morte nel febbraio 1921 e negli anni successivi fino al 1924-25 ad una serie di commemorazioni esplicite ed omaggi silenziosi di compagni socialisti, comunisti e antifascisti: coloro che si recavano a deporre un fiore sulla tomba di Lavagnini venivano in genere monitorati, sorvegliati, schedati e allontanati dalla polizia o aggrediti non solo verbalmente dai fascisti. Il linciaggio di Lavagnini da parte dei giornaletti squadristi era cominciato in vita e proseguì post mortem negli anni della definitiva trasformazione del fascismo in dittatura aperta. Anche questa demonizzazione e l’accanito vilipendio degli antifascisti già defunti da parte del regime di Mussolini devono essere ricordati come un aspetto della violenza della dittatura.

Nato a Cortona nel 1889 da famiglia borghese (il padre era medico, di sentimenti laici e simpatie anarchiche), Lavagnini seguì una sua formazione giovanile socialista più per impulso morale che per assidue letture o approfondimenti dottrinali e in modalità non certo conseguenti al retroterra sociale e cetuale da cui veniva. I suoi studi tecnici e il diploma di ragioniere gli consentirono di far domanda e di essere assunto dalle Ferrovie dello Stato nel 1907; dal 1910 data il suo trasferimento a Firenze, come impiegato in mansioni di tipo amministrativo; dunque ‘ferroviere’, come suona il titolo di questa biografia, ma addetto a funzioni di lavoro non manuale, non operaio e «non viaggiante»/itinerante. Pur non di estrazione proletaria, il giovane Lavagnini dimostrò subito una sua ferma adesione al socialismo di tendenza rivoluzionaria, radicale, antiriformista, cui restò fedele e coerente fino all’ultima fase della sua vita, impersonata da un uomo di temperamento mite e sobrio ma appunto tutt’altro che transigente e conciliatore quando si trattava di difendere ed affermare i principi internazionalisti, i valori rivoluzionari e pacifisti, l’opposizione forte e mai neanche per un solo momento vacillante alla guerra.

Il libro di Mazzoni si può inserire in una lunga teoria di lavori storico-biografici che sono spesso stati definiti o autodefiniti come «l’uomo (o la donna) e il suo tempo». Nutrita è in effetti la narrazione parallela delle principali vicende del socialismo toscano, italiano e internazionale, e la relativa perfino sovrabbondante bibliografia, che permettono al lettore di farsi un’idea ravvicinata e fondata del contesto in cui operò Lavagnini dal 1907 al 1921, che si situa in parallelo alle numerose indicazioni strettamente biografiche che Mazzoni è meritoriamente riuscito a disseppellire da numerosi archivi e ricorrendo anche a qualche preziosa testimonianza familiare diretta o indiretta. Il periodo più intenso e cruciale della militanza politica di Lavagnini si colloca dal 1914 al 1921, e dal 1914 decorrono i suoi primi incarichi dirigenziali in sede politica e sindacale, con la partecipazione alle lotte interne e alle controversie e diatribe del partito socialista. Il tratto che emerge più nettamente da questa biografia è la duplice e coerente opposizione di Lavagnini sia al gradualismo riformista della CGL guidata da Baldesi, sia alle componenti socialiste riformiste filogovernative di Bissolati, Bonomi, Cabrini ed altri espulsi dal PSI nel 1912 nonché alla nutrita fazione del gruppo parlamentare socialista che faceva riferimento a Turati, Treves, Modigliani, sia a quelle che Lavagnini dovette considerare vere e proprie defezioni dall’internazionalismo dei socialisti italiani (non in gran numero) e dei socialisti europei della Seconda Internazionale che confluirono nelle varie unioni nazionali più o meno «sacrées». Dal 1915-16 in poi le simpatie e la solidarietà di Lavagnini andarono ai partiti e ai gruppi socialisti che si riunirono nelle conferenze internazionali di Zimmerwald e Kienthal e il suo vero e proprio mentore ed ‘eroe’ eponimo si incarnò in Karl Liebknecht, animatore e trascinatore della Lega spartachista e fautore della rivoluzione del 1919 in Germania. Liebknecht fu per Lavagnini una figura di riferimento dal 1916 ben prima di Lenin, e ben più significativa anche dopo il 1917 bolscevico. La rivoluzione russa, l’Ottobre del 1917, furono per Lavagnini la dimostrazione che i tempi dell’insurrezione europea erano diventati ormai maturi, anche se le sue conoscenze degli eventi rivoluzionari russi restarono assai generiche: polemico con Kerenskij, nei commenti giornalistici e nei dibattiti politici ignorò del tutto Trotskij o altri leader bolscevichi limitandosi agli omaggi di rito a Lenin (senza peraltro mostrare di conoscerne qualche scritto). La Russia rivoluzionaria evocata come esempio era e restava anche per Lavagnini un paese lontano ed un contesto “astratto” poco comparabile con quello europeo ed italiano.

Mazzoni segue e dettaglia l’attività giornalistica di Lavagnini sul periodico socialista fiorentino «La Difesa», di cui assunse la direzione mantenendolo su una linea massimalista e radicale, e per un periodo molto più breve sul settimanale «L’Azione comunista», dopo il passaggio di Lavagnini stesso nelle file del Partito Comunista d’Italia nel gennaio 1921. Benché proveniente da studi tecnici di ragioneria, Lavagnini dimostrò doti notevoli di propagandista e commentatore, combattivo e solerte nell’attenzione allo scenario politico. Il giudizio sull’attività sindacale di Lavagnini può e deve essere più articolato. Come già accennato, Lavagnini era un ferroviere sì ma impiegato in mansioni amministrative e non possedeva né esperienze concrete né prossimità ‘cameratesche’ con la maggioranza dei ferrovieri operai, lavoratori manuali, macchinisti e non pare – dalla documentazione prodotta in questo libro – che egli si occupasse di salari, orari di lavoro, minute e specifiche vertenze sindacali; solo lo sciopero come arma decisiva di lotta sindacale era costantemente al centro del giornalismo di Lavagnini, anche se lo sciopero sindacale internazionalista del luglio 1919 fu un fallimento totale, con duro scorno di Lavagnini stesso che restò sorpreso dal fatto che a Firenze solo lui e sette ferrovieri si dichiararono disposti ad incrociare le braccia. Ci furono peraltro alcune battaglie sindacali vinte nel 1920, che videro Lavagnini recuperare una indubbia statura di leader, ma pur sempre prioritariamente impegnato nella lotta interna al PSI contro i riformisti e nella difesa strenua del massimalismo, che a Firenze e Torino aveva in un certo senso le sue capitali. Avverso a Turati, Lavagnini volle distinguersi tuttavia anche dalla linea di Serrati, che al congresso di Livorno volle mantenere ‘il logo’ del PSI e tenere dentro il partito la componente turatiana e riformista. Come detto, Lavagnini aderì alla scissione comunista e fu tra i fondatori del PCdI fiorentino. Poche settimane dopo Lavagnini fu vittima di una delle numerose azioni proditorie dello squadrismo, che nel suo caso ebbe contorni decisamente feroci e abietti. Del fenomeno politico e sociale dei cui seguaci fu vittima, però, Lavagnini non aveva dato l’impressione di essersi reso conto pienamente. Del fascismo nascente il sindacalista comunista aveva dato qualche sporadica descrizione in cui spiccava solo la violenza, e la necessità di reagirvi ma più con il non capitolare delle idee che con strumenti di lotta concreti e potenzialmente più efficaci. In ciò, nelle analisi cioè anche sociali e culturali del fascismo, Lavagnini e i comunisti fiorentini si mostrarono più tardivi e inconsapevoli rispetto al gruppo ordinovista torinese di Gramsci, Tasca, Togliatti.

A differenza dello storico Roberto Cantagalli che, peraltro in termini ipotetici, quasi mezzo secolo fa aveva indicato nella persona di Dino Perrone Compagni il mandante e organizzatore dell’assassinio di Lavagnini, Mazzoni segue un’altrettanto ipotetica pista indicata recentemente dallo scrittore Antonio Scurati. Il capo di un piccolo gruppo di sicari sarebbe stato Italo Capanni, di lì a poco eletto tra i primi deputati fascisti nel maggio 1921 e in seguito destinato ad una lunga carriera nei ranghi diplomatici e consolari del regime fascista. Un dato di fatto da registrare ancor oggi con amarezza, a cento anni dall’assassinio di Lavagnini, è che non sono state trovate tracce né archivistiche né documentarie né memoriali sufficienti a fornire prove dell’esecuzione materiale del delitto né un volto e un nome ai fascisti che lo compirono, coperti dall’omertà e dalle connivenze non solo durante la dittatura ma anche nel lungo periodo repubblicano della democrazia post-1945. L’assassinio restò e resta impunito, senza vere e proprie indagini giudiziarie coeve o postume, senza un’istruttoria e senza un processo.

Le pagine conclusive del libro sono dedicate a osservazioni e riflessioni molto interessanti sul ‘martirologio’ antifascista, in cui Mazzoni segue lo storico Enzo Traverso, indicando la persistenza della memoria del «martire» Lavagnini fino alla guerra di liberazione, all’immediato dopoguerra e all’intitolazione di vie e piazze cittadine, non solo a Firenze o in Toscana, nonché a sezioni e sedi del PCI, al ferroviere Spartaco.


Roberto Bianchi


(Tratto da: Roberto Bianchi, Nota introduttiva al volume: Andrea Mazzoni, Spartaco il ferroviere. Vita morte e memoria del ragionier Lavagnini antifascista, Prato, Pentalinea editore, 2021).


Inserito il 01/09/2023.

Invito alla lettura

Monica Senesi

Cerchio di spine

(Viterbo, Scatole parlanti, 2023)

🔴 recensione di Leandro Casini 🔴

Il secondo romanzo di una scrittrice che dà prova di un’autentica evoluzione compositiva e stilistica. Un’opera ambientata tra una Firenze incupita dalla cappa del Ventennio e una Parigi simbolo di libertà che non mancherà di assaggiare il duro tallone dell’occupazione nazista. Come la Storia irrompe nelle storie delle persone e delle famiglie sconvolgendole. 

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Cerchio di spine, di Monica Senesi

(Viterbo, Scatole parlanti, 2023)


Recensione di Leandro Casini

Per la grande storia la Notte di San Bartolomeo rappresenta la strage di ugonotti ad opera dei cattolici parigini perpetrata nella notte tra il 23 e il 24 agosto 1572; per la storia locale (fiorentina), invece, con quest’espressione si indica un evento avvenuto nella notte fra il 3 e il 4 ottobre 1925, quando le squadracce fasciste di Firenze e provincia scatenarono una serie di spedizioni punitive contro singole persone avverse al regime e sedi di associazioni socialiste e massoniche.

Il Ventennio fa da sfondo al secondo romanzo di Monica Senesi, Cerchio di spine (Viterbo, Scatole parlanti, 2023), che riporta alla luce la storia vera di una famiglia fiorentina.

La circolarità è il leit-motiv anche del suo primo romanzo, Il cerchio delle ipotesi, e non manca un aggancio alle vicende lì narrate in questa seconda opera. Altri richiami non mancano: qui e lì i protagonisti sono dei gemelli, così come i gemelli sono protagonisti della vita dell’autrice; qui e lì i rapporti madre-figli sono forti ma precari, fino a delle rotture che potrebbero diventare insanabili; qui e lì i riferimenti letterari sono assai importanti, Fernando Pessoa da una parte, Grazia Deledda e Antonio Fogazzaro dall’altra; qui e lì quelli che immagino rappresentino dei luoghi del cuore dell’autrice diventano dei co-protagonisti a tutti gli effetti (Firenze-Dublino-Lisbona nel primo romanzo, Firenze-Parigi nel secondo); qui e lì si ricorre all’artificio letterario delle lettere ritrovate, del diario ritrovato…

Ma non si può dire che non ci sia stata un’evoluzione (positiva) tra i due romanzi: mentre nel primo l’intreccio si dipanava sì nello spazio tra Italia e Portogallo, ma come fuori dal tempo, senza grandi riferimenti storici, nel secondo la storia è ben presente e ben scandita, e non solo la Storia con la maiuscola, ma anche le storie delle famiglie che in essa sono cadute prigioniere e a stento ne sono poi uscite, non senza ferite, come succederebbe se si tentasse di uscire da un recinto di rovi, di spine appunto.

Anche dal punto di vista compositivo c’è stata una maturazione: alla prosa poetica del primo romanzo si sostituisce nella scrittura del secondo una maniera d’espressione più misurata e sobria, che conserva l’eleganza formale ma mantiene in equilibrio la scorrevolezza del testo, il che aggiunge piacere alla lettura.

Più generi si stratificano nel Cerchio di spine: è cronaca familiare ma anche romanzo storico, è romanzo epistolare ma anche cronaca diaristica; la presenza di corrispondenze epistolari e note di diario ci riporta alla mente Povera gente di Fëdor Dostoevskij, un autore le cui opere lo scrivente ha frequentato non poco e con non poco profitto e incanto. Quindi il mix di generi, con me, sfondava una porta aperta.

Cerchio di spine è un romanzo che vede delle donne come protagoniste: in particolare due gemelle fiorentine di buona famiglia che, pur diverse nell’aspetto e nel carattere, vivono unite fino all’avvento del fascismo, che instaura un clima fosco che non può che dividere gli animi. Una delle due sorelle, Aida Leonardi, piena di vita e libera in tutti i sensi, se ne va a vivere a Parigi, e da lì prenderà il via la corrispondenza con l’altra, Adele, che invece resta invischiata in un rapporto d’amore con un uomo oscuramente compromesso col nuovo regime.

Le vicende familiari delle due gemelle forzatamente separate dalla Storia si dipanano lungo il romanzo fino a conclusioni in buona parte sorprendenti, in cui prenderà via via sempre più piede la figura del primogenito di Adele, Corrado (con esplicito richiamo al protagonista di Malombra di Fogazzaro), che servirà da aggancio con la contemporaneità… Sì, perché in fin dei conti si tratta di due romanzi in uno, con l’alternarsi delle vicende della famiglia Leonardi durante e subito dopo il Ventennio e di quelle di un’altra donna, Rossella, che nel nostro XXI secolo è protagonista di una storia del tutto moderna: una giovane donna alla ricerca di un equilibrio psicologico nel rapporto con sé stessa e con gli altri.

Esprimo quindi, per finire, i miei complimenti all’autrice sia perché presenta delle storie che scavano nei rapporti fra le persone e in particolare fra genitori e figli, sia perché ha saputo maturare un livello di composizione del romanzo che rende la lettura un’esperienza piacevole che al tempo stesso arricchisce.


Leandro Casini


Inserito il 23/08/2023.

Ken Loach, la classe operaia va in scena

di Luca Peretti

Un profilo del regista inglese che ha messo la propria opera al servizio del proletariato e della rivoluzione.

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Ken Loach, la classe operaia va in scena


di Luca Peretti*


Ventisette film di finzione, qualche documentario, moltissimi film per la televisione, una presenza costante nella cultura e politica inglese (e non solo): a quasi 87 anni Ken Loach non ha bisogno di presentazioni, è una voce ascoltata e rispettata e i suoi film sono visti e studiati.

Il prossimo, in anteprima tra qualche settimana al Festival di Cannes (dove negli anni ha vinto tutto il vincibile), sarà “probabilmente” l’ultimo: con The Old Oak Loach racconta un mondo che conosce bene, quello delle comunità working class del Nord Est dell’Inghilterra, in questo caso concentrandosi sull’unico pub rimasto in un vecchio villaggio di minatori. Dall’ultimo pensionamento annunciato (dopo Jimmy’s Hall – Una storia d’amore e libertà del 2014, ambientato in Irlanda anni ’30) Loach ha girato altri tre film e vinto una Palma d’oro a Cannes, e anche se le storie da raccontare sarebbero ancora molte, come ha detto di recente in un’intervista a Propaganda Live, “si arriva a un punto in cui bisogna rendersi conto della propria fragilità… vorrei avere ancora dieci anni”. Insomma, l’ultimo film, ma solo forse.

Cosa è stato Loach in questi quasi sessant’anni? Prima di tutto, colui che, probabilmente più e meglio di chiunque altro, ha raccontato le questioni sociali e la classe operaia inglese, seguendone le sue evoluzioni, vittorie e sconfitte, sindacati, lotte, provando a capire come cambiava il mondo del lavoro e la società britannica: minatori, lavoratori interinali, disoccupati, autisti, edili, portuali, ferrovieri, ex militari, la lista delle categorie umane raccontate da Loach è lunghissima, in film come Piovono pietre (1993) o In questo mondo libero… (2007). Loach ha poi messo in scena la storia della sinistra mondiale, non solo inglese: la guerra civile spagnola, in uno dei suoi capolavori più noti Terra e libertà (1995), il Nicaragua (La canzone di Carla, 1996), la Germania (lo sfortunato Fatherland, 1986) e naturalmente l’Irlanda. Al grande elefante nella stanza inglese – si intitola proprio Elephant il miglior film sulla questione irlandese, realizzato da Alan Clarke nel 1989 – Loach ha dedicato L’agenda nascosta (1990, sul conflitto nordirlandese), e Il vento che accarezza l’erba (2006) su guerra d’indipendenza e guerra civile irlandese. Nel raccontare queste storie “straniere” una cifra costante è quella dell’internazionalismo, della volontà di unire e connettere lotte che si svolgono in luoghi diversi con la partecipazione di militanti transnazionali, e di farlo spesso partendo ancora dal mondo che conosce bene: Terra e libertà è narrato dal punto di vista di un comunista inglese volontario nella guerra (attraverso gli occhi di sua nipote che ritrova le lettere degli anni ‘30), La canzone di Carla di un autista scozzese che incontra una militante nicaraguense. E anche le altre volte in cui si è allontanato dalla sua isola, i temi sono sempre quelli, come le organizzazioni sindacali nello statunitense Bread and Roses (2000).

A metà anni Sessanta, gli inizi di Loach sono nella televisione pubblica inglese, con una serie di film televisivi tutti concentrati sulla società del tempo. Realizza in particolare dieci episodi di The Wednesday Play, una leggendaria serie di film televisivi che ha cambiato la storia della BBC ed è stata la palestra di diversi registi (citiamo, oltre a Loach e Clarke, il poco conosciuto Peter Watkins). A voler trovare un momento simbolico è il novembre 1966, quando va in onda Cathy Come Home: la storia cruda e realista di una coppia che perde casa e figli, girata con stile innovativo – c’è appena stato il Free Cinema, che ha rivoluzionato il modo paludato di girare i film inglesi. Lo vedono milioni di persone, cambia il modo in cui si pensa agli homeless in Gran Bretagna, ha un impatto duraturo ben oltre la storia dei media. Come Kes (1969), il secondo film per il cinema dopo Poor Cow (1967), un classico del cinema inglese: “c’è solo un Kes in una carriera artistica, una sola opera che dura e si diffonde come ha fatto Kes”, ha detto Loach di recente.

Negli anni Ottanta Loach segue le evoluzioni del cinema del suo paese – una sostanziale crisi, sia economica che di temi e idee – prima di vivere una seconda giovinezza negli anni Novanta, con Riff-Raff – Meglio perderli che trovarli (1991) e Ladybird, Ladybird (1994), oltre ai già ricordati.

I film di Loach intercettano lo spirito del tempo: intorno alle grandi proteste del movimento (impropriamente chiamato) No Global, escono film di alto impatto politico come My Name is Joe, Bread and Roses, Paul, Mick e gli altri, Sweet Sixteen. Sono film che raccontano un mondo, e che in quel mondo si inseriscono come prodotti di fruizione, proiettati in occupazioni, fabbriche, sedi di organizzazioni e partiti. Un aspetto che per Loach rimane importante, anche adesso che quel mondo è (apparentemente) in fase declinante: sia Io, Daniel Blake che Sorry We Missed You – gli ultimi due film, ancora sulla working class inglese di oggi – sono stati fatti vedere sale sindacali, pub, chiese, e ovunque fosse possibile mostrarli gratuitamente a comunità che non avevano necessariamente accesso al cinema.

Per Loach, regista e intellettuale militante, questo aspetto rimane fondamentale: far vedere il proprio lavoro, diffonderlo, discuterlo con le organizzazioni di base e le comunità che racconta. Insomma, fare cinema per provare a cambiare il mondo.


Luca Peretti*


* University of Warwick.


[Tratto da https://fondazionefeltrinelli.it/ken-loach-la-classe-operaia-in-scena/, visitato il 15 luglio 2023].


Inserito il 15/07/2023.

Prossimamente: le recensioni di alcuni dei film più significativi di Ken Loach.

La “nuova sinistra” del secolo scorso

L’agile mangusta di Alfio Nicotra
Democrazia Proletaria e gli anni Ottanta

(Edizioni Alegre, 2022)

🔴 recensione di Paolo Mencarelli 🔴

«Democrazia Proletaria fu la più eretica delle formazioni politiche della nuova sinistra nate negli anni Settanta. Mise insieme, con un’impostazione culturale spesso in rottura con la tradizione della sinistra comunista, migliaia di donne e uomini arrivati alla politica dalle lotte del Sessantotto e i giovani affacciatisi all’impegno militante con i nuovi movimenti degli anni Ottanta» (dalla quarta di copertina del volume).

Uno di quei giovani militanti di Dp era allora Paolo Mencarelli, storico della Resistenza e del movimento operaio e docente del Liceo classico “Galileo” di Firenze, che offre qui un profilo di quel partito prendendo spunto dall’opera che Alfio Nicotra ha svolto nella ricostruzione della sua storia nell’ambito della nuova sinistra.

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L’agile mangusta. Democrazia Proletaria e gli anni Ottanta, di Alfio Nicotra, Edizioni Alegre, 2022


Recensione di Paolo Mencarelli


Il contributo di Alfio Nicotra alla conoscenza della storia di questa piccola ma a suo modo importante organizzazione di quell’area politica un tempo definita come “nuova sinistra” è senz’altro significativo. Alfio, attuale vicepresidente di “Un ponte per…”, ne è stato un dirigente di primo piano sia a livello locale fiorentino che a livello nazionale, oltre ad essere stata la persona che mi ha fatto conoscere da studente universitario proprio Democrazia proletaria (Dp), in cui ho militato dalla metà degli Ottanta fino allo scioglimento nel 1991.

Le presenti note saranno quindi sul piano soprattutto del ricordo personale più che su quello storiografico o direttamente politico. Mi sembra però utile almeno qualche riferimento alla storia e alla natura dell’organizzazione, visto il quasi totale oblio in cui sono relegate esperienze simili della sinistra alternativa o nuova per non parlare dello stesso Partito comunista italiano (Pci), il cui impatto nella storia della nostra Repubblica è stato ovviamente molto maggiore. Per chi volesse conoscere più da vicino la storia di Dp è da consigliare senza dubbio il lavoro di William Gambetta Democrazia proletaria. La nuova sinistra tra piazze e palazzi (Milano, Punto Rosso, 2011), che completa quanto già pubblicato a cura di Fabrizio Billi, in particolare Camminare eretti. Comunismo e democrazia proletaria, da Dp a Rifondazione comunista. Per una storia di Democrazia proletaria e una ricostruzione critica dei percorsi del comunismo e dei movimenti antisistemici del Novecento (Milano, Punto Rosso, 1996), che, riprendendo una bella espressione del filosofo dell’utopia concreta, Ernest Bloch, include alcuni saggi di sicuro interesse scritti da dirigenti come Luigi Vinci, Emilio Molinari e Giovanni Russo Spena, oltre a una preziosa e accurata cronologia dello stesso Billi. Molto ricco di materiale il sito http://www.democraziaproletaria.it/index.asp, con la digitalizzazione di documenti e materiali vari.

Le fonti utilizzate da Nicotra sono soprattutto ma non esclusivamente quelle parlamentari, insieme ad un’ampia bibliografia che ben scandisce l’attraversamento degli anni Ottanta del Novecento, contrassegnati dall’egemonia internazionale del neoliberismo (“meno Stato più mercato” se si dovesse riassumere all’osso) delle presidenze Reagan (Usa) e Thatcher (Uk) e dalla leadersphip di Bettino Craxi con il suo Partito socialista (Psi) che insidia e insieme collabora con la “balena bianca” democristiana, vero pernio, con le sue varie anime, del sistema politico della cosiddetta “Prima Repubblica”. È questo il contesto cronologico principale del lavoro.

È importante ripercorrere in breve la genesi di Dp che è ben dentro le dinamiche del “lungo Sessantotto” italiano e costituisce il tentativo più consistente di mantenerne il nucleo più significativo di quella stagione sociale e politica.


La traversata del deserto

Democrazia proletaria nasce nella seconda metà degli anni Settanta prima come cartello elettorale che raggruppava da Avanguardia operaia (Ao) al Partito di unità proletaria (Pdup), a spezzoni di altre piccole formazioni tra cui il Movimento lavoratori per il socialismo, ma arriva a configurarsi come vero e proprio partito nel primo congresso dell’aprile del 1978. Lo slogan del congresso fondativo “La democrazia degli operai, dei giovani, delle donne per cambiare la vita trasformando la società” sintetizza bene l’intento della nuova formazione che nasce nel momento di massima crisi, presto dissolutiva, delle organizzazioni della nuova sinistra e della potente spinta del movimento femminista (“cambiare la vita” a partire dai rapporti interpersonali oltre al più tradizionale “cambiare la società”), a partire dalle vicissitudini di Lotta continua, scioltasi appunto due anni prima. Con Dp si intende mantenere l’asse del conflitto sociale tenendo conto da un lato della netta critica al terrorismo di sinistra e alle sue derive nichiliste e autodistruttive e dall’altro l’altrettanto dura avversione alla strategia del “compromesso storico” portata avanti dal Pci nei confronti della Democrazia cristiana (Dc), nell’anno che vedrà il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate rosse (Br). Un passaggio stretto, una posizione scomoda nel dibattito pubblico che forma un carattere dell’organizzazione molto segnato dalla sua natura aperta ai movimenti sociali e insieme dall’antagonismo programmatico.

Intanto qualche osservazione sul titolo e sulla stessa denominazione dell’organizzazione. L’espressione “agile mangusta” fu coniata da Mario Capanna, all’epoca vulcanico segretario del partito, per indicare i caratteri più rapidi e combattivi della piccola organizzazione nei confronti dell’“elefante” del Partito comunista italiano. L’abilità oratoria dell’ex leader del Movimento studentesco milanese può essere un primo filo conduttore del lavoro: l’espressione “agile mangusta” descrive bene infatti la natura di un partito-movimento che ha tentato di costruire un’organizzazione che fosse il più possibile in grado di saldare la lotta sociale a quella per l’ambiente, i diritti delle donne, la difesa della scuola pubblica ecc. in una prospettiva anticapitalista. Le parole “democrazia” e “proletaria” rimandano ad una concezione del socialismo che intendeva distinguersi e opporsi all’autoritarismo e al burocratismo dei paesi all’epoca definiti di “socialismo reale” (soprattutto l’Urss e i suoi satelliti dell’Europa dell’est) e al tempo stesso rimarcare la distanza con la democrazia “borghese” e la socialdemocrazia indicando insieme una ben precisa e non equivoca scelta di campo, di “classe”, senza intendere con questa espressione la sola classe operaia metalmeccanica ma in concreto tutte le forme di oppressione sociale, culturale e sessuale, insomma gli “oppressi”, gli “ultimi”, chi rimane indietro, chi è considerato “diverso”. Dal punto di vista teorico-ideologico Dp intese difendere il marxismo come quadro di analisi complessiva del modo di produzione capitalistico nelle sue trasformazioni senza unirsi al coro del “pentitismo” teorico che investì e travolse Pci e Psi e al tempo stesso non ossificarne il lascito in modo dogmatico e sterile, operazione tipica di molte delle micro-formazioni iperideologizzate della sinistra rivoluzionaria.

Il libro, ben scritto e arricchito da alcune interviste, si compone di sei capitoli che partono dai primi tentativi di entrare in Parlamento nel pieno dell’epoca comunemente definita come “riflusso” con la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta fino allo scioglimento nel 1991 e alla confluenza a livello individuale nel Movimento e poi Partito della Rifondazione comunista. Il punto di vista privilegiato dell’autore è quello della storia del gruppo parlamentare e il suo tentativo di saldare la lotta istituzionale a quella sociale, un approccio tipico appunto dell’organizzazione. Il volume è un contributo molto importante perché anche dal punto di osservazione del lavoro parlamentare si possono cogliere bene da un lato i problemi di un periodo come gli anni ’80 giustamente da non relegare nella sola dimensione appunto del riflusso e dei “paninari”, della “Milano da bere” o dei ceti emergenti (i cosiddetti “yuppies”), dall’altro si può vedere come una formazione politica come Dp si sia misurata con il lavoro istituzionale tentando sempre di legarlo alla pratica sociale e cercando di evitare anche con misure drastiche la possibile deriva burocratica. Visto oggi sa veramente di antico, di un altro tempo e dimensione della lotta politica, l’obbligo di versare al partito la quota di rimborsi spettante ai parlamentari per trattenerne il corrispettivo di uno stipendio equivalente al V livello medio operaio. A questo si poteva aggiungere un’indennità di anzianità di funzionariato e solo per i parlamentari un’indennità per i vestiti. Divertente a questo proposito l’aneddoto riportato a Nicotra da Patrizia Arnaboldi relativo a Luigi Cipriani, già membro del Consiglio di fabbrica della Pirelli, ex giocatore di rugby dalla notevole stazza e dalla fluente barba nera, visto per la prima volta in giacca inappuntabile in qualità di neodeputato.

Proprio dalla biografia di Cipriani emergono le origini “operaiste” della Dp milanese, per usare un lessico dell’epoca, l’essere cioè un partito-movimento legato alle istanze dei gruppi della cosiddetta “nuova sinistra” nati intorno al Sessantotto, in particolare in seguito all’intervento presso i grandi complessi industriali di Milano e Torino. Non è certo un caso che Dp ereditò questo piccolo ma importante insediamento operaio dall’organizzazione che più di altre aveva tentato di radicarsi nel proletariato, cioè Avanguardia operaia (Ao). Meno accattivante e fantasiosa nelle parole d’ordine di Lotta continua (”prendiamoci la città”), Ao accanto ad un’impostazione neoleninista non stalinista aveva infatti animato esperienze effimere e minoritarie ma significative come i Cub (Comitati unitari di base), nuclei sindacali di base alternativi ai sindacati confederali in alcune delle principali fabbriche dell’area milanese. Proprio il relativo radicamento operaio e proletario milanese consentirà a Dp di superare la soglia di sbarramento per entrare in Parlamento nel 1984.

Dal primo capitolo del libro emerge una fisionomia di Dp come erede critica del “lungo Sessantotto” italiano, l’unica organizzazione di un minimo di rilievo nazionale che sopravvive, seppure certo ai margini del sistema politico, alla traversata degli anni Ottanta. Un tentativo organizzato di reggere all’ondata neoliberale che travolgerà anche le sinistra del vecchio movimento operaio e che ancora oggi opera fortemente malgrado le crisi economiche ed un peggioramento complessivo dei diritti sociali.

Nonostante questo quadro non esaltante, Dp riesce ad essere attiva nei primi anni Ottanta soprattutto nell’ambito della lotta contro le basi militari Usa e Nato e contro l’installazione dei missili Cruise a Comiso. Interna al vasto e relativamente nuovo movimento per la pace con manifestazioni importanti e un rinnovato impegno contro il nucleare civile e militare, Dp riesce ad aderire pienamente a tali movimenti con l’ambizione di farsene addirittura interprete nelle sedi istituzionali su posizioni radicalmente disarmiste e anti-Nato. Il Pci è intanto attraversato da un ampio dibattito con posizioni spesso divergenti soprattutto dopo la morte di Enrico Berlinguer nel 1984, una crisi poi destinata a sfociare dopo il crollo del Muro di Berlino nel cambio di denominazione con Achille Occhetto.

I successivi cinque capitoli scandiscono le varie fasi della presenza e del lavoro parlamentare del partito dal periodo 1979-1983 la “traversata nel deserto” fuori del Parlamento con la sconfitta del cartello di Nsu (Nuova sinistra unita) e l’eclissarsi di parte del gruppo dirigente, tra cui la figura senza dubbio più rappresentativa e prestigiosa era sicuramente Vittorio Foa, dirigente nazionale della Cgil e già esponente della sinistra azionista e socialista.

Una tappa importante per Dp è sicuramente il 4° congresso nazionale (Roma, febbraio 1984), che testimonia un momento di crescita ed è segnato dalla significativa protesta sociale contro il cosiddetto “accordo di San Valentino” che aveva cancellato alcuni punti di scala mobile. Dp, in coerenza con la sua impostazione, appoggiò e promosse l’autonomizzazione di molti consigli di fabbrica dai vertici confederali e tutte le forme di autoconvocazione operaia in nome del rifiuto di ogni collaborazione con il padronato anche di fronte all’oggettivo arretramento nei rapporti di forza tra le classi che si era ormai delineato dopo la sconfitta alla Fiat nel 1980.


Rinnovamento e resistenza

Il tentativo di aggiornamento delle classiche categorie interpretative marxiste (due fra tutte “classe” e “imperialismo”) porta nel 5° congresso (1986, Palermo) a parlare di contraddizioni capitalistiche contemporanee contraddistinte dalle “tendenze alla guerra e alla distruzione della natura” e del “carattere mondiale delle classi e dei rapporti di classe” con suggestioni “sullo sviluppo autocentrato” corrispettivo della “Teoria dello sganciamento” dal sistema imperialista mutuate dal pensiero del marxista egiziano Samir Amin. Terzomondismo, antimperialismo, socialismo autogestionario si sommano all’“opzione per gli ultimi” portata da una significativa componente cattolica (tra cui citiamo almeno i nomi di Giovanni Russo Spena e Domenico Jervolino) o di origine cattolica e della sinistra cristiana in parte proveniente dal Movimento politico dei lavoratori (Mpl).

Intanto nella seconda metà degli anni Ottanta all’intervento operaio e alla nascita di “Democrazia consiliare”, componente di sinistra della Cgil, si mescolano l’attenzione alle esperienze del sindacalismo di base tra gli insegnanti e i macchinisti, solo per citare due categorie che emergeranno in un quadro che comunque vede un forte arretramento politico oltre che sindacale. La campagna contro la “Filosofiat” trova momenti di tagliente sarcasmo politico con la distribuzione di spillette con la scritta “Ho un rigurgito anticapitalista”, che faceva proprio un chiaro riferimento alla frase pronunciata in modo sprezzante dall’amministratore delegato della Fiat Cesare Romiti di fronte ai nuclei di opposizione operaia. Le richieste di uscita dalla Nato e di disarmo unilaterale (anche un personaggio di primo piano del mondo nonviolento come Alberto L’Abate si candiderà più volte nelle liste di Dp) si legano anche all’appoggio alla prima intifada palestinese oltre all’interesse intorno alla questione carceraria, con la proposta di legge per l’uscita dall’emergenza terroristica. L’intervento sulla casa e il problema abitativo, con la richiesta di obbligo d’affitto e con le proposte di diverso assetto urbanistico, si traduce nel tentativo, nel complesso riuscito, di rilanciare i1 sindacato “Unione inquilini”. Si tenta infine anche una maggiore presenza culturale, con scarsissimi mezzi naturalmente, con la qualificazione del mensile Democrazia Proletaria e la rivista teorica Marx 101 all’interno di un sano abito eclettico dal punto di vista teorico.

Dp è stata attenta anche al piano dello “sviluppo autocentrato” e alla concezione federalista e autonomista, poi negli anni fatta propria dalla Lega di Bossi con opposte finalità ovviamente, cioè di tutela delle aree forti, a partire dalla propria struttura organizzativa. In Sardegna, Sudtirolo, Trentino, ad esempio, Dp aveva una quasi totale autonomia rispetto al centro del partito. Sono innovazioni significative rispetto al centralismo e allo statalismo che hanno generalmente segnato la tradizione comunista e che avvicinano Dp più all’area libertaria, almeno nella mentalità. Alla fine degli anni Ottanta la natura di forza marxista e di classe tenta sempre più di coniugarsi con ambientalismo, pacifismo e nonviolenza, critica femminista in una sintesi che sembra reggere e che dimostrerà solo in seguito le sue contraddizioni interne. Dp intanto è decisiva e centrale nella raccolta di firme per i referendum sulla questione nucleare, ma il “vento” sembra tirare molto di più a favore dei Verdi trainati dai successi dei Grunen tedeschi e assai più in sintonia con lo spirito del tempo, che prevede un approccio meno antagonista e decisamente più light sia dal punto di vista dei contenuti che della comunicazione. La scissione dei “Verdi arcobaleno” nel maggio 1989 priverà Dp di un pezzo importante del proprio gruppo dirigente (lo stesso Capanna, oltre a Tamino, Ronchi e Semenzato), come si vedrà, proprio nel momento in cui viene alla luce la “questione comunista” in corrispondenza con la ormai imminente dissoluzione del Pci e la nascita del Partito democratico della sinistra (Pds).

Due anni prima, alle elezioni politiche del giugno 1987, Dp aveva toccato il suo tetto massimo (si fa per dire: 1,7%, ma occorre considerare la presenza della legge elettorale proporzionale), ma erano emerse differenziazioni sempre meno gestibili. Giocavano in ogni caso a suo favore la forte crescita del movimento degli insegnanti – nascono i Comitati di base della scuola (Cobas) in netta polemica verso i sindacati confederali –, l’immagine di forza agile, contrapposta ad un Pci “ingessato”, la forte visibilità della battaglia per la difesa dei referendum antinucleari, l’adesione di intellettuali di prestigio (Ludovico Geymonat, Franco Fortini, Bianca Guidetti Serra, Sebastiano Timpanaro, Sergio Turone…), di personaggi dello spettacolo (Paolo Rossi, Paolo Villaggio) e di esponenti di movimenti internazionalisti e pacifisti (Falco Accame, Alì Rashid, Uri Avnery).


I riferimenti internazionali

Le posizioni in politica estera e sul piano internazionale sono sicuramente originali. Dp, pur ravvisando nell’imperialismo Usa il principale “gendarme del mondo”, rifiuta nettamente ogni forma di “campismo”, cioè lo schierarsi in funzione antimperialista a fianco di “campi” o alleanze internazionali a guida sovietica o cinese. Fa una certa impressione leggere oggi affermazioni perentorie come: “Alla Cee e alla Nato, al Comecon e al Patto di Varsavia va opposta la lotta per un’Europa socialista autogestionaria dei lavoratori, delle nazionalità e delle regioni – comprese le nazionalità non riconosciute dagli stati (sardi, corsi, baschi, ecc.)” (Tesi del congresso di Palermo, 1986). Quest’ultimo passaggio, cioè l’opzione “nazionalitaria”, spiega i fraterni rapporti con organizzazioni come la basca Herri Batasuna e l’irlandese Sinn Fein che saldavano indipendentismo e opzione socialista, oltre naturalmente al “popolo senza stato” nella polveriera del Medio Oriente, cioè i palestinesi. Va detto per chiarezza – anche se oggi una propaganda rozza e interessata cerca di fare di tutto per seminare confusione – che l’essere Dp un’organizzazione nettamente filopalestinese e antisionista non ne ha mai fatto un’organizzazione antisemita. Basti pensare solo allo spazio che nelle riviste del partito aveva una figura come Uri Avnery, storico militante pacifista ebreo ed esponente della sinistra critica israeliana.

In genere i riferimenti internazionali di Dp scaturivano dalla sua natura terzomondista, erede di molte esperienze degli anni Sessanta e di parte degli anni Settanta. Urss e Cina (quella di Deng e dell’abbandono del maoismo) venivano considerati “capitalismo di stato”, false alternative alle società capitalistiche. Nessuna adesione acritica a modelli precostituiti di socialismo quindi tra i paesi che si autodefinivano “socialisti”, soprattutto riguardo ai paesi dell’est. La ricerca di un sistema alternativo basato sulla giustizia sociale e le libertà fondamentali doveva prendere strade diverse. Ad esempio il Nicaragua sandinista sembrava essere il “modello” di un piccolo partito senza modelli di socialismo. Del sandinismo Dp sosteneva soprattutto il connubio antimperialismo/teologia della liberazione/scelta per gli oppressi, protagonismo delle classi popolari e democrazia nel socialismo. Qui il ricordo va alla dura reprimenda da parte del pontefice Giovanni Paolo II a Ernesto Cardenal, gesuita esponente di primo piano del governo sandinista, ostentatamente umiliato dal Papa polacco nel corso della sua visita nella capitale Managua nel marzo 1983. Un altro ambito di impegno costante per Dp fu il continuo appoggio all’African National Congress (Anc) di Nelson Mandela: il rappresentante in Italia del movimento Benny Nato era un ospite fisso delle iniziative internazionaliste.


La fine degli anni Ottanta

Dp resse con difficoltà alla scissione dei “Verdi arcobaleno” nel 1989: mentre il tessuto militante medio tutto sommato restò nell’organizzazione, molti dei rappresentanti istituzionali sia locali che nazionali abbandonarono il partito accusandolo di essersi arroccato su posizioni settarie e ormai obsolete.

Il congresso tenuto a Riva del Garda nel 1988 segnò uno sviluppo significativo nell’elaborazione teorica e politica con il tentativo più audace di tenere insieme le varie anime del partito. Il preambolo dello Statuto approvato recita significativamente che, oltre a perseguire il canonico obiettivo del “socialismo nella prospettiva del comunismo” implicante “il possesso del potere del proletariato e delle altre classi oppresse e sfruttate, la rottura del potere borghese e l’abolizione della proprietà privata”, chiariva però che l’obiettivo doveva essere “una società autogestita e nonviolenta fondata sul primato della persona”. Lo sforzo fatto per attraversare i difficili e faticosi anni Ottanta del Novecento, quelli della controffensiva borghese capitalista, si poteva dire riuscito; la piccola e agile mangusta giungeva però esausta all’appuntamento con gli anni Novanta e provava a scommettere (almeno nella sua maggioranza) sul progetto del Movimento e poi Partito della Rifondazione comunista. Si stava però ormai aprendo una nuova fase.

Voglio ricordare anche alcune figure come Dino Frisullo, a lungo punto di riferimento delle forze socialiste e autonomiste curde e turche e sempre dalla parte dei diritti dei popoli migranti. O ancora, riferendomi agli ultimi anni, è da sottolineare come lo stesso Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, che ha promosso un modello di accoglienza dei migranti che ha avuto una risonanza internazionale, sia stato un dirigente locale di Dp in una zona notoriamente ad alto tasso mafioso.

Per la Toscana, tra i tanti, mi viene in mente Orietta Lunghi, consigliera provinciale poi regionale di rara coerenza, umanità e intransigenza riconosciuta anche dagli avversari politici nelle istituzioni rappresentative in cui ha operato. Orietta, insieme ad altri compagni e compagne della sua età nati alla fine degli anni Quaranta e quindi attivi già alla fine degli anni Sessanta, rappresentava molto bene, a mio parere, quella che uno storico come Enzo Traverso ha definito “l’ultima generazione dell’Ottobre”, cioè quella generazione che intendeva l'impegno politico come una dimensione totalizzante, una scelta di vita. Quella che l’aveva portata a lavorare in fabbrica malgrado il titolo di studio superiore.

Spesso, a proposito di militanti degli anni Settanta, viene omessa l’appartenenza di Peppino Impastato, ucciso dalla mafia per le sue coraggiose denunce nel 1978, ai primi nuclei dell’organizzazione che a Cinisi si aggregarono, con la sigla di Democrazia proletaria, intorno all’esperienza di Radio Aut.

A proposito di radio libere, è bene ricordare che inizialmente Radio popolare di Milano si collocava in un’area politica vicina all’agile mangusta.

Facendo un riferimento all’oggi, penso che Dp di sicuro si sentirebbe in forte sintonia con l’esperimento della Confederazione democratica del Rojava, con la sua natura popolare e composita, con l’emancipazione femminile tra i primi obiettivi. Oppure, andando agli anni Novanta del Novecento e restando al contesto latinoamericano, penso che avrebbe sicuramente simpatizzato con il “socialismo bolivariano” del venezuelano Hugo Chavez e del leader indio boliviano Evo Morales, con il loro tentativo, inevitabilmente complicato e contraddittorio, di un sistema sociale fondato sul protagonismo degli strati sociali popolari ed una equa redistribuzione della ricchezza. Ma questa ovviamente è solo un’opinione personale.

Il libro di Alfio Nicotra, pur partendo dalla storia di una piccola organizzazione della nuova sinistra, merita di essere letto proprio per i tanti spunti di riflessione che propone sugli anni Ottanta del Novecento e non solo, su quanto ancora oggi troviamo davanti a noi come questioni irrisolte, non ultima quella della lotta per la pace, per un’alternativa ad un modo di produrre e di consumare (quello del capitalismo contemporaneo) che sta facendo emergere problemi ineludibili per le generazioni future e presenti, tra cui le emergenze ambientali e le sempre più accentuate diseguaglianze sociali sia a livello nazionale e locale che a livello internazionale. Bene hanno fatto quindi le Edizioni Alegre ad arricchire il loro catalogo con questa ricerca seria e appassionata e soprattutto viva e in grado di parlare al nostro complesso presente.


Paolo Mencarelli


Inserito l’08/07/2023.

Dal sito spietati.it

Un film da vedere

«Marx può aspettare» di Marco Bellocchio

recensione di Marco Grosoli

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MARX PUÒ ASPETTARE di Marco Bellocchio


Nazione: Italia

Anno Produzione: 2021

Genere: Documentario

Durata: 96'

Interpreti: Marco Bellocchio, Piergiorgio Bellocchio, Gianni Schicchi

Sceneggiatura: Marco Bellocchio

Fotografia: Michele Cherchi Palmieri, Paolo Ferrari

Montaggio: Francesca Calvelli

Scenografia: Andrea Castorina

Costumi: Daria Calvelli


Trama

Marco Bellocchio, attraverso la sua famiglia, fa rivivere la storia di suo fratello, senza filtri o pudori, quasi una indagine, che ricostruisce un’epoca storica e tesse il filo rosso di tanto suo cinema.


Recensione

La potenza travolgente dell’ultimo film di Bellocchio, tra i film più emozionanti che abbiano popolato i nostri schermi da un bel po’ di tempo a questa parte, è evidente a colpo sicuro, ed è stata immediatamente notata già a ridosso della trionfale presentazione a Cannes.

Vale dunque la pena provare a fare un passo indietro, e ripensare a mente il più possibile fredda a questo documentario sul suicidio del fratello Camillo, più di cinquant’anni prima, a 29 anni. Una sintesi letteralmente miracolosa dei due filoni che hanno costituito la carriera di Bellocchio: i film “di famiglia” e quelli “di finzione” (di cui vengono riutilizzati i materiali, montati con interviste girate per l’occasione e con filmini di famiglia in cui appare Camillo).

Ciò che di primo acchito colpisce dopo la visione, è che quello che ha più ragione di tutti è il prete. Come già suggerito qua e là nei suoi ultimi film (su tutti il capolavoro definitivo Sangue del mio sangue), la postura apparentemente blasfema e anticattolica di Bellocchio è ancora pienamente cattolica: anche la celebre bestemmia de L’ora di religione, seguita dall’abbraccio di Ernesto Picciafuoco, non è che una disperata richiesta di salvezza per ciò che non può essere salvato.

Sull’idea di salvezza, in effetti, si gioca l’intero film, e forse la carriera intera del regista. Ciò che Bellocchio sembra rimproverare “dall’interno” al cattolicesimo è che non è abbastanza fedele a se stesso. Nella pratica quotidiana, i fedeli cadono spesso nell’equivoco per cui da un lato ci sono i salvati, e dall’altro “le fiamme dell’inferno”, spauracchio cui la madre di Bellocchio non ha mai cessato di essere morbosamente attaccata.

Sì, proprio “quella” madre. Quella cieca de I pugni in tasca, e mostrata qui in foto che la ritraevano, appunto, a occhi chiusi. Ciò che la madre non vede è che nel cattolicesimo salvezza e dannazione NON sono separati, perché la vera salvezza cattolica è la salvezza di ciò che non può essere salvato: la salvezza dell’insalvabile. Per questo, ossessionata da una fallace visione della salvezza, tormenta persino il marito in punto di morte, marito che per un po’ sembra rivivere nell’erede prediletto Camillo. Ciò che sfugge alla madre, è che il cattolicesimo è una protesta contro lo spietato carattere organico della vita, una protesta non dissimile da quella di quel Tenco, pure lui suicida, ammirato da Camillo. Salvare l’insalvabile vuol dire andare contro lo scorrere naturale delle cose, quello a cui la madre rimane attaccata (“Io non muoio!”, esclama alla vita del cadavere di Camillo), e ciò a cui per definizione obietta la Legge, principio paterno senza il quale la salvezza dell’insalvabile è inconcepibile. Proprio perché il cattolicesimo è superamento della Legge, la Legge è indispensabile: senza di essa non c’è salvezza per l’insalvabile, ma solo l’infernale divisione tra la salvezza e le fiamme dell’inferno.

Ma attenzione. Se Bellocchio sembra dividere piuttosto inequivocabilmente maschile e femminile, dove quest’ultimo è responsabile della trasfigurazione malata del cattolicesimo (gli equivoci della madre sembrano infatti parzialmente rivivere nelle sorelle del regista), d’altro canto sfugge nettamente a qualunque ipotesi di misoginia. Perché l’unico sintomo che Marco Bellocchio in prima persona non stia dalla parte giusta, è la figlia Elena, che lo guarda con espressione malcelatamente diffidente per tutto il film.

Che Marco Bellocchio si autodenunci dalla parte sbagliata della barricata, è in effetti il centro del film. Camillo chiese aiuto anche a lui, ma lui a questa richiesta rimase sordo. Anche lui, come la madre, era cieco, perché il marxismo in cui a fine anni Sessanta si dedicava insieme al fratello Piergiorgio (quello dei «Quaderni piacentini») era solo cattolicesimo con altri mezzi. E lo era perché era ossessionato dalla salvezza sociale, rimanendo completamente cieco davanti alla salvezza degli insalvabili.

Anche qui, attenzione. L’auto da fé del regista piacentino non è di carattere morale, ma strettamente cinematografico. Ed è per questo che al prete, tipicamente, Bellocchio affianca uno psicanalista che abbonda di metafore ottiche (“Camillo soffriva di non venire visto” ecc.). Il cinema è una vita che oltrepassa la morte: ecco dunque che in esso si profila la stessa sopravvalutazione dell’organico, visto come definitivamente vincente sull’inorganico, che ha informato il cattolicesimo della madre.

Ricordiamoci di Vincere: Mussolini, ferito quasi a morte, incontra una nuova donna, tramite di lei Dio, e da lì in poi scompare letteralmente nelle immagini dei cinegiornali per il resto del film. Lo stesso attore (Filippo Timi) interpreterà però il figlio, che si mette a scimmiottare quei medesimi cinegiornali in cui vede il padre. Marx può aspettare include un analogo gioco con la mimesis: a un certo punto, Camillo vuole entrare nel mondo del cinema, “mimando” il successo del fratello che intanto è scomparso dentro ai propri film (nei panni proprio del prete, e proprio nel film di esordio). Che Marco Bellocchio sia scomparso dentro ai propri film lo conferma lui stesso, mostrandosi nella tessitura del film per almeno tre volte mentre confessa davanti all’obbiettivo: “non mi ricordo più”. La memoria cinematografica rimpiazza quella umana, ora irreperibile.


Come il femminile, però, anche il cinema è un’arma a doppio taglio. Se da un lato contribuisce alla sopravvalutazione materna dell’organico, ripetendolo, dall’altro può, concretamente, salvare l’insalvabile. E lo può facendo rivivere ciò che non può più rivivere, ribellandosi all’organico con i filmini di famiglia in cui Bellocchio recupera e valorizza un gran numero di espressioni, sorrisi abbozzati, adombramenti in cui Camillo sembrava esibire qualche traccia del proprio devastante malessere nascosto. Montando quelle immagini insieme alle immagini dei propri film di finzione e a quelle del genere che si suole reputare più affine alla vita (il “documentario”), Bellocchio vuole eliminare la divisione stessa tra finzione e documentario, per mostrare che solo dando potere al Racconto (dunque alla Legge, dunque al Padre), il Racconto (e la Legge e il Padre) possono venire superati. Solo superando “omeopaticamente” Racconto, Legge e Padre si può salvare l’insalvabile, e dunque restituire all’atto compiuto “salvato”, la sua altra faccia, che è la potenzialità, la possibilità pura e non percorsa. Come nell’ultimissima inquadratura, con Marco Bellocchio che cammina verso la macchina da presa e un finto Camillo che corre in direzione contraria, redivivo Aldo Moro che, come lui in Buongiorno, notte, rappresenta l’emersione ordinaria e non traumatica della Legge paterna negata. L’insalvabile padre salvato. Del resto, che ad essere in questione sia la potenzialità da ricongiungere col fatto compiuto, è confermato dalla rima interna, che ricorre lungo tutto il film, di Marco Bellocchio che cammina tra gli attrezzi inutilizzati di una palestra (il fratello era diplomato ISEF): ciò che dell’uso ha solo la possibilità ma non l’attualità.

Come fu per il suo doppio Bernardo Bertolucci, per Marco Bellocchio si tratta di forzare la mano all’autobiografia per superarla, superando così anche le proprie limitazioni personali. Come per il regista parmense, il cinema è un’occasione per auto-cancellarsi. Bertolucci scelse il kolossal globale, Bellocchio l’ancora più impersonale documentario televisivo con teste parlanti, trasfigurato in un diamante in cui ogni faccia è concettualmente interdipendente da tutte le altre, in un miracolo non solo di intensità emotiva, ma anche di coerenza interna tra il tutto (in cui Marco Bellocchio sceglie di annullarsi, come già nel tutto famigliare di Sorelle mai) e le singole parti. Ogni singola parte è riconciliata con il tutto artificiale dell’opera, anche ciò che non gli appartiene (gli spurii filmini di famiglia), in nome della salvezza di ciò che non può essere salvato.


(25 luglio 2021)


Marco Grosoli


(Tratto da: https://www.spietati.it/marx-puo-aspettare/).


Inserito il 20/06/2023.

Dal periodico “Left”

Economia

I prezzi aumentano: è la speculazione, bellezza!

di Maurizio Brotini*

Alessandro Volpi nel suo libro Prezzi alle stelle spiega il perché dell’inflazione a due cifre che imperversa in un Paese in recessione come l’Italia. E apre una riflessione a sinistra su come ripensare l'economia.

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I prezzi aumentano: è la speculazione, bellezza!


Bisogna elogiare e ringraziare intellettuali come il professor Alessandro Volpi che attraverso libri, articoli su riviste come «Altreconomia» e presenza costante nello strumento di controinformazione messo su da Giuliano Marrucci, già collaboratore di «Report», che risponde al nome di OttolinaTv (che potete vedere su varie piattaforme come Facebook, Youtube, Twitch e Tik Tok), si è assunto l’impegno e l’obiettivo di demistificare la propaganda del pensiero mainstream sulle tematiche economiche e sociali.

Utilissima a questo proposito la pubblicazione per la collana Tempi nuovi dell’editore Laterza di Prezzi alle stelle. Non è inflazione, è speculazione.

Qual è infatti la spiegazione dell’inflazione a due cifre che imperversa in un Paese in recessione come l’Italia? Colpa di Putin, che invadendo l’Ucraina avrebbe fatto aumentare i prezzi delle materie prime energetiche ed alimentari, direttamente con l’aumento del grano, indirettamente con l’aumento del costo dei fertilizzanti. Volpi conduce una operazione di pulizia intellettuale ricordando al proposito alcuni elementi. Il prezzo delle materie prime energetiche era aumentato da prima della guerra in Ucraina e non vi è stata una sostanziale diminuzione della produzione e distribuzione delle stesse, o comunque non in maniera tale da essere comparabile con gli aumenti verificatisi. Ancora più clamorosa la propaganda rispetto al grano dell’Ucraina, che sembrava essere divenuto il primo ed unico Paese produttore del cereale quando invece si trattava di un produttore, se non marginale, sicuramente meno rilevante di altri Paesi assolutamente non toccati dalla guerra. Abbiamo dunque una dinamica che non vede ridursi la disponibilità sul mercato delle materie prime a fronte di una domanda che non aumenta. Che è accaduto dunque?

Brutalizzando, anche per non togliere il piacere della lettura ricca di dati da utilizzare a piene mani, la finanziarizzazione dell’economia con le sue logiche di scommesse assolutamente speculative ha soppiantato il mercato nella determinazione dei prezzi. Da qui due filoni di ragionamento e di riflessione che a noi appaiono decisivi. Il primo è una rilettura delle politiche della globalizzazione. Se l’austerità aveva contraddistinto le scelte della controffensiva neoliberista di Reagan e della Thatcher, la finanziarizzazione dell’economia – ottenuta rimuovendo le limitazioni che risalivano alle risposte date dal sistema alla crisi del 1929 – è da ascriversi ai democratici americani che hanno inaugurato la stagione dell’ulivo mondiale ibridato con le terze vie di blairiana memoria. Quale era l’assunto di fondo, al netto della teoria dello sgocciolamento: garantire i consumi delle classi lavoratrici e popolari senza aumentare i salari, perché l’aumento dei salari non solo limitava i profitti ma costituiva un accumulo di forza politica che poteva mettere in discussione l’ordinamento capitalistico come si era verificato nel punto più alto dei “Trenta gloriosi”.

La finanza per tutti, il credito al consumo, la possibilità per i piccoli risparmiatori di misurarsi pensando di arricchirsi hanno costituito la base di consenso “a sinistra” per la nascita di concentrazioni finanziarie mostruose che movimentano masse fittizie di danaro superiori al Pil delle economie avanzate ed assolutamente sottratte ad ogni controllo democratico. Una concentrazione che rapina e devasta milioni di uomini in carne ed ossa e la stessa riproduzione delle risorse da parte del pianeta. La parola d’ordine di un’agenda progressista non può essere dunque che quella di definanziarizzare l’economia, rilanciare i mercati interni, aumentare con meccanismi di indicizzazione salari e pensioni e soprattutto ripubblicizzare, rinazionalizzare i settori strategici dell’economia come i settori energetici, le reti infrastrutturali materiali ed immateriali, gli ambiti della sanità e dello stato sociale assieme a beni comuni come l’acqua.

La seconda riflessione è di natura più profonda. Mercato e capitalismo sono sinonimi? Adesso che il capitalismo finanziarizzato distrugge le stesse logiche ed obiettivi del mercato, così come definiti a partire dagli economisti classici, è paradossale pensare un mercato che pre-esiste al capitalismo e che può essere utilizzato per esperimenti e pratiche di fuoriuscita dal capitalismo medesimo. Ed è questo un tema che rimanda altresì alle società del baratto e del dono, indagate da Polanyi e da Mauss, nonché all’esperienza della Nep di Lenin ed al socialismo con caratteristiche cinesi.

Insomma, un libro da presentare e discutere pubblicamente, utilissimo per resistere alla propaganda di regime e che apre altresì riflessioni sulla natura stessa delle formazioni economico-sociale dove ci è stata data in sorte la possibilità di vivere ed operare, intravedendo percorsi per il suo superamento, perché quello che non sempre è stato potrà cedere il passo a quello che potrà essere.


Maurizio Brotini*


* Membro della segreteria Cgil Toscana.


(Tratto da «Left», 15 giugno 2023: https://left.it/2023/06/15/i-prezzi-aumentano-e-la-speculazione-bellezza/?fbclid=IwAR1Qj4kvdJCjiNXlrc_WdAzrad7vng-9Rjp__nNHJSUmIBJCq8qqQHqg_8o).


Inserito il 16/06/2023.

Filosofia

Finitezza e Sostanza
Sulla fondazione della libertà politica nella metafisica di Spinoza

di Alessandro Pallassini

(Pistoia, Editrice Petite Plaisance, 2017)

Per gentile concessione dell’autore, riportiamo l’Introduzione a questo volume che affronta il problema della libertà nella filosofia di Spinoza.

«Parlare della libertà in Spinoza può non sembrare facile. Infatti, il rigido determinismo che pare dominare il pensiero del filosofo olandese sembra non lasciare spazio a nessun tipo di libertà. D’altro canto, però, la ricerca di un agire libero è il fine ultimo di tutto il pensiero spinoziano. Finitezza e Sostanza affronta il problema proponendosi di ricostruire, all’interno del pensiero del filosofo olandese, un modello di libertà che, a partire dall’ontologia profonda, dia ragione della costruzione di una libertà sociale concreta» (dalla quarta di copertina del volume).

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Finitezza e Sostanza

Sulla fondazione della libertà politica nella metafisica di Spinoza


Introduzione


Parlare della libertà nella filosofia di Spinoza non è semplice: in primo luogo perché il rigido determinismo che fin dalle prime battute sembra dominare l’intera filosofia spinoziana pare escludere ogni forma di condotta libera; in secondo luogo perché, in apparente contraddizione con la prima affermazione, la teoria della libertà pervade l’intera opera matura del filosofo olandese, ivi inclusi i trattati. È necessario, perciò, vedere se e come queste due affermazioni, apparentemente contrapponentesi, si possono conciliare. In altre parole, è necessario vedere se all’interno della filosofia spinoziana sia possibile trovare concretamente una teoria della libertà che rifugga dall’indeterminismo (libero arbitrio) e dal determinismo etero imposto.

Il lavoro da svolgere deve, quindi, partire dall’analisi delle condizioni materiali su cui è possibile costruire una teoria della libertà che permetta di evitare i problemi prima citati. Il luogo in cui ricercare tali fondamenti è costituito dalla teoria generale della Sostanza e dal rapporto che quest’ultima intrattiene con i modi. Solo definendo un primo livello di necessità/libertà, dettato dalle leggi generali della Natura, è possibile porsi concretamente il problema di una teoria della libertà che si articoli a livello modale. Tuttavia, è bene chiarire fin da subito che sarebbe un errore contrapporre modalità e Sostanza, libertà modale e libertà sostanziale. Infatti, la prima, come cercheremo di dimostrare, si forma e si articola all'interno della seconda. La vera difficoltà, come ha ben notato A. Tosel, rimanda alla definizione della possibilità per la modalità specificamente umana di conquistarsi un proprio campo di libertà, di porsi come elemento attivo e produttivo. La prima parte di questo lavoro indirizzerà pertanto la propria analisi verso la descrizione dei fondamenti che sottendono alla teoria spinoziana della Sostanza. È infatti a questo livello che le basi teoriche per poter parlare della libertà umana vengono gettate; in particolar modo è a livello di concettualizzazione modo/sostanziale che un primo snodo teorico è da ricercare. Infatti, se il rapporto tra la Sostanza e i modi fosse solamente unidirezionale, se la causazione si muovesse in una sola direzione, l’uomo, la cui condizione ontologica è quella di un modo, non potrebbe godere di nessuna libertà, ma sarebbe necessitato in forma coatta da un rigido determinismo che lo vedrebbe riassorbito nella Sostanza. Per poter parlare di libertà occorre che, in prima istanza, il rapporto tra Sostanza e modi sia pensabile non come un rapporto unidirezionale, di degradazione, ma è necessario poter pensare la totalità intensiva dei modi come la Sostanza stessa. In altre parole, deve essere possibile intendere la Natura Naturans e la Natura Naturata, non come due entità contrapponentesi, ma come la medesima cosa sotto due punti di vista differenti. Lo statuto del modo deve essere considerato in maniera attiva, perché esso è una produzione della Sostanza e come tale è una parte attiva di quest’ultima, capace di porsi come forza produttrice di effetti, come causa tendenzialmente adeguata delle proprie azioni.

La teoria spinoziana della libertà deve, perciò, fin dall’inizio, risolvere queste difficoltà; deve fornire la base materiale che permetta alla modalità umana di articolarsi come forza attiva, capace di porsi tendenzialmente come causa adeguata delle proprie azioni. In questo senso, la libertà di cui gode il modo e quella di cui gode la Sostanza debbono essere qualitativamente omogenee. La Sostanza risulta essere un’astrazione senza i modi mentre i modi sono impensabili senza quest’ultima. La necessità di pensare il rapporto Sostanza/modi come un rapporto isomorfo è la prima determinazione della teoria spinoziana della libertà. La produttività del modo è così introdotta all’interno della struttura complessa della realtà, dalla quale essa è determinata e al tempo stesso nella quale produce i propri effetti, si pone come forza produttiva.

Questa concezione del rapporto tra Sostanza e modo viene a definire quello che possiamo chiamare il primo livello di libertà/necessità, quello che inerisce alla Sostanza nella sua totalità come universalità di determinazioni. La teoria della Sostanza fornisce le basi materiali per sviluppare la teoria della libertà secondo una direzione che rifugga dal libero arbitrio e dal determinismo eterodiretto. In questo senso, il determinismo spinoziano, proprio in virtù del rapporto peculiare che vige tra la Sostanza e i modi viene a connotarsi non come impossibilità di agire da parte del modo, ma come impossibilità di esercitare il libero arbitrio. Il determinismo spinoziano, fonda perciò, l’agire concreto. Si può allora dire che già nelle prime parti del De Deo la tensione politica è fondamentale nell'analisi di Spinoza. Si manifesta fin da subito la strettissima e inseparabile relazione tra ontologia etica e politica.

Il primo livello di necessità/libertà è la base materiale su cui è possibile costruire un secondo livello di necessità/libertà, quello propriamente modale, e nel nostro caso specificamente umano. Per quanto riguarda la sfera della libertà umana occorrerà, pertanto, partire dall’analisi concreta delle sue condizioni, vale a dire dalla radicale passività originaria che affetta il modo. Sarà necessario comprendere come il suo statuto all’interno del primo livello di necessità sia ontologicamente egualitario con le altre produzioni naturali e come pertanto le acquisizioni teoriche proprie di questo livello siano immediatamente valide per gli esseri umani. L’uomo non può essere considerato come un impero all’interno di un impero, come soggetto costituente assoluto, ma deve essere indagato a partire dalla sua  condizione che lo pone come un modo con pari dignità rispetto agli altri modi della Sostanza, al tempo stesso passivo, perché sovrastato da un’infinità di cause esteriori infinitamente più potenti di lui, ed attivo, perché produzione attiva della Sostanza e quindi egli stesso potenzialmente attività e produttività. Tutto l’agire umano, per riprendere un’espressione di Martinetti, avviene in modo necessario e determinato, ma questa necessità da cui discende l’agire umano è duplice. Infatti, una cosa è la necessità coatta, quella che viene subita dall’esterno e di cui ogni individuo nasce schiavo. Altra cosa è, invece, la necessità dalla quale ogni individuo è attraversato da parte a parte. L’uomo nasce necessariamente in una condizione di sopraffazione passionale dovuta alla predominanza delle cause esteriori su di lui; in questa condizione la necessità non può che presentarsi come necessità coatta, subita dall’esterno. In quanto esso si conosce passionalmente extra Deum, e non come parte attiva della Natura, deve necessariamente cadere sotto il dominio delle altre cose. La passione è appunto questo processo per cui il nostro essere incontra un’energia straniera dalla quale si sente sopraffatto e verso la quale non può porsi come causa adeguata. La necessità dalla quale l’attività dell’uomo è determinata, in questo caso, è necessità servile. L’uomo è costretto pertanto ad alienarsi verso gli oggetti esterni, gli altri individui o verso le divinità che egli crede possano determinare la propria condotta. La condizione umana a questo livello è radicalmente passiva e l’individuo è costretto a crearsi una griglia interpretativa del mondo puramente immaginativa attraverso la quale darsi delle spiegazioni sulla realtà. È da questa condizione che nascono i fenomeni immaginativi, che si forma l’idea di una divinità creatrice del mondo e che deriva il concetto di miracolo, come possibilità della divinità di interrompere o modificare il corso naturale della realtà. Ma è anche in questa condizione che l’uomo si crea una griglia di rapporti intersoggettivi basati sulla dipendenza passionale, sull’alienazione verso gli altri individui e sulla repulsione verso quest’ultimi. Si possono quindi sviluppare cicli passionali in cui l’alienazione positiva si alterna con quella negativa, l’amore e l’odio si succedono senza soluzione di continuità in una condizione che rimane sempre aperta alla fluctuatio animi.

Se la dipendenza originaria è radicale, ciò non significa che essa non sia modificabile. Il rapporto di dipendenza è un rapporto dinamico, modificabile, riconnotabile in permanenza. Comprendere la vera struttura del reale è condizione necessaria per poter invertire la passività originaria in attività. La filosofia di Spinoza si troverà dunque a confrontarsi con questo secondo problema relativo alla possibilità di porsi come causa tendenzialmente adeguata delle proprie azioni, riducendo la frattura che vige tra l’individuo e il resto del mondo e che lo rende passivo di fronte alle cause esterne. Il problema è quello di ricercare gli strumenti che consentano di rendere concreta questa inversione, questa transizione tendenziale dalla passività all’attività. La teoria spinoziana della conoscenza si reciproca allora con la maggiore o minore capacità di porsi come essenza attiva, come forza produttiva all’interno della Natura. Se l’uomo non potrà mai porsi come totalmente libero, ciò non toglie che esso non possa porsi indefinitamente sempre più libero, liberandosi dalle finzioni relative all’idea di un Dio creatore e rettore del mondo e possa comprendere la necessità senza più subirla. Questo è il primo passo verso la conquista dell’attività. Nel momento in cui riusciamo a comprendere la vera struttura del reale e comprendiamo che la necessità che determina l’intero corso della realtà non è qualcosa di imposto dall’esterno, ma è determinata internamente, cominciamo a conoscerci non più extra Deum, ma in Deo: riusciamo a comprenderci come parte attiva e produttiva dell’intera Natura. Essere libero infatti non è più essere capace di fare o non fare una determinata cosa, ma essere capace di porci come causa adeguata delle nostre azioni.

Il riconoscimento della necessità, comporta la fine dei concetti immaginativi di creazione e di libero arbitrio e consente di strutturare un percorso che renda possibile l’inversione della passività in attività. Se la passività totale e l’attività totale sono impensabili, quello che è importante nella teoria spinoziana della libertà è il passaggio da uno stadio ad un altro da una fase di passività ad una di maggiore attività. LEtica definisce questo percorso mostrando quali siano i mezzi da sviluppare per inverare la possibilità di acquisire uno statuto attivo riducendo sempre più la nostra passione originaria; essa appare come teoria pura dei modi di produzione umani e della loro dinamica. La produttività infinita della Sostanza una volta conosciuta fa sistema con le forme di vita, con il passaggio dalla vita in schiavitù, dominata dalla causalità ex alio e la determinazione ex alieno decreto, alla vita liberata, dominata tendenzialmente dalla causalità per sé e la determinazione ex proprio decreto. L’Etica pone in essere la possibilità di una liberazione del conatus umano, della forza produttiva umana. A partire dalla definizione della condizione umana nella Natura, operata nella prefazione alla terza parte e nelle prime proposizioni della quarta e proseguita con l’analisi dei meccanismi passionali ed alienativi che si sviluppano tra individui e Natura e reciprocamente tra individui, l’Etica apre un nuovo corso. All’interno del processo anonimo della Natura comincia a costruirsi la transizione etica dalla passività all’attività. In questa opera, la parte quinta dell’Etica rappresenta il punto superiore; raggiunto questo livello, la liberazione diviene libertà. Non ci conosciamo più come extra Deum, ma ci comprendiamo come parte attiva della Natura e in quanto tale ci comprendiamo come Dio, per quanto la nostra condizione modale ce lo permetta. Si apre il cammino verso la conquista dell’eternità, verso la piena attualizzazione della nostra essenza, verso l’estensione quantitativamente indefinita di interiorizzazione del processo produttivo della Sostanza

L’Etica così facendo produce le condizioni della propria pensabilità; il cerchio si chiude e il processo di acquisto di causalità adeguata può svilupparsi secondo la propria dinamica quantitativamente indefinita. Ma l’Etica non si chiude su sé stessa; se il processo di transizione dall’in alio all’in sé è dato dalle dinamiche messe in moto nell’analisi, per così dire, pura che l’Etica svolge, ciò nonostante questo processo è possibile solamente se sussistono le basi materiali per la propria realizzazione. La politica, allora, diviene il luogo in cui il movimento descritto dall’Etica deve produrre le proprie basi materiali. L'etica e la politica fanno sistema e quest'ultima diviene il luogo in cui i diversi sviluppi del conatus umano entrano in contatto e trovano una sintesi; la transizione etica descritta in precedenza deve riflettersi nella sfera politica, assumendo così concretezza. Il problema politico diviene quello di approntare gli strumenti adatti che rendano possibile l’acquisto di causalità adeguata, sia a livello collettivo che individuale. La ricerca spinoziana in politica non è ricerca del modello normativo migliore, ma tensione verso la democrazia, come mezzo migliore per rendere possibile il passaggio dalla causalità inadeguata alla causalità adeguata. Essa rende possibile la concretizzazione della transizione etica fornendole le basi concrete su cui strutturarsi. Fuori da ogni modello astratto ed infondato, il problema della politica per il filosofo olandese coincide con il problema della democrazia, con la necessità di trovare gli strumenti per rendere operante l’acquisto di potenza e di causalità adeguata, per rendere possibile il porci come causa tendenzialmente adeguata delle nostre azioni.

La democrazia, ponendosi come il luogo in cui il conatus si socializza nella forma migliore, fungendo così da operatore di una socializzazione quasi-razionale, rende possibile il passaggio da una forma di vita in schiavitù ad una forma di vita libera, ma essa non esaurisce totalmente questo processo. La sfera politica si presenta come il luogo in cui la transizione etica, trovando le condizioni per la propria riuscita, si concretizza e si rilancia, evitando di esservi riassorbita totalmente. La strategia spinoziana volge il proprio sguardo verso i mezzi più idonei per assicurare il passaggio da una condizione in cui si è determinati ex alieno decreto e si è spinti ad operare, ad una condizione in cui la determinazione deriva ex proprio decreto e siamo in condizione di agire. La politica è il luogo e il mezzo che Spinoza appronta per rendere concreta questa possibilità di transizione dalla passività all’attività e al tempo stesso è il luogo in cui questo processo concretizzandosi può rilanciarsi. Il Trattato Teologico Politico e il Trattato Politico vengono allora a saldarsi con il nucleo teorico dell’Etica, la quale, per riprendere le parole di A. Tosel, funge da stenogramma concettuale dei trattati politici. Il processo puro descritto nell’Etica si invera nei trattati politici che mirano a fornire le condizioni della realizzazione del progetto etico, ma al tempo stesso rendono possibile il rilancio dell’azione etica travalicando la stessa sfera della politica.

La filosofia di Spinoza appare allora nella sua intrinseca coerenza; essa si presenta come analisi strategica delle possibilità e dei mezzi per rendere reale l’adeguarsi della modalità umana al movimento di produzione del reale, per rendere possibile da parte dell’uomo la propria comprensione non più extra Deum, ma in Deo come parte prodotta e al tempo stesso producente, attiva, della Sostanza. L’Etica si presenta allora come ontologia politica e al tempo stesso come politica ontologica, in cui la liberazione della nostra forza produttiva nella durata si identifica con il processo del nostro divenire eterni; è in questa ottica che la filosofia spinoziana intende il processo storico, come processo di conquista dell’eternità da parte del modo, come capacità da parte dell’individuo umano di porsi come causa tendenzialmente adeguata delle proprie azioni in un processo che se qualitativamente riproduce se stesso circolarmente, quantitativamente è infinito e può essere riattivato ad ogni passaggio.

La teoria della libertà spinoziana rimane questione aperta, non esauribile una volta per tutte in un modello determinato, ma il dispositivo filosofico messo in atto dal filosofo olandese rende conto, nella propria coerenza sistematica, della direzione nella quale occorre muoversi per affrontarla e questa direzione ci indirizza concretamente verso la capacità di porci tendenzialmente come causa adeguata delle nostre azioni e delle nostre idee, come forza produttiva all’interno della Natura, certamente sempre limitata dalle cause esterne, ma non per questo irreale. Al contrario, essa è ben concreta e processualmente sviluppantesi verso sempre nuovi acquisti di causalità adeguata e di produttività. Seguendo questa direzione Spinoza può riuscire a costruire una teoria della libertà che rifugga dalle due aporie relative al libero arbitrio e al determinismo eteroimposto; la libertà rimane questione aperta, ma non incoerente ed affrontabile concretamente. 


Nelle nostre analisi, che non prevedono confronti esterni con altri sistemi filosofici ma solamente una modellizzazione interna delle idee del filosofo olandese, prenderemo in considerazione le posizioni espresse da Spinoza nell’Etica e nei due trattati politici, considerando questo gruppo di opere come l’espressione più matura della filosofia spinoziana. Inoltre, la linea interpretativa che abbiamo seguito fa riferimento alle analisi che, a partire dall’opera, ormai divenuta classica, di A. Matheron Individu et communauté chez Spinoza, si è sviluppata soprattutto in Francia e che ancor oggi continua a dare risultati che, a nostro avviso, la pongono all’avanguardia nell’interpretazione della filosofia di Spinoza. 


Alessandro Pallassini

(Tratto da: Alessandro Pallassini, Finitezza e Sostanza. Sulla fondazione della libertà politica nella metafisica di Spinoza, Pistoia, Editrice Petite Plaisance, 2017).


Inserito il 10/06/2023.

Il romanzo biografico di un rivoluzionario

Dzeržinskij

I primi passi sul cammino della rivoluzione

di A.V. Tiškov

(Da: A.V. Tiškov, Dzeržinskij, il «giacobino proletario» di Lenin. Una vita per il comunismo, Zambon Editore, 2012)

Riprendiamo dal volume di Tiškov i paragrafi relativi alle prime esperienze politiche del futuro capo della Čeka, la polizia politica da lui organizzata e diretta dopo la rivoluzione bolscevica russa.

Polacco, studente del primo liceo di Vilnius, in Lituania, incontrò il marxismo grazie alle opere di Lenin che circolavano in clandestinità nell'Impero Russo: nella sua attività politica di liceale cercò di unire la lotta per la liberazione nazionale polacca e lituana dallo zarismo a quella per l'unità internazionalista dei proletari contro il capitalismo.

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Dzeržinskij: i primi passi sul cammino della rivoluzione


1


L’alunno della settima classe del primo liceo di Vilnius, Feliks Dzeržinskij, si recava ad un appuntamento con il dottor Domaševič. Andrej Domaševič era uno dei fondatori della socialdemocrazia lituana. Il dottore aveva fatto conoscere il marxismo al giovane Feliks e gli forniva letteratura socialdemocratica. Dzeržinskij aveva già letto alcuni dei libri che Domaševič gli aveva dato nelle riunioni del circolo di autoformazione degli alunni. E non molto tempo prima era stato eletto capo del circolo, cosa che lo inorgogliva. Ora, nella tasca interna della giacca della sua uniforme portava un piccolo opuscolo dal lungo titolo: Chi sono gli “amici del popolo” e come lottano contro i socialdemocratici. Sul frontespizio non si citava il nome dell’autore ma Domaševič gli aveva detto che l’aveva scritto Ul’janov, giovane marxista di Pietroburgo.

Dato che era uscito per tempo, Dzeržinskij decise di fare un giro in città. Presto sarebbe stato Natale e poco dopo l’anno nuovo. Il suo pensiero, involontariamente, ritornò alla sua vita passata. Per lui, quell’anno 1894 era stato un anno di cambiamenti fondamentali nella sua vita: aveva rotto definitivamente con la religione. Era stato duro, una tortura, rinnegare un dio che per lui simbolizzava l’amore, la verità, la bontà e la giustizia. Cosa paradossale, i primi dubbi l’avevano assalito quando suo zio, un religioso, aveva cercato di dissuaderlo dal porre la sua vita al servizio del Signore. Il religioso aveva sostenuto che il carattere del nipote non era adeguato, ma a questi era parso che lo zio non credesse molto in Dio e temesse che il nipote carpisse il segreto della sua insistenza. A quattordici anni il giovane Feliks aveva prestato particolare attenzione alle conversazioni sulla vita poco edificante dei servitori della chiesa, poi aveva pregato perché Dio lo salvasse dalle tentazioni diaboliche. A quindici anni era nato in lui l’interesse per i libri di scienze naturali e di filosofia: la fede cieca nei miti e nelle leggende della Bibbia e dei Vangeli aveva subito un colpo. A sedici anni la conoscenza del marxismo aveva dissipato completamente i suoi dubbi: aveva smesso di credere non solo nei dogmi della chiesa ma anche nella stessa esistenza del principio divino. Era diventato ateo e materialista. Tre anni di lotta interiore e ricerca della verità! Dzeržinskij aveva acquisito una nuova fede: la fede nel destino storico della classe operaia a trasformare il mondo, la fede nella vittoria inevitabile dei lavoratori. E, come ogni neofita, era pronto a dare la vita se con ciò si fosse avvicinato il momento della vittoria.

Domaševič comparve nel luogo concordato. Viveva in condizioni di illegalità, cambiava frequentemente casa e si incontrava con Dzeržinskij quasi sempre in vicoli tranquilli, assicuramdosi in anticipo che nessuno lo seguisse.

Senza affrettarsi, con espressione indifferente, passò davanti a Dzeržinskij, arrivò all’angolo, guardò intorno em non ravvisando nulla che lo insospettisse, si voltò e si mise a fianco del giovane Feliks, che aveva proseguito lentamente il suo cammino.

Si salutarono. Dzeržinskij aprì la tasca ed estrasse l’opuscolo.

E allora? – chiese Domaševič.

Meraviglioso! Ho letto tutta la notte, senza distogliere gli occhi.

Sì, Ul’janov è, senza dubbio, di grande talento: un polemista insuperabile e vigoroso nella logica. I populisti ora se la passeranno male a “demolire” il marxismo.

Ha ragione, dottore, tutto questo è indubbiamente così, ma devo ammettere che quelle che più mi attraggono sono le conclusioni pratiche che Ul’janov formula per i socialdemocratici.

Che cosa vuole dire? – domandò Domaševič.

Ho deciso di abbandonare il liceo e di dedicarmi totalmente alla diffusione delle idee del socialismo scientifico tra i lavoratori.

Domaševič lo guardò con malcelato stupore.

Ascolti, Feliks – disse alla fine – che necessità c’è di fare questo? Sono forse pochi quelli che studiano e si dedicano all’attività rivoluzionaria?

Ma io non posso vivere così, a metà – rispose Dzeržinskij con ostinazione – penso che alla fede debbano seguire gli atti…

E si interruppe. Aveva pronunciato una frase altisonante. Ma essa rifletteva onestamente quello che pensava.

Domaševič, che aveva molti anni più di Dzeržinskij, reputava che questi, a causa della sua giovinezza e del suo ardore, fosse sul punto di fare un passo di cui poi si sarebbe pentito per tutta la vita. Di conseguenza disse, nel tono più dolce possibile:

Ci pensi bene, Feliks. La rivoluzione non esige da lei un simile sacrificio.

Chi parla qui di sacrificio? Il liceo prepara fedeli servitori dello zar. Perché ne ho bisogno? Porta solo via tempo. Parlando con sincerità, l’avrei abbandonato da un pezzo se non fosse per mia madre. È gravemente ammalata e non resisterebbe a un simile colpo.

Lo vede? A maggior ragione non deve lasciare gli studi. Spero di farle le congratulazioni quando conseguirà una laurea.

Conversarono un po’ sui problemi del circolo e poi si separarono.

Alla fede devono seguire gli atti”: questo il giovane Feliks aveva detto a Domaševič. Dzeržinskij era profondamente convinto che un rivoluzionario onesto dovesse comportarsi in questo modo. Ma le sue convinzioni si erano scontrate con un altro forte sentimento: l’amore per sua madre. Non aveva forze sufficienti per adempiere al dovere passando sopra al suo amore filiale. Aveva riposto le sue speranze nell’appoggio di Domaševič e non l’aveva trovato. Rimaneva un nodo gordiano che prima o poi avrebbe dovuto tagliare.


2


Sparivano i fogli del calendario che pendeva sopra la scrivania della cameretta del giovane Feliks a casa di sua nonna. Viveva a Poplavi, con la famiglia di sua zia, Zosja Piljar. I giorni diventavano settimane, le settimane mesi, e apparentemente la vita seguiva il suo corso abituale. La mattina, Dzeržinskij andava al liceo, il pomeriggio e la notte li dedicava alla sua autoformazione e dirigeva il circolo.

Il movimento operaio cresceva insieme allo sviluppo del capitalismo. Nel febbraio del 1895, a Pietroburgo ebbe luogo una conferenza dei membri dei gruppi socialdemocratici di Pietroburgo, Mosca, Kiev e Vilnius. Venne adottata un’importante risoluzione sui passi da compiere, dalla propaganda marxista in circoli ristretti fino all’agitazione politica tra le masse, e sulla pubblicazione di letteratura popolare per i lavoratori. All’inizio di settembre, durante una tappa del viaggio che lo portava dalla Svizzera a Pietroburgo, Vladimir Il’ič Ul’janov visitò Vilnius. Condivise con i socialdemocratici della città la letteratura marxista illegale portata dall’estero e si mise d’accordo con loro per sostenere la pubblicazione, fuori dalla Russia, della collezione Il lavoratore.

Quello stesso autunno l’assistente consigliere Vladimir Il’ič Ul’janov unificò tutti i circoli marxisti di Pietroburgo in una sola organizzazione politica: l’Unione di Lotta per l’Emancipazione della Classe Operaia. Organizzazioni e unioni simili cominciarono ad apparire in altre città della Russia. Nel 1895 fu creato a Vilnius un centro clandestino della socialdemocrazia lituana.

Nell’autunno dello stesso anno Feliks Edmundovič Dzeržinskij fu ammesso nelle file della socialdemocrazia lituana. Il suo circolo di studi si trasformò in un circolo socialdemocratico. Ora Feliks leggeva il Programma di Erfurt dei socialdemocratici tedeschi e Sulla questione dello sviluppo da un punto di vista monistico sulla storia di Plechanov. Ma non dimenticava di declamare, come un tempo, Mickiewicz, Puškin, Maria Konopnicka e Nekrasov.

Durante le sue vacanze Dzeržinskij andò a Varsavia.

Comprò un biglietto per un vagone di terza classe. Era scomodo e mal areato. Ma non si poteva permettere il lusso di viaggiare in seconda. La sua famiglia lo vestiva e nutriva. Inoltre, dai quindici anni dava lezioni private e aveva soldi suoi. Tuttavia, dai suoi introiti prendeva appena qualcosa per sé, dedicava la maggior parte di essi ad aiutare i compagni bisognosi. Ora destinava tutto quello che guadagnava a coprire le spese dell’organizzazione socialdemocratica. Comprare un biglietto di seconda classe avrebbe significato per Dzeržinskij la stessa cosa che prendere denaro dalla cassa del partito per spenderlo per i suoi capricci.

La zia Zosja, sua sorella e tutti i familiari sapevano che andava a Varsavia a visitare la madre inferma, ricoverata in una clinica della città. In effetti era così. Appena gli si presentava l’occasione, correva a Varsavia per visitare Elena Ignat’evna. Ma in questo caso il suo viaggio a Varsavia era motivato anche da un’altra questione, di cui i parenti non sapevano nulla. Lì si sarebbe svolto un congresso segreto delle organizzazioni studentesche illegali del regno polacco. Questi congressi si svolgevano annualmente a Varsavia, ma nel 1895, per la prima volta, erano stati invitati i delegati di alcune città situate al di fuori dei confini del regno polacco. Feliks Dzeržinskij era stato eletto delegato dell’organizzazione unificata dei circoli studenteschi della città di Vilnius.

Dalla stazione ferroviaria si diresse all’ospedale. Restavano ancora poche ore prima dell’apertura del congresso. Si rallegrava di avere tempo per conversare con sua madre e passeggiare per la città, allo scopo di riordinare le idee prima della conferenza.

Elena Ignat’evna, informata della visita del figlio, fece tutto il possibile per fargli una buona impressione. Scherzò con lui, gli assicurò che si sentiva quasi bene e che, la prossima volta, Feliks avrebbe già potuto portarla via dall’ospedale. Egli, nonostante si rendesse conto che sua madre stava male, le disse che era aumentata un po’ di peso e che era molto contento che si fosse ristabilita. In tal modo, una madre e un figlio che avevano sempre dato valore alla verità, mentivano per farsi coraggio e consolarsi vicendevolmente.

Dzeržinskij arrivò all’appartamento di un ricco avvocato di Varsavia quando quasi tutti i delegati si erano già riuniti. Fu ricevuto dal figlio del padrone di casa, uno studente alto, biondo, e, una volta verificato il suo nome sulla lista dei delegati, fu condotto nello studio dell’avvocato, un locale ammobiliato in modo lussuoso, che era stato adibito a sala di riunione del congresso.

L’unica questione di cui avrebbero discusso i delegati riguardava i compiti dei circoli studenteschi nell’anno entrante.

I primi interventi evidenziarono l’eterogeneità politica esistente nel congresso. Immediatamente si verificarono aspre divergenze tra i punti di vista. Tutti accettavano la necessità di lottare contro lo zarismo. Ma come lottare, e che fare in futuro? In questo, la maggioranza dei delegati mostrò uno smisurato sciovinismo.

Tutti i polacchi, senza differenza di stato sociale e di situazione economica, devono unirsi. Solo in questo modo faremo rinascere l’indipendenza e la libertà della Polonia! – esclamava, in modo patetico, l’oratore di turno, che indossava una giacca nuova di zecca, ben stirata.

Ricevette numerosi applausi. I più calorosi provenivano dagli alunni del liceo.

Non si erano ancora spenti gli applausi quando Dzeržinskij, con la mano alzata, si avviò, muovendosi tra le sedie, verso il tavolo della presidenza. Il suo viso dai lineamenti angolosi era diventato rosso, gli occhi gli ardevano.

Trattenendo l’emozione, iniziò:

Può forse esistere unione tra gli operai che piegano la schiena dodici o quattordici ore al giorno, che patiscono la fame insieme con le proprie famiglie, e i capitalisti che s’impadroniscono del loro lavoro? Ciò è completamente fuori dalla realtà! E la parola d’ordine in base alla quale i polacchi devono lanciarsi solo nella lotta contro lo zar russo, è illusoria e fatale. Ci schiaccerebbero, come nel 1863.

Il rumore e le grida interruppero il suo intervento. Un grasso studente del liceo batteva i piedi e gridava:

Fuori! Ora basta!

Dzeržinskij si appellò invano al presidente. Questi, per richiamare all’ordine, scampanellava di malavoglia e guardava Dzeržinskij facendo un gesto come se dicesse: “Che cosa ci posso fare io se i delegati non vogliono ascoltarla?”.

Ma Dzeržinskij decise di non arrendersi. Rimase in piedi, stringendo a tal punto i denti che gli si vedevano i tendini sotto la pelle, guardando fissamente i suoi avversari, con gli occhi socchiusi dall’ira. Passarono vari minuti e, cosa strana, il rumore venne spegnendosi a poco a poco. Il presidente annunciò che, secondo il regolamento, il tempo concesso al signor Dzeržinskij non era finito, per cui lo sollecitò a continuare.

Solo una stretta unità tra gli operai polacchi e russi ci condurrà all’abbattimento dell’autocrazia e alla liberazione nazionale del popolo polacco. La gioventù studentesca d’avanguardia in Polonia e Lituania deve appoggiare la parola d’ordine dei socialdemocratici: “Proletari di tutti i paesi, unitevi!”.

Con questa parola d’ordine Dzeržinskij concluse il suo intervento, dopo il quale ci fu una nuova esplosione di rabbia.

Poi prese la parola uno dei “nichilisti”. Dzeržinskij aveva soprannominato in questo modo gli studenti dai capelli lunghi, vestiti in maniera trasandata. In tono beffardo, l’oratore di turno cominciò dicendo che il signor Dzeržinskij rappresentava una città che non faceva parte del regno polacco. Lo stesso Dzeržinskij era polacco ma in lui, ovviamente, si manifestava l’influenza di russi, bielorussi, lituani ed ebrei, che a Vilnius erano molti.

Le risate, provocate dalla canzonatura dello studente, fecero esplodere Dzeržinskij:

Forse nella vostra anima non albergate idee più serie di queste? – gridò dalla sua sedia.

Ma allora intervenne il presidente. Con un sonoro scampanellio lo richiamò all’ordine e, in tono gelido, ricordò che il signor Dzeržinskij, che pochi istanti prima aveva richiesto calma da parte dell’uditorio, non doveva contribuire al disordine.

Andarmene o che altro fare?”, pensò, stanco, Feliks. Ma, inaspettatamente, si alzò qualcuno che lo appoggiava.

Al tavolo della presidenza prese la parola l’alunno dell’ottava classe del liceo di Kelets, Bronisław Koshutsky.

Sono polacco, del regno polacco – proclamò – ma sono completamente d’accordo con Dzeržinskij. Le differenze nazionali e le inimicizie nazionali non ci possono portare a niente di buono e non porteranno niente di positivo al popolo polacco. Gli operai polacchi, tutti i lavoratori salariati della Polonia, troveranno solo fedeli alleati nei proletari russi, ucraini, bielorussi e delle altre nazionalità che popolano la Russia…

Oltre a Koshutsky, Dzeržinskij fu appoggiato solo da altri due oratori. Ed era logico. I delegati erano in maggioranza figli di nobili, di proprietari di fabbriche, di commercianti o di intellettuali, molto legati alle classi ricche. Pochi tra loro erano in grado di comprendere e adottare l’ideologia del proletariato.

Dopo la chiusura del congresso, il presidente della società Aiuto Fraterno, dell’università di Varsavia, si avvicinò a Koshutsky:

Il vostro Dzeržinskij è di oro puro – disse.

Koshutsky comunicò questo giudizio a Dzeržinskij.

Ebbene, sì, d’oro – replicò Feliks, confuso, cercando di volgere la cosa in scherzo.

Ma Dzeržinskij dentro di sé si sentì molto contento. Questo significava che non era intervenuto per capriccio. L’opinione di un compagno maggiore d’età, a capo di una grande organizzazione universitaria, era per lui più importante delle insolenti prese in giro di quei “cocchi di mamma” che, a suo parere, formavano la maggioranza dei delegati.


3


In gennaio Elena Ignat’evna morì. Così iniziò il nuovo anno.

Al ritorno dal funerale, Feliks si chiuse nella sua camera, si lasciò cadere bocconi sul letto, con le ginocchia appoggiate al pavimento, e stette così molto tempo, senza svestirsi né accendere la luce. Sentiva una terribile stanchezza in tutto il corpo e un enorme vuoto spirituale.

Pensava a sua madre. Non a quella, fredda e sconosciuta, che giaceva nel feretro, ma ad una donna vivace, energica e allegra, pensierosa e triste, a volte arrabbiata…

Perché iniziamo a capire quanto lavoro e quante preoccupazioni, quanti dolori abbiamo causato nel corso dell’infanzia alla persona più amata, a nostra madre, solo quando diventiamo adulti? È triste che lo si capisca tanto tardi.

Erano stati tempi difficili per la madre. Il padre era morto quando lei aveva trentadue anni. Erano rimasti nelle sue mani otto bambini. La maggiore, Al’dona, aveva dodici anni e il minore, Vladislav, poco più di uno. Non c’era nessuno che potesse lavorare alla piccola tenuta di Dzeržinov, per cui avevano dovuto affittare la terra per quarantadue rubli all’anno. A questi pochi rubli e alla piccola pensione per le vedove si erano ridotte tutte le entrate della famiglia. Fortunatamente erano venuti in suo aiuto i parenti. Durante la sua infanzia, Feliks aveva considerato naturale che sempre ci fosse qualche suo fratello o sorella “in visita” dalla nonna o da altri parenti ma, passati gli anni, aveva compreso che la madre li spediva a queste “visite” per necessità. E ora, egli stesso era mantenuto dalla zia. La zia Zosja non gli aveva mai rinfacciato nulla né con le parole né con lo sguardo, ma lui aveva sentito casualmente una delle amiche di sua zia dire: “Edmund non avrebbe dovuto avere una famiglia così numerosa se non la poteva nutrire”. Forse erano arrivate all’orecchio della madre queste orribili opinioni?

E, di nuovo, sorse l’immagine della madre mentre narrava ai suoi figli, già adulti, la storia del suo matrimonio:

Vostro padre arrivò a casa nostra accompagnato da un vecchio calzolaio che confezionava le calzature della nostra famiglia.

Aveva incontrato il calzolaio casualmente per strada. Edmund veniva da Vilnius, dopo aver terminato l’università a Pietroburgo; cercava lavoro. Non c’erano posti vacanti al liceo di Vilnius e Edmund non sapeva che cosa fare per l’avvenire. “Vedo uno studente che cerca lavoro e non riesco ad immaginarmi che cosa sarà in grado di fare”. Edmund raccontò al calzolaio chi era, parlò della sua difficile situazione. “Io posso accompagnarla a casa del professor Januševskij, sta per l’appunto cercando un professore di matematica per sua figlia, ma prima il signor maestro deve un po’ sistemarsi”, disse l’anziano guardando con aria di riprovazione il buco lasciato da un pezzo di suola che si era staccato dallo stivale sinistro del “signor maestro”. Edmund riconobbe con vergogna che non aveva denaro per pagare la “rimessa a nuovo”. “Non importa – rispose quel brav’uomo dal cappotto grigio – io la metterò in sesto e lei pagherà quando avrà i soldi”. Il diploma e la modestia di Edmund piacquero a vostra nonna e a partire dal giorno successivo egli iniziò a darmi lezione. Passò il tempo, ci amammo e ci sposammo.

Non c’erano ancora posti vacanti a Vilnius, per cui il professor Januševskij, attraverso le sue relazioni, aveva ottenuto per il genero un posto al liceo di Taganrog, a mille verste dalla casa familiare.

Così era quel “ricco possidente” di vostro padre – concludeva il racconto la madre. Davanti a Feliks apparve il sorriso affettuoso e un po’ triste che aveva illuminato allora il viso di sua madre.

Ricordava anche le meravigliose serate a Dzeržinov, quando, sotto il pacato stormire dei pini centenari, tutta la famiglia si riuniva intorno alla madre. Facevano musica, declamavano versi dei suoi poeti preferiti e poi Elena Ignat’evna parlava ai figli dell’insurrezione polacca del 1863, schiacciata ferocemente dalle truppe zariste, delle incredibili imposte e dei tributi che il governo riscuoteva dalla popolazione.

Cara mammina mia – Dzeržinskij le parlava come se fosse stata ancora viva – tu non hai avuto sentore di quanto le tue parole influissero su di me affinché io prendessi la strada che ora sto percorrendo. Già in quel tempo la mia testa e il mio cuore sentivano chiaramente ogni ingiustizia, ogni offesa subita dalla gente, e da quei giorni odiai il male”.

Dopo la morte della madre, nulla lo legava all’odiato liceo. Ma valeva la pena abbandonarlo mancando pochi mesi alla conclusione degli studi? In fin dei conti, il conseguimento del diploma di maturità sarebbe anche potuto tornare utile ad un rivoluzionario. I dubbi furono dissipati da un’improvvisa esplosione in gestazione da tempo.

Feliks percorreva uno dei corridoi del liceo quando la sua attenzione fu attirata da un gruppo di alunni, fermo davanti alla bacheca degli avvisi. Avvicinandosi, lesse: “Con questo avviso si porta a conoscenza dei signori alunni del liceo che si permetterà di parlare nelle aule, nei corridoi e negli altri locali di questo istituto a me affidato, solo in lingua russa. Coloro che contravvengano a questa disposizione saranno rigorosamente puniti”. L’avviso era scritto con la calligrafia del professore di lingua russa, Rak, ed era stato firmato dal direttore.

A Dzeržinskij il sangue andò alla testa. Strappò l'avviso e, un secondo dopo, fece irruzione in sala professori.

Vari insegnanti erano seduti intorno a un grande tavolo ovale; prendevano il tè, conversavano e controllavano appunti.

Gli occhi di Dzeržinskij si fermarono su Rak. Lanciò il foglio di carta davanti a lui, sul tavolo.

Ho qui la sua disposizione – disse quasi gridando, con voce aspra, tremante dall’emozione – lei stesso prepara combattenti per la libertà. Non comprende forse che l’oppressione nazionale farà sì che i suoi alunni, crescendo, si trasformino in rivoluzionari?

La tempesta era scoppiata. Dzeržinskij girò rapidamente su se stesso, uscì e si tirò dietro la porta. Non ne aveva avuto l’intenzione, semplicemente gli era venuto così.

I professori, annichiliti, restarono paralizzati sulle loro sedie. Tutto ciò ricordava la scena finale de L’ispettore di Gogol’. Ma Feliks aveva ormai chiuso dietro di sé la porta del liceo consapevole che mai più avrebbe oltrepassato quella soglia.

Ritornato a casa, Zosja Ignat’evna lo rimproverò appellandosi alla memoria di suo padre e di sua madre e lo avvertì che senza il diploma di maturità non sarebbe potuto entrare all’università.

Che il diavolo si porti il diploma di maturità! Lavorerò – replicò Dzeržinskij esausto, e si chiuse nella sua camera.

La mattina seguente la zia Zosja andò a far visita al direttore del liceo. Riuscì a convincerlo a non espellere Feliks e a prendere atto che nquesti abbandonava il liceo per sua propria volontà. Ritornò a casa soddisfatta di sé. Era stata capace di difendere il nipote. Almeno non era stato “espulso per condotta impropria”, ma “dimesso su sua richiesta”. Ma… avrebbe mai dato valore a quello che lei aveva fatto?

Dzeržinskij raccontò a Domaševič la sua uscita dal liceo.

È un peccato. Io pensavo che lei avrebbe preso il diploma di maturità e avrebbe continuato a studiare. – Il dottore lo guardava con un’aria chiaramente di riprovazione.

Sì. Sono diventato mature e mi metto a studiare. Ma non come prima. Voglio stare più vicino alle masse operaie e imparare da esse direttamente – fu la risposta di Dzeržinskij.

Il Rubicone era stato attraversato. I ponti erano stati tagliati. La strada che gli era stata preparata fin dalla nascita – il liceo, l’università, il servizio civile – apparteneva al passato. Da questo momento Feliks Edmundovič Dzeržinskij iniziò a muoversi in una nuova direzione, sullo spinoso cammino del rivoluzionario di professione. Un cammino dal quale non si sarebbe mai più separato.


A.V. Tiškov


(Tratto da: A.V. Tiškov, Dzeržinskij, il «giacobino proletario» di Lenin. Una vita per il comunismo, Zambon Editore, 2012, pp. 109-119).


Inserito il 22/5/2023.

Samir Amin: per una critica dell’eurocentrismo

di Giorgio Riolo

Introduzione al saggio: Samir Amin, Eurocentrismo. Modernità, religione e democrazia. Critica dell’eurocentrismo, critica dei culturalismi, a cura di Giorgio Riolo, traduzione di Nunzia Augeri, La Città del Sole, Napoli, 2022.

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Samir Amin: per una critica dell’eurocentrismo


Samir Amin rientra tra coloro i quali più si sono attenuti alla feconda interazione e al reciproco sostanziarsi di teoria e di storia, di astratto e di concreto, di conoscenza e di realtà fattuale storico-sociale. È il suo un contributo di grande valore per dare coerenza teorica e categoriale a questo materiale empirico, reale. È in lui soprattutto la feconda interazione e la stretta interdipendenza di impegno politico militante e di necessaria riflessione teorica e culturale. La quale riflessione teorica e culturale era concepita da Amin non come semplice orpello.

Il militante (comunista, terzomondista-internazionalista, antimperialista, altermondialista ecc.) dialoga e illumina l’intellettuale marxista. E viceversa. È un pendolo, una oscillazione tra i due poli, costante. L’intera sua parabola di vita, e il suo apporto per noi, si dispiega dalla precoce adesione ai valori (morali, etici, intellettuali) socialisti e comunisti e dalla precoce lettura di Marx fino alla scomparsa nel 2018 come continuo confronto con la storia reale, con il capitalismo realmente esistente (locuzione da lui preferita), con Marx e con i marxismi storici, con la storia del movimento operaio, socialista e comunista, e dei movimenti di liberazione nazionale del Sud del mondo, con il socialismo reale e con le varie rivoluzioni nelle periferie (Cina, Vietnam, Cuba, Algeria ecc.), con la concezione generale dell’alternativa socialista.


I.

Nell’ampia produzione intellettuale e teorica di Samir Amin, costituita di opere sistematiche e di numerosi saggi e articoli, Eurocentrismo occupa un posto particolare. Già nella prima edizione del 1988, ma soprattutto nella stesura fatta per la seconda edizione, la cui traduzione italiana qui presentiamo.

In essa Amin affronta tante questioni e tanti temi, già trattati ne L’accumulazione su scala mondiale (1970) e ne Lo sviluppo ineguale (1973) e poi in vari saggi come La loi de la valeur e le matérialisme historique (1977), Classe et nation (1979) e La déconnexion (1985). Ma qui, nella presente opera, alcuni sviluppi sono inediti.

Il modo di operare di Amin testimonia della sua tendenza a tenere aggiornata la sua analisi. Senza preoccupazione eccessivamente filologica e senza pensare alla sistematicità. Il libro, il saggio o l’articolo sono a suo avviso semplici strumenti. Il fine è sempre l’efficacia nella conoscenza e nell’azione. Spesso egli riprende, precisa e affina analisi e categorie già esposte nelle opere precedenti.


II.

Il compito mio in questa introduzione è, a grandi linee naturalmente, quello di soffermarmi sul peculiare marxismo di Amin e sui suoi apporti al sistema di idee che origina da Marx. E di rendere conto della storia reale della sua militanza politica come apporto originale al progetto di emancipazione umana che chiamiamo socialismo, in primo luogo per i popoli e per le classi subalterne delle periferie del mondo.

In particolare, richiamerò alcuni passaggi e alcuni sviluppi che ritengo importanti contenuti nella presente opera.


III.

La prima mossa è sempre una mossa etica, una scelta morale, una scelta di campo. Questo è per tutti nella vita, ma è soprattutto per chi non si accontenta dello stato di cose e si accinge a impegnarsi per cambiare. Il ragazzo Amin proviene da un ambiente famigliare e sociale relativamente privilegiato, non ricco, ma abbiente.

Nella realtà di un Egitto povero, sotto protettorato britannico, la visione di bambini e coetanei condannati alla miseria non lo lascia indifferente. Nella scuola media francese in cui studia metà degli studenti si professa “nazionalista” e metà “comunista”. Con ovvia idea molto vaga di cosa ciò significhi e comporti. A 15 anni legge il Manifesto del partito comunista e a 18 Il capitale, ma ora è a Parigi per completare gli studi. Si iscrive al Partito comunista francese. Come militante comunista egiziano, nel 1950 ha la possibilità di assistere a una riunione informale di esponenti di vari partiti comunisti asiatici e africani.

Costoro non aderiscono alla posizione espressa dalla relazione di Ždanov del 1948 con cui l’Urss di Stalin sanciva la definitiva e codificata, com’era abitudine nella gerarchia mondiale comunista di allora, teoria del mondo diviso in due campi. A Ovest il campo occidentale capitalistico, a guida Usa, e a Est il campo orientale socialista, a guida Urss. Era nondimeno quella la reazione sovietica alla dichiarazione della cosiddetta “guerra fredda”, contenuta nella dottrina Truman del 1947.

Questi comunisti, diversamente dai partiti comunisti occidentali e latinoamericani, di stretta osservanza sovietica, reagiscono e affermano, anche se non ancora pubblicamente, che il mondo in realtà è diviso in tre poli, in tre campi. Esiste un terzo campo, il Sud del mondo, alla mercé del colonialismo, del neocolonialismo, dell’imperialismo. Un campo impegnato nelle lotte per affrancarsi da questi sistemi di dominio e di oppressione. È il cosiddetto “terzo mondo”, come lo denominerà nel 1952 il sociologo francese Alfred Sauvy.


IV.

La svolta storica, la data periodizzante è rappresentata dalla Conferenza di Bandung, in Indonesia, nell’aprile 1955. L’India di Nehru, l’Egitto di Nasser, l’Indonesia di Sukarno, la Jugoslavia di Tito e tanti altri paesi, con il beneplacito e la partecipazione della Cina, e con la presenza di Chou En-Lai, danno avvio al movimento o “era di Bandung”, con rinnovato impulso alla decolonizzazione e allo sviluppo nazionale e popolare autonomo. Con il successivo avvio del movimento dei paesi non-allineati con la Conferenza di Belgrado nel 1961.

È un’era non così lineare, con forti contraddizioni, ma è un processo nuovo su scala mondiale. L’Urss e i partiti comunisti favoriscono questo processo. Questi sviluppi storici interagiscono con il coevo lavoro teorico di Amin per la tesi di dottorato.

La questione all’ordine del giorno, la domanda cruciale è: “perché esiste il cosiddetto sottosviluppo?”. La risposta immediata non è il ritardo nella traiettoria lineare degli “stadi di sviluppo”, non è mancanza di sviluppo, teorie degli anni cinquanta poi rese coerenti dal lavoro di Walt W. Rostow nel 1960. Il “divario” non è possibile colmarlo con opportune politiche economiche. Il sottosviluppo è il prodotto necessario, speculare e dialettico dello sviluppo (o sovrasviluppo, nel generale “malsviluppo”, come noi “terzomondisti”, tra fine anni sessanta e anni settanta, preferivano denominare) dei paesi dominanti del centro capitalistico. Essendo il capitalismo una formazione storico-sociale caratterizzata dallo sviluppo polarizzante e asimmetrico a vocazione planetaria.

Le coppie dialettiche Nord-Sud, Centro-Periferia, Sviluppo-Sottosviluppo costituiscono la chiave per capire come realmente funziona il capitalismo, come funziona il mondo. Tutto ciò confluirà nella prima opera sistematica di Amin L’accumulazione su scala mondiale. Critica del sottosviluppo del 1970 e ancor più rigorosamente, dal punto di vista teorico, nella successiva opera del 1973 Lo sviluppo ineguale.


V.

Va da sé che queste acquisizioni retroagiscono sulla interpretazione di Marx e dei vari marxismi storici e del socialismo come movimento reale. Ad Amin non interessa la cosiddetta “marxologia”, lo studio accademico, l’interpretazione dei testi, ritenuti “sacri”, di Marx. “Partire da Marx”, ripete sempre Amin, non per “andare oltre Marx”, bensì “con Marx” svilupparlo, rivederlo (nozione legittima di “revisionismo”), correggerlo anche, pensare con la propria testa. In breve, proseguire la sua opera.

Un Marx condizionato dal proprio tempo e dal non aver avuto modo di completare la propria opera. Un Marx condizionato da un certo “eurocentrismo”. È soprattutto il Marx degli articoli scritti per la «New York Daily Tribune» nei primi anni cinquanta dell’Ottocento, sulla dominazione britannica in India, sulla Cina ecc. È una visione da “missione civilizzatrice del capitalismo”. Tutto questo poi rivisto e corretto dall’ultimo Marx, dal 1870 in poi, quando si confronta con la Russia e con i rivoluzionari russi e con le letture di opere di storia, di etnologia, di antropologia ecc. (vedi i Quaderni etnologici, pubblicati postumi nel 1972 dall’etnologo Lawrence Krader).

Come è noto, Marx, nei vari piani di stesura del Capitale, pose il titolo “mercato mondiale” al futuro, e mai scritto, Libro VI dell’opera. Egli finì la stesura e curò personalmente solo il Libro I. Il Libro II e Libro III li curò l’amico Engels, ricavandoli dai suoi numerosi quaderni e dalle stesure provvisorie.

Il risultato è che Marx studiò da par suo statica e dinamica del modo di produzione capitalistico a partire dalla sede classica, l’Inghilterra, di questa formazione storico-sociale. La forma-merce, il feticismo delle merci, il denaro, il capitale, la categoria del valore e poi del plusvalore e via via tutte le numerose acquisizioni e categorie dal Libro I fino al Libro III sono aspetti rilevanti del microcosmo della fabbrica e dell’economia su scala nazionale (anche se già il Libro III allarga il discorso “ai tanti capitali” e alla loro interazione, alle crisi del sistema ecc.).

Ora però si tratta di considerare la compiuta formazione storico-sociale capitalistica. Amin pone al centro la nozione di “formazione sociale” rispetto alla pur necessaria nozione di “modo di produzione”. In questo modo si cerca di evitare lo “economicismo” e il “determinismo” dei marxismi storici, semplificati, scolastici ed eurocentrici. È una totalità in cui interagiscono i vari momenti, l’economico, il sociale, il culturale, il politico, l’ideologico ecc. Anche se il momento economico è da considerarsi “egemonico”, come dice Marx nei Lineamenti di critica dell’economia politica, i famosi Grundrisse.

En passant, su questi temi, da un versante più propriamente filosofico, e apparentemente non conoscendosi i due famosi marxisti, ha molto sviluppato György Lukács, soprattutto nell’ultima sua opera Ontologia dell’essere sociale.

Si tratta insomma di considerare l’“organismo intero” e non solo la “cellula”, i vari organi e apparati. È il capitalismo nella sua evoluzione su scala mondiale, come sistema mondiale, come unità di analisi quindi, e non come semplice sommatoria di formazioni nazionali giustapposte. Nella logica intrinseca di questo sistema è l’intero che determina, che soverchia e plasma le sue singole parti.

In questo senso, Amin considera la centralità del “materialismo storico” e quindi della storia come campo di interazione delle dinamiche strutturali, economiche, sociali ecc., e delle dinamiche un tempo dette sovrastrutturali, del momento ideologico, delle culture profonde, nei centri capitalistici e nelle periferie. Eurocentrismo si sofferma molto su questa visione.


VI.

Il marxismo come sistema, come scolastica, nasce nel contesto della Seconda Internazionale e dei tanti partiti socialisti di ispirazione marxista dal 1870 in avanti. Nasce a opera di Kautsky, di Plechanov e altri. È una interpretazione di Marx in senso economicistico e deterministico, confacente a una fase storica in cui la classe operaia occidentale, grazie alla “rendita imperialistica”, come la definisce Amin, grazie ai sovrapprofitti da sfruttamento coloniale e imperialistico, può ottenere relativamente più alti salari, rispetto ai salari da fame della precedente epoca del capitalismo industriale ottocentesco.

È l’epoca della seconda mondializzazione capitalistica, del capitale finanziario, del capitale monopolistico (l’epoca degli “oligopoli”, come dice giustamente Amin), dell’imperialismo classico e della nuova espansione mondiale del capitalismo.

Già lo stesso Engels aveva messo in guardia i socialdemocratici tedeschi a non considerare il socialismo alla stregua di un “capitalismo senza capitalisti”. E dopo ci torniamo a proposito del socialismo reale. È, dice Amin, la “alienazione economicistica”, tipica nella società capitalistica. Dal momento che la legge del valore dagli ambiti propriamente economici si estende a ogni ambito della società e della vita degli individui e dei gruppi umani, investe ogni forma di vita, individuale e collettiva. L’economicismo è la religione vera della società capitalistica. Di contro alla “alienazione metafisica” delle formazioni sociali precapitalistiche. E tuttavia economicismo e alienazione economicistica investono anche coloro i quali dovrebbero trasformare questo stato di cose.

La forma di lotta tradunionistica, come dirà in seguito Lenin, per più alti salari rappresenterà la forma principale di lotta in Occidente. Già Engels, il quale muore nel 1895, aveva intravisto la nascita della cosiddetta “aristocrazia operaia”, condizionante molto la complessiva classe operaia inglese. La “rendita imperialistica”, all’origine di detta aristocrazia operaia, era ricavata in primo luogo dallo sfruttamento coloniale dell’Irlanda e poi delle altre colonie, soprattutto l’India, e poi dal corso “normale” dell’imperialismo su scala mondiale.

Inoltre questi marxismi storici condividevano una concezione lineare, stadiale, dei modi di produzione e delle formazioni sociali nella storia. La cosiddetta “teoria dei cinque stadi” e soprattutto il rapporto meccanicistico base-sovrastruttura completano questa concezione della storia, distorta rispetto alla concezione originale di Marx.

Amin innova rispetto a questa concezione e nella presente opera vi si trova ampia trattazione. Ai cinque stadi canonici occorre sostituire una teoria dei tre stadi (comunitario, tributario e capitalistico). Già ne Lo sviluppo ineguale aveva introdotto la nozione di “modo di produzione tributario”, a indicare l’intero corso storico dalla fine del modo comunitario al modo di produzione capitalistico. Questa nozione unifica quello che veniva designato come modo di produzione asiatico (tributario centrale, caratteristico delle civiltà monumentali, Egitto, Mesopotamia, India, Cina ecc.) e quello designato come modo di produzione feudale (tributario periferico, Europa e Giappone). Secondo Amin, il modo di produzione schiavistico è trascurabile, essendo confinato temporalmente e geograficamente, interstiziale rispetto al contesto più vasto tributario.

Altra innovazione operata da Amin si riferisce alla periodizzazione storica. Nell’Eurocentrismo è argomentato come il medioevo debba essere esteso temporalmente, dal 300 a.C., epoca di Alessandro Magno e dell’ellenismo, al 1500, esordio del capitalismo dell’era mercantilistica. E sempre nella presente opera Amin insiste sulla suddivisione tra capitalismo ancora non compiuto, ancora non maturo nella transizione mercantilistica, tra 1500 e 1800, e il capitalismo compiuto e maturo dell’era industriale a partire dal 1800.


VII.

La cosiddetta “accumulazione originaria” o “primitiva” (è il famoso capitolo XXVI del Libro I del Capitale), descrive bene il processo storico che conduce alla nascita del capitalismo compiuto. Già Marx affermava che era da intendersi anche come condizione permanente al fine di produrre e riprodurre il processo capitalistico stesso. Amin sottolinea “accumulazione permanente”, “accumulazione per espropriazione-spoliazione” (in ciò riprendendo Giovanni Arrighi). Espropriazione-spoliazione dapprima dei contadini e la loro conseguente espulsione dalle campagne, costretti ad andare a vendere la propria forza-lavoro nelle fabbriche, nelle città. E poi espropriazione-spoliazione dei popoli su scala mondiale.

I contadini, espropriati dei beni comuni o demaniali, ancestrali (boschi, pascoli, terre, fiumi ecc.), per mezzo delle “recinzioni”, e delle leggi che autorizzavano questo processo, i famosi Enclosures Acts. Oltre ai furti, alle violenze (“la violenza, forza economica essa stessa”, Marx nel capitolo sopraccitato), ai soprusi ecc. I popoli, espropriati per mezzo della espansione predatoria e polarizzante del capitalismo.

Nel Libro I del Capitale, Marx a un certo punto dice che nel capitalismo la ricchezza scaturisce “minando al contempo le due fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio”. In sostanza, amplia il discorso Amin, per “terra” si intende la “natura” e per “operaio” si intendono gli esseri umani. Il giusto rilievo fatto da Marx occorre, nota ancora Amin, ampliarlo e aggiungere una terza fonte, “i popoli oppressi”.


VIII.

Da Marx in avanti la classe-soggetto per eccellenza della trasformazione era considerata, ed è tuttora considerata da molti marxismi, la classe operaia, il proletariato urbano e di fabbrica.

Si riteneva che il soggetto contadino, i contadini, fosse una classe destinata a scomparire nel processo evolutivo e nella marcia trionfale del capitalismo, almeno in Occidente. Oppure veniva considerata “riserva della reazione”, soprattutto nell’esperienza francese, nella fattispecie della Vandea prima, nel contesto della grande rivoluzione del 1789, e poi nel contesto della rivoluzione del 1848 e della Comune di Parigi del 1871, tutti fenomeni parigini o cittadini in generale. Kautsky aveva trattato della “questione agraria”, in ambito della Seconda Internazionale. Ora in Amin, la questione diventa “contadina”.

Nel “marxismo della periferia”, come preferisco definire questa corrente di pensiero e di movimento reale, la classe-soggetto “i contadini” ha un posto centrale. A partire dalla semiperiferia Russia (e ricordiamo le avvertenze di Lenin, nella costruzione del socialismo, e poi di Bucharin, di preservare la preziosa alleanza operai-contadini), le rivoluzioni del Novecento saranno soprattutto rivoluzioni contadine. Cina, Vietnam, Cuba, Algeria ecc. Mao, Ho Chi Minh, Giap, Josè Carlos Mariategui, Frantz Fanon, Fidel e il Che e tanti altri rientrano in questo marxismo. Amin è uno dei principali esponenti di questa corrente. È la “vocazione terzomondista del marxismo”, come egli ricorda spesso.

Da qui la propensione di Amin per la via cinese, per la Cina, per Mao. Già dal 1957 e poi decisamente dall’avvio nel 1960 dell’ormai aperto conflitto cino-sovietico.

Il modello cinese serve anche ad Amin per compiere un’analisi e una critica del socialismo reale e del modello sovietico.


IX.

Per completare l’apporto di Amin nel proseguire l’opera di Marx, occorre fare riferimento ad alcuni sviluppi del suo pensiero, in relazione anche ad altri sviluppi.

In primo luogo, per rendere conto delle profonde trasformazioni del capitalismo su scala mondiale, da fine Ottocento in avanti, si erano avuti i contributi di Rosa Luxemburg (L’accumulazione del capitale del 1913), di Lenin (L’imperialismo, fase suprema del capitalismo del 1916, in realtà nell’originale russo “più recente”, “ultima”), aiutato dalle opere di Hilferding (sul capitale finanziario) e di Hobson (sull’imperialismo come politica), e di Bucharin (L’economia mondiale e l’imperialismo del 1915).

Dopo il 1945 si erano venute precisando tre scuole, a proposito di rapporto Nord-Sud, centro-periferia, sviluppo-sottosviluppo in ordine di tempo:

- la “scuola dell’accumulazione polarizzante” di Samir Amin;

- la “scuola della dipendenza” (Fernando Henrique Cardoso, divenuto in seguito presidente liberista del Brasile, Celso Furtado, Theotonio dos Santos, Andre Gunder Frank), anche come critica del “desarrollismo”, lo “sviluppismo”, in America Latina concepito da Raul Prebisch, al quale si devono, tra l’altro, le nozioni di “centro” e di “periferia”;

- la “scuola del sistema-mondo” di I. Wallerstein, alla luce anche della lezione dello storico francese Fernand Braudel.

Nella concezione della rendita imperialistica e quale contributo innovativo di Amin rientra “la legge del valore mondializzato” a misura delle differenze nazionali dei salari, dei prezzi della forza-lavoro. Soprattutto su scala mondiale, nella frattura decisiva tra Nord Globale e Sud Globale. In un contesto nel quale dei tre fattori della produzione capitalistica (merci, capitali, forza-lavoro) solo i primi due circolano liberamente nel mondo, mentre la forza-lavoro, il lavoro salariato giocoforza (corpi, esseri umani) ha impedimenti enormi in questa circolazione.

Quella che Immanuel Wallerstein ha definito “differenziazione etnica della forza-lavoro”, quale carattere permanente del capitalismo storico, a partire dalla tratta degli schiavi fino a oggi (migranti ecc.), in Amin diventa “differenziazione nazionale dei salari”, una delle componenti fondamentali dell’enorme trasferimento di valore dalle periferie sottosviluppate e subalterne ai centri sviluppati e dominanti del mondo.


X.

Amin deve molto a chi, nel secondo dopoguerra, si è prodigato per proseguire l’opera di Marx e per rendere conto delle trasformazioni del capitalismo nel Novecento. Sono soprattutto i marxisti attorno alla rivista Usa «Monthly Review». In particolare Paul M. Sweezy e Paul Baran.

Già a partire dagli anni cinquanta essi elaborarono la categoria di “surplus”, non nuova, essendo categoria esplicativa dello sviluppo umano, della civiltà, dalla rivoluzione neolitica in avanti (eccedenza, sovrappiù, plusprodotto). Ora come aspetto importante nella riproduzione capitalistica, come categoria per capire la riproduzione complessiva del sistema, come risorsa per la spesa pubblica, soprattutto il surplus per la spesa militare. Ritorna il “militarismo” come categoria importante. Aveva iniziato Rosa Luxemburg nell’indicare come il militarismo fosse non solo fenomeno antropologico, sociologico, culturale, politico (politica di potenza, camarille guerrafondaie, violente ecc.), ma fosse un aspetto importante come settore della produzione complessiva sociale. Fosse parte organica, e non estemporanea, della produzione capitalistica e della riproduzione del capitalismo nel suo complesso.

Questi marxisti proposero, e propongono tuttora, di aggiungere ai due settori tradizionali, studiati da Marx nel Libro II del Capitale, della produzione complessiva sociale, il primo settore “mezzi di produzione” e il secondo settore “mezzi di consumo”, anche il terzo settore dei “mezzi di distruzione di massa”. Le armi e l’industria militare in sostanza. Il famoso complesso militare-industriale.

Baran e Sweezy sono gli autori del libro fondamentale del 1966 Il capitale monopolistico, diventato poi uno dei “libri del ‘68”. Nel quale si fa soprattutto riferimento alla “struttura economica e sociale americana”, al ruolo egemonico Usa, al suo militarismo ecc.

In questo libro, i due autori statunitensi esprimono in modo netto e diretto l’assunto di tutto questo “marxismo della periferia” e dei movimenti di liberazione del Sud del mondo. Una sorta di lapidario manifesto del terzomondismo, nelle periferie del mondo e nei movimenti giovanili in Occidente. “L’iniziativa rivoluzionaria che prima era appannaggio del proletariato europeo è ormai passata alle masse diseredate delle periferie del mondo”.

In questo rovesciamento, in questa “rivoluzione copernicana”, in questa visione anche palingenetica, messianica anche in settori del terzomondismo occidentale, delusa dal proletariato occidentale, considerato ormai “integrato nel sistema”, secondo la concezione anche di Marcuse, agiva anche l’altra visione apocalittica proveniente dalla Cina. Da Lin Piao nel 1965, poco prima dell’avvio della “rivoluzione culturale”. In un suo famoso intervento spiegava come i popoli oppressi di Asia, Africa e America Latina, la “campagna mondiale”, dovessero accerchiare la “città mondiale”, formata dalle potenze imperialistiche, Usa in primo luogo. Il calco nello scenario mondiale della rivoluzione cinese, svoltasi e vinta avente come base le campagne e i contadini.


XI.

Dicevamo che il modello cinese aiuta molto Amin nella sua valutazione del socialismo reale e del sistema sovietico. Un suo saggio riporta il titolo appunto “Trent’anni di critica del sistema sovietico 1960-1990”.

Dapprima Amin sembra aderire alle tesi dell’altro maoista francese Charles Bettelheim. Le nozioni usate erano “capitalismo di stato” e “borghesia di stato”. Ma poi Amin si avvicina alle tesi di Sweezy per capire in che cosa consiste il socialismo di tipo sovietico.

Amin ricorda Engels. Come si diceva prima, l’amico e compagno di Marx diffidava i socialdemocratici tedeschi dal concepire il socialismo come “capitalismo senza capitalisti”. Non si tratta solo di sviluppo delle forze produttive, soprattutto nell’arretrata Russia appena uscita dalla rivoluzione. Non si tratta solo di rattrapage, come dice Amin, di sforzo, tensione, per “colmare il divario”, come si prescrive nella teoria degli stadi di sviluppo ai paesi cosiddetti sottosviluppati. In questo caso, a causa dell’arretratezza, per raggiungere il livello di sviluppo industriale e di benessere dei paesi capitalistici sviluppati.

Bensì si tratta, sempre nelle parole di Amin, di faire un’autre chose. Si tratta di costruire altri rapporti sociali, di pensare che la più grande forza produttiva è l’uomo stesso, che occorre porre fine all’alienazione mercantile e al rapporto alienato processo produttivo-operaio sovietico ecc.

La deriva di Stalin (criticato dallo stesso Mao nei suoi appunti di lettura: “Stalin ignora la politica e le masse, mette in rilievo solo la tecnologia e i quadri tecnici” e “Stalin non prende in considerazione l’uomo. Vede le cose, non l’uomo”) era, secondo Amin, preparata anche dalla concezione di Lenin secondo il quale, e secondo la sua celebre definizione, il socialismo era “Soviet + elettrificazione del Volga”. Tanto che poi, esautorati i soviet, è rimasta solo “l’elettrificazione”. Inoltre, sempre secondo Amin, Lenin condivideva la concezione, dominante nella società borghese, della cosiddetta neutralità della scienza e della tecnica.

Anche se Amin spesso cita il Mao nel suo discorso del 1963 rivolto ai quadri del Partito comunista cinese (“Voi avete costruito una borghesia. Non dimenticatelo; la borghesia non vuole il socialismo, vuole il capitalismo”) tuttavia rigorosamente, per Sweezy, e poi per Amin stesso, nel sistema sovietico non di borghesia si tratta. Perché non c’è accumulazione e non esiste proprietà privata. Esiste bensì una “nuova classe”, dominante, privilegiata, che controlla la proprietà statale, non collettiva, dei mezzi di produzione e controlla la distribuzione dei beni. Una nuova classe che si riserva l’accesso a consumi privilegiati, di lusso, molti importati dall’Occidente solo a beneficio di questa classe. Una classe che per continuare a dominare intrattiene rapporti clientelari-mafiosi con il resto del popolo. Come elargizioni di favori e di effimeri privilegi, comportando questo in basso narcosi sociale, apatia.

Queste dinamiche hanno condotto alla deideologizzazione e alla spoliticizzazione diffuse, di massa, nel popolo sovietico, come rilevava Lukács in una delle sue ultime interviste nel 1970.


XII.

Per Amin il socialismo è da concepire come “transizione”, come lungo processo storico, al pari della lunga transizione e gestazione del capitalismo. Il capitalismo europeo impiegò secoli per giungere alla sua fase compiuta, dai prodromi della rivoluzione comunale del XI secolo fino al Rinascimento e soprattutto nella transizione mercantilistica tra Rinascimento e avvio della rivoluzione industriale, tra 1500 e 1800, come Amin indica.

Questa possibile alternativa socialista deve confrontarsi oggi con la nuova globalizzazione-mondializzazione, che noi chiamiamo del neoliberismo trionfante e che Amin preferisce chiamare degli “oligopoli generalizzati”, in presenza di potenti oligarchie finanziarie transnazionali. Nel contesto della fine

- a Ovest, nell’Occidente capitalistico, dei compromessi sociali (il “compromesso socialdemocratico”) tra capitale e lavoro, come risultato della vittoria sul nazifascismo e della forza acquisita dal movimento operaio e dalle forze politiche della sinistra

- a Est, del socialismo reale e del sistema sovietico

- a Sud, con la fine di Bandung e del primo “risveglio del Sud”

La ripresa del socialismo come transizione su scala mondiale esige una “Bandung 2”, un nuovo “risveglio del Sud”. In presenza di un mutato quadro del contesto mondiale, dal momento che nella nuova globalizzazione-mondializzazione è sì consentita e incoraggiata l’industrializzazione di alcuni paesi, alcuni detti emergenti, ma sempre come sviluppo dipendente grazie ai “cinque monopoli” (tecnologia, mezzi di comunicazione, controllo delle risorse, finanza, armi di distruzione di massa) appannaggio dei paesi della cosiddetta “Triade”, dell’imperialismo collettivo di Usa, Europa e Giappone.

Allora ritorna a essere fondamentale per il Sud del mondo la nozione di “sviluppo autocentrato” di contro allo “sviluppo extravertito”, al servizio dello sviluppo dei paesi dominanti. È la concezione dello sviluppo autonomo, rispondente ai bisogni della nazione e del popolo. Si tratta di produrre beni per il proprio fabbisogno e non beni per l’esportazione (caffè, cacao, soia, mais ecc. a beneficio dei consumi dei paesi dominanti, per l’allevamento di animali da carne ecc.).

Per fare questo occorre la mossa preliminare della déconnexion, del delinking, dello “sganciamento” (come abbiamo reso questa categoria nella traduzione italiana) dalla logica dello sviluppo capitalistico nel quale le periferie debbono soggiacere allo “aggiustamento strutturale” continuo secondo i voleri dei paesi dominanti del centro.

Questo sviluppo decisivo nella visione di Amin, quale alternativa al capitalismo realmente esistente, è affrontato dapprima diffusamente nel libro del 1985 La déconnexion, ma poi anche in Eurocentrismo.


XIII.

In questo processo, un passaggio fondamentale è la costruzione di un “mondo multipolare”. Contro il dominio unilaterale, unipolare, degli Usa. E contro il suo continuo tentativo di “controllo militare del pianeta”.

L’egemonia Usa è messa in discussione da alcuni paesi come la Cina, la Russia, l’India, l’Iran ecc. Con l’avvertenza che questi paesi svolgono sì un ruolo “antiegemonico”, appunto, ma non “antisistema”, non anticapitalistico. Non mettono in discussione il capitalismo. Anzi. Tuttavia così facendo contribuiscono a creare un mondo multipolare, retroterra necessario per futuri avanzamenti antisistemici.


XIV.

Amin definisce il capitalismo come “una parentesi della storia”. Come sistema ormai “obsoleto”, “senile”, “in declino”, addirittura dal 1880, dalla fase degli oligopoli e dell’imperialismo, dalla grande crisi detta “grande depressione” del 1873-1896. Quella fase inaugura un’epoca di guerre e di rivoluzioni che si dispiega in tutto il Novecento.

La questione ambientale è questione cruciale e Amin ne è consapevole. Già attivo dalla Conferenza di Stoccolma del 1972, nella costruzione in Africa di Enda (Azione Ambientale e di Sviluppo nel Terzo Mondo) e nella successiva costruzione, a inizio degli anni ottanta, del Forum du Tiers Monde.

Infine, entro il Forum Mondiale delle Alternative, su impulso di Amin e di Houtart, ci siamo impegnati per accogliere il contributo del Global Footprint Network (la Rete mondiale dell’Impronta Ecologica promossa soprattutto da Mathis Wackernagel) e quello di Elmar Altvater (“socialismo solare”) e di John Bellamy Foster, attuale direttore della «Monthly Review». Altvater e Bellamy Foster, con Michael Löwy e Joel Kovel, fautori di quel “socialismo ecologico” o “ecosocialismo”, tanto più necessario oggi, a fronte delle sfide e delle minacce per l’equilibrio e la sopravvivenza della vita nel pianeta. In questo la contraddizione capitale-lavoro si coniuga strettamente, e non gerarchicamente, con la contraddizione uomo-natura e produzione-ambiente.


XV.

Con Amin e Houtart abbiamo contribuito a creare e sviluppare il Forum Mondiale delle Alternative. In ciò precorrendo la nascita del Forum Sociale Mondiale, da Porto Alegre 2001 in avanti.

L’assunto era contenuto nello slogan “convergenza nella diversità” delle varie correnti, tendenze, culture, movimenti, partiti ecc. che si opponevano alla globalizzazione-mondializzazione neoliberista. Il cosiddetto movimento altermondialista origina da lì. In Italia tale movimento si è palesato soprattutto al vertice G8 di Genova nel luglio 2001.

Il Forum Sociale Mondiale si è mosso sempre tra due poli. Nella metafora usata da Houtart, e ripresa da Amin, tra la “Woodstock sociale”, come happening, come spazio aperto in cui ritrovarsi e conoscersi, ma senza alcuna implicazione organizzativa, senza parole d’ordine vincolanti ecc., e una sorta di “nuova Internazionale”, con implicazioni organizzative e misure vincolanti. Amin è stato critico nel vedere prevalere entro il Forum le potenti Ong occidentali. Com’egli diceva, una concezione edulcorata della lotta al neoliberismo, consona a un capitalismo che si degna di

- “dare una verniciata di verde” (greenwashing), con il cosiddetto sviluppo sostenibile

concedere la “lotta alla povertà”, come mitigazione delle gravi sperequazioni e ineguaglianze diffuse

- promuovere la governance, il “buon governo” degli organismi sovranazionali, questi ultimi senza alcuna legittimazione democratica e responsabili di molti squilibri a livello planetario.

Negli ultimi tempi sosteneva che le lotte sociali decisive nel mondo ormai si svolgevano fuori dal contesto del Forum Sociale Mondiale, perdendo così quest’ultimo ruolo e importanza nell’arena mondiale, dopo le esaltanti e promettenti fasi iniziali dei primi forum.

Propugnava la versione antisistemica più radicale nella creazione della cosiddetta “V Internazionale”. A suo parere, possibile, auspicabile. Malgrado le serie difficoltà che personalmente ritengo presenti in una simile impresa. Auspicabile, ma, a misura della frammentazione, delle scissioni, delle diverse traiettorie di partiti, di movimenti ecc. nel mondo, molto difficile a realizzarsi.


XVI.

Sempre entro il Forum Sociale Mondiale, Amin ha insistito sulla ripresa della nuova “questione agraria”. La vera e propria “questione contadina” contemporanea.

La micidiale azione dell’agrobusiness, l’agricoltura capitalistica fortemente meccanizzata e a intenso uso di fertilizzanti chimici e di pesticidi continua a rovinare la piccola agricoltura famigliare di sussistenza. Vale a dire a rovinare l’esistenza di metà della popolazione mondiale, circa 3,5 miliardi di persone. Ciò comporta un’ulteriore espulsione di contadini e delle loro famiglie dalle campagne del Sud del mondo. In presenza di uno sviluppo dell’industria asfittico su scala mondiale, non più capace di assorbire questa manodopera resa libera, queste espulsioni si risolvono in un ingrossamento a dismisura dell’esercito industriale di riserva, di persone allo sbando nello Slum Planet, nella “bidonvillizzazione del mondo”, con le molte città delle periferie del mondo, accerchiate da enormi favelas, slums, bidonvilles ecc.

Circa un miliardo di persone sono migrate in questo modo in questi ultimi decenni, in questi “quaranta gloriosi” di dominio del capitalismo neoliberista, essendo la migrazione Sud-Sud ormai dominante, rispetto alle poche centinaia di migliaia di persone della spesso disperata migrazione Sud-Nord.


XVII.

Nell’espansione polarizzante del capitalismo e dell’imperialismo a essere distrutte sono anche identità, appartenenze, culture, comunità. Spesso le reazioni spontanee dei popoli investiti sono state, e sono, di legittima chiusura difensiva identitaria, “culturalistica”, come la definisce Amin.

Il culturalismo è un problema, poiché è un ripiegarsi e un volgersi al passato, è passatismo. Nell’area storica interessata dall’islam, invece di volgersi, come “passatismo”, alle fiorenti civiltà egizia, mesopotamiche, arabo-persiana ecc. la prima identità che viene assunta è proprio l’islam.

Amin non distingue tra “islam moderato” e “islam radicale e fondamentalista”. Si tratta in entrambi i casi di “islam politico”, antidemocratico, repressivo, oscurantista, lesivo della dignità della donna. Un potente freno all’autentico processo di emancipazione delle classi subalterne e dei popoli delle periferie. Questo detto dal versante di una profonda conoscenza del contenuto propriamente religioso e culturale in generale, della storia complessiva dei sistemi religiosi, dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’islam in particolare.

In Eurocentrismo Amin dispiega una sorprendente, profonda, ricca conoscenza delle dinamiche filosofiche e culturali dell’ellenismo e poi delle “tre religioni del Libro” (appunto ebraismo, cristianesimo e islam). In più, a proposito dell’islam, agevolato com’è dall’accesso diretto in lingua araba all’ampia letteratura primaria e secondaria.

L’autore procede a una efficace relativizzazione storica delle pretese radici giudaico-cristiane e greche dell’Europa.

Essendo manifestamente il cristianesimo, dottrina-religione e movimento reale, tipicamente “orientale”. Almeno fino al 1000 d.C. Anche dopo che venne elevato a religione di Stato con l’imperatore Teodosio nel 380 d.C. Ed essendo la Grecia margine occidentale dell’Oriente. Ampiamente debitrice la civiltà greca delle civiltà monumentali, egizia, mesopotamiche, fenicia, persiana ecc. L’autore cita Martin Bernal e il suo famoso libro Black Athena e il fatto che metà del lessico della lingua greca ha origini egizie e fenicie.


XVIII.

L’eurocentrismo, del pari, è un culturalismo. È speculare ai culturalismi delle periferie. Il capitalismo si accompagna alla modernità e agli sviluppi culturali dal Rinascimento all’Illuminismo e alla rivoluzione francese. L’assunto è l’affrancarsi dalla “alienazione metafisica”, con la ferma consapevolezza, un pregiudizio laico e razionale, che l’individuo è artefice del proprio destino, è colui che fa la storia.

Modernità, democrazia, progresso, sviluppo materiale e civile ecc. sostanziano il pregiudizio primigenio della “superiorità bianca” dell’europeo, e dell’occidentale in generale. Nel colonialismo e nell’imperialismo classici era normale parlare di razze e culture “superiori” e di razze e culture “inferiori”. Oggi, argomenta Amin, un discorso apertamente razzista non è così esplicito, tranne che in certi movimenti e in certi partiti politici occidentali. L’assunto è piuttosto implicito e la categoria di eurocentrismo è sempre all’opera.

Si parla di “differenza culturale”. In un’intervista, alcuni mesi prima della scomparsa nell’agosto 2018, disse “Gli europei rimangono persuasi che il loro modo di vita è differente e superiore”.

L’universalismo proclamato dalla modernità, dal Rinascimento all’illuminismo, alla rivoluzione francese, in realtà è un universalismo monco, troncato, dal momento che al contempo si proclama la “superiorità bianca”, europea e occidentale.

La sfida per i movimenti antisistemici, per i popoli delle periferie del mondo, risiede nella possibilità che, nel proprio fondarsi sulla identità, sul recupero della propria storia e della propria cultura, come risposta, come resistenza, rispetto al tentativo della omogeneizzazione-omologazione, e in definitiva negazione, da parte dei dominanti, non rappresenti tutto ciò chiusura ed esclusione identitaria, bensì rappresenti apertura universalistica, includente e non escludente.


XIX.

Samir Amin rientra nella generale corrente, tra Ottocento e Novecento, dell’“ottimismo storico”. Una forza e una dinamica necessarie che hanno sospinto potenti movimenti, potenti masse umane, hanno consentito potenti resistenze, grandi trasformazioni, rivoluzioni riuscite o fallite, importanti riforme, grandi conquiste sociali e politiche di varia natura ecc.

Oggi, alla luce dell’esperienza storica e in questo contesto di crisi generalizzata delle forze antisistema, abbiamo qualche difficoltà ad accogliere le posizioni di Amin a proposito del capitalismo “obsoleto”, “senile”, “parentesi della storia” ecc. Eppure ci sono esponenti non marxisti, valenti studiosi, che parlano di “postcapitalismo”, com’è proprio il titolo del libro di Paul Mason.

La fiducia e il fermo convincimento in Amin secondo cui c’è sempre una via d’uscita, c’è sempre un orizzonte, la storia non è finita, erano tuttavia contagiosi. Com’erano contagiosi il suo costante equilibrio e il suo costante buon umore, il suo istintivo impulso a confrontarsi sempre, con il colto e con lo sprovveduto, con il giovane militante inesperto e con il vecchio attivista, carico di esperienza, senza differenza.

Il capitalismo ha contribuito fortemente a sviluppare le capacità umane (scienza, tecnica, specialismi, macchine, mezzi di produzione, “forze produttive” in generale). E questo è importante, sempre comunque ricordando lo sviluppo apportato dalle tante civiltà extraeuropee della storia globale. In gioco però è soprattutto lo sviluppo della personalità umana. Vale a dire l’etica, le qualità umane di relazione, la cultura, l’apertura mentale e morale ecc. La lotta per il socialismo, oltre al cambiamento economico-sociale, strutturale, come si diceva, è anche questo. Samir Amin rappresenta una personalità di questo tipo, nella processualità storico-collettiva e nella processualità individuale.

Di sé diceva che il suo posto lo considerava sempre nel terzo mondo africano e arabo. E ne era fiero. Eppure era anche figlio dell’illuminismo, della grande tradizione rivoluzionaria francese. Da parte di madre, aveva antenati giacobini della rivoluzione del 1789. Da parte della moglie Isabelle, tra gli antenati, c’era Camille Desmoulins, l’avvocato rivoluzionario che arringò la folla per dare l’assalto alla Bastiglia, inizio della rivoluzione.

Benché fermamente convinto della succitata “vocazione terzomondista del marxismo”, tuttavia egli ha disposto, proprio come segno del suo essere fino in fondo internazionalista, nella necessaria visione universalistica del marxismo e del comunismo, che alla sua morte venisse inumato al cimitero Père Lachaise di Parigi. Accanto alle tombe degli eroici combattenti della Comune di Parigi e alle tombe dei volontari delle Brigate Internazionali della guerra civile spagnola.

Una degna sepoltura a conclusione di una vita piena, ricca, intensa. Una vita degna di essere vissuta.


Giorgio Riolo


(Tratto da: Giorgio Riolo, Il marxismo di Samir Amin e il progetto di emancipazione per i popoli delle periferie del mondo, nota introduttiva a: Samir Amin, Eurocentrismo. Modernità, religione e democrazia. Critica dell’eurocentrismo, critica dei culturalismi, a cura di Giorgio Riolo, traduzione di Nunzia Augeri, La Città del Sole, Napoli, 2022, pp. 276, euro 22).


Inserito il 17/5/2023.

Dal sito cheFare.com

L’“Ideologia californiana”, una chiave per comprendere la nostra era tecnologica

di Richard Barbrook e Andy Cameron

La Silicon Valley Bank è una delle più grandi banche degli Stati Uniti, la più impegnata negli investimenti nelle nuove tecnologie e nei finanziamenti alle start-up innovative. Il suo fallimento riporta l'attenzione sul polo mondiale dell'innovazione e dell’alta tecnologia, dei social media e dei capitali che vi ruotano intorno: la Silicon Valley, appunto.

Il testo che presentiamo, L’ideologia californiana, non è recente – risale infatti al 1995 –, ma conserva elementi di analisi interessanti per capire la genesi, la natura e le idee che furono alla base dello sviluppo della Silicon Valley, e ne mette in rilievo la struttura al tempo stesso libertariana e neoliberista.

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L’“Ideologia californiana”, una chiave per comprendere la nostra era tecnologica


L’ideologia californiana (qui nella traduzione di Anna Senigallia) è un testo fondamentale per la lettura critica del rapporto tra tecnologia, cultura e innovazione. Nonostante la grande influenza che ha esercitato nel dibattito internazionale, in Italia è rimasto sconosciuto anche a buona parte del pubblico interessato a questi temi. cheFare.com lo ripropone al pubblico italiano a 20 anni dalla sua pubblicazione.

Moltissima acqua è passata sotto i ponti nel frattempo, scorrendo sempre più veloce: i personal computer sono entrati in moltissime case dei paesi sviluppati; Internet è diventata l’infrastruttura di riferimento della nostra vita economica, culturale e affettiva; bolle speculative, nuove forme economiche e imperi industriali sono nati, cresciuti, ed in alcuni casi morti; i nuovi media sono confluiti in dispositivi sempre più piccoli e performativi che portiamo con noi in tasca, nei vestiti, al polso; intere mitologie romantiche del genio digitale – da Steve Jobs a Larry Page – sono state metabolizzate dalla cultura di massa; scandali di portata globale ci hanno mostrato come le nostre vite siano alla mercé di oscure organizzazioni statali che possono controllare ogni aspetto delle nostre vite.

La lucidità e la forza critica delle argomentazioni di questo testo sono forse ancora più impressionanti oggi, alla luce di tutte queste trasformazioni. Se alcune affermazioni e scelte linguistiche oggi possono suonare leggermente desuete, L’ideologia californiana è comunque un testo chiave per chiunque voglia affrontare in modo consapevole le sfide che ci aspettano nel presente e nel futuro.


L’ideologia californiana


“È impossibile non mentire sul futuro e chiunque può mentire su di esso a volontà”

Naum Gabo 


Introduzione


Alla fine del ventesimo secolo la convergenza a lungo predetta di media, computer e telecomunicazioni in ciò che è definito ipermedia si sta alla fine concretizzando. Ancora una volta l’inesorabile spinta del capitalismo a diversificare e intensificare il potere creativo del lavoro umano è sul punto di trasformare qualitativamente il modo in cui lavoriamo, ci divertiamo e viviamo insieme. Integrando tecnologie differenti intorno a protocolli comuni è stato creato qualcosa che è molto di più della somma delle sue parti.

Quando la capacità di produrre e ricevere quantità illimitate di informazioni, in qualsiasi forma, è combinata con l’estensione della rete telefonica globale, le modalità presenti di lavorare e divertirsi possono essere trasformate in modo fondamentale. Nascono nuove industrie e i titoli attualmente favoriti dal mercato finanziario saranno spazzati via. E in questo frangente una strana alleanza fra scrittori, hacker, capitalisti e artisti della West Coast americana ha dato vita a una eterogenea ortodossia dell’età dell’informazione: l’ideologia californiana.

Questa è una miscela di cibernetica, economia liberista e contro-cultura libertaria, ed è emersa da una bizzarra fusione della cultura bohémienne di San Francisco con le industrie di alta tecnologia della Silicon Valley. Promossa da riviste («Wired» e «Mondo 2000»), dai libri di scrittori quali Stewart Brand e Kevin Kelly, da programmi televisivi, da siti web e da conferenze in rete, la nuova ideologia combina il libero spirito degli hippies con lo zelo imprenditoriale degli yuppies. Questo amalgama di opposti è stato ottenuto per mezzo di una profonda fede nel potenziale emancipatorio delle nuove tecnologie dell’informazione.

Nell’utopia digitale ognuno potrà essere ricco e felice. Non sorprendentemente, questa visione ottimistica del futuro è stata entusiasticamente abbracciata, attraverso tutti gli Stati Uniti, da nerd del computer, studenti scansafatiche, capitalisti innovativi, attivisti sociali, accademici di tendenza, burocrati futuristi e politici opportunisti.

E, come al solito, gli europei non hanno tardato ad assimilare l’ultima moda americana. Mentre un recente rapporto dell’Unione Europea, il rapporto Bangemann su Europa e Società dell’Informazione Globale, raccomanda di adottare il modello californiano della libera impresa per costruire l'”autostrada dell’informazione”, artisti e accademici “sul filo della lama” hanno esaltato la filosofia “post-umanista” sviluppata dal culto extropiano della West Coast. Senza oppositori, il dominio globale dell’ideologia californiana sembra essere completo.

Da una lettura superficiale, gli scritti degli ideologi californiani sono un divertente cocktail di cultura illuminata della Bay Area e profonde analisi sugli ultimi sviluppi delle industrie tecnologiche delle arti, del divertimento e dei media. La loro politica sembra essere impeccabilmente libertaria – essi vorrebbero che le tecnologie dell’informazione fossero utilizzate per creare una nuova “democrazia jeffersoniana” nel cyberspazio dove ogni individuo avrebbe la possibilità di esprimersi liberamente.

Implacabile nelle sue certezze, l’ideologia californiana offre una visione fatalistica del naturale e inevitabile trionfo del libero mercato hi-tech, una visione che è cieca verso alcune caratteristiche della vita nella West Coast: razzismo, povertà e degrado ambientale. Ironicamente, in un passato non lontano, gli intellettuali e gli artisti della Bay Area erano appassionatamente presi da questi problemi.


La nascita della “classe virtuale”


Negli anni Sessanta, Marshall McLuhan predicava che il potere del grande business e del governo sarebbe stato superato dagli effetti sugli individui delle nuove tecnologie, intrinsecamente più potenti. Molti hippies furono influenzati dalle teorie di McLuhan e credevano che il progresso tecnologico avrebbe automaticamente convertito i loro principi libertari non conformisti in realtà politica.

Essi ritenevano che la convergenza di media, computer e telecomunicazioni avrebbe inevitabilmente portato a una democrazia elettronica diretta – l’agorà elettronica – in cui ognuno avrebbe potuto esprimere le proprie opinioni senza paura di alcuna censura. Incoraggiati dalle predizioni mcluhaniane, i radicali della West Coast furono coinvolti nello sviluppo di nuove tecnologie dell’informazione per la stampa alternativa, le stazioni radio comunitarie, i computer club e i collettivi video. Durante gli anni Settanta e Ottanta, molti dei fondamentali progressi nell’uso personale dei computer e delle reti sono avvenuti grazie a persone influenzate dall’ottimismo tecnologico della nuova sinistra e della contro-cultura.

Negli anni Novanta, alcuni di questi ex-hippies sono diventati proprietari o manager di aziende hi-tech e il lavoro d’avanguardia degli attivisti degli anni precedenti è stato largamente recuperato dalle nuove imprese di comunicazione e di alta tecnologia.

Anche se le aziende di questi settori sono in grado di meccanizzare e di sub-appaltare molto del loro lavoro, esse restano ancorate ad alcune figure chiave che ricercano e creano prodotti originali, dal software ai chip per computer, ai libri, ai programmi televisivi.

Questi imprenditori e lavoratori specializzati formano la cosiddetta classe virtuale, “…la tecno-intellighenzia di scienziati cognitivisti, ingegneri, esperti di computer, sviluppatori di video giochi, e tutti gli specialisti della comunicazione…”. Impossibilitati ad assoggettarli alla disciplina della catena di montaggio o a rimpiazzarli con delle macchine, i manager hanno impiegato questi lavoratori intellettuali attraverso contratti a tempo determinato.

Come l’aristocrazia del lavoro del secolo scorso, il personale chiave delle aziende di comunicazione o di computer sperimentano sia i compensi che le insicurezze del mercato. Da un lato questi artigiani dell’alta tecnologia non solo tendono ad essere ottimamente retribuiti, ma hanno anche una considerevole autonomia sul loro posto di lavoro e nelle aziende per cui lavorano. Come risultato, il divario culturale fra l’hippie e l’impiegato è diventato abbastanza sfumato.

Ma, dall’altro lato, questi lavoratori sono legati ai termini dei loro contratti e non hanno alcuna garanzia di un lavoro continuativo. Essendo finiti i bei tempi degli hippies, il lavoro stesso è diventato la via principale all’autorealizzazione per molta della “classe virtuale”. Dato che questi lavoratori centrali sono sia una parte privilegiata della forza-lavoro che gli eredi delle idee radicali degli attivisti dei media comunitari, l’ideologia californiana riflette simultaneamente la disciplina dell’economia di mercato e la libertà dell’artigianato hippie.

Questo bizzarro ibrido si è reso possibile solo attraverso un credo quasi universale nel determinismo tecnologico. Sin dagli anni Sessanta i liberals – nel senso sociale della parola – hanno sperato che le nuove tecnologie dell’informazione potessero realizzare i loro ideali. Rispondendo alle sfide della Nuova Sinistra, la Nuova Destra ha riesumato una vecchia forma di liberalismo: il liberalismo economico.

In luogo della libertà collettiva ricercata dagli hippies radicali, essa ha sostenuto la libertà individuale all’interno di un’economia di mercato. Dagli anni Settanta in poi, Toffler, de Sola Pool e altri guru cercarono di dimostrare che l’avvento dell’ipermedia avrebbe, paradossalmente, comportato un ritorno al liberalismo economico del passato. Questa retro-utopia echeggiava le predizioni di Asimov, Heinlein e altri scrittori di fantascienza, i cui mondi futuri sono sempre pieni di mercanti dello spazio, venditori abilissimi, scienziati geniali, capitani pirata e altri rudi individualisti. La strada del progresso tecnologico non sempre porta a “ecotopia”. Potrebbe, invece, portare indietro all’America dei Padri Fondatori.


Democrazia diretta o libero scambio?


Con McLuhan come santo protettore, l’ideologia californiana è emersa da un’inaspettata collisione di neo-liberalismo di destra, contro-cultura radicale e determinismo tecnologico; un ibrido ideologico che mantiene intatte tutte le sue ambiguità e contraddizioni. Queste contraddizioni sono molto evidenti nelle opposte visioni del futuro che vengono portate avanti contemporaneamente. Da un lato, la purezza anti-corporation della Nuova Sinistra è stata mantenuta dai difensori della “comunità virtuale”. Secondo il suo guru, Howard Rheingold, i valori dei figli della contro-cultura continueranno a modellare lo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione.

I suoi attivisti utilizzeranno sempre di più l’ipermedia per sostituire il capitalismo delle “corporations” e del governo con un'”economia del dono”, altamente tecnologica, in cui l’informazione è liberamente scambiata fra i partecipanti. Nella visione di Rheingold, la “classe virtuale” è ancora in prima linea nella battaglia per i cambiamenti sociali: malgrado il suo frenetico coinvolgimento politico e commerciale nella costruzione dell'”autostrada dell’informazione”, la democrazia diretta nell'”agorà elettronica” trionferà inevitabilmente sui suoi nemici burocratici e imprenditoriali.

Dall’altro lato, gli ideologi della West Coast hanno abbracciato l’ideologia liberista dei loro precedenti nemici conservatori. Per esempio, «Wired» – il mensile bibbia della “classe virtuale” – ha riprodotto acriticamente le teorie di Newt Gingrich, il leader repubblicano, di estrema destra, alla Camera dei Rappresentanti, e dei Toffler, che sono i suoi più vicini consiglieri. Ignorando le loro politiche di tagli al welfare, la rivista è stata invece ipnotizzata dal loro entusiasmo per le possibilità offerte dalle nuove tecnologie dell’informazione.

Gingrich e i Toffler proclamano che la convergenza di computer, media e telecomunicazioni non creeranno un’agorà elettronica, ma piuttosto porteranno all’apoteosi del mercato: uno scambio elettronico in cui ognuno può diventare un “libero mercante”. In questa versione dell’ideologia californiana ogni membro della classe virtuale ha l’opportunità di diventare un imprenditore tecnologico di successo.

Le tecnologie dell’informazione – così viene argomentato – potenziano l’individuo, esaltano la libertà individuale e riducono drasticamente il potere dello stato-nazione. Le attuali strutture sociali, politiche e legali saranno spazzate vie per far posto a interazioni, senza alcuna restrizione, fra autonomi individui e il loro software.

Questi nuovi seguaci di McLuhan argomentano con vigore che il governo deve stare alla larga dagli imprenditori che creano risorse, che sono le sole persone sufficientemente coraggiose e disinvolte da prendere dei rischi. Anzi, i tentativi di interferire con queste fondamentali forze tecnologiche ed economiche, in modo particolare da parte del governo, semplicemente si ripercuoteranno su coloro che sono così sciocchi da combattere le “leggi primarie” della natura.

Secondo il direttore di «Wired», la “mano invisibile” del mercato e le cieche forze dell’evoluzione darwiniana sono una sola cosa. Il libero mercato è l’unico meccanismo in grado di costruire il futuro a di assicurare la piena libertà nei circuiti elettronici del cyberspazio jeffersoniano. Come nei racconti di Heinlein e Asimov, la strada verso il futuro sembra portare indietro nel passato. Il ventunesimo secolo, l’età dell’informazione, sarà la realizzazione delle ottocentesche idee liberali di Thomas Jefferson: “…la creazione di una nuova civilizzazione, fondata sull’eterno credo dell’Idea Americana”.


Il mito del Libero Mercato


Quasi tutte le maggiori conquiste tecnologiche degli ultimi duecento anni sono state ottenute per mezzo di grossi finanziamenti pubblici: sia la tecnologia dei computer che della rete sono state inventate con l’aiuto di massicci interventi statali. Per esempio il primo progetto di motore differenziale ricevette un finanziamento dal governo britannico di 17.470 sterline, una fortuna nel 1834.

Da Colossus a EDVAC, dai simulatori di volo alla realtà virtuale, lo sviluppo dei computer è dipeso nei momenti chiave dai risultati della ricerca pubblica o da ingenti contratti con agenzie pubbliche. La IBM costruì il primo computer digitale programmabile solo dopo che ciò fu richiesto dal dipartimento alla difesa statunitense durante la guerra di Corea.

Il rifiuto di un intervento statale significò per la Germania nazista la perdita dell’opportunità di costruire il primo computer digitale alla fine degli anni Trenta, quando la Wermacht rifiutò di finanziare Konrad Zuze, che fu un pioniere nell’uso del codice binario, dei programmi residenti e delle porte logiche elettroniche. Una delle cose più bizzarre che riguardano l’ideologia californiana è che la stessa West Coast è la creazione di un massiccio intervento statale. I dollari governativi sono stati utilizzati per costruire i sistemi di irrigazione, le autostrade, le scuole, le università, e altri progetti infrastrutturali che ne hanno alzato il tenore di vita.

Il governo statunitense ha riversato milioni di dollari di tasse nell’acquisto di aerei, missili, materiale elettronico e nucleare da aziende californiane. Gli americani hanno sempre avuto la pianificazione statale, ma preferiscono chiamarlo “bilancio della difesa”.

Tutti questi finanziamenti pubblici hanno avuto un enorme effetto benefico, anche se non riconosciuto e non pagato, sul conseguente sviluppo della Silicon Valley e di altre industrie di alta tecnologia. Gli imprenditori hanno spesso un esagerato senso del proprio “atto creativo di volontà” nello sviluppo delle nuove idee e danno pochi riconoscimenti ai contributi forniti sia dalla struttura pubblica che dalla forza lavoro.

Comunque, tutto il progresso tecnologico è cumulativo, esso dipende da un processo storico collettivo e deve essere considerato, almeno in parte, come un risultato collettivo. Quindi, come in ogni altro paese industrializzato, gli imprenditori statunitensi hanno potuto contare sul denaro pubblico e sull’intervento dello stato per alimentare e sviluppare le proprie industrie e, quando le compagnie giapponesi minacciarono di invadere il mercato americano dei microchip, i capitalisti “libertari” delle industrie di computer californiane non ebbero alcuna remora ideologica nell’entrare in un cartello organizzato dallo stato per respingere gli invasori dell’Est.


Padroni e schiavi


Nonostante il ruolo centrale giocato dall’intervento pubblico nello sviluppo dell’ipermedia, l’ideologia californiana rappresenta un dogma profondamente anti-statalista. L’origine di questo dogma è un risultato del fallimento delle politiche di rinnovamento fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta. Anche se gli ideologi californiani esaltano l’individualismo libertario degli hippies, essi non hanno mai dibattuto delle richieste politiche e sociali della contro-cultura.

Secondo loro la libertà individuale non può essere raggiunta ribellandosi contro il sistema, ma attraverso la sottomissione alle leggi “naturali” del progresso tecnologico e del libero mercato. In molti film e racconti cyberpunk, questo libertarianesimo asociale è espresso attraverso il personaggio centrale del solitario combattente per la sopravvivenza nel mondo virtuale dell’informazione. Secondo la tradizione statunitense, la nazione fu costruita da individui: trappers, cowboys, predicatori e coloni della frontiera.

La stessa rivoluzione americana è stata combattuta per proteggere le proprietà dei pionieri dalle ingiuste tasse imposte da un parlamento straniero. Ma questo fondamentale mito degli USA ignora la contraddizione che sta al centro del sogno americano, cioé che alcuni individui possono prosperare solo attraverso le sofferenze di altri. La vita di Thomas Jefferson, una delle figure chiave degli ideologi californiani, dimostra chiaramente la doppia natura dell’individualismo liberale. L’uomo che scrisse l’ispirato e poetico appello alla democrazia e alla libertà nella dichiarazione di indipendenza americana era allo stesso tempo uno dei più grossi schiavisti del paese.

Nonostante la successiva emancipazione degli schiavi e le vittorie del movimento per i diritti civili, la segregazione razziale è ancora centrale nelle politiche americane, specialmente in California. Dietro la neoliberista retorica della libertà individuale c’è la paura padronale della ribellione degli schiavi. Nelle recenti elezioni a governatore della California, il candidato repubblicano ha vinto con una rabbiosa campagna anti-immigrati. A livello nazionale, il trionfo dei neoliberisti di Gingrich nelle elezioni legislative si è basato sulla mobilitazione dell’ “arrabbiato maschio bianco” contro la supposta minaccia degli scrocconi del welfare: neri, immigrati dal Messico e altre ostinate minoranze. Le industrie ad alta tecnologia sono parte integrale di questa coalizione razzista.

La costruzione, esclusivamente privata e imprenditoriale, del cyberspazio può provocare solamente la frammentazione della società americana in classi antagonistiche e razzialmente chiuse. Infatti gli abitanti dei quartieri più poveri, già segnati dalle avide compagnie di telecomunicazioni, possono essere tagliati fuori dai nuovi servizi pubblici on-line per mancanza di denaro. Al contrario gli yuppies e i loro figli possono giocare a diventare cyberpunk nel mondo virtuale senza incontrare nessuno dei propri vicini non abbienti. Lungo la sempre più marcata divisione sociale, viene creato un nuovo apartheid fra i ricchi e i poveri dell’informazione. Wired ha denunciato come nemici del progresso i numerosi appelli affinché le società di telecomunicazione fornissero a tutti i cittadini accesso illimitato alle autostrade dell’informazione. Ma dov’è il progresso?


Il calapranzi


Come ha rilevato Hegel, la tragedia dei padroni è che essi non possono sottrarsi alla dipendenza dai loro schiavi. I ricchi californiani bianchi hanno bisogno che i loro conspecifici dalla pelle più scura lavorino nelle loro fabbriche, mietano i loro raccolti, badino ai loro bambini e si occupino dei loro giardini. Incapaci di distribuire ricchezza e potere, i cittadini bianchi della California possono invece trovare sollievo spirituale nel culto della tecnologia. Se gli schiavi umani sono in fin dei conti inaffidabili, sarà necessario inventare quelli meccanici.

La ricerca del santo Graal dell’intelligenza artificiale rivela il desiderio del Golem – uno schiavo forte e leale la cui pelle è del colore della terra e i cui visceri sono fatti di sabbia. Gli utopisti della tecnologia fantasticano che sia possibile ricavare dalle macchine inanimate una forma di lavoro servile. Tuttavia, anche se la tecnologia è in grado di immagazzinare e amplificare il lavoro, non potrà mai rimuovere la necessità di esseri umani che innanzitutto inventino, costruiscano e controllino le macchine.

Non è possibile ottenere lavoro servile da qualcuno che sia stato asservito. Nella sua proprietà di Monticello, Jefferson inventò molti aggeggi ingegnosi – incluso un calapranzi – allo scopo di evitare che gli schiavi servissero direttamente lui. Alla fine del ventesimo secolo non è così sorprendente che questo liberal possessore di schiavi sia l’eroe di coloro che proclamano la libertà negando ai propri concittadini dalla pelle nera quei diritti democratici ritenuti inalienabili.


Preannunciando il futuro


I profeti dell’ideologia californiana sostengono che soltanto i flussi cibernetici e i vortici caotici del libero mercato e della comunicazione globale saranno in grado di determinare il futuro. Il dibattito politico, di conseguenza, è uno spreco di fiato. In quanto neo-liberisti asseriscono che il volere del popolo, mediato dal governo democratico attraverso il processo politico, è un’eresia pericolosa che interferisce con la libertà, naturale ed efficiente, di accumulare proprietà. In quanto deterministi “tecnologici” essi credono che le limitazioni sociali ed emozionali poste dall’uomo impediscano l’efficiente evoluzione delle macchine. Abbandonando i concetti di democrazia e solidarietà sociale, l’ideologia californiana sogna di un nirvana tecnologico abitato soltanto da psicopatici liberisti.


Esistono delle alternative


Nonostante le sue pretese di universalità, l’ideologia californiana è stata sviluppata da un gruppo di persone che vivono in un paese ben determinato e che perseguono un ben specifico modello di sviluppo socio-economico e tecnologico. Il miscuglio esplosivo dal quale essi derivano – conservatorismo economico e libertarismo hippie – riflette la storia della West Coast, e non il futuro inevitabile del resto del mondo. I neo-liberisti hi-tech sostengono che esiste un’unica via ma in realtà il dibattito non è mai stato tanto aperto o tanto necessario.

Il modello californiano è solo uno fra i tanti. All’interno dell’Unione Europea, la storia recente della Francia fornisce un’evidenza pratica della possibilità di operare un intervento statale a fianco della competizione liberista per far crescere le nuove tecnologie e assicurare che i loro benefici siano distribuiti tra tutti i cittadini.

Come conseguenza della vittoria giacobina contro gli avversari liberali nel 1792, la repubblica democratica in Francia divenne l’espressione della “volontà generale”. In quanto tale, lo stato doveva rappresentare gli interessi di tutti i cittadini, invece che limitarsi a proteggere i diritti dei singoli proprietari. La Rivoluzione francese segnò il passaggio dal liberalismo alla democrazia. Incoraggiato da questa legittimazione popolare il governo è in grado di influenzare lo sviluppo industriale.

Per esempio, il network Minitel ha messo insieme la massa critica dei propri utenti attraverso la nazionalizzazione delle telecomunicazioni fornendo accessi e terminali gratuiti. Una volta creato il mercato, i providers pubblici e privati poterono quindi trovare un numero di clienti che permise loro di prosperare. Imparando dall’esperienza francese, appare ovvio che gli organismi europei e nazionali dovrebbero esercitare sullo sviluppo degli ipermedia un controllo e una direzione statale più mirati piuttosto che il contrario.

La lezione che viene dalla Minitel è che gli ipermedia in Europa dovrebbero essere sviluppati come un ibrido tra intervento statale, intraprendenza capitalista e autoproduzione. Non c’è dubbio che l’autostrada dell’informazione creerà un mercato di massa all’interno del quale le aziende private potranno vendere i loro prodotti già esistenti – quali film, programmi tv, musica e libri – attraverso la Rete.

Una volta che le persone potranno sia distribuire sia ricevere ipermedia apparirà uno sfavillio di media pubblici, mercati di nicchia e gruppi con interessi mirati. Tuttavia perché ciò accada lo stato deve avere una parte attiva. Per salvaguardare l’interesse di tutti i cittadini l’ “interesse generale” deve essere realizzato almeno parzialmente attraverso istituzioni pubbliche.


La rinascita del moderno


L’ideologia californiana rifiuta le nozioni di “pubblico” e di “progresso sociale”, intendendo incatenare l’umanità al peso del fatalismo economico e tecnologico. Tanto tempo fa, gli hippie della West Coast giocarono un ruolo di primo piano nel creare la nostra attuale visione dell’emancipazione sociale. Come conseguenza il femminismo, la cultura della droga, la liberazione gay e le identità etniche hanno smesso, a partire dagli anni Sessanta, di essere delle questioni marginali.

Ironicamente oggi la California, che è diventata il centro dell’ideologia, è proprio quella che nega rilevanza a questi nuovi soggetti sociali. È ora per noi necessario stabilire il nostro stesso futuro, pur non essendo le condizioni di partenza frutto di una nostra scelta. Dopo vent’anni, è venuto il momento di rifiutare una volta e per sempre la perdita di coraggio espressa dal post-modernismo.

Possiamo fare di più che limitarci a “giocare con i pezzi” creati dalle avanguardie del recente passato. È necessario un dibattito su che tipo di ipermedia si accordino con la nostra visione della società, sulle modalità di creazione dei prodotti interattivi e dei servizi on-line che intendiamo usare, sul tipo di computer che ci piacciono e sui software che riteniamo più utili. Dobbiamo trovare dei modi per ragionare socialmente e politicamente sullo sviluppo delle macchine.

Pur imparando dall’atteggiamento degli individualisti californiani del “tutto ciò che si può fare si fa”, dobbiamo anche riconoscere che le potenzialità degli ipermedia non potranno mai essere realizzate unicamente attraverso le forze del mercato. Abbiamo bisogno di un’economia che possa liberare la potenza creativa degli artigiani dell’alta tecnologia. Solo allora potremo veramente afferrare le opportunità promesse mentre l’umanità entra nel nuovo stadio della modernità.


Richard Barbrook e Andy Cameron


(Tratto dal sito: https://www.che-fare.com/almanacco/politiche/ideologia-californiana-andy-cameron-richard-barbrook/).


Inserito il 18/3/2023.

Dal sito effimera.org

Centralizzazione della proprietà e capitalismo contemporaneo: a proposito di «La guerra capitalista»

di Andrea Fumagalli

Un libro di tre economisti di area marxista tenta di spiegare l’attuale fase della contraddizione intercapitalistica mondiale a partire dal conflitto in Ucraina. In questa recensione allo studio di Brancaccio, Giammetti e Lucarelli si offrono le chiavi per interpretare il testo.

Diamo di seguito altri articoli sull’ampio dibattito che intorno a questo libro si è sviluppato a sinistra.

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Centralizzazione della proprietà e capitalismo contemporaneo: a proposito di «La guerra capitalista»


A distanza di 10 mesi dall’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russia sono usciti alcuni interessanti saggi che analizzano la nuova situazione geo-politica e riflettono sulle possibili tendenze internazionali1. Tra loro merita sicuramente un posto in prima fila il recente contributo di Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti, Stefano Lucarelli, La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista, Mimesis, Milano, 2022, uscito in libreria lo scorso 25 novembre.

Il libro è suddiviso in tre parti, con l’aggiunta di tre appendici finali e una postfazione di Roberto Scazzieri. La prima parte inizia con la “sconcertante presa d’atto di un Marx ‘rapito dal nemico’: tanto dimenticato dai sedicenti tribuni degli oppressi del nostro tempo quanto studiato e rivalutato dagli agenti del capitale” (p. 10). Tale punto di partenza è particolarmente utile per soffermarsi sulla marxiana “legge di centralizzazione”, il nodo teorico che ha più affascinato la riscoperta mainstream di Marx all’indomani della crisi finanziaria globale del 2007. Nel testo, infatti, gli autori propongono “una nuova teoria della riproduzione e della tendenza verso la centralizzazione capitalistica, un approccio che si contrappone al paradigma teorico mainstream ma solleva obiezioni anche ai filoni di pensiero critico che hanno ridotto il marxismo a un intoccabile reliquiario anti-scientifico, o che da lungo tempo tacciono sul grande tema delle “leggi” generali”. (p. 10).

A partire da queste premesse, la seconda parte approfondisce l’evidenza empirica della tendenza della centralizzazione capitalistica, che viene definita “un inedito della letteratura scientifica in materia” (p. 10). Tale evidenza parte dall’utilizzo di moderne tecniche dei “network” proprietari, con riferimento alla proprietà azionaria. Poiché tale fenomeno interessa soprattutto gli Stati Uniti e i paesi anglosassoni oltre che Cina e Russia, l’analisi condotta mette giustamente in luce come parlare di oligarchia facendo esclusivamente riferimento alla Russia non solo è improprio ma anche fuorviante, poiché la struttura oligarchica è di gran lunga prevalente negli Stati Uniti e nei paesi Occidentali.

La terza parte del libro contiene stralci riveduti e aggiornati di interviste e articoli del solo Emiliano Brancaccio ispirati dalla guerra in Ucraina, ma centrati sulla questione più generale del rapporto tra centralizzazione del capitale e conflitto militare e sui due più importanti blocchi imperiali che emergono: da un lato, il consolidato imperialismo dei paesi debitori (Usa e Uk in testa), con al traino l’Europa, dall’altro il nascente imperialismo dei paesi creditori, a partire da Cina e India.

La tesi del libro è molto semplice e chiara. Secondo gli autori, nel capitalismo contemporaneo è ravvisabile, dati alla mano, una “legge” di tendenza verso la centralizzazione del capitale, che inevitabilmente porta alla distruzione della democrazia e fomenta la guerra.

Tale lettura non è quindi allineata con le interpretazioni giornalistiche dominanti relative alla guerra in corso, che sottolineano esclusivamente l’aggressione di Putin ai danni dell’indipendenza di un stato e della sua sovranità e con ciò giustificano l’invio di armi da parte dei paesi cosiddetti “amici della democrazia” al fine di sostenere la resistenza ucraina e la sua battaglia di civiltà a favore della libertà dei popoli. Il contesto politico in cui nasce la guerra ha origini ben più profonde e complesse.

L’attenzione viene perciò rivolta al concetto di centralizzazione, un concetto coniato da Marx. Gli autori riconoscono che “il termine ‘centralizzazione’ viene spesso sostituito dall’espressione ‘concentrazione’. Gli stessi Marx e Hilferding, in alcune circostanze, adoperano questi termini alla stregua di sinonimi” (p. 38) […] “ma si allude anche alla possibilità che i gruppi di controllo delle società governino una massa di capitale più grande di quella che formalmente possiedono” (p. 39). Tuttavia, per Marx i due concetti sono diversi: la centralizzazione è l’esito di una incessante lotta tra capitali in competizione tra loro per la conquista dei mercati, mentre il termine concentrazione corrisponde “alla creazione di nuovi mezzi di produzione e alla crescita conseguente della loro massa complessiva, sia in termini assoluti sia in rapporto alla forza lavoro disponibile” (p. 39).

Che cosa si intende con il termine “conquista dei mercati”? Marx intende probabilmente quella che definisce “l’espropriazione del capitalista da parte del capitalista”, ovvero la conquista non tanto di quote di mercato ma della proprietà. Si tratta di un processo di selezione delle imprese, esito della concorrenza tra imprese singole. La concentrazione, invece, indica un processo di gerarchizzazione del mercato verso forme oligopolistiche, a prescindere dai cambiamenti degli assetti proprietari. Possiamo aggiungere, tuttavia, che il processo di centralizzazione induce alla concentrazione di mercato. Si tratta di qualcosa di diverso della creazione di nuovi mezzi di produzione, ovvero dell’effetto schumpeteriano dell’innovazione tecnologica.

Non a caso Hilferding, a partire dal testo seminale del 1910 Il capitale finanziario2, seguendo Marx, individua due modalità principali che favoriscono il processo di centralizzazione della proprietà e quello della concentrazione produttiva: il fallimento delle imprese più deboli che non riescono a sottostare alle gerarchie di mercato e le strategie di acquisizioni e fusione che “predano” le imprese più piccole e più innovative che diventano invitanti per l’ingordigia delle grandi.

Le analisi di Marx e poi di Hilferding fanno riferimento al sistema “factory”, ovvero allo sviluppo della grande industria, magistralmente descritto da Marx nel cap. XIII del Libro I de Il Capitale. In tale contesto, la riorganizzazione della produzione consente lo sfruttamento del lavoro, l’attivazione di economie di scala positive che portano a rendimenti crescenti di scala e favoriscono, in tal modo, sia un processo di concentrazione produttiva che la centralizzazione della proprietà con il diffondersi della forma manageriale di impresa.

Tale processo arriverà a pieno compimento con il pieno affermarsi del paradigma taylorista-fordista del periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, ampiamente preconizzato dall’analisi di Marx. Il processo di valorizzazione del capitale tramite la produzione tangibile di merce (D-M-D’) raggiunge qui il suo apice.

Siamo in presenza di un modello di produzione per stock, dove la proprietà dei mezzi di produzione è centrale per definire il comando del capitale del lavoro. La tendenza alla centralizzazione si manifesta con la proprietà diretta degli asset azionari delle grandi imprese. La proprietà fa rima con controllo, anche se questi elementi necessitano di due attori differenziati e spesso, negli anni del fordismo, potenzialmente conflittuali: azionisti di maggioranza, da un lato, e management, dall’altro. La potenza del capitale e le sue lotte intestine si traducono in un aumento della concentrazione della produzione e nell’aumento delle dimensioni di impresa3.

Con la crisi del paradigma taylorista-fordista nei primi anni Settanta, lo scenario cambia. La diffusione del nuovo paradigma tecnologico linguistico-comunicativo apre a nuove modalità di produzione e di organizzazione di mercato. Il prevalere negli anni Novanta del modello della subfornitura internazionalizzata, basata sulla gestione per flussi dei nodi produttivi, porta alla centralità della leva finanziaria e della leva tecnologica come i due fattori principali in grado di ridefinire le gerarchie di mercato e gli assetti geo-economici internazionali. Assistiamo al più poderoso processo di concentrazione finanziaria e tecnologica che la storia del capitalismo ricordi, da far impallidire il periodo della formazione dei grandi trust nell’economia americana a cavallo tra XIX e XX secolo.

Tale processo è analizzato con esempi nella seconda parte del libro, dove la tesi della centralizzazione viene messa alla prova dei fatti. L’analisi fa riferimento a studi precedenti condotti dallo stesso Brancaccio e altri, in cui viene introdotto il concetto di “net control” come misura della concentrazione della proprietà azionaria. Tale termine può creare qualche equivoco, dal momento che nella parte empirica del libro non viene poi tracciata in modo chiaro una netta distinzione tra proprietà e controllo, nonostante un intero capitolo venga dedicato al managerialismo e alle sue teorie (da Marx, a Weber sino a oggi). In questo caso il termine “controllo” fa riferimento al controllo delle azioni.

I risultati a cui giungono gli autori non sorprendono. La crescente concentrazione dei mercati che abbiamo visto nelle ultime decadi, all’indomani del periodo di maggior concorrenza che ha accompagnato i tardi anni Settanta nell’avvio del processo di internazionalizzazione, si è accompagnata a una fortissima centralizzazione dei capitali in poche mani.

Con riferimento ai due anni considerati, 2007 e 2017, si ottengono


“due panoramiche delle reti della proprietà azionaria. In entrambi gli anni, le società finanziarie occupano una posizione cruciale nei nodi centrali. In particolare, i primi tre detentori del controllo (azionario, ndr.) nel 2007 sono Fidelity Management & Research Company, Capital Research & Management Company e BlackRock Institutional Trust Company, NA. Nel 2016, la classifica dei primi tre detentori del controllo è simile: Vanguard Group, Inc., BlackRock Institutional Trust Company, NA, Fidelity Management & Research Company. È interessante notare che, dopo la crisi, mentre il numero di mani che tirano i fili del capitale globale diminuisce cospicuamente, il nucleo di giganti della finanza situati al comando della rete mondiale del capitale non muta granché” (p. 118-119).


Il primato dei mercati finanziari non stupisce. Nel capitalismo contemporaneo (quello bio-cognitivo e finanziarizzato, dell’egemonia della produzione intangibile, della vita messa direttamente a valore tramite le piattaforme), i mercati finanziari sono diventati il centro dell’accumulazione e della valorizzazione capitalistica. In un articolo pubblicato più di 10 anni fa, poco dopo la crisi finanziaria globale del 2007-08, scrivevo:


“Il biopotere dei mercati finanziari si è grandemente accresciuto con la finanziarizzazione dell’economia. Se il Prodotto interno lordo del mondo intero nel 2010 è stato di 74 trilioni di dollari, la finanza lo surclassa: il mercato obbligazionario mondiale vale 95 trilioni di dollari, le borse di tutto il mondo 50, i derivati 466 (otto volte di più della ricchezza reale). Tutto ciò è noto, ma ciò che spesso si dimentica di rilevare è che tale processo, oltre a spostare il centro della valorizzazione capitalistica dalla produzione materiale a quella immateriale e dello sfruttamento dal solo lavoro manuale anche a quello cognitivo, ha dato origine ad una nuova “accumulazione originaria”, che, come tutte le accumulazioni originarie, è caratterizzata da un elevato grado di concentrazione. Nel mercato bancario, dal 1980 al 2005 si sono verificate circa 11.500 fusioni, una media di 440 all’anno, riducendo in tal modo il numero delle banche a meno di 7.500 (dati Federal Reserve). Al I° trimestre 2011, cinque società d’affari (J.P Morgan, Bank of America, Citybank, Goldman Sachs, Hsbc Usa) e cinque banche (Deutsche Bank, Ubs, Credit Suisse, Citycorp-Merrill Linch, Bnp-Parisbas) hanno il controllo di oltre il 90% del totale dei titoli derivati (dati OCC, Office of Comptroller of the Currency). Nel mercato azionario, le strategie di fusione e acquisizione hanno ridotto in modo consistente il numero delle società quotate. Ad oggi, le prime 10 società con maggiore capitalizzazione di borsa, pari allo 0,12% delle 7.800 società registrate, detengono il 41% del valore totale, il 47% dei ricavi e il 55% delle plusvalenze registrate”.


Negli ultimi 10 anni gli attori sono cambiati ma la musica è rimasta la stessa. Negli Usa, i dati dell’Office of Comptroller of the Currency (organo indipendente di vigilanza che afferisce al Dipartimento del Tesoro americano) ci dicono che nel secondo quadrimestre del 2022 sul mercato statunitense sono stati scambiati un totale di 193.731.717 milioni di dollari di derivati. Il 95,35% è stato gestito da sole cinque banche d’affari: Jp Morgan Chase Bank per il 29,01%, Goldman Sachs Bank il 25,54%, Citibank National 23,47%, Bank of America, l’11,42%, Wells Fargo Bank, il 5,92%.

A differenza del controllo azionario, occorre ricordare che tali titoli non sono di proprietà delle banche ma sono gestiti per conto degli effettivi proprietari. In questo caso il processo di centralizzazione assume forme nuove. Al “net control” si aggiunge un’altra forma di controllo: quello che non presuppone esclusivamente la “nuda” proprietà, ma la gestione di proprietà altrui. Ciò, tuttavia, non è in contrasto con la tendenza verso una concentrazione proprietaria nel campo azionario, anzi.

Con il ruolo sempre più egemone e pervasivo dei mercati finanziari il processo di centralizzazione /concentrazione dunque si modifica. Non si manifesta più solo nella proprietà azionaria ma nella capacità di indirizzare e organizzare le convenzioni speculative grazie alla messa in moto di aspettative in grado di autorealizzarsi se accompagnate da un adeguato volume di investimenti che solo le grandi multinazionali della finanza sono in grado di fare. Siamo cioè in presenza di un circuito virtuoso per il capitale. La centralizzazione finanziaria della proprietà azionaria favorisce la concentrazione nella gestione dei portafogli finanziari con il duplice effetto di lucrare elevate plusvalenze grazie anche alle tecniche del “payback” e dello “shareback”, ovvero lo scambio reciproco di azioni tra le stesse società finanziarie con lo scopo di far lievitare sia le plusvalenze che il livello di proprietà delle azioni.

Il fenomeno della centralizzazione assume così oggi aspetti inediti rispetto al passato. È questo un aspetto che, a mio parere, non è stato sufficientemente indagato. È anche il risultato di una tendenziale ridefinizione degli assetti geo economici mondiali, che tende a mettere in discussione l’egemonia americana e spinge verso una tendenza multipolare.

Relativamente a questo aspetto, è opportuno parlare di forme diverse di centralizzazione. Al caso Usa, magistralmente descritto nella seconda parte del libro, occorre infatti aggiungere che un simile processo si sta sviluppando in Cina ma con caratteristiche assai diverse. L’acronimo BATX (Baidoo, Alibaba, Tencent e Xiaomi) diventa sempre più l’alter ego dei giganti della Silicon Valley e sempre più si diffondono fondi di investimento collegati a questi grandi imprese cinesi, in parte di proprietà statale: ad esempio, il Fidelity Funds – China Consumer Fund A.

Il crescente ruolo della Cina anche nel campo della finanza è oggi uno degli aspetti più rilevanti anche per spiegare le crescenti tensioni sul piano geo-economico mondiale e sulla tenuta del dollaro come valuta di riserva internazionale dollaro e della borsa americana come luogo simbolo dell’oligarchia finanziaria. Una tendenza, quest’ultima, già in parte preconizzata da Giovanni Arrighi nel suo Adam Smith a Pechino, recentemente ripubblicato ma stranamente ignorato in questo libro.


* * * * *


La complessità e eterogeneità della situazione attuale ci impone, infine, una riflessione di natura metodologica. Il libro di Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti, Stefano Lucarelli ritiene che il sistema capitalistico e la sua evoluzione possano essere descritti da leggi che, a prescindere dai tempi e dai contesti spaziali, siano in grado di definire “scientificamente” (quindi in modo rigoroso e inoppugnabile) le principali linee di tendenza in atto.

La legge più nota e più discussa nell’ambito del dibattito marxista è sicuramene la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto. La legge della centralizzazione del capitale è meno nota ma altrettanto importante ed è rilevante per comprendere l’analisi marxiana. È possibile infatti individuare un nesso tra queste due leggi, che non è il caso di discutere in questa sede. Rimane tuttavia aperta la questione se questi leggi sono universalmente valide nel tempo e nello spazio capitalistico. Al riguardo il testo di Brancaccio, Giammetti e Lucarelli è molto chiaro: l’analisi di Marx si rivela scientificamente corretta alla prova della storia, almeno per quanto riguarda la legge della centralizzazione del capitale. I dati ne confermano la validità anche ai nostri giorni. Ogni interpretazione del pensiero di Marx che non coglie l’oggettività di questa grande legge di tendenza sono in contraddizione con la corretta interpretazione del pensiero di Marx. La critica è chiaramente rivolta a quelle correnti eretiche marxiste che hanno preso origine principalmente (ma non solo) dal pensiero operaista degli anni Sessanta e le sue declinazioni nell’attuale pensiero neo-operaista e che vengono definite “non scientifiche” (p. 10).

Una teoria è scientifica solo se è in grado di suggerire quali esperimenti e osservazioni potrebbero dimostrarla falsa. È il noto principio della falsificabilità della scienza di Karl Popper. Nel nostro caso (la centralizzazione della proprietà), la confutazione della teoria sta nell’applicarla in un contesto non capitalistico di produzione e, di conseguenza, in un contesto capitalistico viene confermata se gli esperimenti e le osservazioni la invalidano.

Ma nel campo delle scienze umane (a differenza di quelle naturali), l’ambito in cui si cerca di mostrare la validità di una teoria è storicamente contestualizzato e le modalità con le quali un dato fenomeno si manifesta sono in continua metamorfosi. Una metamorfosi che il più delle volte è attivata dall’azione umana (oltre che da accadimenti naturali), azione di per sé stessa soggettiva e non misurabile, nonostante i vari tentativi intrapresi in tal senso, soprattutto per quanto riguarda lo studio dell’economia politica.

Le leggi di tendenza di Marx sono valide solo se si definisce il preciso periodo storico di riferimento anche all’interno del periodo capitalistico stesso. La dinamica del capitalismo non è infatti lineare ma ciclica e segnata da rotture; è caratterizzata dalla successione di paradigmi di natura tecnologica (Kondratieff), sociale e politica, che ridefiniscono ogni volta i due perni che definiscono lo stesso sistema capitalistico: la proprietà privata e il rapporto capitale-lavoro come fattori-base da cui estrarre valore di scambio. Ma il loro ruolo non è immutabile nel corso dell’evoluzione del capitalismo. Di conseguenza, le leggi di tendenza che ne scaturiscono (non a caso relative a questi due aspetti: la centralizzazione per quanto riguarda la forma della proprietà e la caduta tendenziale del profitto per quanto riguarda l’estrazione di valore) non possono ripetersi all’infinito allo stesso modo, ma mutano al variare del paradigma socio-economico in quel momento dominante.


Andrea Fumagalli


(Tratto da: http://effimera.org/centralizzazione-della-proprieta-e-capitalismo-contemporaneo-a-proposito-di-la-guerra-capitalista-di-andrea-fumagalli/).


Note

1 Si vedano, ad esempio, Raffaele Sciortino, Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Strutture, strategie, contingenza, Asterios, Trieste, 2022; Marco Ottaviani, La riglobalizzazione. Dall’interdipendenza tra Paesi a nuove coalizioni economiche, Egea, Milano, 2022; Giulio Palermo, Il conflitto russo-ucraino. L’imperialismo americano alla conquista dell’Europa, L.A.D. Gruppo Editoriale, Roma, novembre 2022.

2 Di cui l’ultima edizione è pubblicata da Mimesis con un’introduzione dello stesso Emiliano Brancaccio, 2012.

3 Si veda il seminale testo di Paul Baran e Paul Sweezy, Il capitale monopolistico. Saggio sulla struttura economica e sociale americana, Einaudi, Torino, 1968 (ed. orig. 1966).


Inserito il 26/2/2023.

«La guerra capitalista». Alcune note di lettura

di Raffaele Sciortino*

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«La guerra capitalista». Alcune note di lettura


Nell’attuale temperie politica e culturale in cui, anche e forse soprattutto a «sinistra», per discutere di guerra è d’obbligo prima genuflettersi un consono numero di volte alla vulgata atlantista sull’«aggressione russa», su «Putin criminale al servizio degli oligarchi», sulla «difesa della democrazia ucraina» e via sproloquiando in volgare american-english – un libro come quello di E. Brancaccio, R. Giammetti, S. Lucarelli (BGL), La guerra capitalista, offre una boccata d’aria pura oltre a far tornare coi piedi sulla terra1. E non è forse un caso che la riflessione lì contenuta sulle radici profonde del conflitto in corso non provenga da ambienti di radical left, intrisa di neo-progressivismo woke di importazione anglo-sassone e oramai distantissima da ogni riferimento classista. Ma proviene da studiosi seri (sì, studiosi) che mostrano di saper ricercare e ragionare in gruppo, capacità oggi pressoché scomparse, senza paura di nuotare, oggi, contro la corrente.

L’analisi di BGL, supportata da evidenze empiriche e da una adeguata metodologia quantitativa, mette al centro dei processi in corso la «legge di tendenza» marxiana verso la centralizzazione - da distinguersi dalla «normale» concentrazione - di capitali in oligopoli la cui rete si estende a scala mondiale, e discute dei nessi tra questo processo, da un lato, e la crisi delle democrazia (più precisamente: dell’«ordine liberal-democratico occidentale», p.35) e la tendenza alla guerra inter-capitalistica, dall’altro2. La lettura è tutto fuorché neutrale, si fa immediatamente critica dello stato di cose esistenti: «nel conclamato processo di centralizzazione del capitale e di oligarchizzazione delle istituzioni politiche occidentali, assegnare all’imperialismo degli Stati Uniti e dei loro alleati il ruolo di baluardo delle libertà civili e politiche sta diventando semplicemente grottesco» (p. 13). E lo fa a partire da una chiara collocazione antagonistica rispetto al «nostro» campo: «combattere contro l’imperialismo del proprio paese» (p. 14).

Quanto segue è solo un invito alla lettura con alcune osservazioni, di apprezzamento e di problematizzazione in vista di un ulteriore approfondimento possibilmente collettivo. Vado per punti sintetici chiedendo venia in anticipo per la schematicità di un’articolazione per punti.

Anzitutto alcune importanti e preziose messe a fuoco e implicazioni:

- Ripresa del concetto marxiano di centralizzazione strettamente relazionata agli assetti produttivi delle imprese in questione, al contrario dell’uso spesso fumoso e vago del concetto di finanziarizzazione invalso negli ultimi decenni a cornice del cosiddetto neoliberismo.

- Nesso inequivocabile tra centralizzazione capitalistica e imperialismo nell’accezione marxista «scientifica» del termine – imperialismo non (solo) come politica ma in prima istanza come processo oggettivo che contrassegna una «fase storica» dell’accumulazione capitalistica – con una ripresa del dibattito (non esclusivamente) marxista sul tema e una ricca bibliografia che rimanda non solo ai «classici» ma anche agli anni Cinquanta-Sessanta-Settanta, snodi fondamentali del «nuovo» imperialismo. È l’invito a una ri-tematizzazione, fondamentale e oramai inaggirabile per qualsivoglia strategia politica di lotta al capitalismo.

- Individuazione del nesso centralizzazione-guerra – anche dietro la guerra ucraina – che BGL articolano nel senso di uno scontro inter-capitalistico emergente tra paesi creditori/debitori a scala storica mondiale che radicalizza (à la Lenin?) la concorrenza dal piano economico a quello geopolitico e militare.

- A un livello di analisi di un grado più giù, ma ben ancorato dentro il quadro della riproduzione sistemica (qui letta sul versante delle condizioni di solvibilità degli attori capitalistici istituzionali), il nodo importantissimo del ruolo delle banche centrali come meccanismo di regolazione e dunque di lotta inter-capitalistica tra debitori/creditori, interna e esterna ai singoli paesi, dentro il quadro dei processi di centralizzazione acuiti dalla crisi dell’accumulazione (v. tutto il cap. 7 della prima parte). Riconoscendone dunque la funzione inevitabilmente politica, al di fuori degli schemi neoclassici dell’equilibrio e dell’efficienza di impresa riduttivamente intesa, ma altresì senza concessioni a qualsivoglia versione dell’autonomia del politico, propria delle letture soggettivistiche (il «piano» del capitale) in voga nell’estrema degli anni Settanta (pp. 94-5). Nodo cruciale alla luce delle sempre rinnovantesi «guerre delle valute» (ricordo qui quella dollaro/euro di inizio anni Dieci, pudicamente ribattezzata come crisi dei debiti sovrani europei, ma si potrebbe riandare su su fino alla crisi asiatica del 1997-98) e, su questo punto torno qui sotto, alla luce del ruolo globale del dollaro e delle politiche della Federal Reserve statunitense. Utile anche per iniziare a districarsi nell’intricato groviglio economico attuale tra inflazione e manovre al rialzo sui tassi di interesse e, più in generale, sul possibile sblocco della situazione di «congelamento»3 della crisi debitoria latente e dei (bassi) tassi di fallimento di imprese in Occidente che ha caratterizzato il decennio del Quantitative Easing.

- Non ultimo, impossibilità del riformismo come risposta gradualista al decorso catastrofico del capitale.


Di seguito alcuni punti (per me) problematici, di fondamentale interesse in vista di un possibile approfondimento:

- BGL parlano di due blocchi imperialisti (p.es., p.11), uno dei paesi debitori a guida statunitense, con l’Europa al traino, l’altro emergente dei paesi creditori a guida cinese in ascesa sì, ma resa instabile dall’acuirsi dello scontro con l’egemone Usa. Se intendo bene, saremmo quindi non solo a un blocco a guida cinese già formato, ma anche già ad una sfida nei fatti egemonica – strattono qui un poco gli autori, che paiono cauti al riguardo - di Pechino nei confronti di Washington. Comunque sia, il punto è che intorno alla Cina non si vede (ancora?) un vero e proprio blocco geopolitico fatto di alleanze (non è propriamente tale nemmeno il riallineamento sino-russo), anche se è vero che Pechino grazie alla sua ascesa economica fa sempre più da sponda per tutto un insieme di paesi, al di fuori del cerchio occidentale, visibilmente insoddisfatti di un’egemonia Usa sempre più predatoria, dai ritorni sempre meno win-win. Ciò non è dovuto solo al timore, giustificatissimo, di una scontata reazione rabbiosa degli yankee, alla luce del loro ineguagliato primato nell’hard e soft power geopolitico. Ma, di fondo, è in relazione al ruolo di perno del circuito internazionale dei capitali svolto ancora da Usa e dollaro, senza possibili sostituti in vista sul breve-medio periodo. L’unico sistema di alleanze effettivo – in realtà, di gerarchie vassallatico-tributarie – è al momento ancora solo quello statunitense (al di là di scricchiolii vari e, sperabilmente, in crescita).

- Ciò rimanda a un nodo essenziale: l’asimmetria persistente tra Usa (e mondo occidentale) da un lato e Cina e altri paesi emergenti dall’altro. Un’asimmetria monetaria e finanziaria – ampiamente documentabile, basti pensare alle riserve in dollari e in titoli del tesoro statunitensi che i paesi in surplus commerciale sono costretti a detenere elargendo così prestiti a costi minimi, e con ogni probabilità a fondo perduto, emessi nella moneta fluttuante del debitore – che rimanda altresì in ultima istanza alla divisione internazionale del lavoro. Ora, è vero che Pechino sta cercando di centralizzare i propri capitali (qui il ruolo imprescindibile del partito-stato, che non a caso i «liberalizzatori» di ogni sorta vorrebbero vedere minato) ma, appunto, è ancora in mezzo al guado e gli ostacoli sono tanto ingenti quanto la spinta a superarli4. Detto altrimenti: il sistema mondiale è quello dell’imperialismo (come «stadio di sviluppo») ma non tutti i paesi sono (già) imperialisti pur cercando alcuni di essi, sulla spinta del proprio sviluppo capitalistico interno e delle dinamiche del conflitto di classe, di risalire la gerarchia capitalistica mondiale, in primis le catene del valore cui il mercato mondiale li ha avvinti. Non tutte le centralizzazioni sono qualitativamente uguali e, ancor più, garanzia di accesso al club dominante.

- Quanto sopra si collega allo schema paesi creditori/debitori. Restiamo alla Cina e tralasciamo la difficile collocazione di Germania e Giappone in questo schema. La vera novità dell’imperialismo post anni Settanta – potremmo dire, a partire dallo sganciamento dollaro-oro del ’71, ma già innescata dall’affermazione dell’impresa multinazionale – è una nuova modalità e configurazione via via divenuta strutturale sulla base della quale, per dirla in estrema sintesi, gli Usa dominano non nonostante ma attraverso il deficit della propria bilancia dei pagamenti, crocevia essenziale del complesso intreccio di esportazione e importazione di capitali. L’indebitamento dovuto al doppio deficit, della bilancia dei pagamenti e statale, non sono dunque, in ultima istanza, elementi di debolezza ma di forza, nel senso del funzionamento sistematico e ordinativo del meccanismo di prelievo egemonico (ovviamente assai articolato) e altresì di lubrificazione dei circuiti internazionali dei capitali, cui tutti gli attori sono stati finora costretti ad attingere. Di qui il ruolo internazionale incontrastato, a tutt’oggi, del dollaro non bilanciato né bilanciabile a breve-medio termine se deve essere preservata la riproduzione capitalistica mondiale. Tale elemento di forza (strutturale e quindi strategico per Washington) oggi sempre più si rivela problematico, in quanto vieppiù espropriativo, e innesca reazioni come quella cinese. Ciò non implica però, a mio avviso, alcuna teoria «declinista» sugli Usa, bensì l’incepparsi, per salti, del meccanismo fondamentale della globalizzazione asimmetrica (e qui si tratterebbe di andare alla crisi dell’accumulazione mondiale, e non solo all’ascesa cinese, fattore ovviamente importante). Quella cinese non è dunque una sfida egemonica ma di sopravvivenza (analogamente, ma su un piano più generale, alla mossa militare russa in Ucraina). La strategia Usa del decoupling selettivo non è già una strategia di de-globalizzazione (intenzionale, al di là dell’eterogenesi dei fini che si darà) e di ritiro in un’area circoscritta (che, tutto sommato, starebbe bene a più di un avversario di Washington, a condizione che si formassero circuiti monetari alternativi, pur non antagonistici, e che la UE vi potesse partecipare senza essere scompaginata dagli Usa: ipotesi realistica?) ma di riaffermazione dell’egemonia globale nelle nuove condizioni (esito che considero comunque problematico per ragioni che sarebbe qui lungo argomentare).

- Sul nesso tra centralizzazione e accumulazione: forse si può avanzare l’ipotesi che i due processi, che giustamente il lavoro di BGL differenzia, procedono sinergicamente allorché l’accumulazione funziona (e funge altresì da controtendenza parziale ad una centralizzazione eccessivamente squilibrante), ma con l’incepparsi di questa la centralizzazione finisce col prevaricare e surrogare, per così dire, l’accumulazione? Quindi confermando il nesso tra centralizzazione e crisi capitalistica e, di qui, con la guerra inter-capitalistica. Se è così, si ripropone allora con più cogenza di quanto gli autori lasciano pensare l’intreccio, piuttosto che lo sganciamento, delle leggi generali di tendenza del capitale tra di loro.

- Infine, il nesso centralizzazione-democrazia: tema spinoso, a partire dalla definizione stessa di ciò che si intende per democrazia. Comunque sia, non sarei così sicuro che la «carta democratica» – benchè di un esercizio sempre più formale, a coprire la sostanziale oligarchizzazione della sfera politica – abbia cessato o cesserà di essere giocata dall’Occidente, sia al proprio interno sia come richiamo verso i ceti medi e la gioventù extra-occidentale (come avvenuto in Ucraina nel ’14), come marchio di fabbrica della propria superiorità. È il retaggio di un secolo e passa di imperialismo, e non si supererà facilmente.

Resta per noi – che non siamo neutrali osservatori, pur oggi costretti ad osservare più che a contribuire all’azione collettiva – la questione ineludibile di come tutto ciò si articoli alla lotta di classe, sempre data ancorché resa invisibile o opaca ai suoi stessi agenti, e al suo possibile percorso verso una lotta accompagnata da coscienza di classe, questa non sempre data, anzi oggi apparentemente lontanissima. Comunque sia, i nodi oggettivi individuati da La guerra capitalista ci accompagneranno per un bel pezzo.


Raffaele Sciortino


(Tratto da: https://www.machina-deriveapprodi.com/post/la-guerra-capitalista-alcune-note-di-lettura).


* Raffaele Sciortino, dottore di ricerca in studi politici e relazioni internazionali, è ricercatore indipendente. Si occupa di politica economica internazionale, con particolare riferimento alla globalizzazione, e di geopolitica nel suo intreccio con i movimenti sociali. Ha pubblicato, tra gli altri: I dieci anni che sconvolsero il mondo (Asterios, 2019) e Stati Uniti e Cina allo scontro globale (Asterios, 2022).


Note

1 Uno sguardo critico sul nesso guerra-imperialismo sta a poco a poco emergendo da un insieme di lavori tra i quali Maurizio Lazzarato, Guerra o rivoluzione.

2 Rimando alla recensione di Andrea Fumagalli (http://effimera.org/centralizzazione-della-proprieta-e-capitalismo-contemporaneo-a-proposito-di-la-guerra-capitalista-di-andrea-fumagalli/) per più precisi ragguagli.

3 V.B. Astarian, R. Ferro, Accouchement difficile (https://www.hicsalta-communisation.com/accueil/accouchement-difficile-episode-3-peut-on-mettre-une-crise-au-congelateur).

4 Qui rimando, e mi scuso, alla terza parte del mio libro Stati Uniti e Cina allo scontro globale, da poco pubblicato presso Asterios.


Inserito il 26/2/2023.

Dal sito Marx21.it

Note critiche sulla guerra, la competizione, la centralizzazione e il nuovo conflitto imperialista

di Alberto Gabriele

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Annie Ernaux e Jean-Luc Mélenchon.

Fonte della foto: nouvelobs.com

Dal periodico “Reds”

Annie Ernaux e la letteratura come luogo di emancipazione

di Marcella Conese

Dal n. 1/2023 di “Reds”, foglio di collegamento delle compagne e dei compagni della FILCAMS-CGIL per la sinistra sindacale confederale, traiamo questo interessante articolo di Marcella Conese sul libro Guarda le luci, amore mio, della scrittrice francese Annie Ernaux, premio Nobel per la letteratura 2022.

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Annie Ernaux e la letteratura come luogo di emancipazione


Oltre 140.000 hanno marciato, il 16 ottobre 2022 a Parigi, protestando contro l’inflazione, il carovita, i salari bassi e l’immobilismo sul cambiamento climatico. Una grande manifestazione, poco raccontata dai media italiani, organizzata dal NUPES (l’alleanza dei partiti di sinistra) e che Jean-Luc Mélenchon, leader di France Insoumise (LFI), ha definito “la marcia della gente che ha fame, che ha freddo, che vuole essere pagata meglio”.

Accanto a Mélenchon, alla testa del corteo, Annie Ernaux, premio Nobel per la letteratura 2022, una delle voci più autorevoli della letteratura mondiale.

In occasione della cerimonia di consegna del Nobel, lo scorso 10 dicembre, con voce emozionata ma ferma, ha pronunciato un discorso limpido, che è una dichiarazione sul valore politico della letteratura: “Pensavo orgogliosamente e ingenuamente che scrivere dei libri, diventare scrittore, al termine di una stirpe di contadini senza terra, di operai e di piccoli commercianti, di gente disprezzata per i loro modi, il loro accento, la loro ignoranza, sarebbe bastato a riparare l’ingiustizia sociale della nascita. Che una vittoria individuale potesse cancellare secoli di dominazione e povertà”.

Guarda le luci, amore mio è un libro di meno di 100 pagine, nel quale la Ernaux osserva, annota e racconta i gesti ordinari e ripetitivi del fare la spesa e ne trae un’analisi della società moderna.

La descrizione dello stupore degli abitanti di Kosice, mentre percorrono le corsie del primo ipermercato della città, inaugurato dopo la caduta del regime comunista, mi ricorda la prima volta che ho tentato di fare la spesa in un enorme ipermercato, a Milano… impresa eroica, per me che sono nata e vivo in una piccola provincia del sud Italia.

Non sono riuscita a riempire il carrello, rapita dalla quantità di prodotti che mi circondavano, dalla vastità del luogo e oppressa dalla frustrazione di avere poca dimestichezza con le procedure self service. La voglia di guardare tutto quello che gli scaffali offrivano, la sensazione di girovagare in territori sconosciuti, mi aveva travolto, generando dentro di me bisogni che prima non mi appartenevano e curiosità per tutto quello che avevo attorno, merci e persone.

Il centro commerciale è luogo frequentato da una gran varietà di individui, differenti per cultura, origine, reddito, età, e poiché questa molteplicità ha bisogno di fare la spesa, c’è bisogno di una quantità immensa di merci diverse, per soddisfare molteplici bisogni. Guardando nei carrelli altrui, possiamo avere un’idea del modo di essere e di vivere degli altri, perché il carrello rivela inequivocabilmente il tenore di vita del cliente, per cui servirsi senza guardare il prezzo del prodotto misura la ricchezza, così come rinunciare ad acquistare misura la povertà.

Il centro commerciale è luogo dello sfruttamento del lavoro (chi ci lavora è povero) ed anche il luogo in cui si vende merce a basso costo, prodotta sfruttando altrettanta manodopera.

In una società che si è progressivamente impoverita, a tutti fa comodo comprare una maglietta a 7€ e non importa se è stata prodotta, per esempio, in Bangladesh da minorenni ridotti in condizioni di schiavitù.

Il viavai della gente fa sentire in compagnia chi è solo e chi è triste può trovare consolazione nell’appagamento dei propri desideri.

Dentro la galleria, il meteo è dato insignificante e prescinde dalle stagioni: cambiano gli allestimenti e le merci, ma non la temperatura.

Nonne e mamme provano a resistere ai capricci di figli e nipoti, ma alla fine cedono alle richieste compulsive e pressanti, perché nella società dei consumi, “amare i bambini significa comprar loro più cose possibili”.

Un intreccio di vite e di bisogni, riuniti in un unico luogo, che non ha mai avuto dignità letteraria, forse perché, come spiega la Ernaux, “ciò che non ha valore nella vita, non ne ha nemmeno in letteratura”.

Fare la spesa rientra nello spettro delle attività prevalentemente femminili, che, nella società capitalista, devono restare invisibili, anche se sono essenziali e funzionali alla struttura del sistema.

Solo un Premio Nobel può avere la capacità di prendere un’azione banale come fare la spesa e renderla un’indagine sociologica, che svela a tutti noi meccanismi e contraddizioni sociali che sono sotto gli occhi di tutti senza che nessuno riesca a vederle.


Marcella Conese


(Tratto da “Reds”, n. 1/2023: https://www.lavorosocieta-filcams.it/index.php/periodico-reds).


Inserito il 10/2/2023.

Umberto Galimberti

Feticismo del mercato

Festivalfilosofia 2012

Umberto Galimberti si occupa in questa lezione del feticismo del denaro, per evidenziare il complesso di pulsioni e rappresentazioni che sottendono ai miti contemporanei del mercato e del denaro. 

Va’ via psicologia

di Umberto Galimberti

Quando nel 2005 mi imbattei, non proprio per caso, in questo articolo a firma di Umberto Galimberti, ne fui profondamente colpita; tanto che mi ispirò a creare un personaggio teatrale di fantasia, una sirena inneggiante all’omologazione e a un “sano” realismo. Ma, come si dice, questa è un’altra storia.

Credo che il concetto che maggiormente fece presa su di me fosse che la terapia psicanalitica, attribuendo le cause del dolore esistenziale solo al vissuto personale e alle fragilità individuali, non aiuta la consapevolezza che l’infelicità nasca anche dall’ingiustizia del mondo, anzi rafforza la diffusa rinuncia ad adoperarsi, unirsi e lottare per un cambiamento del sistema.


Barbara Cipriani

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Va’ via psicologia

Dopo aver allentato i legami sociali e i vincoli affettivi, per l’esasperato individualismo ed egoismo che si va diffondendo nella nostra cultura, oggi incominciamo a pagarne i costi in termini di tragedie umane e di inutile dispendio economico.

Se un bambino è un po’ vivace e turbolento, magari perché è chiuso in casa e non ha spazi di gioco dove sfogarsi, o perché è bloccato in un’aula di scuola cinque ore al giorno con spazi ricreativi che si riducono a dieci minuti di pausa, invece di creare strutture dove possa esprimere il suo bisogno di muoversi, gareggiare, primeggiare, viene etichettato come affetto da un “disturbo da deficit di attenzione con iperattività” e, con questa diagnosi, inviato da uno psicologo o curato con farmaci.

Se una mamma non ce la fa più a seguire i suoi bambini nel chiuso di un appartamento, dove il vicino è uno sconosciuto, in quella solitudine che le sequestra e le aliena il suo corpo, il suo tempo, il suo spazio, il suo sonno, la sua vita sociale, e a un certo punto arriva, se non ad ammazzare il figlio, a crescerlo con aggressività o profonda stanchezza e demotivazione, invece di creare strutture educative, nidi, asili, scuole a tempo pieno, le si appioppa una diagnosi di “depressione” e la si manda da uno psicoterapeuta cui versa l’equivalente in denaro della retta di una struttura educativa, che consentirebbe al figlio di crescere bene socializzando, e alla madre di non perdere la stima di sé.

Ho letto recentemente sul “Daily Telegraph” che in America l’80 per cento della popolazione usufruisce di cure psicoterapeutiche (contro il 14 per cento negli anni ’60) mentre il sociologo John Nolan, nel suo recente libro The Therapeutic State, ci informa che: «Negli Stati Uniti ci sono più psicoterapeuti che librai, pompieri, postini, e addirittura due volte più che dentisti e farmacisti. Gli psicologi sono battuti numericamente solo dai poliziotti e dagli avvocati».

Società d’avanguardia come Whitbread Cable and Wireless hanno inserito l’offerta terapeutica nel contratto dei dipendenti, mentre altre forniscono ai propri licenziati assistenza psicologica, quando invece costoro avrebbero bisogno semplicemente di un nuovo posto di lavoro.

Che significa tutto questo? Che le carenze oggettive (come quelle di spazi ricreativi per i bambini, di possibilità occupazionali per i carcerati, di un po’ di tempo libero per le madri relegate in casa, di nuovi lavori per i cassintegrati e i licenziati) non sono più percepite come problemi cui dare risposta sul piano di realtà, ma, per le conseguenze dolorose che determinano, sono lette come disagi psichici da affidare alle cure degli psicoterapeuti o degli psichiatri. In questo modo si diffonde un’“etica terapeutica” che promuove non tanto l’autorealizzazione degli individui, quanto la loro autolimitazione, perché, postulando un sé fragile, debole e in ogni suo aspetto vulnerabile, favorisce la gestione delle esistenze e delle singole soggettività. Queste, a poco a poco, si persuadono che i loro problemi non sono reali, e tali da poter trovare una soluzione in una diversa organizzazione della società, ma sono psicologici, e quindi da risolvere nel chiuso della loro soggettività. Il risultato è che i legami sociali, dove queste difficoltà potrebbero trovare soluzione, non vengono neppure presi in considerazione e, con una lettura perversa che induce a considerare le conseguenze dolorose di un disagio reale come problemi psichici dell’individuo, si favorisce la frammentazione sociale del singoli, sempre più isolati e chiusi nelle loro problematiche, da oggettive a soggettive, attraverso un tortuoso percorso che non porta alla guarigione ma all’alienazione.

Infatti, una volta persuaso di avere un sé fragile e vulnerabile, quindi bisognoso di un supporto, l’individuo finisce con il desiderare l’autorità terapeutica, che agisce in base alla premessa di essere la sola a sapere quali sono i suoi problemi e come si possono risolvere.

Il vissuto di dipendenza che così si diffonde crea una società acquiescente e conformista: quanto di più desiderabile possa attendersi chi esercita il potere. Che sia questo lo scopo finale cui tende questa impropria diffusione dell’etica terapeutica? lo penso di sì. Non basta infatti il “pensiero unico” a creare omologazione e conformismo, occorre anche un “sentire unico”. E cosa, meglio dell’intervento psicoterapeutico, è capace di persuadere che, siccome la società non si può cambiare, come recita quel pessimo vangelo che porta il nome di “sano realismo”, a cambiare devi essere tu, con il sacrificio delle tue aspirazioni e dei tuoi desideri di autorealizzazione, perché più sei conforme e meno sei individuato, tutto funziona meglio, e non occorre investire per promuovere quelle strutture che favorirebbero la tua autorealizzazione, di cui nessuno sente la necessità?

Ma c’è davvero un futuro per società conformi e omologate che si dicono “libere”, mentre all’autorealizzazione degli individui preferiscono la loro autolimitazione? lo penso di no.


Umberto Galimberti


(Tratto da “La Repubblica”, 2/7/2005)


Inserito il 19/1/2023.

Andrea Montagni (Formaggino)

Le cinque bandiere. 1967-2013

Note di vita e appunti raccolti e ordinati da Frida Nacinovich

(Milano, Edizioni Punto Rosso, 2014)

🔴 recensione di Leandro Casini 🔴

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Recensione del volume: Andrea Montagni (Formaggino), Le cinque bandiere. 1967-2013, Milano, Edizioni Punto Rosso, 2014

Andrea Montagni, nome di battaglia Formaggino, lo conobbi durante l’occupazione della Facoltà di Lettere all’Università di Firenze. Noi eravamo la Pantera 1990, lui aveva interlocuzioni strette con noi in quanto segretario della CGIL del settore Università.

“Noi” eravamo alcuni membri del collettivo Studenti di Sinistra di Lettere, e gli incontri riguardavano principalmente una gestione dell’occupazione da parte nostra che non entrasse in contrasto con l’opera svolta dai lavoratori della Facoltà. Noi, come collettivo, eravamo politicamente un gruppo eterogeneo: chi era iscritto (o lo era stato) al Partito Comunista Italiano o alla sua Federazione giovanile, chi aderiva a Democrazia Proletaria, chi era un “cane sciolto”, chi era di provenienza trotskista e chi di formazione togliattiana, chi, come me, era cossuttiano ed era stato filosovietico (l’Unione Sovietica stava allora vivendo il suo crepuscolo, e il sistema dei paesi socialisti era già dissolto), chi era antisovietico viscerale, chi era cattolico progressista, chi ateo, chi agnostico, ecc. ecc.

Non so come, ma mi ritrovai subito in una certa sintonia – invero più storico-culturale che politica – con Montagni per qualche suo accenno a Stalin come bonaria provocazione rivolta a dei compagni trotskisti che lui conosceva già: quelle piccole provocazioni, tra il serio e il faceto, che i toscanacci spesso si lanciano a vicenda senza che ciò ponga limiti ad amicizie o alla stima reciproca.

Dopo il periodo universitario lo incrociai soltanto a qualche iniziativa di Rifondazione Comunista, poi ho solo avuto contatti virtuali, tramite Facebook, in cui lui è seguitissimo mattatore, esperto come pochi di storia del movimento comunista internazionale e attento osservatore di tutte le vicende che sconvolgono il nostro mondo ai nostri tempi.

Poi, un giorno di qualche anno fa, vedo su Internet la copertina di un libro in cui lui, giovane, marcia in bianco e nero con cappotto e ombrello a fianco di altri giovani in eskimo, in prima fila sotto uno striscione. Titolo del volume: Le cinque bandiere. 1967-2013 (Milano, Edizioni Punto Rosso, 2014). Una sorta di memoria che raccoglie dal passato e riporta alla luce la vita di un militante attraverso le organizzazioni in cui è stato parte attiva e non certo marginale. Come scrive Frida Nacinovich nel breve saggio introduttivo,


Montagni guarda con immutato affetto le cinque bandiere all’ombra delle quali è cresciuto ed è diventato uomo. I marxisti-leninisti, Lotta Continua, Democrazia Proletaria, Rifondazione Comunista, e il sindacato. La CGIL. Tutte le sfumature del rosso per una storia che, a dispetto delle apparenze, ha avuto una logica coerente. Quella di un conservatore comunista.1


Prima di ripercorrere la propria vita di militante l’Autore accenna alle proprie origini in una famiglia piccolo-borghese, padre democristiano, nonno materno prima socialista interventista poi mussoliniano. Ma le sue curiosità politiche vengono orientate dal fratello maggiore, «il primo comunista di casa».

Poi, nell’adolescenza, la frequentazione della Casa del popolo e i primi contatti con compagni di diverso orientamento, FGCI2, PSIUP3, e a un certo punto il primo impegno in prima persona e l’ingresso nell’organizzazione giovanile del Partito Comunista d’Italia (marxista-leninista), di ispirazione maoista e quindi frontalmente avverso alle scelte ideologiche e strategiche del PCI e del PSI. L’attivismo nelle fila marxiste-leniniste è la prima palestra del giovanissimo Montagni, una palestra per la formazione sia di una base ideologica che di un saper fare politico e organizzativo: studio dei classici del marxismo, discussioni, volantinaggi, affissione di manifesti, manifestazioni…

L’entrata in crisi dell’area dei marxisti-leninisti, dilaniati da lotte intestine e scissioni, porta il giovane Montagni a scegliere di cambiare rotta, pur con non poco travaglio interiore. È il 1970 quando entra in Lotta Continua, un’organizzazione ideologicamente distante dall’area di appartenenza precedente.

In questo movimento politico Formaggino si fa le ossa nel vero senso della parola. A Firenze nei primi anni Settanta il clima è rovente, gli scontri di piazza avvengono su tre fronti: contro la polizia durante le numerose manifestazioni, contro gli altri movimenti e partiti rossi – perché anche lo scontro fisico fa parte dello scontro ideologico (e chi viene dalla nostra storia lo sa bene) – e contro i fascisti. Al Montagni, elemento di punta dell’attivismo di LC a Firenze, vengono tesi vari agguati dai militanti di destra, tanto che l’organizzazione a metà anni Settanta decide il suo trasferimento a Roma, dove lavora alla redazione esteri del giornale dell’organizzazione, che naturalmente, con poco sforzo di fantasia, si chiama anch’esso “Lotta Continua”. Da qui l’inizio di una carriera di giornalista militante, analista e cronista politico.

Se dopo qualche anno decide di uscire dal movimento è perché ne vede esaurita la funzione: una parte di Lotta Continua guarda ai socialisti e ai radicali, un’altra parte viaggia verso l’Autonomia Operaia, con alcuni compagni che fanno scelte ancor più drammatiche.

Nel 1977, tornato a Firenze, rientra nel Partito Comunista d’Italia (marxista-leninista) e lavora come redattore dell’organo del partito, il settimanale “Nuova Unità”. Ma in quel periodo la galassia marxista-leninista sta vivendo la sua crisi definitiva, e la disgregazione porta i gruppi m-l italiani a non risollevarsi più.

Restano comunque forti i legami con i compagni di quest’area, e insieme ad alcuni di essi Montagni decide di concentrare la propria attività nel sindacato. Entra nella CGIL, militando sempre nelle componenti di sinistra di quel sindacato, del quale diventa dirigente. Attraversa in CGIL vari incarichi, uffici, settori, fino a diventare segretario generale della CGIL Università, segretario regionale toscano e così via; tutt’oggi è dirigente dello SPI, il sindacato dei Pensionati.

Al sindacato entra in contatto con alcuni compagni di Democrazia Proletaria, altra bandiera di cui parla il libro. DP è stata un’isola politicamente interessante, un esperimento secondo me abbastanza riuscito, almeno per un certo periodo, a cui approdano compagni da tutte le possibili esperienze politiche di sinistra più o meno estrema precedenti. Non deve pensarla allo stesso modo il nostro Autore, visto che nel suo bilancio di quell’esperienza usa delle parole forti:


Ho sempre trovato DP un’organizzazione fortemente anticomunista, con una presenza insopportabile di posizioni non marxiste.4


Del resto, con Democrazia Proletaria ha un rapporto da “indipendente”, e ne prende la tessera solo al momento finale per partecipare all’ultimo congresso al fine di votare per il suo scioglimento.

Alla fine degli anni Ottanta entra in contatto con settori della sinistra PCI che avversano la linea ufficiale di quel partito, ormai alla deriva dal punto di vista ideologico, non avendo più come riferimento ideale gli insegnamenti di Marx e Lenin, e non vedendo più nella rivoluzione d’Ottobre del 1917 in Russia una fonte di ispirazione nella lotta per il cambiamento del mondo.

Dalla dissoluzione del PCI, che si trasforma in Partito Democratico della Sinistra sotto la spinta del crollo a un tempo materiale e simbolico del Muro di Berlino, nasce una rinnovata forza comunista, che per qualche anno trova ampi consensi nel mondo del lavoro e giunge, nella seconda metà degli anni Novanta, a percentuali elettorali del tutto dignitose: il Partito della Rifondazione Comunista. Montagni vi aderisce cosciente delle contraddizioni che segnano il gruppo dirigente del partito, e che con la segreteria Bertinotti non possono che esplodere.

Per quel che riguarda la federazione fiorentina di Rifondazione Comunista, nel libro si ricostruiscono alcuni interessanti passaggi e retroscena degli scontri politici interni.

La rossa bandiera che con più orgoglio tiene ancor oggi in mano il compagno Montagni è quella della CGIL. È indubbio il valore che per Montagni ha avuto e continua ad avere l’impegno sul fronte sindacale, e va apprezzato l’entusiasmo con cui continua a spendere le proprie forze al servizio dei diritti dei lavoratori; e per non perdere il vizio della scrittura politica, dirige anche un mensile dell’area di sinistra del sindacato dalla testata inequivoca: “Reds”5.


Vivo la mia militanza sindacale – scrive – come la continuazione della militanza politica giovanile. Questo è il mio modo di restare legato alla classe lavoratrice. […] Ho aderito al marxismo dal punto di vista teorico ma anche psicologico. Penso che sia un modello indispensabile all’evoluzione della specie umana, senza il quale l’umanità è condannata alla barbarie. Per me è una religione laica. Non c’è comunismo senza la classe lavoratrice. Il mio non è il comunismo della decrescita, non è il comunismo del “siamo tutti fratelli”, non è il comunismo della ripartizione in parti uguali di tutto, è il comunismo della proprietà collettiva dei mezzi di produzione, della trasformazione dei rapporti sociali. È il comunismo come futura umanità.6


L’esperienza impone a ciascuno di noi di guardarsi indietro, e non mancano in Montagni ripensamenti e nuove valutazioni: l’ingresso in Rifondazione Comunista, per esempio, è a suo tempo la maniera per lui per riconciliarsi con il PCI, partito in cui non era mai entrato, e aderire alla componente cossuttiana implicava una rivalutazione delle figure di Togliatti, Longo e Amendola.

Le riflessioni talvolta portano all’autocritica, che noi comunisti un tempo ritenevamo una sana pratica; Montagni non esita a ricorrervi con sincerità:


Credo di aver avuto ragione piuttosto spesso, anche se ho sbagliato i luoghi dove condurre le mie battaglie. Il primo errore nel 1969, sarei dovuto entrare nella FGCI invece di aderire all’Unione della Gioventù Comunista marxista-leninista. Il partito dei comunisti italiani era il PCI, non certo i gruppi politici che gli gravitavano intorno in polemica permanente. Detto da un militante che ha passato vent’anni fuori dal PCI può apparire curioso.7


Nel complesso, si tratta di un volume di memorie che è anche un libro di storia, pur parziale, della sinistra a Firenze e in Italia e che, tramite il microcosmo di un militante, permette di attraversare i decenni del dibattito politico che va dal 1970 ai primi 2000. La scrittura fluida, la sincerità di analisi, la schiettezza di giudizio su fatti, movimenti e persone non fanno che aumentare il valore di quest’opera di memoria politica. Non c’è reticenza in queste sue memorie, non ci si sottrae a giudizi su eventi cruciali della storia italiana e anche drammatici, come per esempio l’omicidio del commissario Luigi Calabresi che fece seguito a quello dell’anarchico Giuseppe Pinelli (la celebre “caduta” da una finestra della Questura di Milano). Certo, si può dissentire da alcuni dei giudizi netti che l’Autore ha il coraggio di fornire: io, per esempio, che non ho mai aderito a DP, trovo un po’ troppo liquidatorio quello che scrive di questa organizzazione.

Mi sembra giusto riportare infine la sua postilla:


Rileggendo quel che ho scritto finora mi sono accorto che l’organizzazione dei capitoli conclude il libro con una nota di amarezza e pessimismo che non vorrei trasmettere ai miei lettori, se ci saranno.

Voglio rassicurare tutti: l’umanità ha un futuro radioso davanti a sé se diventa padrona del proprio destino, se si emancipa dalla superstizione, dallo sfruttamento e dalla miseria materiale e spirituale. La lotta per una società di liberi e uguali alimenta concretamente questa prospettiva. Vale la pena farla, anche per se stessi, non solo per gli altri.

La vita del militante è una vita piena, ricca, la consiglio anche oggi. Tornassi indietro ricomincerei!8


Bene, compagno Montagni, la chiudo qui. O forse la chiudo come l’avremmo chiusa in coro tutti insieme un tempo: Viva Marx! Viva Lenin! Viva Mao Zedong!


Leandro Casini

Note

1 Frida Nacinovich, Sale e pepe, in Andrea Montagni (Formaggino), Le cinque bandiere. 1967-2013, Milano, Edizioni Punto Rosso, 2014, p. 7.

2 Federazione Giovanile Comunista Italiana, l’organizzazione giovanile del PCI.

3 Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, nato nel 1964 da una scissione della corrente di sinistra del PSI e attivo fino al 1972.

4 Andrea Montagni (Formaggino), Le cinque bandiere, cit., p. 45.

5 Lo si trova anche in edizione online: https://www.lavorosocieta-filcams.it/

6 Andrea Montagni (Formaggino), Le cinque bandiere, cit., p. 19.

7 Ibid., pp. 19-20.

8 Ibid., p. 121.


Inserito il 9/1/2023.

Inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia

a cura di Paolo Mencarelli

(Milano, Biblion Edizioni, 2019)

Per gentile concessione dell’autore, riportiamo sotto un estratto dall’Introduzione a questa riproposizione di un’Inchiesta condotta dai redattori del giornale socialista “Avanti!” negli anni 1921-1922 per documentare le violenze che in quel periodo di crisi economica e sociale post-bellica il movimento dei Fasci Italiani di Combattimento mise in opera in tutto il territorio nazionale.

In quegli anni, e in particolare durante la campagna elettorale della primavera 1921, le squadracce fasciste misero in atto aggressioni ad avversari politici, incendi di sedi dei partiti di sinistra e dei loro organi di stampa, devastazioni di camere sindacali del lavoro e società operaie di mutuo soccorso. Queste “gesta” dei manipoli di camicie nere ricevettero spesso l’appoggio e il finanziamento della borghesia industriale e della classe dei proprietari terrieri, in periodi di proteste e scioperi operai contro il carovita e di tentativi di occupazioni di terre; non mancò neanche ai fascisti una discreta dose di connivenza da parte delle forze dell’ordine del Regno.

Riproporre al lettore di oggi questo documento d’epoca di notevole valore storico è, secondo noi, un’operazione di riaffermazione della verità storica meritevole del massimo apprezzamento. Viviamo in tempi in cui alcune massime cariche istituzionali tendono non a nascondere, ma piuttosto a rivendicare le proprie origini politiche ispirate al fascismo, e in campo storico e giornalistico da troppo tempo ormai si fa passare nell’opinione pubblica l’idea “dolciastra” che il fascismo italiano fu una dittatura all’acqua di rose al confronto con altre, che il primo periodo del fascismo fu quello dell’affermazione di una rivoluzione di idee che soltanto in seguito, con la gestione del potere, deviò dagli ideali originari, fino all’alleanza con il nazismo, che per alcuni non sarebbe del tutto coerente: alleanza che condusse l’Italia alla vergogna delle “Leggi sulla Razza” del 1938 e alla disastrosa avventura della guerra mondiale. L’Inchiesta dei socialisti di allora dimostrava invece che già dai primordi il fascismo aveva in sé un netto carattere di violenza e di sopraffazione, in quanto – nella sostanza – braccio armato della parte più reazionaria della borghesia italiana.

Il curatore, Paolo Mencarelli, dottore di ricerca in Teoria e storia della modernizzazione e del cambiamento sociale in età contemporanea, collabora da lunga data con l’Istituto Storico della Resistenza in Toscana. La Prefazione è di Paolo Bagnoli, professore ordinario di Storia delle Dottrine Politiche, già direttore dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana.

L.C.

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INTRODUZIONE

È un’amara e accorata denuncia quella contenuta in un agile libretto edito dalla Società editrice Avanti!, tirato in poche copie e distribuito ai deputati della nuova Camera durante la prima seduta dell’11 giugno 1921 che apre i lavori parlamentari della legislatura (la XXVI del Regno d’Italia). copertina grigia e i caratteri in nero del titolo Fascismo: primi elementi di un’inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia,1 racchiudono una assai parziale ma già impressionante documentazione sulle violenze fasciste che avevano caratterizzato i mesi della campagna elettorale. La pubblicazione avviene, infatti, a ridosso della più intensa tra le ondate di violenze squadriste, quella scatenata tra il marzo e il maggio 1921, proprio in vista delle elezioni politiche che vedranno per la prima volta la presenza di un gruppo di 35 deputati mussoliniani eletti nelle liste dei Blocchi nazionali. Promosse da Giovanni Giolitti, le liste raggruppavano in chiave essenzialmente antisocialista forze eterogenee, dai liberali ai popolari fino appunto ai fascisti, il cui pur modesto risultato commisurato ai 123 seggi del PSI e ai 108 del Partito popolare segnava comunque una svolta rispetto alle precedenti elezioni del 19 novembre 1919, in cui le liste del neonato movimento avevano raccolto pochissimi voti restando fuori dal Parlamento.

Mentre la crisi del sistema liberale si accentuava e con la fine dell’occupazione delle fabbriche sembrava esaurirsi l’azione rivendicativa (e almeno a parole rivoluzionaria) del movimento socialista, per i Fasci di combattimento si apriva una fase di attivo protagonismo. Rappresaglie e spedizioni punitive contro sedi municipali, sezioni socialiste e comuniste, cooperative e camere del lavoro, ma anche ritorsioni contro camicie nere e scontri con carabinieri e Guardia regia da parte di militanti del mondo operaio, contrassegnano il periodo della campagna elettorale: in particolare tra l’8 aprile e il 14 maggio 1921 si contano 105 morti e 431 feriti, mentre nella sola giornata del 15 maggio le statistiche della Direzione della Pubblica sicurezza parlano di 29 morti e 104 feriti.2

Un clima di estrema tensione che del resto non manca di investire lo stesso Parlamento quando, il 13 giugno 1921, pochi giorni dopo la distribuzione dell’Inchiesta, un gruppo di deputati fascisti impedisce con la forza l’ingresso in aula di Francesco Misiano, eletto nelle liste del Partito comunista d’Italia. Il libretto, accusato di unilateralità dal “Corriere della sera” per aver taciuto gli episodi violenti di parte socialista, non passò inosservato e innescò una serie di polemiche sulle “cifre di sangue” destinate a rinnovarsi tanto nella stampa di vario orientamento quanto nelle stesse aule parlamentari.3 Stabilire un conteggio preciso del numero delle vittime è ancora oggi non facile. Dagli attenti studi di Mimmo Franzinelli e Fabio Fabbri sulle fonti disponibili, da quelle istituzionali e statali e da quelle giornalistiche, sembra attendibile una valutazione di circa 3000 vittime dall’incendio dell’“Avanti!” di Milano (aprile 1919) alla marcia su Roma (ottobre 1922), mentre solo tra l’8 aprile e il 15 maggio 1921 si può valutare attendibile una cifra intorno ai 170 morti.4

Le 179 pagine del libro sono un primo parziale reportage, una sorta di instant book, “primi elementi” appunto sulle violenze, i ferimenti, le uccisioni e le devastazioni compiute dalle squadre fasciste nella prima fase della loro attività, in poco meno di due anni. La prima edizione presenta notizie relative solo ad alcune zone: nella prefazione, che riproduciamo, si fa cenno a “un cumulo di circostanze” che non avrebbero consentito la presentazione di tutti i materiali disponibili e si rimandava a una successiva relazione più completa e dettagliata. Nel “cumulo” ci sono sicuramente proprio le difficoltà materiali a raccogliere e ordinare relazioni che continuavano ad arrivare alla redazione milanese del giornale, il vero e proprio centro di raccolta di una “inchiesta” concepita per dare un quadro di carattere nazionale il più esaustivo possibile, ma che aveva anche e soprattutto la necessità, tutta politica, di arrivare alla pubblicazione in tempi utili per una efficace azione di denuncia immediata all’opinione pubblica e alle istituzioni: da qui la fretta di arrivare a distribuire il libro durante la prima seduta del nuovo Parlamento.

La promessa di provvedere a una pubblicazione più completa fu comunque mantenuta con la seconda edizione ampliata, qui riproposta, che uscì nel marzo 1922 (sempre però con fatti risalenti a prima del giugno 1921), poco prima di un nuovo assalto alla sede milanese del giornale, in via Settala, dopo quello che aveva in un certo senso inaugurato le imprese dello squadrismo, avvenuto il 15 aprile 1919.5 Arricchito questa volta di oltre 500 pagine, con un impressionante apparato di foto di circoli e società operaie incendiate e di alcuni tra i militanti uccisi, insieme a dolenti indici di morti, feriti e sedi distrutte, l’uscita del libro può essere considerata uno sforzo notevole da parte della casa editrice legata a un Partito socialista ormai in piena crisi politica e organizzativa, una crisi che aveva già portato nel gennaio 1921 alla formazione del Partito comunista d’Italia e che vedeva una frammentazione politica e organizzativa esasperata dalle lotte di corrente.6 Nel periodo intercorso tra la prima edizione (giugno 1921) e la seconda (marzo 1922) si era interrotta la raccolta di materiali anche per il sopraggiunto “patto di pacificazione” dell’agosto 1921. Proprio per le circostanze sopra indicate il libro ebbe una modesta circolazione, anche se, come già detto, non passò inosservato. Inchiesta e denuncia rimangono perciò i tratti salienti anche di questa seconda edizione, a partire dal titolo più definitorio: Fascismo: inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia e dall’assenza di un proposito di analisi politica del fenomeno fascista nella sua espressione squadrista. Ovvio che, pur non essendo questa la finalità, sarà però a questo volume che si rifaranno, come si vedrà, le prime analisi del fenomeno squadrista e fascista, a partire dal saggio di Angelo Tasca scritto in Francia nel 1938.7

Il testo che qui proponiamo integralmente, con poche rettifiche perlopiù formali, compreso l’apparato fotografico originale, è appunto quello della seconda edizione. Il ricco corredo di immagini non trovò invece spazio quando, nel 1963, le Edizioni Avanti! di Gianni Bosio ripubblicarono, per il n. 69 della collana “Omnibus - Il gallo”, il testo del 1922. Il materiale fotografico venne, infatti, ridotto a 8 pagine, riguardanti soltanto le sedi devastate e una breve introduzione di Luigi Ambrosoli.8 La nuova edizione del 1963 si situa nel clima della ripresa dell’antifascismo dopo le giornate del luglio 1960, con le aperture del governo Tambroni al Movimento Sociale, ma occorre tenere presente che per le Edizioni Avanti! di Bosio la riproposta di un titolo come questo non era certo casuale, bensì si inseriva in un filone di interesse verso il primo dopoguerra che aveva già spinto alla pubblicazione, tra gli altri, di testi come Il Diciannovismo di Pietro Nenni.9

Perché una nuova edizione di un testo come questo sullo squadrismo fascista nella fase della sua piena affermazione? La difficile reperibilità di un libro importante, se non altro come testimonianza di parte (quella sconfitta) e comunque citato da tutti i più attenti studi sull’argomento, a partire dal già menzionato saggio di Angelo Tasca, ormai un classico, fino ai più recenti e aggiornata, non è certo l’unica motivazione. La prima spinta, lo diciamo chiaramente, è reagire alla ormai consolidata tendenza degli ultimi due decenni a considerare il fascismo un regime “da operetta”, animato da una volontà di pulizia morale corrotta solo quando si forma il regime o quando Mussolini adotta le leggi antiebraiche e si lancia nell’impresa bellica cedendo alla “brutale” amicizia con la Germania nazista.10 In realtà, proprio se comparata con l’esperienza tedesca delle SA (Sturm Abteilungen, le camicie brune naziste, che trassero abbondante ispirazione dalle mussoliniane camicie nere), quella dello squadrismo italiano appare per radicalità, tecnica della violenza di piazza, numero delle uccisioni e degli episodi violenti un’esperienza di primo piano a livello internazionale, che fornì un triste esempio per i movimenti di estrema destra sorti negli anni Venti e Trenta del Novecento, con alterne fortune, in varie parti d’Europa; un’escalation di violenza che negli ultimi anni ha sollecitato un’attenzione sempre più significativa da parte degli studiosi.11 […]

Paolo Mencarelli


(Brano tratto da: Paolo Mencarelli [a cura di], Inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia, Milano, Biblion Edizioni, 2019, pp. 9-12).

Note

1 Milano, Società editrice Avanti!, 1921.

2 Cfr. Fabio Fabbri, Le origini della guerra civile. L’Italia dalla Grande Guerra al fascismo. 1918-1921, Torino, Utet, 2009, che dedica particolare attenzione alle “elezioni della reazione” (pp. 518-519, 532-533) e soprattutto corredato da appendici molto utili, in particolare la prima “Statistiche della violenza” (pp. 615-622). Le statistiche sulle vittime della violenza politica della Direzione generale della Pubblica sicurezza sono state pubblicate integralmente in Emilio Gentile, Storia del partito fascista 1919-1922. Movimento e milizia, Bari, Laterza, 1989 (pp. 472-475). Le violenze non risparmiarono la stampa socialista e la casa editrice legata al PSI, le librerie, le biblioteche popolari e le tipografie (a Rovigo si impedì la pubblicazione del settimanale, furono minacciati gli uffici postali; a Pola fu incendiata la tipografia de “Il Proletario”). Sul lavoro di raccolta di dati fatto da Gaetano Salvemini nella prospettiva di un “calendario dei morti” per mano fascista prima della marcia su Roma, vedere Giovanni Scirocco, Un dialogo non interrotto: Arfè e Salvemini tra storia e politica, in “Passato e Presente”, n. 77 (2009), pp. 71-73.

3 Cfr. Mirco Dondi, La stampa liberale di fronte allo squadrismo e al fascismo (1919-1922), in “Mondo contemporaneo”, fasc. 2 (2017), pp. 5-34.

4 Cfr. Mimmo Franzinelli, Squadristi: protagonisti e tecniche della violenza fascista. 1919-1922, Milano, Mondadori, 2003. Di grande utilità per una più ampia conoscenza del fenomeno squadrista sono in particolare gli “apparati”, con un “Dizionario biografico dello squadrismo”, contenente cento profili dei principali squadristi, molti dei quali citati nell’Inchiesta, e una “Cronologia della violenza politica (1919-1922)”. Cfr. anche Fabio Fabbri, Le origini della guerra civile, cit., pp. 617-618. Per parte fascista, Giorgio Alberto Chiurco, squadrista lui stesso e primo storiografo del movimento, nella sua monumentale Storia della rivoluzione fascista, Firenze, Vallecchi, 1929, parla di un totale di 180 vittime tra gli squadristi negli anni 1919-1923. Da vedere anche le considerazioni di Salvatore Lupo in Il fascismo: la politica di un regime totalitario, Roma, Donzelli, 2000, pp. 106-107, nel quale si parla di circa 3000 morti solo nel periodo 1921-1922 e di 672 morti fascisti tra il 1919 e il 1922. Per un quadro generale dell’esperienza squadrista anche negli anni del regime, cfr. Matteo Millan, Squadrismo e squadristi nella dittatura fascista, Roma, Viella, 2014.

5 Prendendo a pretesto l’attentato al Teatro Diana il 23 marzo 1922, operato da alcuni anarchici che intendevano rispondere alla carcerazione di Enrico Malatesta, gli squadristi assaltavano la nuova sede del quotidiano socialista in via Settala 22, dove pochi giorni prima era stata pubblicata l’edizione del libro. Dopo essersi aperti una breccia con le bombe e aver incendiato i capannoni con carta e macchinari, gli assaltatori impedirono ai pompieri di intervenire.

6 Tra le sintesi sulla storia del PSI, e in particolare del periodo in questione, si rimanda in particolare a Maurizio Degl’Innocenti, L’età giolittiana, in Storia del socialismo italiano, a cura di Giovanni Sabbatucci, Roma, Il Poligono, 1980-81, vol. II.

7 Angelo Tasca, Nascita e avvento del Fascismo, a cura di Sergio Soave, Firenze, La Nuova Italia, 1996. La prima edizione uscì per Gallimard nel 1938 durante l’esilio dell’autore. In italiano venne pubblicata da Laterza nel 1965 e più volte riedita. A cura di David Bidussa la nuova edizione, con il titolo Nascita del Fascismo, Bollati Boringhieri, 2006.

8 Fascismo: inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia, Milano, Edizioni Avanti!, 1963.

9 Pietro Nenni, Il Diciannovismo (1919-1922), a cura di Gioietta Dallo, Milano, Edizioni Avanti!, 1962.

10 Cfr. Stefano Pivato, Vuoti di memoria: usi e abusi della storia nella vita pubblica italiana, Roma-Bari, Laterza, 2007; Angelo Del Boca (a cura di), La storia negata: il revisionismo e il suo uso politico, Vicenza, Neri Pozza, 2009. Sulla figura edulcorata e quasi bonaria di Benito Mussolini, e sull’immagine del fascismo nei giornali popolari, vedere l’intervista di Marco Dotti a Mimmo Franzinelli: La fabbrica del consenso, in “Il Manifesto”, 24 maggio 2013. Sul modello del fascismo italiano in chiave europea, cfr. Giulia Albanese, Dittature mediterranee. Sovversione fascista e colpi di stato in Italia, Spagna e Portogallo, Bari, Laterza, 2016.

11 Tra la vastissima bibliografia italiana e internazionale sull’argomento si segnalano almeno: Sven Reichardt, Camicie nere, camicie brune. Milizie fasciste in Italia e in Germania, Bologna, Il Mulino, 2009; Robert O. Paxton, Il fascismo in azione: che cosa hanno veramente fatto i movimenti fascisti per affermarsi in Europa, Milano, Mondadori, 2005.


Inserito il 29/12/2022.

Stefano Gallerini

Antifascismo e Resistenza in Oltrarno

Storia di un quartiere di Firenze

(Firenze, Carlo Zella Editore, 2014)

Per gentile concessione dell’autore, riportiamo l’Introduzione a questa approfondita ricerca sull’antifascismo popolare nel quartiere fiorentino d’Oltrarno.

Il rigoroso lavoro d’indagine di Gallerini non si limita al Ventennio fascista e alla fine ingloriosa del Regime visti attraverso il microcosmo di un quartiere popolare, ma risale alle radici storiche di quel periodo per contestualizzarlo, iniziando da uno studio del tessuto sociale ed economico dell’Oltrarno a partire dall’Unità d’Italia, fornendo analisi basate su dati statistici e urbanistici, sui censimenti, sull’esame delle condizioni di vita e di lavoro degli abitanti.

Un’importante sezione del volume è poi dedicata allo studio del fascismo e dell’antifascismo nel quartiere durante tutto il Ventennio, un periodo in cui il fermento popolare trovava espressione in episodi di lotta attiva e di resistenza passiva a determinate imposizioni, di disubbidienza e di renitenza alla leva.

Chiude il libro il capitolo che prende in esame le vicende che hanno segnato l’Oltrarno durante la guerra fino alla Resistenza e alla Liberazione di Firenze nel 1944, un movimento di popolo cui la gente del quartiere ha dato un contributo fondamentale ed eroico.

L.C.

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Antifascismo e Resistenza in Oltrarno

di Stefano Gallerini

INTRODUZIONE


«La storia dei gruppi sociali subalterni è necessariamente disgregata ed episodica. E’ indubbio che nell’attività storica di questi gruppi c’è la tendenza all’unificazione sia pure su piani provvisori, ma questa tendenza è continuamente spezzata dall’iniziativa dei gruppi dominanti, e pertanto può essere dimostrata solo a ciclo storico compiuto, se esso si conchiude con un successo. I gruppi subalterni subiscono sempre l’iniziativa dei gruppi dominanti, anche quando si ribellano e insorgono: solo la vittoria “permanente” spezza, e non immediatamente, la subordinazione. In realtà, anche quando paiono trionfanti, i gruppi subalterni sono solo in stato di difesa allarmata»1. Queste parole, scritte da Antonio Gramsci nel 1934, rinviano implicitamente alle difficoltà di fronte alle quali si trova, sul piano metodologico, lo storico che si propone di ricostruire eventi e processi che hanno come protagonisti quelli che Gramsci chiama i “gruppi sociali subalterni”: la disomogeneità e la frammentarietà delle fonti, la scarsità dei documenti, che se ci sono, sono in massima parte elaborati ed organizzati dagli apparati dello stato e rispecchiano quindi la cultura e il punto di vista delle classi dominanti, la scivolosità della storia orale – spesso e volentieri l’unica fonte a cui attingere per restituire ai ceti popolari la loro voce. Se, poi, questo programma di ricerca si colloca, cronologicamente parlando, nel periodo fascista, le difficoltà a cui si faceva prima cenno aumentano esponenzialmente, in quanto con il fascismo ci si trova di fronte ad un esperimento totalitario che si prefiggeva l’obiettivo di non lasciare spazio alcuno di espressione ed organizzazione alle classi popolari, la cui attività, per dirla con Gramsci, risultava anzi «continuamente spezzata» dall’iniziativa degli apparati coercitivi e repressivi della dittatura fascista2. Nonostante tutte le difficoltà appena esposte, utilizzando come chiave di lettura la categoria interpretativa dell’antifascismo popolare3, si è potuto assistere in anni recenti alla fioritura di molti studi che hanno posto al centro delle loro ricerche l’antifascismo espresso  dai ceti popolari e gli ambienti in cui questo si è sedimentato e sviluppato: questa linea di ricerca si è dimostrata particolarmente feconda e vitale specialmente se applicata allo studio delle condizioni di vita delle classi popolari delle grandi aree urbane, come, per esempio, Torino4, Milano5, Napoli6 e soprattutto Roma7

Per quanto riguarda Firenze, come sottolinea Renzo Martinelli, nell’introduzione ad un suo interessante lavoro sulle “informazioni fiduciarie” degli anni della seconda guerra mondiale, «non sono davvero molti i contributi, rivolti specificamente ad approfondire la vita sociale della città fra le due guerre»8. L’unica ricerca che imposta uno studio complessivo di Firenze nel periodo fascista è quella di Marco Palla9, che quindi «si presenta come un punto di riferimento obbligato da cui prendere le mosse»10. Il volume di Palla si ferma, però, alla metà degli anni Trenta e più precisamente al 1934, quando, dopo cinque anni, Alessandro Pavolini lascia la guida della federazione fiorentina del PNF, per cominciare quella carriera a livello nazionale che lo porterà ad essere fino alla fine al fianco di Mussolini11. Lo studio di Palla si concentra soprattutto sul dibattito interno al gruppo dirigente del fascismo fiorentino, privilegiando le grandi scelte compiute in quegli anni e destinate a pesare non poco sull’evoluzione della città per tutti i decenni successivi. Affrontando nelle pagine finali del suo lavoro lo spinoso tema del rapporto tra ceti popolari e regime fascista è lo stesso Palla a lamentare «la scarsa conoscenza che abbiamo della vita quotidiana delle masse (in un certo senso si può dire la vera e propria ignoranza del numero e dell’incidenza di agitazioni, proteste e scioperi) e la mancanza di sistematiche indagini e messe a punto sulle condizioni di vita materiale degli strati più umili della popolazione»12.

Come già successo nel caso di località13, anche per Firenze ci sono studi che hanno interessato realtà più piccole su scala territoriale, come i quartieri della città, ma in genere cronologicamente limitati soltanto al periodo della resistenza e della lotta contro l’oppressione nazifascista14. Ricerche di taglio diverso, che hanno tentato di scavare negli anni della dittatura fascista per mettere in evidenza le forme di opposizione che più o meno clandestinamente presero corpo in quel periodo, ci sono, ma soltanto per quanto riguarda i centri della provincia, come quella  vera e propria capitale dell’antifascismo toscano che fu Empoli15, oppure le comunità locali poste immediatamente a ridosso del capoluogo regionale, come Bagno a Ripoli16, Campi Bisenzio17, Scandicci18, Sesto Fiorentino19, ecc. 

Ritornando a Firenze appare sorprendente la mancanza di ricerche e studi su un quartiere come l’Oltrarno considerato il cuore dell’antifascismo popolare20: già, nell’introduzione ad un profilo dedicato ad Aligi Barducci, meglio conosciuto con il nome di battaglia di “Potente”, Maria Augusta e Sebastiano Timpanaro parlarono della «funzione di roccaforte antifascista che questo rione ha avuto nei primi anni del regime mussoliniano, ha poi mantenuto più o meno sotterraneamente nel periodo del fascismo trionfante ed è tornato ad assumere apertamente ai primi segni di crisi della dittatura»21. Però l’Oltrarno resta sullo sfondo, anche se non mancano squarci che ne illuminano efficacemente l’ambiente popolare, così come, peraltro, fanno anche opere letterarie come quelle, per esempio, di Vasco Pratolini22; nel loro studio sulla storia del Partito Comunista d’Italia (PCdI) a Firenze Tamara Gasparri e Renzo Martinelli sottolineano l’omogeneità del quartiere sotto il profilo dell’identità culturale e della struttura sociale23; quindi, l’unico contributo organicamente rivolto ad illustrare il ruolo che l’Oltrarno ha svolto negli anni della dittatura fascista e della seconda guerra mondiale è l’omonima voce, a cura di Giovanni Verni, scritta per l’Enciclopedia dell’antifascismo e della resistenza24.

Proponendosi quindi l’obiettivo di approfondire ulteriormente le ricerche su questo tema, il tentativo che ha ispirato il presente lavoro è stato quello di applicare alla realtà di un quartiere popolare come l’Oltrarno metodologie e suggestioni tipiche della storia sociale – l’attenzione per il vissuto degli individui più immediatamente intrecciato agli aspetti della loro vita quotidiana, il riconoscimento della centralità dei racconti di memoria e delle testimonianze, l’utilizzazione delle fonti statistiche e dei metodi quantitativi, ecc. – in modo da farne una sorta di microcosmo in cui sperimentare e verificare ipotesi di lavoro e linee di ricerca, suscettibili di allargarsi e dilatarsi fino ad arrivare a coinvolgere campi di lavoro e terreni di discussione di più ampio respiro25. L’assunzione della dimensione locale dell’Oltrarno in termini di vero e proprio osservatorio privilegiato da una parte può quindi consentire la precisazione del nesso fascismo-antifascismo, analizzato, per effetto della ricostruzione del controverso rapporto tra le masse popolari e gli apparati organizzativi e repressivi della dittatura fascista, nella sua costitutiva ed intrinseca complessità e problematicità, e dall’altra può contribuire, senza dimenticare i caratteri originali e i tratti specifici del quartiere, alla ridefinizione di temi di ordine più generale, che hanno suscitato polemiche a non finire, come, per esempio, quello del consenso al fascismo negli anni della sua massima affermazione26.

Il compito è reso ancora più arduo dal fatto che, a parte figure ormai ben conosciute come quelle del già citato Aligi Barducci, di Bruno Fanciullacci27, ed altre, magari meno note al pubblico, ma su cui sono stati pubblicati degli studi e, comunque, riconducibili all’antifascismo organizzato e strutturato in movimenti e partiti politici – per esempio Fosco Frizzi28 – al centro dell’indagine molto spesso si vengono a trovare comuni cittadini, “anonimi compagni”29, il cui antifascismo, espresso spesso in forme elementari e contraddittorie, mediante atti e comportamenti difficili da documentare, è fatto di «opinioni, di gesti non legati a una trama organizzativa, rivelatori di posizioni politiche più o meno genericamente definite e di una collocazione sociale o culturale fluida e indistinta»30.

Il presente saggio si articola in tre parti: la prima, che ha carattere introduttivo, tende a ricostruire la formazione dell’identità collettiva che accompagna l’immagine dell’Oltrarno nel periodo storico a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento; la seconda affronta il problema del rapporto tra fascismo ed antifascismo nella realtà specifica di un quartiere popolare come l’Oltrarno, assumendo come criterio di metodo generale l’impostazione suggerita dal convegno di studi del 1969 su La Toscana nel regime fascista (1922-1939)31, in cui si presentava «la determinazione a studiare fascismo e antifascismo come termini strettamente e necessariamente correlati di un’unica realtà sociale storicamente determinata» come «l’acquisizione più importante, anche se faticosa e tutt’altro che ovvia e definitiva»32 degli studi più recenti; a distanza di dieci anni, la fecondità di una simile impostazione veniva ribadita da Gianpasquale Santomassimo, il quale, nella sua relazione sull’antifascismo popolare presentata al già citato convegno di studi su Presenza e attività dell’antifascismo a Firenze e provincia, metteva in evidenza l’impossibilità di fare oggi una «storia dell’antifascismo staccata e separata da quella del fascismo», rilevando «l’angustia di una storia dell’antifascismo condotta come “genere” a sé stante, con sue proprie regole e leggi interne, e che tende nella maggior parte dei casi a risolversi in storia della continuità o discontinuità organizzativa e cospirativa dei gruppi antifascisti, se non in cronaca della repressione e del martirologio»33; la terza sottolinea il contributo, importante e rilevante, fornito, negli anni della seconda guerra mondiale, dalla popolazione dell’Oltrarno alla resistenza e alla liberazione della città di Firenze dalla dominazione nazifascista.       

Al centro del presente saggio si colloca, dunque, la lotta contro il fascismo svolta in un arco di tempo ventennale da parte della popolazione dell’Oltrarno. La centralità attribuita all’antifascismo prima dello scoppio della seconda guerra mondiale è stata motivata, in primo luogo, dalla considerazione dell’assoluta continuità che, nel contesto specifico del quartiere, caratterizza il rapporto tra l’opposizione al fascismo degli anni 1926-1943 e la partecipazione alla guerra di liberazione degli anni 1943-1945; in secondo luogo, ad orientare in questo senso il programma di ricerca, è stata l’osservazione, di ordine più generale, che quella dell’antifascismo rischia di trasformarsi in una «memoria sepolta»34 da quella successiva che ha il suo centro focale nell’epopea resistenziale. Anche da parte degli studiosi più impegnati nelle ricerche sull’antifascismo è stato riconosciuto che raramente il problema storico dell’opposizione al fascismo nel periodo della massima affermazione della dittatura si è trasformato in un oggetto autonomo di indagine e di riflessione, capace di fornire un contributo essenziale alla «ricostruzione di una più generale storia della società italiana tra le due guerre mondiali»35. Quindi sottrarre ai processi di oblio e rimozione della memoria storica le vite di tutti coloro che in Oltrarno si sono impegnati nella cospirazione antifascista è sembrato un doveroso atto di omaggio nei loro confronti e, nello stesso tempo, il modo scientificamente più corretto per contribuire alla valorizzazione di un oggetto di ricerca rimasto per troppo tempo avvolto in una retorica priva di riferimenti all’antifascismo come movimento reale, atteggiamento che ha finito inevitabilmente per alimentare ancora di più i motivi di disinteresse e di ritardo accumulati dalla storiografia su questo terreno.

Stefano Gallerini


(Tratto da: Stefano Gallerini, Antifascismo e Resistenza in Oltrarno. Storia di un quartiere di Firenze, Firenze, Carlo Zella Editore, 2014, pp. 11-16).

Note

1 Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, vol. III, pp. 2283.2 Per una messa a fuoco dei problemi di metodo e di ricerca sollevati dallo studio dell’antifascismo si vedano gli atti del convegno di studi “Per una storia dell’antifascismo tra dimensione nazionale e scala locale: consenso, dissenso e opposizione durante il Ventennio” svoltosi a Modena il 19 e il 20 maggio 2005. Cfr. AA.VV., Sotto il regime. Problemi, metodi e strumenti per lo studio dell’antifascismo, Unicopli, Milano 2006.3 Cfr. G. Santomassimo, Antifascismo e dintorni, Manifestolibri, Roma 2004. Antifascismo popolare è il titolo del saggio più importante, non a caso collocato in apertura della raccolta, frutto della rielaborazione della relazione presentata da Gianpasquale Santomassimo al convegno di studi organizzato dall’Istituto Storico della Resistenza in Toscana, dall’Anppia, dalla Regione Toscana, dalla Provincia di Firenze e dai Comuni di Firenze e di Prato su “Presenza e attività dell’antifascismo a Firenze e provincia”, svoltosi a Firenze dal 5 all’8 dicembre 1979, i cui atti, purtroppo, non sono mai stati integralmente pubblicati. Sullo stesso argomento si veda anche il saggio di C. Natoli, L’antifascismo popolare in Italia in L. Klinkhammer - C. Natoli - L. Rapone (a cura di), Dittature, opposizioni, resistenze. Italia fascista, Germania nazionalsocialista, Spagna franchista: storiografie a confronto, Unicopli, Milano 2005, pp. 85-106. 4 Cfr. G. Sapelli, Fascismo, grande industria e sindacato. Il caso di Torino 1929-1935, Feltrinelli, Milano 1975; L. Passerini, Torino operaia e fascismo: una storia orale, Laterza, Bari-Roma 1984.5 Cfr. K. Colombo - D. Assale, Milano fascista. Milano antifascista, Guerini e associati, Milano 2007.6 Cfr. G. Chianese, Fascismo e lavoro a Napoli. Sindacato corporativo e antifascismo popolare (1930-1943), Ediesse, Milano 2006; G. Aragno, Antifascismo popolare. I volti e le storie, Manifestolibri, Roma 2009.7 Cfr. L. Piccioni, San Lorenzo. Un quartiere romano durante il fascismo, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1984.8 Cfr. R. Martinelli, Il fronte interno a Firenze 1940-1943. Lo spirito pubblico nelle “informazioni fiduciarie” della polizia politica, Università degli studi di Firenze, Dipartimento di storia, Firenze 1989, p. 13.9 Cfr. M. Palla, Firenze nel regime fascista (1929-1934), Olschki, Firenze 1978.10 Cfr. R. Martinelli, Il fronte interno a Firenze 1940-1943 cit. p. 13.11 Sulla figura di Alessandro Pavolini, oltre al già citato lavoro di M. Palla, che ne parla diffusamente, cfr. F. Snowden, voce Pavolini Alessandro in “Dizionario del fascismo”, a cura di V. De Grazia e S. Luzzatto, Einaudi, Torino 2005, vol. II, pp. 351-354. Si veda anche M. Palla, Il fascismo di Alessandro Pavolini  in P. Gori Savellini (a cura di), Firenze nella cultura italiana del ‘900, Festina Lente, Firenze 1993, pp. 119-127.12 Cfr. M. Palla, Firenze nel regime fascista cit. p. 386.13 Per esempio, per quanto riguarda Roma cfr. W. De Cesaris, La borgata ribelle. Il rastrellamento nazista del Quadraro e la resistenza popolare a Roma, Odradek, Roma 2004.14 Per Firenze, indicativi di questa produzione letteraria sono i contributi di G. Frullini, Firenze est per la libertà, cinquantesimo della liberazione: il contributo della IV zona, Comune di Firenze, Firenze 1995 e D. Masini - M. Bertelli, Antifascismo e resistenza nel rione di San Jacopino – Piazza Puccini, Consiglio regionale della Toscana, Firenze 2005.  15 Cfr. L. Guerrini, Il movimento operaio nell’Empolese: 1861-1946, Editori Riuniti, Roma 1970.16 Cfr. L. Chezzi - G.B. Ravenni, Il gregge dei contrari: fascismo e antifascismo a Bagno a Ripoli 1919-1943, Firenze 1993.17 Cfr. F. Nucci - D. Pellegrinotti, La miglior genia: storia del Novecento in una cittadina toscana. Campi Bisenzio. Vol. I. Dallo sciopero delle trecciaiole alla seconda guerra mondiale 1896-1939, Comune di Campi Bisenzio, Campi Bisenzio 2002.18 Cfr. R. Castaldi, Scandicci e la sua gente: febbraio 1921-giugno 1946, Polistampa, Firenze 1993.19 Cfr. G. Conti - G. Perra, Sesto Fiorentino dall’antifascismo alla resistenza, Vangelista, Milano 1980. 20 Per Oltrarno si intende la zona di Firenze posta sulla sponda sinistra del fiume Arno e racchiusa entro l’ultima cerchia delle mura medievali. 21 Cfr. G. ed E. Varlecchi, Potente. Aligi Barducci, comandante della divisione Garibaldi “Arno”, Libreria Feltrinelli, Firenze 1975, p. 16.22 A parte Le ragazze di San Frediano (1949), più che a romanzi come Il quartiere (1944), che ha come sfondo il rione di Santa Croce, o Cronaca di poveri amanti (1947), ambientato in quella via del Corno, dove lo scrittore ha trascorso la sua adolescenza, il pensiero corre soprattutto a Lo scialo, la cui prima edizione fu pubblicata dalla casa editrice Mondadori a Milano nel 1960.23 Cfr. T. Gasparri - R. Martinelli, Il partito comunista d’Italìa a Firenze. 1921-1943. Elementi di una ricerca, p. 522 in “Studi e ricerche dell’istituto di storia”, All’insegna del giglio, Firenze 1983, pp. 505-548. 24 Cfr. G. Verni, voce Oltrarno in “Enciclopedia dell’antifascismo e della resistenza”, La Pietra, Milano 1984, IV, pp. 221-227.25 Da una simile impostazione è ispirato il saggio di E. Mannari, Tradizione sovversiva e comunismo durante il regime fascista. 1926-1943. Il caso di Livorno in “Annali della Fondazione Gian Giacomo Feltrinelli”, XX, 1979-1980, pp. 837-874. All’inizio del suo lavoro l’autore parla di Livorno come di «un osservatorio quanto mai fecondo che permette di illuminare, senza alcuna pretesa generalizzante ed esaustiva, alcuni dei tratti più propriamente sociali e culturali dell’opposizione operaia e popolare al fascismo». Cfr. E. Mannari, op. cit. pp. 839-840. 26 Il riferimento obbligato è, naturalmente, R. De Felice, Mussolini il duce. I. Gli anni del consenso (1929-1936), Einaudi, Torino 1974. Sul problema del consenso al regime fascista la bibliografia è sterminata. Mi limito, quindi, a segnalare per la loro importanza tre contributi alla discussione forniti in anni recenti da altrettanti autorevoli storici del fascismo quali G. Santomassimo, voce Consenso in “Dizionario del fascismo” cit. vol. I, pp. 347-352; M. Canali, Repressione e consenso nell’esperimento fascista in E. Gentile (a cura di), Modernità totalitaria: il fascismo italiano, Laterza, Bari 2008, pp. 56-81 e P. Corner, L’opinione popolare nell’Italia fascista degli anni Trenta in P. Corner (a cura di), Il consenso totalitario. Opinione pubblica e opinione popolare sotto fascismo, nazismo e comunismo, Laterza, Bari 2012, pp. 127-154. Dello stesso autore si veda anche P. Corner, Fascismo e controllo sociale in “Italia contemporanea”, 2002, n° 228, pp. 381-405.   27 Cfr. G. Zingoni, La lunga strada. Vita di Bruno Fanciullacci, La Nuova Italia, Firenze 1977.28 Cfr. Fosco Frizzi e Romeo Baracchi compagni di lotta. Testimonianze, Stamperia Parenti, Firenze 1982.29 Cfr. A. Nesti, Anonimi compagni. Le classi subalterne sotto il fascismo, Coines, Roma 1976.30 Cfr. G. Santomassimo, Antifascismo e dintorni cit. p. 40.31 Cfr. G. Spini et alii, La Toscana nel regime fascista (1922-1939), Olschki, Firenze 1971. Si tratta degli atti dell’omonimo convegno di studi, organizzato dall’Unione regionale delle province toscane, dalla Provincia di Firenze e dall’Istituto Storico della Resistenza in Toscana, svoltosi a Firenze il 23 e 24 maggio 1969.32 Cfr. M. Palla, L’antifascismo a Firenze, p. 108 in “Italia contemporanea”, 1980, n° 138, pp. 107-111. 33 Cfr. G. Santomassimo, Antifascismo e dintorni cit. pp. 19-20. 34 Cfr. G. Taurasi, Lo studio delle forme del dissenso in una comunità locale: dall’antifascismo “generico” all’antifascismo “politico” (fonti e metodologie), p. 200 in G. Albarani - A. Osti Guerrazzi - G. Taurasi (a cura di), Sotto il regime cit. pp. 196-205.35 Cfr. G. De Luna, Donne in oggetto. L’antifascismo nella società italiana 1922-1939, Bollati Boringhieri, Torino 1995, p. 26. Il saggio di De Luna, insieme ad altri contributi sulla storia dell’antifascismo, è stato oggetto di discussione da parte di Leonardo Rapone, il quale, stigmatizzando il fatto che l’antifascismo come fenomeno storico sia stato «colpito dall’offensiva del disinteresse» prima ancora che da quella del revisionismo storiografico, ha messo in evidenza il ruolo marginale che paradossalmente l’antifascismo ha finito così per rivestire nell’ambito della storiografia sull’Italia novecentesca. Cfr. L. Rapone, Antifascismo e storia d’Italia, p. 221 in E. Collotti (a cura di), Fascismo e antifascismo. Rimozioni, revisioni, negazioni, Laterza, Bari-Roma 2000, pp. 219-239.
Inserito il 9/12/2022.