Quando la Cina pareva vicina
Dossier
Quando la Cina pareva vicina
L’influenza della Cina e della Rivoluzione Culturale sulla sinistra rivoluzionaria degli anni ’60 e ’70
L’influenza della Cina e della Rivoluzione Culturale sulla sinistra rivoluzionaria degli anni ’60 e ’70
C’è stato un tempo in cui la Cina rivoluzionaria era fonte di ispirazione per partiti, movimenti, studenti, operai, intellettuali, ecc. Della Cina si sapeva poco, se non che la rivoluzione vittoriosa seguita alla Lunga Marcia guidata da Mao Zedong aveva rimosso i rapporti feudali e sconvolto la vita del più popoloso Paese del mondo. Forse quel modello, della cui Rivoluzione Culturale arrivavano gli echi fin qua – anche attraverso il prezioso volume delle citazioni del Presidente Mao, il “Libretto rosso” –, attraeva anche perché se ne sapeva così poco.
Dell’influenza della Cina e della sua Rivoluzione Culturale tra metà anni Sessanta e metà anni Settanta si occupano i libri che qui di seguito presentiamo.
Dossier Quando la Cina pareva vicina
Roberto Niccolai
Quando la Cina era vicina
La Rivoluzione Culturale e la sinistra extraparlamentare italiana negli anni ’60 e ’70
(Pisa-Pistoia, 1988)
Attraverso documenti dell’epoca e interviste ai protagonisti, l’autore esamina il complesso dei movimenti e dei partiti che rappresentarono la galassia del maoismo italiano nel Sessantotto e dintorni, anni in cui si faceva sentire forte il vento di novità rappresentato da Mao Zedong, dalla Rivoluzione Culturale, da un modello di socialismo asiatico che si voleva interpretare come valida alternativa ai partiti comunisti derivanti dall’area terzinternazionalista e ai Paesi del socialismo reale europeo, ormai catalogati da questa “nuova sinistra” come regimi burocratizzati e sclerotizzati.
Pur nell’illusione di aver trovato in un Paese culturalmente così lontano la chiave di volta per la rivoluzione proletaria in Europa, è innegabile che questi movimenti e partiti extraparlamentari segnarono del rosso delle loro bandiere un decennio della politica italiana, un decennio di lotte operaie e studentesche, di manifestazioni per i diritti, contro il colonialismo e contro le guerre imperialiste in Vietnam e in altri luoghi del Terzo mondo, di elaborazione teorica e politica attraverso incontri, dibattiti, giornali, riviste, libri e opuscoli.
PREFAZIONE
di Renzo Rastrelli
Clicca per aprire
↓ ↓ ↓
Roberto Niccolai
Quando la Cina era vicina
La Rivoluzione Culturale e la sinistra extraparlamentare italiana negli anni ’60 e ’70
PREFAZIONE
di Renzo Rastrelli
Alla fine degli anni Sessanta e nei primi anni Settanta, specialmente fra i giovani e negli ambienti politici, la Cina era indubbiamente “vicina”; oggetto di particolari attenzioni e di interessi, costituiva un argomento capace di attirare ai più disparati dibattiti vere e proprie folle.
Eppure, proprio allora, la Cina era in effetti molto lontana e attraversava un periodo di isolamento quasi assoluto. Oggetto disconosciuto del sistema internazionale, rappresentava anche una meta difficilmente raggiungibile dai comuni viaggiatori. In quegli anni si arrivava in Cina solo con le “delegazioni”, viaggi di gruppo organizzati da associazioni culturali e di amicizia, da gruppi politici o da aziende. Programmi e spostamenti erano stabiliti da precisi e inevitabili accordi con la famosa Luxingshe, l’agenzia di viaggi statale della Repubblica Popolare Cinese. Solo pochi fortunati potevano sottrarsi al paternalistico ma ferreo controllo delle guide ufficiali e gli scambi culturali erano ancora sporadici. Ma l’isolamento e la lontananza materiale della Cina era forse cosa di poco conto di fronte alla distanza che separava l’Occidente dal grande paese asiatico in conseguenza di una particolare ma consolidata incomunicabilità culturale.
Nel secolo scorso, la spinta espansionistica europea aveva portato Oriente e Occidente a stretto contatto dopo secoli di isolamento, o quanto meno di scarsi rapporti. Due forme diverse di civiltà si trovavano una di fronte all’altra, potenzialmente pronte ad avviare un confronto e una riflessione sui percorsi che al loro interno gli uomini avevano compiuto. Ma la Cina attraversava un momento di crisi e l’Occidente era nel pieno della sua esplosione economica e politica che si diffondeva con una invincibile forza militare, giustificata da uno spiccatissimo etnocentrismo culturale. Invece che un incontro si produsse allora uno scontro e l’occasione di approfondire una reciproca conoscenza fu sostituita dalla sopraffazione della Cina e dal disconoscimento della sua identità e dignità culturale. Lo studio e la riflessione sulla cultura cinese e sull’apporto che essa aveva dato alla storia dell’uomo, rimaneva patrimonio di un ristretto numero di sinologi, mentre l’opinione pubblica occidentale e la gran parte degli ambienti politici e intellettuali considerava la Cina un paese barbaro e incivile. Le rivalità imperialiste e la politica delle potenze ridussero per quasi un secolo la Cina a un disprezzato oggetto della politica internazionale. Il lungo, difficile e sanguinoso cammino compiuto dal popolo cinese per riconquistare il suo posto nel mondo cominciò a dare i suoi frutti solo negli anni della Seconda Guerra Mondiale, quando, per combattere il Giappone, la Cina fu elevata dagli Stati Uniti a rango di grande alleato e di futuro pilastro del sistema internazionale in Estremo Oriente. Ma la riabilitazione politica della Cina fu parziale e condizionata. Dal punto di vista politico doveva essere per forza “amica” degli Stati Uniti, mentre, dal punto di vista culturale, era diffuso fra gli occidentali il convincimento, a volte chiaramente espresso a volte inconsciamente presupposto, secondo il quale il futuro della nuova Cina non poteva che seguire i modelli politici e culturali dell’Occidente (Chiang Kai-shek, quando dovette essere presentato all’opinione pubblica americana come il grande alleato asiatico, dovette per esempio essere definito “il Generale Cristiano”). Lo sviluppo della Guerra fredda poi, induceva sempre di più l’Occidente, spinto dagli interessi statunitensi, a identificare nel Guomindang, in realtà inefficiente e corrotto, una sorta di baluardo che poteva salvare la Cina dal comunismo e dall’arretratezza medievale, guidandola verso una modernizzazione di tipo occidentale. Il PCC era ritenuto, salvo da pochi, un servo di Mosca. Così quando arrivò la vittoria comunista nella guerra civile, la Cina fu considerata definitivamente “persa” per l’Occidente. Non solo non aveva seguito il modello occidentale, ma aveva addirittura saltato il fossato che divideva in due il mondo della Guerra fredda. Mentre gli americani con l’occupazione militare del Giappone tentavano direttamente (e invano) di occidentalizzare l’altro grande paese asiatico dell’area confuciana, l’esistenza politica della Repubblica Popolare Cinese, con l’esclusione dall’ONU, veniva ignorata dal punto di vista diplomatico e l’identità nazionale cinese veniva annullata dalla convinzione che Pechino non fosse altro che un’appendice del comunismo sovietico.
In Occidente, anche l’opinione pubblica e gli ambienti progressisti e di sinistra non si sottraevano alle conseguenze della Guerra fredda e avevano anch’essi una visione parziale e deformata del problema cinese. Se, ovviamente, dal punto di vista politico la vittoria di Mao fu salutata con soddisfazione, la nuova Cina era valutata e ammirata soprattutto in quanto parte dello schieramento comunista e antiamericano. La sua identità era in primo luogo quella che gli proveniva dal fatto di essere un paese comunista. La RPC insomma era guardata sia da destra che sinistra attraverso delle lenti occidentali che solo indistintamente lasciavano intravedere, dietro lo scenario della Guerra fredda, le radici peculiari e “cinesi” di ciò che stava avvenendo dietro la cortina di bambù. Solo con il progredire del conflitto cino-sovietico si cominciò a prendere più chiara coscienza che in fondo esisteva qualcosa di più complesso e di diverso nella esperienza della RPC.
In Italia, nell’aprile del 1956, usciva un numero speciale de «Il Ponte» dedicato interamente alla Cina, dove numerosi intellettuali italiani raccontavano la Cina che avevano poco prima conosciuto durante il viaggio di una speciale delegazione. Molti degli articoli de «Il Ponte» erano testimonianza di un nuovo, anche se contraddittorio, atteggiamento. Lattimore, chiamato insieme ad altri prestigiosi esperti della Cina a collaborare alla rivista, diceva: «Non solo la Cina partecipa della nuova indipendenza dell’Asia dall’Occidente, ma essa ha aperto un nuovo capitolo nella storia del comunismo mondiale [...] la Cina è una entità così massiccia da aver già dislocato il centro di gravità del comunismo mondiale che ora è a mezza strada tra Mosca e Pechino, e in avvenire forse si potrà spostare in direzione di Pechino, allontanandosi da Mosca». Piero Calamandrei invece esaltava entusiasticamente il grande cambiamento avvenuto in Cina opera di «un grande popolo, [...] grande perché civile: e non di una civiltà consumata e decrepita [...] ma di una civiltà fresca e aperta, gioviale e spontanea». Certamente, continuava ancora Calamandrei. «il regime che c’è oggi in Cina non è un regime democratico nel senso occidentale della parola» ma in Cina vi era in atto un profondo processo di «liberazione umana di tutto un popolo, che invano si cerca dietro le formule di libertà politica scritte nelle nostre costituzioni». Anche ammettendo un possibile intervento della propaganda di regime, Calamandrei esaltava i successi cinesi invitando l’Europa ad «andare incontro all’Asia, da pari a pari: [per] riaprire il colloquio delle libertà. Andiamo a vedere che cosa c’è al di là della Grande Muraglia. Basterà affacciarsi, e ci accorgeremo che c’è la primavera».
Alla Cina, dunque, si riconosceva e si attribuiva una precisa identità culturale, prodotto della sua civiltà anche se, negli articoli de «Il Ponte» come in molta stampa dell’epoca, era soprattutto la natura comunista della RPC che attirava ancora le maggiori attenzioni. Il suo sistema politico continuava fondamentalmente a essere valutato in quanto strumento utile per le polemiche interne fra comunisti o per gli scontri fra i sostenitori di ideologie contrapposte. Ciò che avveniva in Cina era semplificato o parzialmente analizzato e l’esperienza maoista veniva filtrata dai nostri parametri e dai nostri interessi per poter divenire uno strumento nella dialettica della Guerra fredda. Infine, le enormi e rapide trasformazioni che la Cina aveva effettivamente compiuto in pochi anni facevano sorgere in tutti gli osservatori un entusiasmo che portava fatalmente a idealizzare i risultati e le caratteristiche dello sviluppo cinese, la cui vera entità era celata dalla chiusura delle frontiere.
Nella seconda metà degli anni Sessanta, in Italia, queste tendenze e queste contraddizioni nell’atteggiamento verso la Cina non erano ancora sostanzialmente mutate. Il paese, schierato con gli Stati Uniti nel non riconoscimento della RPC e nel boicottaggio economico, non aveva ancora sviluppato un rete di interessi e legami che avrebbero potuto portare a una maggiore conoscenza della Cina. La sinologia italiana, in conseguenza di ciò, benché vantasse nomi prestigiosi, non aveva ancora raggiunto uno sviluppo e uno spessore tale da influenzare il mondo intellettuale e politico. Gli scambi culturali erano quasi inesistenti e pochissimi erano gli italiani che erano potuti andare a studiare in Cina. Tuttavia la rottura definitiva fra Pechino e Mosca e l’avvio della Rivoluzione Culturale, avevano definitivamente sottolineato la diversità cinese e sancito il suo ruolo di forza rivoluzionaria. L’esplodere della crisi politica e generazionale all’origine dei movimenti del ’68 si trovò così di fronte ai contenuti più eversivi del maoismo che divenne simbolo della contestazione dell’ordine costituito e un riferimento obbligato per chi sentiva più acutamente il bisogno di cambiamento e novità. La Cina con i suoi grandi esperimenti sociali e le sue vaste mobilitazioni di massa, la Cina come elemento non omologato del sistema internazionale e del marxismo ortodosso, costituiva un’attrazione forte e motivante. Il maoismo poi, con le sue lucide costruzioni teoriche, rese più affascinanti dalla loro pretesa di risultato di un accurato studio della realtà, sembrava un’arma facile a usare, anche in Occidente, per colmare quell’ansia di tutto comprendere, di tutto collocare in un logico disegno che, in sintonia con le forze profonde della storia, portasse finalmente a una società più giusta. Aumentava il fascino del pensiero maoista quel suo incedere inesorabile e didascalico a mostrare come il progresso non poteva che trovarsi nell’eguaglianza fra gli uomini e nel rifiuto, prima di tutto etico, delle ingiustizie palesi del capitalismo o del socialismo reale. Mao era uno dei pochi che apparivano sostenitori di una crescita politica, individuale e collettiva, quale strumento per superare l’ineluttabilità delle leggi che determinano lo sviluppo economico e le sue contraddizioni. Era proprio quello che in quegli anni molti giovani volevano, cercandolo fra i nuovi modi di vivere "impegnati" e coerenti, coinvolti ogni giorno in innumerevoli dibattiti e verifiche con se stessi e con i compagni.
Nella sinistra, il riferirsi alla Cina diventava per molti, come questo libro fa vedere in maniera documentata e puntuale, una vera e propria scelta di vita, per altri costituiva più laicamente un momento di studio e di speranza, ma era comunque un elemento centrale della formazione politica e culturale di moltissime persone.
A destra e nell’opinione pubblica moderata la Cina restava invece una variabile impazzita del sistema internazionale, un’inquietante diversità, ora infiltratasi anche in Occidente, che preoccupava; anche perché il suo comunismo si mostrava oltretutto diverso da quello russo, tutto sommato considerato più comprensibile e più “occidentale”. Su molta della stampa si ridicolizzava “l’utopia” cinese, irridendo così anche alle speranze e alle tensioni morali di molti giovani. Tutti però, da destra e da sinistra, continuavano a estrarre dalla Cina ciò che serviva alle loro polemiche. Per far questo si usavano filtri che, a seconda degli schieramenti, mistificavano o idealizzavano la realtà cinese secondo concetti e interessi che restavano fondamentalmente occidentali.
Il rapporto fra Cina e Occidente, soprattutto per il nostro paese, non riusciva dunque a trovare una strada che portasse opinione pubblica, politici e intellettuali, a una conoscenza più approfondita e meno etnocentrica. L’utilità, politica o esistenziale, di poter disporre della Cina come esempio da seguire, da parte della nuova sinistra, o come degenerazione utopica e ribellista da rifiutare, da parte della destra o e di frange della sinistra moderata, impediva che si avviasse una riflessione sul fatto che i termini stessi con i quali si descriveva la Cina erano soprattutto quelli che derivavano dalla nostra storia, anche se noi li ritenevamo di valore universale. La RPC restava invece il prodotto di una civilizzazione diversa e di una storia lunga e particolare. Il comunismo cinese rappresentava in fondo una vicenda di qualche decina d’anni nei millenni della tradizione cinese, anche se esso ci appariva una realtà affermata, indiscutibile ed esportabile, nonostante che i cinesi stessi ci avvertissero che la Cina era prima di tutto un paese del Terzo mondo alla ricerca di un proprio, e particolare, modello di sviluppo. Affascinati dagli slogan della Rivoluzione Culturale si era, allo stesso modo, portati a pensare che “la vecchia cultura” vivesse ormai come residuo combattuto e quasi vinto del passato, un drago morente sotto le lance delle “nuove cose socialiste” delle guardie rosse. L’ansia di trovare qualcosa di nuovo e la sicurezza sul valore universale dei nostri concetti di progresso che avevamo esteso anche alla Cina, ci portavano a sottovalutare anche gli avvertimenti che ci arrivavano dagli stessi scritti di Mao. Il leader cinese non solo parlava chiaramente di una natura debole ed effimera del comunismo in Cina, ma metteva in guardia anche sulla forza stravolgente del passato e spesso ci ricordava, in tante e più sottili maniere, le radici e le caratteristiche profondamente cinesi di ciò che accadeva in Cina e dei ritmi più complessi della sua storia.
Dopo il 1972 la situazione cinese subiva però un profondo mutamento. Con l’oscura vicenda di Lin Piao, il dramma della Rivoluzione Culturale sembrava avviarsi alla fine e, soprattutto, cadeva l’ostracismo americano, che aveva fino allora tenuto la Cina nell’isolamento internazionale. La rappresentanza della RPC prendeva il suo posto all’ONU e gli scambi economici, politici e culturali con Pechino si sviluppavano liberamente. Anche per il nostro paese si aprivano nuove possibilità e occasioni di conoscere la Cina. Gli studi italiani sulla Cina erano cresciuti intorno alle università di Venezia, Roma e Napoli. Gli italiani, come gli altri occidentali, anche se in numero veramente esiguo, potevano finalmente vivere e studiare in Cina. Prima del 1974, si contavano sulle dita di una mano gli italiani che avevano potuto studiare in Cina. Fra questi vorrei ricordare il compianto Filippo Coccia, che più di tutti forse ha contribuito a farci conoscere la Rivoluzione Culturale, e Edoarda Masi, che con profonda sensibilità e grande intelligenza ha saputo farci penetrare nell’anima della Cina, nella sua cultura e nella sua storia. La normalizzazione dei rapporti diplomatici fra la Cina e il nostro paese aveva portato, nel 1974, ai primi scambi culturali e un gruppetto di italiani era potuto andare a studiare nelle università cinesi. La comunità italiana a Pechino – costituita dai diplomatici e dal personale dell’ambasciata, da pochi uomini d’affari e qualche decina di studenti – era comunque il segno tangibile dell’inizio di un nuovo tipo di rapporto con la Cina. Ebbi la fortuna, nel 1975, di far parte del secondo gruppo di italiani che andavano a studiare in istituti e università cinesi. Nonostante che miei compagni e io fossimo arrivati in Cina dopo studi specifici e possedessimo strumenti per capire la Cina non certo simili a quelli a disposizione di gran parte dei nostri connazionali, tuttavia eravamo, nella maggioranza, impreparati a cogliere l’enorme complessità dei problemi che la Cina ci presentava. Sulla nostra pelle dovevamo sperimentare la necessità di cambiare quel modo di veder la Cina che fino a qui abbiamo descritto e che ci aveva comunque condizionati anche dentro la nostra nicchia di “addetti ai lavori”.
L’austera e dignitosa semplicità del paese e dei suoi abitanti era allora impressionante; le contraddizioni e gli squilibri tipici dei paesi in via di sviluppo erano fenomeni molto contenuti se considerati sullo sfondo della enorme estensione della Cina. I successi dello sviluppo cinesi, fatte le debite proporzioni, erano dunque evidenti e giustificavano l’entusiasmo verso la Cina che avevamo conosciuto in Europa. Ma, via via che la conoscenza della realtà si approfondiva, accompagnata dalla rilettura di libri noti e dalla acquisizione di nuovi studi che ovunque fiorivano, le incertezze e le domande crescevano. Cresceva soprattutto la coscienza di dover affinare strumenti e metodi per l’analisi storica e sociale; si imponeva la necessità di tarare i termini con i quali si era cercato di descrivere cose che ora apparivano sempre più diverse dai nostri consueti orizzonti. Il socialismo cinese, se a volte si mostrava come una costruzione solida ed efficiente, spesso diveniva una sovrastruttura retorica che pencolava inerte su una società percorsa da contraddizioni e fermenti. Le “nuove cose socialiste” le trovavamo a volte circondate dalla sottile ironia dei quadri, o burocratizzate dalla intatta forza della tradizione autoritaria e statalista. La Rivoluzione Culturale, anche se non ne percepivamo appieno tutta la drammaticità, non ci appariva più come un’operazione di ingegneria rivoluzionaria, compiuta grazie alla diffusa e solida coscienza politica delle masse e vinta in virtù della lucida impostazione teorica. Si vedeva invece che la società degli operai, contadini e soldati, conosciuta dagli slogan rivoluzionari e dai lunghi editoriali del «Quotidiano del Popolo» o di «Bandiera Rossa» era qualcosa di più complesso e di meno solido. Dietro un’apparente ortodossia spuntavano interessi e prospettive diverse, proprie di una società in evoluzione e differenziazione che lo schematismo ideologico non era più capace di descrivere e che l’ultimo maoismo non sapeva più governare.
Non sapevamo se attribuire l’imperante autoritarismo gerarchico alla degenerazione burocratica del comunismo, ricorrendo così a concetti ed esperienze più nostre e conosciute, o se invece era necessario riconoscere le tradizioni, la vecchia cultura, ancora forze vive capaci di influenzare la società cinese. Ogni studio, in effetti, ci portava sempre più indietro nel tempo alla ricerca di cause e radici in quel passato della Cina che dall’Occidente ci era sembrato superato e vinto.
La famosa citazione di Mao, secondo la quale la Cina era un paese socialista ma avrebbe potuto facilmente e velocemente trasformarsi in un paese capitalista, se vista alla luce delle quotidiane contraddizioni, non era più solo un’astratta ipotesi teorica, ma una prospettiva in qualche modo credibile, anche se il suo vero significato poteva allora essere solo intuito. Era infatti sempre più difficile, via via che si viveva nella Cina di allora, esser certi di cosa fossero il socialismo o il capitalismo nella società cinese, quale fosse la loro reale natura e dove si alimentassero le loro radici.
Ricordo animatissimi dibattiti fra gli studenti e i ricercatori italiani o stranieri, e anche i libri o i saggi che da questa esperienza nascevano. Perfino la ufficiale sede dell’Ambasciata d’Italia, allora retta dall’indimenticabile ambasciatore Marco Francisci, era continuamente percorsa da innumerevoli discussioni alla ricerca di adeguati strumenti per capire la realtà cinese. Dominava la consapevolezza di dover procedere a una radicale “rettificazione dei nomi” per riuscire ad aver con la Cina un nuovo e critico rapporto.
Ricordo anche lo stupore di chi allora risiedeva in Cina per studio o lavoro di fronte a moltissimi occidentali, politici o uomini di cultura di passaggio in Cina per brevi viaggi che, tornati in patria, producevano saggi o libri che spiegavano, con certezze assolute, ciò che veramente era la Cina. Si usava ironizzare che più corta era la permanenza, più lungo sarebbe stato il libro o l’articolo. Mentre, infatti, fra chi aveva la possibilità di conoscere la Cina crescevano dubbi e riflessioni e i sinologi rivedevano le teorie passate e delineavano nuove ipotesi di lavoro e nuove ricerche, l’opinione pubblica occidentale e gran parte del mondo della cultura, del giornalismo e della politica tentavano ancora di semplificare, mistificare, o comunque di occidentalizzare, ciò che succedeva in Cina. Così, quando gli anni della Rivoluzione Culturale davvero finirono con la morte di Mao e la svolta denghista, chi aveva fino allora ritenuto la Cina un paese già comunista, secondo quanto si intendeva in Occidente per comunismo, si trovò completamente disorientato. La Cina sembrava ancora qualcosa di “perso” rispetto a ciò che noi ci spettavamo che fosse. Nasceva quasi una sensazione di subire un tradimento, prima ancora di capire cosa stesse davvero succedendo. Chi aveva invece fino ad allora disprezzato la Cina in quanto comunista sembrava tirare un sospiro di sollievo e soddisfazione di fronte all’arrivo del capitalismo in Cina. La Coca-Cola, la pubblicità e le auto private cominciavano a fare il loro ingresso nella società cinese, simboli rassicuranti di una omologazione alla nostra cultura che poteva finalmente recuperare i cinesi alla vera forma di civiltà.
Ma la Cina, anche se sempre più saldamente inserita nel processo di globalizzazione, continuava ad andare per la sua strada e poneva nuovi problemi. Il grande sviluppo economico degli anni Ottanta faceva di Pechino una potenza che il sistema internazionale non poteva più fare a meno di ignorare, un soggetto politico autonomo e determinante per gli equilibri estremo-orientali e mondiali. Non solo, ma le caratteristiche del successo della Cina, inserito a sua volta in quello dell’intera Asia orientale, faceva vacillare la certezza che il modello di sviluppo adottato da questi paesi fosse caratterizzato dall’assunzione di schemi e valori occidentali. Anzi, le particolarità del miracolo economico asiatico suggerivano l’esistenza di una precisa identità culturale che, sviluppatasi dalla cultura tradizionale cinese, determinava, ora come nei secoli passati, le scelte e i modi di vita dei popoli estremo-orientali. Da questo punto di vista, allora, l’Occidente non aveva mai avuto nulla da “perdere” in Cina perché niente in definitiva era suo. Tutto apparteneva invece alla civiltà dell’Asia, qualcosa di diverso che era inutile tentare di omologare o ignorare ma che invece bisognava innanzitutto capire per trovare gli strumenti adatti a un proficuo e civile confronto.
Non è forse inutile a questo proposito ricordare che fino al Settecento, e da molti secoli, non l’Occidente ma la Cina era la parte di mondo dove la società era più evoluta, maggiori erano la produzione e i consumi, efficienti e stabili erano le strutture politiche. I popoli dell’Asia orientale per ripercorrere più di duemila anni di storia non devono far ricorso che a un’unica lingua e un’unica cultura, quella cinese, che ha condizionato senza soluzioni di continuità lo scorrere dei secoli e delle generazioni. Il modello di sviluppo cinese attinge dunque a una solida eredità e a una precisa identità storico-culturale. Molta della ricerca storica della Cina, infatti, già da tempo valorizza il passato e la continuità, piuttosto che il breve presente “comunista” e la sua presunta capacità di rottura. Il denghismo si capisce meglio guardando a ciò che succedeva nella Cina del Guomindang degli anni Trenta, a sua volta comprensibile se inquadrata nelle vicende di fine Ottocento, caratterizzato a sua volta da processi di un mutamento sociale ed economico iniziato nella dinastia Ming. Questo non vuol dire certo che il periodo maoista in Cina, e il ruolo del PCC, debbano essere appiattiti e annullati dal peso dei secoli della storia cinese. Sarebbe anche questo un inutile stereotipo. La Cina di oggi non esisterebbe senza Mao e il suo partito, e il maoismo ha rappresentato una grande svolta anche dai grandi significati universali. Ciò spiega il suo fascino, ma per capirne limiti e valori è necessario guardarlo dall’interno della storia e della cultura cinese, ambedue diverse dalla nostra storia e dalla nostra cultura. Dal punto di vista politico, per esempio, i fatti di Tian’anmen hanno evidenziato la profonda differenza che esiste fra noi e la Cina per quanto riguarda la concezione della democrazia, della lotta politica e delle istituzioni. Ma questa differenza non si può spiegare solo ricorrendo al fatto che in Cina è al potere un partito comunista per sua natura incline alla repressione, oppure riferendoci a una lotta fra riformatori e conservatori che fa perdere completamente senso all’intera storia del PCC, invertendola e appiattendola sui contenuti economicisti. È necessario invece non perdere di vista le matrici culturali sia della risposta dello Stato sia della lotta degli studenti, che vanno cercate ben al di là del nuovo e vecchio comunismo cinese e riflettono una concezione dello Stato legata all’autorità e non alla legge, dove le istituzioni si piegano ai bisogni della politica. Anche per questo è probabilmente difficile pensare, come molti in Occidente fanno, che lo sviluppo capitalistico comporti anche l’avvio di processi di modernizzazione politica e democratizzazione. La stessa Rivoluzione Culturale prima ancora di essere una lotta per il potere, o una lotta fra le due linee, rappresentava una crisi ben più profonda e complessa. In essa si scontravano ceti sociali, cresciuti nella trasformazione economica e tecnologica della Cina, che non riuscivano più a identificarsi in un’ideologia che si era formata in una società ancora molto “confuciana”, formata essenzialmente da contadini e guidata dagli intellettuali rivoluzionari del Partito. Queste forze sociali ed economiche, emerse già molto prima della guerra, non erano sufficientemente rappresentate dal partito maoista che, ancorato allo spirito di Yan’an, non era più adatto a gestire le grandi energie che si agitavano nelle strutture produttive del paese.
L’uscita dalla dignitosa povertà della ricostruzione, per arrivare alla creazione di un paese grande e prospero, era l’obiettivo centrale e dominante dell’ambizioso progetto politico ed economico delle “grandi modernizzazioni” che ha costituito l’essenza della rinascita nazionale cinese. Quando Zhou Enlai, prima di Deng Xiaoping, delineava le prospettive dello sviluppo cinese e pronosticava che alla fine del secolo la Cina avrebbe potuto competere con le più grandi potenze mondiali era poco creduto in Occidente se non addirittura irriso. Eppure non faceva altro che sottolineare quello che la società cinese stava disperatamente cercando di realizzare con tutte le sue forze dalla Guerra dell’Oppio in poi, e cioè la riconquista da parte della Cina di quella posizione di prestigio mondiale che aveva sempre ritenuto di dover occupare e che l’Occidente invece le aveva a lungo negato. Ciò avrebbe ovviamente comportato costi e scontri sociali e, soprattutto, una difficile sintesi fra le conseguenze della modernizzazione e gli elementi fondanti della civiltà cinese, un patrimonio che la Cina non poteva né dimenticare né rifiutare.
Le grandi speranze del ’68 di vedere nella Cina soprattutto gli elementi di rottura e novità portavano a sottovalutare la continuità che legava, anche se in maniera spesso contraddittoria, i grandi processi di mutamento che stavano trasformando la società cinese. Ma nello stesso momento il ’68 aveva percepito il grande significato storico della rivoluzione cinese. Il Novecento, infatti, non può essere capito appieno se non si presta la massima attenzione alla rinascita cinese, perché essa impone all’Occidente di dover ripensare alla propria identità di fronte a civiltà che aveva voluto ignorare e sottomettere e che, invece, adesso possono anche apparire come alternativa alla sua potenza. D’ora in poi riflettere sulla natura, sui valori e sui contenuti della propria identità culturale in relazione a quelle degli altri è un compito inevitabile e indispensabile per tutti, a Oriente come a Occidente.
Ma il ’68 aveva anche colto un altro significato nell’esperienza cinese che ha rappresentato veramente un momento di novità e di rottura. Il maoismo è stato un grande e cosciente tentativo di abbinare sviluppo e giustizia sociale, un tentativo forse disperato e per questo contraddittorio e autoritario, dirompente anche per la stessa società cinese, ma al quale va riconosciuto il merito storico di aver posto al mondo questo problema, partendo proprio dalle radici della cultura cinese per mettere in crisi gli assiomi e le sicurezze del capitalismo e del socialismo reale.
Renzo Rastrelli*
* Renzo Rastrelli (1948-2008) è stato docente di Storia politica e diplomatica dell’Asia Orientale presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Firenze.
Note
1 Paolo Pietrangeli, Contessa, “Canti, Contesse e conti”, supplemento a «l’Unità», 18 settembre 1994, n. 220.
2 Ibidem.
3 Le interviste sono in: Parlando di rivoluzioni. Con Mao Tse-tung 21 protagonisti dei gruppi, dei movimenti e delle riviste degli anni ’60 e ’70 descrivono la loro idea di mutamento sociale. Da Ho Chi-minh a Guevara, da Panzieri a Don Milani, da Praga a Saigon, a cura di Roberto Niccolai, Pistoia, Centro di Documentazione di Pistoia, 1998.
IntroduZIONE
di Roberto Niccolai
Clicca per aprire
↓ ↓ ↓
Roberto Niccolai
Quando la Cina era vicina
La Rivoluzione Culturale e la sinistra extraparlamentare italiana negli anni ’60 e ’70
(Pisa-Pistoia, 1988)
Introduzione
Per la storia del nostro secolo il 1989 ha rappresentato una tappa fondamentale: è stato l’anno in cui l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche ha ufficialmente iniziato a vedere sgretolarsi di fronte a sé quello che molti, in tutto il mondo, avevano definito l’“Impero sovietico”. Le contestazioni di milioni di persone in ogni paese dell’Est europeo esprimevano la volontà e il desiderio di questi “sudditi socialisti” che venisse reciso il legame con lo Stato concepito dopo la Rivoluzione d’Ottobre del 1917. Quei dodici mesi sono entrati nella storia contemporanea come quelli della rivoluzione; essa, sebbene diversificata nelle sue forme – da quella di velluto in Cecoslovacchia a quella cruenta in Romania – svolge il ruolo di spartiacque per la storia del ’900, e si pone inconsapevolmente come erede del mutamento sociale che proprio duecento anni prima sconvolse la Francia. Sebbene i mutamenti del 1989 abbiano ristabilito un contatto con quelli del 1789, in merito anche agli obiettivi fondamentali – non si viveva e non si moriva più per il socialismo, ma per la libertà – è possibile collegarsi, pensando a quell’anno, a un altro riferimento rilevante: una “rivoluzione mancata” o “interrotta”, probabilmente l’ultima in ordine temporale, concepita nella sfera occidentale come passaggio dal capitalismo al socialismo. Una rivoluzione che ebbe luogo ben tre decenni prima e la cui data, per ironia della storia, si può ottenere con una rotazione di centottanta gradi dell’89, trovandosi così di fronte all’anno fatidico: il 1968.
Un ’89, seppur privato degli aspetti più “rivoluzionari”, visto come erede di un ’68 interrotto. Se con la caduta del muro di Berlino si contestava – senza porre tuttavia una vera alternativa a esso – un sistema burocratico, che di socialista probabilmente non aveva più niente, fu nel ’68 anno-periodo che emerse, come un grande fiume carsico, una delle più vaste contestazioni al modello del socialismo sovietico che la storia ricordi. In quel caso però il movimento di protesta proponeva un’alternativa al sistema indicato da Mosca, un’alternativa che aveva come elemento centrale il socialismo come prima tappa per raggiungere il comunismo. Un socialismo “altro”, diverso sia nelle forme che nelle concezioni da quello indicato dall’URSS. Per molti il punto di riferimento fu la Cina di Mao e per alcuni di essi fu, soprattutto, la Rivoluzione Culturale del secondo quinquennio degli anni 60. Il ’68 rappresentò per molte donne e uomini una grande speranza di cambiamento radicale delle condizioni di vita dell’umanità, proprio perché, come cantava allora Paolo Pietrangeli, “nessuno più al mondo dev’essere sfruttato”1. Il ’68 esplose con le sue idee e le sue proposte in molti paesi del globo, indipendentemente dal fatto che si trovassero a Est o a Ovest, a Sud o a Nord. Questa “mondializzazione” produsse contatti tra le varie esperienze, e anche l’Italia – almeno per una volta – si trovò tra i protagonisti di quella feconda stagione.
Nonostante le numerose diversità, Italia e Cina instaurarono un collegamento “virtuale” proprio nel 1968: intendendo con questo non tanto i trecentosessantasei giorni che lo componevano, ma piuttosto un arco temporale che per la Cina iniziava con il ’65 e si chiudeva con il ’69, mentre per l’Italia, paradossalmente, si apriva nei primi anni 60 e terminava attorno al ’76, con la morte di Mao e con la successiva svolta del ’77, con il ritorno al privato e il ridimensionamento dell’ideologia all’interno del movimento. In quegli anni per molti italiani, per motivi diversi e alcune volte anche opposti, la Cina – parafrasando il titolo di un film di Marco Bellocchio – era veramente vicina. Il momento principale in cui si verificava questo accostamento riguardava le idee, e, da un certo punto di vista, le speranze. La Cina di Mao prima, e la Rivoluzione Culturale dopo, rappresentarono per molti militanti della sinistra italiana di allora un nuovo punto di riferimento nell’orizzonte del comunismo, e per gran parte di essi significarono una nuova speranza in una rivoluzione socialista, dopo che l’Unione Sovietica e il PCI sembravano aver “la bandiera rossa gettato in un fosso”2.
Per quanto riguarda alcune definizioni dei concetti presi in esame, è stato usato assai raramente “estrema sinistra” e “sinistra extraparlamentare”, rispetto a “sinistra rivoluzionaria” e “Nuova Sinistra”, con le quali si vuole intendere, in maniera non proprio ortodossa, tutti quei gruppi alla sinistra del PCI che si ponevano come obiettivo una rivoluzione classista nell’Italia di quel tempo. Con l’uso del termine “maoista” si indicano – attribuendogli un significato diverso da quello diffuso negli anni tra il 1960 e il 1977 tra le organizzazioni prese in esame – tutti coloro che con diversi gradi di intensità riconducevano la loro teoria e l’applicazione pratica di essa al pensiero di Mao e alla Rivoluzione Culturale, anche utilizzando quel pensiero contro la stessa Repubblica Popolare Cinese, comprendendo così tutta l’area della sinistra rivoluzionaria qui presa in esame, senza limitarsi ai soli marxisti-leninisti classici, gli m-l. Oltre alla consultazione di gran parte delle riviste edite alla sinistra del PCI pubblicate tra il 1960 e il 1990 la ricerca si è strutturata attraverso un’inchiesta orale, effettuata intervistando3 – tra maggio e luglio del 1995 – alcuni dei protagonisti di quegli anni, dei quali è riportato l’elenco di seguito. Di molti di essi sono stati citati dei brani all’interno del testo.
Luciano Della Mea («Quaderni Rossi», PSIUP, Il Potere operaio pisano, «Nuovo Impegno», Lega dei Comunisti pisani, Lotta Continua, Partito d’Unità Proletaria, PCI)
Massimo Gorla (PSI, PCI, «Quaderni Rossi», Quarta Internazionale, Avanguardia Operaia, Democrazia Proletaria)
Vittorio Rieser («Quaderni Rossi», «Quaderni Piacentini», Circolo Lenin di Torino, Avanguardia Operaia, «Quotidiano dei Lavoratori»)
Luigi Vinci (PCI, «Quaderni Rossi», Quarta Internazionale, Avanguardia Operaia, Democrazia Proletaria)
Giuseppe Regis (PCI, Edizioni Oriente, «Nuova Unità», «Vento dell’Est»)
Mireille De Gouville («Vento dell’Est»)
Walter Peruzzi («Lavoro Politico», Partito Comunista d’Italia, Partito Comunista d’Italia Linea Rossa)
Angiolo Gracci (PCI, «Nuova Unità», Partito Comunista d’Italia, Partito Comunista d’Italia Linea Rossa)
Osvaldo Pesce (PCI, «Nuova Unità», Partito Comunista d’Italia, Partito Comunista d’Italia Linea Nera, Organizzazione dei Comunisti (m-l) d’Italia, Partito Comunista Unificato d’Italia)
Manlio Dinucci (Edizioni in lingua estera di Pechino, Partito Comunista d’Italia Linea Nera)
Carla Pellegrini (Edizioni in lingua estera di Pechino, Partito Comunista d’Italia Linea Nera)
Aldo Brandirali (PCI, Falcemartello, Unione dei Comunisti Italiani (m-l), Partito Comunista (m-l) Italiano)
Marianella Pirzio Biroli Sclavi (PSIUP, Movimento Studentesco di Trento, Partito d’Unità Proletaria, Partito d’Unità Proletaria per il Comunismo)
Luigi Bobbio (PSIUP, Movimento Studentesco di Torino, Lotta Continua)
Mario Capanna (Movimento Studentesco di Milano, Movimento Studentesco della Statale di Milano, Movimento Studentesco Autonomo, Partito d’Unità Proletaria per il Comunismo, Democrazia Proletaria)
Rina Gagliardi (Movimento Studentesco di Pisa, Lotta Continua, Il Manifesto, Partito d’Unità Proletaria per il Comunismo)
Adriano Sofri (PCI, Movimento Studentesco di Pisa, Il Potere Operaio pisano, Lotta Continua)
Raul Mordenti (Movimento Studentesco di Roma, Democrazia Proletaria)
Franco Russo (Movimento Studentesco di Roma, Nuclei Comunisti Rivoluzionari, Il Comunista, Avanguardia Comunista, Democrazia Proletaria)
K.S. Karol (Il Manifesto)
Lisa Foa (PCI, Il Manifesto, Lotta Continua)
Aldo Natoli (PCI, II Manifesto)
Giovanni Russo Spena (Movimento Politico dei Lavoratori, Partito d’Unità Proletaria, Partito d’Unità Proletaria per il Comunismo, Democrazia Proletaria)
Sebastiano Timpanaro (PSIUP, «Nuovo Impegno», Partito d’Unità Proletaria, Partito d’Unità Proletaria per il Comunismo, Democrazia Proletaria)
Romano Luperini (Il Potere operaio pisano, «Nuovo Impegno», Lega dei Comunisti pisani, Lega dei Comunisti, Democrazia Proletaria)
Giuseppe Pellegrinotti (PCI, sinistra rivoluzionaria)
Dario Fo (Soccorso Rosso, La Comune)
Roberto Niccolai
Dossier Quando la Cina pareva vicina
Stefano Ferrante
La Cina non era vicina
Servire il popolo e il maoismo all’italiana
(Milano, Sperling & Kupfer, 2008)
“Sul Sessantotto italiano soffia il vento della Cina di Mao. E dalle suggestioni di un’idea alternativa di comunismo nasce uno dei gruppi più originali della sinistra extraparlamentare: l’Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti), meglio conosciuta con il nome del loro giornale, «Servire il popolo». È una breve stagione, la loro, compresa tra il grande big bang della rivolta giovanile e la dissoluzione dell’autunno 1975, celebrata dal rito di addio, in 271 errori, del leader Aldo Brandirali. I «cinesi» italiani passeranno alla storia come quelli del matrimonio comunista, dell’asilo maoista, quelli che attiravano gli artisti e «servivano il pollo» anziché il popolo. Meno fascinosi e più dimenticabili, perché la militanza nell’Unione non costituisce pedigree, come accaduto per altri gruppi extraparlamentari che pure hanno segnato in modo ben più drammatico la storia d’Italia. Slanci generosi e vacue illusioni, dogmatismo e utopia, amori e tradimenti: la storia del maoismo all’italiana è stata tutto questo e molto di più. Una vicenda corale, in cui compaiono – protagonisti o comprimari – molti volti noti dell’Italia di oggi (da Michele Santoro a Renato Mannheimer, dai fratelli Pennacchi a Marco Bellocchio, da Lou Castel a Enzo Lo Giudice, da Barbara Pollastrini a Linda Lanzillotta…): un piccolo esercito di sognatori che credeva di poter cambiare il mondo” (dal risvolto di copertina del volume).
Nella composita galassia dei partiti e movimenti maoisti italiani un posto a parte lo occupò il partito noto popolarmente col nome del suo organo di stampa, «Servire il popolo», che tenne il campo dal 1968 a metà anni ’70 e il cui capo indiscusso, Aldo Brandirali, visse una parabola che lo portò infine addirittura in Comunione e Liberazione e in Forza Italia. Ed è tutto dire. A questo singolare partito è dedicato lo studio del giornalista Stefano Ferrante, di cui diamo la Premessa, che serve anche da breve presentazione dell’oggetto della ricerca, e il Prologo, che però somiglia tanto a un epilogo.
Clicca per aprire
↓ ↓ ↓
Stefano Ferrante
La Cina non era vicina
Servire il popolo e il maoismo all’italiana
(Milano, Sperling & Kupfer, 2008)
Premessa
A volte sono gli episodi, più che le storie, a fare una memoria collettiva. Un’epica vittoria, una devastante sconfitta, una parola d’ordine azzeccata, una scelta eccentrica incardinano persone e comunità nella rubrica dei ricordi. Le relegano in un registro, in un tono dell’esistenza: comico, drammatico, farsesco. È una sorta di tribunale minore della storia, di giudizio a margine, che non finisce nei libri mastri del grande cammino dell’umanità o di una nazione: restano note, emergenze che affiorano nei ricordi di ciascuno, scampoli sottratti all’oblio di cronache che incorporano esistenze e destini, travolti dal grande flusso.
Per i più quelli di Servire il popolo sono quelli del matrimonio comunista, scelta bizzarra e ideologica che li portò sulle pagine dei rotocalchi. Ricordo circondato di ironia e sarcasmo, gli stessi che accompagnarono sin dall’inizio, soprattutto da parte dei concorrenti della sinistra extraparlamentare, il cammino di questo gruppo, nato sull’onda del ’68 e spentosi sei anni più tardi. Non che ne mancassero le ragioni – la riproduzione nel partito di una piccola Cina all’italiana, il culto della personalità esasperato per Brandirali, effigiato come un piccolo Mao, una buona dose di ingenuo fideismo e moralismo démodé e a volte bacchettone – ma la storia dell’Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti), il vero, primo nome dell’organizzazione, non è stata solo questo. È stata soprattutto la vicenda di una comunità, la prima a organizzarsi con successo dopo il ’68, avvolta nel sogno di cambiare il mondo, di ringiovanire il socialismo, di fare la rivoluzione, gli stessi ideali di tante altre comunità in quegli anni, alla sinistra del Pci. Un sogno che i maoisti coltivano a modo loro, a metà strada tra il rimpianto per un Partito comunista degli anni Cinquanta che non c’è più e l’emulazione di una rivoluzione che non finisce mai, pura e lontana migliaia di chilometri, in un’aspirazione di assoluto destinata a essere inappagata, a produrre alla fine il ripiegamento, fino al rischio di diventare setta.
La storia dei compagni di Servire il popolo, gli unici in quegli anni a essere chiamati con il nome del proprio giornale meticolosamente diffuso, è una storia generosa di lotte politiche condotte senza risparmio, di anime e tasche svuotate nella convinzione che «in cinque o dieci anni l’Italia sarà rossa», di talenti spesi per un’idea del mondo insieme politica e fanciullesca. È la storia del fascino violento del Libretto rosso, che seduce intellettuali di rango, ragazzi dal futuro politico insospettabile, artisti di successo. È un racconto di amori, amicizie, disillusioni, tradimenti, drammi, in un’Italia che credeva davvero in un futuro migliore.
Dall’Unione sono passati, magari solo per un po’, nomi noti: politici come Barbara Pollastrini e Linda Lanzillotta, giornalisti come Michele Santoro e Gianni Pennacchi, attori come Lou Castel e Renato Carpentieri, registi come Marco Bellocchio e Giuseppe Ferrara, artisti come Mario Schifano e Franco Angeli, cantanti come Pierangelo Bertoli, designer come Enzo Mari, scrittori come Antonio Pennacchi e Fulvio Abbate, solo per citarne alcuni. E tanti intellettuali di assoluto valore nell’Unione si sono gettati con tutti se stessi.
Erano ricchi borghesi afflitti da sensi di colpa, finanziatori della poderosa macchina di propaganda, e operai delusi dal Pci o dai sindacati. Erano sognatori, che hanno puntato tutta la posta senza fare calcoli. Nessuno di loro, oggi, difende in blocco le scelte politiche di allora, ma nessuno di loro è pentito di aver creduto di poter cambiare il mondo. C’è chi ha fatto inversioni a «U» politiche ed esistenziali, chi ha solo aggiornato il calendario e le parole delle lotte.
Una storia collettiva dispersa in tanti rivoli individuali. E dimenticata. Perché essere di «Servire il pollo» (così li dileggiavano gli altri dell’ultrasinistra) non fa pedigree, come invece l’appartenenza ad altri gruppi che hanno segnato anche drammaticamente la storia d’Italia. E con i quali la memoria collettiva è stata assai più indulgente. Anche per questo, nel mio viaggio all’indietro nel tempo intrapreso per scrivere questo libro, all’inizio ho incontrato in tanti vecchi compagni dell’Unione diffidenza, timori, la paura che si trattasse di un nuovo tentativo di fare la caricatura di una comunità, di raccontare insomma quelli del matrimonio comunista. Un muro che si è presto sgretolato e ha lasciato il posto a una rete di piccoli e grandi sostegni, di slanci per riuscire a recuperare alla storia di quegli anni un frammento sepolto. […]
Stefano Ferrante
(Tratto da: Stefano Ferrante, La Cina non era vicina. Servire il popolo e il maoismo all’italiana, Milano, Sperling & Kupfer, 2008, pp. IX-XI).
Prologo
Duecentosettantuno addii
Duecentosettantuno. Aldo li ha contati e ricontati, annotati, riscritti. Non uno di più, non uno di meno, un numero preciso, perfetto e solido come solo i numeri primi sanno essere. Duecentosettantuno errori che avrebbero giustificato davanti a tutti il colpo di scena, la fine del film, The End. Sette anni di accelerazioni e frenate, slanci e ripiegamenti, intuizioni e abbagli, generosità e chiusure, esaltazioni e depressioni, orgoglio e derisioni, i sette anni di storia dell’Unione e del Partito comunista (marxista-leninista) italiano, dei maoisti italiani, quelli di «Servire il popolo», dei libretti rossi e dei ritratti di Mao portati in corteo sui baldacchini, dei matrimoni comunisti, ma anche di tante battaglie per le case, gli asili, i salari, le ingiustizie.
Il 22 novembre 1975 Aldo Brandirali lascia, dice addio al partito che ha guidato dall’inizio – sin da quando si chiamava Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti) – da leader carismatico, indiscusso e idolatrato fino quasi al misticismo.
Per scrivere il suo discorso di addio alla comunità dei maoisti all’italiana, il «promesso Mao» nostrano ha ripercorso tutti quegli anni pagina per pagina sugli annali della rivoluzione annunciata e mai fatta, sui numeri di «Servire il popolo» e di «La voce operaia», nella miriade di opuscoli e pubblicazioni. E ha scritto pazientemente, a volte con rimpianto, altre con rabbia, episodio per episodio, cosa non ha funzionato, cosa lui e gli altri fedelissimi del «nucleo d’acciaio» hanno sbagliato.
Preparare l’ultimo discorso significa per lui immergersi nelle istantanee e nelle parole di sette anni intensi e lunghi, una vita intera per tutti quelli che nel sogno cinese di un socialismo puro avevano speso tutto, fino a svuotare l’animo e le tasche. «Marx, Lenin, Stalin, Mao, Bran-di-rali», avevano scandito migliaia di giovani, magari per pentirsene quasi subito, nei cortei e nelle piazze. E lui aveva ascoltato con inevitabile compiacimento.
Ma ora che la sua leadership è assediata, nel nome di quello che in fondo ha sempre considerato il nemico numero uno della causa rivoluzionaria, l’intellettualismo, e che tanti fondatori se ne sono già andati, è arrivato il momento di lasciare, con la morte nel cuore, ma con la certezza che la storia, quella storia, è ormai finita. Che la continuino altri, magari anche con lo stesso nome; ma sarebbe un’agonia, e comunque un’altra storia.
Pensa solo a questo, Aldo, mentre si avvicina al podio dell’oratore nella sede nazionale del partito. E dà il via a un abbandono lungo due ore, un elenco infinito, documentato e tedioso, di sbagli nell’analisi, nelle soluzioni, persino nell’organizzazione – vanto dei maoisti italiani –, un elenco cui nessuno o quasi presta attenzione, perché in fondo la posta in gioco è un’altra: l’esaurimento di un’avventura. Duecentosettantuno errori e una sola conclusione: il tram deve fermarsi, io scendo qui e ora, voi dovreste fare lo stesso.
Sono la critica e l’autocritica estreme e finali del capo, dolorose come quelle che hanno trapassato, scosso, distrutto o rinforzato migliaia di compagne e compagni del partito.
«No», si è ripromesso Brandirali scrivendo il suo discorso, «non sarà un’abiura del marxismo o del comunismo. Elencherò tutte le cose che abbiamo sbagliato e lancerò un avvertimento: molliamo tutto prima di essere risucchiati dal partito armato». Rischi che altri hanno scelto di correre comunque, senza di lui, ma con la stessa ditta.
«Dove avrò messo quel discorso?»
Trentatré anni dopo Aldo Brandirali cerca quei fogli sugli scaffali di un garage del palazzone in cui abita alla Cascina California, oltre Niguarda, periferia milanese. Anche oggi quel colpo di teatro, il suo «non ci sto più», lo spiega così, come un’ultima frenata prima dell’errore più grave, del crash sanguinoso.
Aldo sfoglia le carte ordinate, la collezione completa di «Servire il popolo», le riviste, l’opuscoleria massicciamente prodotta dall’Unione, dai vademecum sintetici con le direttive dei militanti alle opere di Stalin che, bandite anche dal Pci dopo le denunce di Kruscëv, proprio i maoisti avevano fatto ristampare.
Ricorda bene il discorso dei duecentosettantuno errori che segnò una svolta, lo stop a una storia iniziata nel magma colorato del ’68 e arrivata fino all’avanzata elettorale inesorabile del Pci e al cupo incedere della stagione della lotta armata. Una svolta che fece discutere, non meno di quella, personale, avvenuta molti anni dopo: la conversione al cattolicesimo, l’approdo a Comunione e liberazione, poi l’esperienza di assessore allo Sport del Comune di Milano con Forza Italia e, oggi, un semplice scranno da consigliere comunale.
Voltagabbana: è questo e solo questo, per tanti ex compagni. Per alcuni è qualcosa di peggio: un traditore. Per tanti altri, senza rancore, un compagno di strada in buona fede che si è perso, o uno di quelli che negli anni del movimento ha maneggiato senza troppe remore la pericolosissima, esplosiva miscela di gioventù e fanatismo.
Alcuni sospendono il giudizio e ricordano il compagno di anni di impegno e lotte condotte insieme con generosità. Altri ancora, forse con più raffinata malizia, raccontano di quando Brandirali al primo incontro con il fondatore di Cl gli avrebbe detto: «Don Giussani, ti cerco da una vita». «È verosimile», assicurano. «In fondo ha solo cambiato chiesa, da quella rossa dell’Unione a quella bianca di Cl». Una provocazione, o forse una suggestione. Perché quella dell’Unione o, come tutti la chiamavano, di Servire il popolo, è soprattutto la storia di una comunità, attraverso anni burrascosi e generosi.
Il tuffo nella memoria tra polvere e carte, cui è stato costretto dalla mia insistenza, fa sorridere Brandirali: «Di’ a tutti quelli che incontri che io comunque gli voglio bene!». Lui continua a cercare curvo sugli scaffali: ma del discorso dei duecentosettantuno errori, tra massicci e scoloriti dattiloscritti di interventi al comitato centrale, direttive e circolari, nel garage di Niguarda non c’è traccia.
Le parole dell’abbandono del capo sono state inghiottite dal tempo. Rimosse, come certi lutti inaccettabili. E non è un caso, forse, che la prima traccia per ricostruire la storia dei maoisti di Servire il popolo sia proprio un discorso fantasma.
Stefano Ferrante
(Tratto da: Stefano Ferrante, La Cina non era vicina. Servire il popolo e il maoismo all’italiana, Milano, Sperling & Kupfer, 2008, pp. 1-4).
Inserito il 27/08/2023.
Dossier Quando la Cina pareva vicina
Repertorio fotografico
Fonte della foto: https://www.pclavoratori.it/files/index.php?obj=NEWS&oid=6579
Foto: Fotogramma / De Bellis.
Fonte della foto: https://images2.corriereobjects.it/methode_image/2016/05/15/Esteri/Foto%20Gallery/02-fotogramma.jpg
Fonte della foto: https://proletaricomunisti.blogspot.com/2019_03_31_archive.html
Fonte della foto: https://www.storiologia.it/musica/musica9.htm
Foto: AP Photo / LaPresse.
Fonte della foto: https://www.corriere.it/foto-gallery/esteri/16_maggio_15/gli-italiani-rivoluzione-culturale-cinese-7abcd02c-1a83-11e6-9f10-8b4bf852589a.shtml
Jean-Luc Godard (1930-2022), come molti cineasti francesi, abbracciò la Rivoluzione culturale; proprio in quegli anni diresse il film La cinese.
Fonte della foto: https://www.corriere.it/foto-gallery/esteri/16_maggio_15/gli-italiani-rivoluzione-culturale-cinese-7abcd02c-1a83-11e6-9f10-8b4bf852589a.shtml
Jean-Paul Sartre (1905-1980) a metà degli anni ’50 visitò la Cina e ne sostenne gli sforzi politici, fondendo poi le istanze del maoismo con le spinte libertarie del ’68 francese.
Foto: LaPresse.
Fonte della foto: https://www.corriere.it/foto-gallery/esteri/16_maggio_15/gli-italiani-rivoluzione-culturale-cinese-7abcd02c-1a83-11e6-9f10-8b4bf852589a.shtml
Mario Capanna (n. 1945), leader del Movimento studentesco negli anni ’70.
Foto: Fotogramma.
Fonte della foto: https://www.corriere.it/foto-gallery/esteri/16_maggio_15/gli-italiani-rivoluzione-culturale-cinese-7abcd02c-1a83-11e6-9f10-8b4bf852589a.shtml
Adriano Sofri (n. 1942), leader di Lotta Continua.
Foto: Archivio Rcs.
Fonte della foto: https://www.corriere.it/foto-gallery/esteri/16_maggio_15/gli-italiani-rivoluzione-culturale-cinese-7abcd02c-1a83-11e6-9f10-8b4bf852589a.shtml
Barbara Pollastrini (n. 1947) era dirigente dell’Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti), Servire il popolo; sposò il futuro sondaggista Renato Mannheimer in un “matrimonio rosso" celebrato dal capo di Servire il popolo Aldo Brandirali.
Fonte della foto: https://www.corriere.it/foto-gallery/esteri/16_maggio_15/gli-italiani-rivoluzione-culturale-cinese-7abcd02c-1a83-11e6-9f10-8b4bf852589a.shtml
Dario Fo (1926-2016) fu tra i molti intellettuali italiani attratti dalla Rivoluzione culturale cinese. Qui in una foto sulla Grande Muraglia.
Foto: Archivio Rcs.
Fonte della foto: https://www.corriere.it/foto-gallery/esteri/16_maggio_15/gli-italiani-rivoluzione-culturale-cinese-7abcd02c-1a83-11e6-9f10-8b4bf852589a.shtml
Aldo Brandirali (n. 1941), capo indiscusso dell’Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti), meglio nota col nome del giornale «Servire il popolo».
Fonte della foto: https://www.sinistra.ch/wp-content/uploads/2013/04/bradiraligiovane.png
Giangiacomo Feltrinelli (1926-1972) fu uno dei primi a pubblicare la versione italiana del Libretto rosso di Mao Zedong.
Foto: Archivio Rcs.
Fonte della foto: https://www.corriere.it/foto-gallery/esteri/16_maggio_15/gli-italiani-rivoluzione-culturale-cinese-7abcd02c-1a83-11e6-9f10-8b4bf852589a.shtml
Rossana Rossanda (1924-2020), grande sostenitrice della Rivoluzione culturale maoista, fondatrice del «manifesto» con Luigi Pintor, Valentino Parlato e Lucio Magri.
Foto: Archivio Rcs.
Fonte della foto: https://www.corriere.it/foto-gallery/esteri/16_maggio_15/gli-italiani-rivoluzione-culturale-cinese-7abcd02c-1a83-11e6-9f10-8b4bf852589a.shtml
Valentino Parlato (1931-2017), esponente di punta del gruppo del «manifesto» e direttore del giornale per molti anni.
Foto: Archivio Rcs.
Fonte della foto: https://www.corriere.it/foto-gallery/esteri/16_maggio_15/gli-italiani-rivoluzione-culturale-cinese-7abcd02c-1a83-11e6-9f10-8b4bf852589a.shtml
Edoardo Sanguineti (1930-2010) fu tra gli intellettuali che guardarono con favore al maoismo. Nella foto con il poeta statunitense Allen Ginsberg.
Foto: Olycom / Giovanni Giovannetti.
Fonte della foto: https://www.corriere.it/foto-gallery/esteri/16_maggio_15/gli-italiani-rivoluzione-culturale-cinese-7abcd02c-1a83-11e6-9f10-8b4bf852589a.shtml
Il cinema omaggiò la Rivoluzione culturale cinese con diversi film, tra cui La Cina è vicina (1967) di Marco Bellocchio.
Foto: LaPresse.
Fonte della foto: https://www.corriere.it/foto-gallery/esteri/16_maggio_15/gli-italiani-rivoluzione-culturale-cinese-7abcd02c-1a83-11e6-9f10-8b4bf852589a.shtml
Foto: Fotogramma / De Bellis.
Fonte della foto: https://images2.corriereobjects.it/methode_image/2016/05/15/Esteri/Foto%20Gallery/02-fotogramma.jpg
Foto: Fotogramma / De Bellis.
Fonte della foto: https://images2.corriereobjects.it/methode_image/2016/05/15/Esteri/Foto%20Gallery/02-fotogramma.jpg
Foto: Archivio Rcs.
Fonte della foto: https://www.corriere.it/foto-gallery/esteri/16_maggio_15/gli-italiani-rivoluzione-culturale-cinese-7abcd02c-1a83-11e6-9f10-8b4bf852589a.shtml
Fonte della foto: https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=54186
Il regista Marco Bellocchio (n. 1939), gli attori Lou Castel (n. 1943) e Renato Carpentieri (n. 1943), il cantautore Pierangelo Bertoli (1942-2002).
Fonti delle foto:
Bellocchio: https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/eb9f7999667d680af9a85b74d74700ee_XL.jpg
Bertoli: https://rivistapaginauno.it/wp-content/uploads/2023/04/3.jpg
Dossier Quando la Cina pareva vicina
L’arte di Servire il popolo
Gli artisti militanti dell’Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti)
Gli artisti militanti dell’Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti)
di Stefano Ferrante
L’organizzazione più attiva nel panorama maoista degli anni Sessanta-Settanta fu senza dubbio l’Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti), meglio nota come Servire il popolo, dal nome del suo giornale.
Non pochi furono gli artisti che vi aderirono, militandovi attivamente oppure sostenendola finanziariamente. Artisti di tutte le branche dell’arte, dal cinema alla letteratura, dalla pittura alla scultura, dalla musica alle arti grafiche. Bastino i nomi di Marco Bellocchio, Lou Castel, Pierangelo Bertoli, Antonio Pennacchi, Fulvio Abbate, Giò Pomodoro, Franco Angeli, Mario Schifano, ecc.
Dal volume La Cina non era vicina di Stefano Ferrante traiamo il capitolo Gli artisti dell’Unione.
Clicca per aprire
↓ ↓ ↓
Gli artisti dell’Unione
Lo fanno ancora oggi. Ancora oggi lo storpiano, adattato sui giornali alle infinite esigenze della politica estera, della cronaca o dello sport, lo pronunciano come un avvertimento, un monito sull’imminente pericolo giallo. O peggio, lo citano nel modo sbagliato, ricordandolo male, ribaltandone addirittura il significato.
È il destino di un titolo azzeccato, con la sua rima facile, la sua affermazione che nega una lontananza fisicamente incontrovertibile, che suona come una profezia di una storica svolta, oggi, all’inizio del secolo cinese, ancora più di moda.
La Cina è vicina è forse uno dei titoli di film più sfruttati nel gioco infinito e stravolgente del riciclo delle suggestioni, delle citazioni facili da ricordare. Quasi tutti, giustamente, lo associano al nome di Marco Bellocchio. Qualcuno, sbagliando, fa un passo ulteriore e collega la pellicola ai trascorsi maoisti del regista.
Niente di più lontano dalla verità. Perché semmai La Cina è vicina è da ascrivere a quei casi della vita in cui il passato, alla luce delle esperienze di poi, può suonare come autoironia preventiva riservata dalla sorte, un brandello di divinazione; oppure, cambiando prospettiva, a quelle situazioni in cui ciò che accade sembra conseguenza e contrappasso di un’azione precedente.
Proprio così, perché La Cina è vicina – girato nel 1966 e uscito nel 1967 – è proprio la presa in giro del maoismo all’italiana, con i suoi tic, le sue ipocrisie borghesi, le sue inconcludenze; è la parodia – realizzata ben prima della nascita dell’Unione e riferita quindi ad altri gruppi marxisti-leninisti – di quel frammento di mondo folgorato dalla Rivoluzione culturale, di cui proprio Bellocchio nel 1969, nel momento di massima espansione del partito di Brandirali, sarebbe stato forse l’esponente più noto e prestigioso.
«Volevo fare una commedia», racconta il regista, «una commedia provinciale. Tra i Quaderni piacentini e i racconti di mio fratello Piergiorgio, che era uno dei fondatori dei Quaderni ed era stato consigliere comunale a Piacenza, avevo visto questi gruppuscoli, queste piccole cellule di partiti nazionali maoisti peraltro già divisi tra loro. Erano gruppi che facevano riferimento solo a quello che leggevano, e la cui prassi politica era nulla o non aveva alcun seguito. Dopo il movimento del ’68, però, tanti militanti che avevano partecipato alle lotte e sentivano la necessità di organizzarsi trovarono una risposta nel maoismo, nella Rivoluzione culturale e nel Libretto rosso. Così il mio atteggiamento, che era di irrisione, alla fine del ’68 mutò, e quella mi sembrò l’unica possibilità di cambiare il mondo, con una teoria dei principi condivisibili e un’organizzazione in qualche modo plasmata su quelle teorie».
Così il critico impietoso degli extraparlamentari, che giocava sulla loro infatuazione per il socialismo che viene dal lontano Oriente, si ritrova nell’organizzazione che fa della pedissequa fedeltà all’ideale maoista il suo programma politico, la sua ragion d’essere: l’Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti).
Bellocchio è già dichiaratamente dalla parte del movimento: nel 1965 con I pugni in tasca – debutto choc al Festival di Locarno, con tanto di protesta firmata da quarantuno parlamentari democristiani – anticipa in modo dirompente buona parte del temi della contestazione della famiglia e della società borghese che avrebbero alimentato il movimento studentesco. E nel maggio del 1968 il regista firma Discutiamo, discutiamo, episodio di Amore e rabbia, pellicola dell’Italnoleggio realizzata in condominio con altri grandi cineasti come Bernardo Bertolucci, Jean-Luc Godard e Pier Paolo Pasolini: il racconto di Bellocchio è una parodia dei contestati dell’università, i professori, impersonati dagli stessi studenti.
Il regista aderisce all’Unione quasi dall’inizio della storia dell’organizzazione, nell’autunno del 1968. Una scelta che arriva dopo quella che altri della gauche cinematografica avevano bollato come una sorta di diserzione: nell’agosto dello stesso anno, quando i carri armati sovietici a Praga avevano spento la Primavera di Dubček, alla Mostra del cinema di Venezia i cineasti, come era avvenuto a Cannes, avevano protestato e interrotto platealmente la rassegna, ma Marco non c’era.
«Mi fu rimproverato a lungo dagli altri autori», ricorda, «ma io quell’estate ero a Capri, in vacanza. A settembre però c’era una situazione completamente aperta: nei movimenti universitari percepivo l’esigenza non tanto di ricominciare a manifestare, protestare o occupare, quanto quella di organizzarsi in strutture politiche rivoluzionarie».
Il tempo è maturo per una scelta di militanza. Il contatto per entrare nell’Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti) avviene attraverso l’ambiente dei Quaderni piacentini, tramite Nicoletta Stame, sorella di Federico – il notaio che con Piergiorgio Bellocchio, Grazia Cherchi e Goffredo Fofi è uno dei fondatori della rivista –, e il suo compagno Luca Meldolesi. Sono loro a convincere il regista.
«I Quaderni piacentini, che sarebbero stati piuttosto vicini a Lotta continua», spiega Bellocchio, «avevano un atteggiamento molto sospettoso nei confronti dell’Unione. Ma in Servire il popolo io vedevo un radicalismo che oggi definirei religioso, l’idea soprattutto del cambiamento a livello personale, di cambiare se stessi, di mutare l’identità borghese trasformati dal contatto con le classi che avrebbero fatto la rivoluzione. L’idea di Servire il popolo, cioè, era integrarsi, conoscere le classi sfruttate e acquisire da loro la sapienza e la conoscenza, dato che queste classi, poiché producevano, avevano le idee giuste per cambiare il mondo».
Ma la scelta di Bellocchio di entrare nell’Unione ha anche una ragione drammatica e personalissima, il suicidio di suo fratello gemello Pippo: «Fu come la conferma della necessità di cambiare: in fondo la morte di mio fratello era il segno del fallimento di un’identità borghese, di un’infelicità, di una disperazione legata a certi modelli. Aderii dopo la tragedia famigliare con questo pensiero: “Ecco a quali tragedie porta l’essere borghesi”».
Bellocchio lavora nella sede che l’Unione crea per fare proseliti tra gli intellettuali in un villino di Montesacro, a Roma, una specie di ministero della Cultura guidato da Claudio Meldolesi, che studia arte drammatica. È un centro che si occupa anche di stampa e propaganda, di creare manifesti, tazebao e volantini, e funziona come tutte le sezioni del partito: lavoro politico davanti alle scuole, alle fabbriche e nei quartieri, sedute di critica e autocritica… e discussioni infinite.
Il regista va a vivere con altri in un appartamento vicino al villino; la sua militanza nei primi mesi del 1969 è praticamente quotidiana, ma è esentato da volantinaggi e da altre attività riservate ai comuni iscritti.
Bellocchio cerca soprattutto di fare proseliti nel mondo del cinema e tra gli intellettuali. Comincia da quelli che lavorano o hanno lavorato con lui: Lou Castel aderirà con entusiasmo e generosità estrema, senza riserve, sacrificando all’Unione quasi tutti i suoi guadagni, diventando addirittura quadro di partito, restando nel ricordo di tutti l’attore maoista, il rivoluzionario. Altri, come Silvano Agosti, che pure aveva girato i cinegiornali del movimento studentesco, dicono di no.
L’operazione di reclutamento degli artisti, che portano lustro e – cosa non secondaria per la vita del partito – quattrini, beni e opere da collettivizzare, prosegue su vasta scala.
D’altra parte il fascino di Mao e il primato cronologico e organizzativo dell’Unione sulle altre frange del movimento in quei primi mesi hanno una grande forza attrattiva.
Bellocchio racconta: «Ricordo che quando, qualche mese dopo, fu aperta la grande sede nel garage sulla Prenestina invitai alcuni intellettuali a una riunione. Feci molte telefonate a colleghi e artisti che conoscevo, senza troppa fortuna. Ricordo Maselli, e anche Moravia, che vennero per curiosità intellettuale, ma non aderirono. Contattai anche Giovanni Pirelli, che aveva finanziato i movimenti, ma lui mi fece capire immediatamente che non aveva alcuna intenzione di contribuire. Credo che l’Unione fosse vista da una certa classe intellettuale con sufficienza e dalle altre organizzazioni rivoluzionarie quasi come un nemico».
* * *
Il mondo del cinema guarda all’Unione con una certa curiosità: «Da noi sono passati davvero in tanti, e non solo dell’ambiente del cinema, soprattutto dopo il boom del 1° maggio 1960», spiega Brandirali. «Ricordo persino Tinto Brass. Ma anche Monicelli, Antonioni, Bertolucci, Scola, o intellettuali come Umberto Eco. Nessuno aderì, però c’era un certo interesse, anche estetico: vennero a vedere cosa facevamo».
L’Unione cercherà di mantenere queste relazioni anche negli anni successivi, nonostante i rapporti non facili con gli intellettuali che ruotavano attorno al Pci o alle altre sigle extraparlamentari, che continueranno a guardare quelli di Servire il popolo con diffidenza e snobismo: agli inizi degli anni Settanta le proiezioni di film d’autore con relativo dibattito diventano infatti un rito anche per i maoisti, che da principio avevano bollato come borghese, e quindi da condannare, tutta l’arte non dichiaratamente al servizio della rivoluzione.
D’altra parte, in che modo i capi dell’Unione concepissero l’arte e la cultura in genere è chiaro dall’annuncio della prima scuola quadri per artisti e letterati pubblicato su Servire il popolo: «Battere i signori della cultura per liberare le giovani leve dall’egemonia dell’arte borghese, realizzare immagini proletarie di vita italiana che servano l’unità del popolo, creare l’opinione pubblica rivoluzionaria, estendere l’egemonia naturale del Comitato degli artisti e dei letterati rivoluzionari, educare gli artisti proletari, aprire scuole, insegnare l’amore per il popolo, l’odio per la borghesia. Con questi obiettivi, il Comitato degli artisti e dei letterati al servizio del popolo prepara una grande ondata, una potente offensiva che porterà la grande maggioranza dei lavoratori dell’arte e della letteratura sulle posizioni del proletariato»1.
Ma non tutti gli artisti che andarono oltre la curiosità e aderirono lo fecero senza riserve.
Vale anche per Bellocchio, che pure lega il suo nome ai due film prodotti da Servire il popolo: «La mia adesione fu sempre piuttosto ambigua; prova ne sia che non ho mai fatto cose che erano assolutamente all’ordine del giorno in un movimento rivoluzionario, come i volantinaggi. Soprattutto, pur dando spesso somme anche importanti – alcuni milioni – e finanziando i film che realizzavo per l’Unione, non ho mai collettivizzato una parte del patrimonio di famiglia, come facevano quasi tutti, qualche volta indebitandosi. Io per non collettivizzare adducevo delle reali complicazioni burocratiche di divisione dei beni di famiglia, che erano discretamente cospicui, ma in fondo era perché non ero davvero convinto. La mia disponibilità non era propriamente rivoluzionaria, era prudente: prima di dare tutto al popolo aspettavo verifiche ulteriori».
Ma il segno decisivo, che dovrebbe convincerlo definitivamente che la scelta rivoluzionaria dell’Unione è davvero la cosa giusta, non arriva. Anzi, con il passare del tempo i dubbi crescono. Ed è un’occasione, una nuova sfida professionale a recidere i legami tra il regista e l’Unione.
«In pochi mesi», continua Bellocchio, «la mia disponibilità si affievolì, finché, dopo l’estate del 1969, mi arrivò una proposta di Paolo Grassi per una regia a Milano. Lui si era appena separato da Giorgio Strehler e il Piccolo viveva un momento incerto. Accettai e gli proposi Timone d’Atene di Shakespeare, perché era un testo sul denaro che era stato apprezzato da Marx. Lo feci con una certa incoscienza e impreparazione, e infatti, nonostante con me ci fossero grandi professionisti come Salvo Randone, Franco Parenti e il grande scenografo René Allio, l’operazione fu alquanto modesta dal punto di vista registico.
«Fu però il modo per lasciare Roma e allentare i rapporti con l’Unione. Mi ricordo che venne a trovarmi il tesoriere Francesco Talarico, che faceva il giro per raccogliere finanziamenti, e gli diedi una parte del compenso ricevuto dal Piccolo per la regia. Ma poco tempo dopo ero completamente fuori dall’Unione, che mi sembrava cominciasse a mostrare segni di crisi: c’erano state turbolenze a Roma, si rafforzava un certo culto della personalità verso i dirigenti del ‘nucleo d’acciaio’, e non mancavo di vedere che la ripetizione di certi rituali cinesi, diffusi dai telegiornali, non aveva un rapporto con la realtà. Avevo la sensazione che la cosa non potesse avere vita lunga, anche se vedevo tutto come una rappresentazione ideale, come una forma rituale, di cerimonia religiosa. Quando me ne andai recuperai completamente la mia autonomia, la mia libertà e anche la mia infelicità, perché vidi che i cambiamenti che mi aspettavo non c’erano stati. In fondo le parole d’ordine erano affascinanti e rispondevano a esigenze profonde, poi però, nel momento del radicamento, in Italia non c’erano assolutamente le condizioni sociali perché questi principi ramificassero al punto di incrinare la solidità della classe borghese».
Durante la sua militanza nell’Unione, comunque, Bellocchio mette da parte la sua identità di regista di successo e intraprende il percorso di autore al servizio della rivoluzione: «All’arte borghese mi toccava in qualche modo rinunciare perché dovevo mettere la mia capacità di fare immagini al servizio della causa rivoluzionaria. Io produssi per il partito e accettando la disciplina del partito».
Enzo Caputo ricorda: «Alla fine del 1968 Marco aveva filmato, con me e Daniele Marfori nelle vesti di attori, alcune scene di contestazione nelle aule della Sapienza, scene di cui però non si fece mai nulla».
Ma l’occasione per fare un film rivoluzionario arriva presto: tra il febbraio e il marzo del 1969, a Paola, secondo le indicazioni dei dirigenti, Bellocchio gira, a sue spese, Il popolo calabrese ha rialzato la testa, che documenta in bianco e nero l’occupazione delle case popolari e la capacità di mobilitazione dell’Unione. Poi contribuirà a girare con una troupe Viva il 1° maggio rosso proletario, un breve film a colori che testimonia il grande exploit propagandistico della Festa dei lavoratori del 1969, il momento di maggiore gloria mediatica per Servire il popolo.
Se Bellocchio aderisce con prudenza, Lou Castel invece resta nell’Unione quasi fino alla fine, senza se e senza ma.
«Lui», ricorda ancora il regista, «ha dato proprio tutto se stesso, ha sacrificato la sua carriera alla militanza, ha dato tutti i suoi averi al partito, fino all’ultimo centesimo. Nel 1968 aveva già alle sue spalle I pugni in tasca e Grazie zia di Salvatore Samperi – due grandi successi – e aveva acquisito un grande potere contrattuale, che nel tempo ha poi perso anche a causa delle sue scelte politiche, della sua generosità».
Lou Castel, all’anagrafe Ulv Quarzéll, figlio di un diplomatico svedese e di una intellettuale di sinistra anglo-irlandese, è nato in Colombia. Dopo la separazione dei genitori, affidato al padre, va a vivere in Svezia dove si iscrive, con il fratello gemello Bjorn, al prestigioso collegio Sigtuna, frequentato anche dai reali. In Italia viene per fare visita alla madre e alle sorelle Pilar e Solveig, che si sono stabilite a Roma nel 1958 e che per scelta della madre, decisa a non farsi rintracciare dopo una lite con un vecchio padrone di casa, hanno iniziato a farsi chiamare con un nuovo cognome frutto di fantasia, Castel. Lou decide di trasferirsi a sua volta in Italia nel 1963. Frequenta i corsi di recitazione di Alessandro Fersen, il primo a importare in Italia il metodo Stanislavskij. Deluso, si iscrive al corso di regia del Centro sperimentale di cinematografia. Ed è lì che avviene l’incontro con Marco Bellocchio.
Ricorda la sorella Pilar: «Marco stava facendo provini agli allievi del Centro per trovare l’interprete di I pugni in tasca. Nessuno sembrava fare al caso suo. Qualcuno gli segnalò che al corso di regia c’era uno svedese che aveva studiato recitazione. Allestì subito il provino. Lou era tesissimo, emozionato. Quando tutto fu pronto per iniziare improvvisamente le luci si spensero: un black out. Per la tensione Lou al buio iniziò a ridere con una risata liberatoria, nervosa. La risata piacque a Bellocchio che lo scritturò subito».
Il personaggio di Castel è caratterizzato proprio dal suo ghigno e da quella risata insistente. Un ruolo forte, estremamente dissacrante, in un film che mette sotto accusa la famiglia fino a evocare temi tabù come l’incesto. Per quella parte il regista aveva pensato all’inizio al giovanissimo Gianni Morandi, che però aveva rifiutato per l’opposizione di suo padre e del suo paroliere Migliacci, che temevano una ricaduta di immagine negativa per il cantante. Castel – che con Bellocchio girerà ancora Nel nome del padre e Gli occhi, la bocca – si rivela uno dei punti di forza del film, dimostra grande potenza espressiva, è apprezzato anche dalla critica straniera e diventa un interprete richiesto e ben pagato. Quando aderisce all’Unione, però, accetta le regole di tutti i militanti. Anzi, sceglie di diventare rivoluzionario di professione e di impegnarsi come quadro, addirittura in un’improbabile missione di evangelizzazione maoista con Daniele Marfori, incaricato, nella primavera del 1969, di radicare il partito nelle zone della Calabria in cui non aveva ancora una presenza.
«Venne con me per vedere un mondo diverso da Roma e dalla Svezia», ricorda Marfori. «Dovevamo cominciare da San Giovanni in Fiore, sulle montagne della Sila, molto in alto. C’era una povertà estrema ed era uno dei regni della malavita. Eravamo due estranei, io e soprattutto Lou, che non parlava neanche bene l’italiano. Andammo a finire a dormire nella stanza della madre di un detenuto del manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto. La donna cercava di utilizzarci per leggere le lettere del figlio che non era riuscita a capire e per scriverne altre. Non so cosa avesse combinato il figlio di questa povera vecchietta. Ma dopo tre giorni io dissi basta, perché non si poteva piombare dall’esterno in questo modo. Allora andai a Paola e posi la questione a Lo Giudice. Fummo mandati a Castrovillari, che era una cittadina abbastanza grande, con una vita economica, con studenti, braccianti forestali, paesini intorno e lo sbocco sulla piana di Sibari. Lou fu ancora una volta generoso. Mi volle regalare una stoffa blu per farmi il vestito per il mio matrimonio, che poi celebrai in Comune a Roma: lo feci confezionare da un sarto proprio a Castrovillari».
«Lou si applicava molto nel suo lavoro di rivoluzionario di professione», racconta Sergio Bonriposi. «Mi scriveva dei resoconti, in un italiano un po’ esilarante: Papanice per lui era Papanicio. Era divertente ed era un cuore d’oro».
«Me lo ricordo nei primissimi mesi dell’Unione, prima che lui fosse mandato in Calabria e io in Puglia, davanti ai cancelli della Ceat di Latina a fare i volantinaggi. Giravamo tutte le fabbriche, poi andavamo a mangiare a casa dei miei genitori. Una volta con la sua macchina abbiamo avuto pure un incidente», ricorda Antonio Pennacchi, fratello di Gianni e a sua volta militante.
La disponibilità di Castel verso l’Unione è totale. Come gli altri quadri e militanti (e come lo stesso Bellocchio) percepisce solo 70.000 lire al mese, stipendio operaio: tutto il resto, e non è poco, non passava neppure attraverso le sue mani, perché era l’incaricato del partito a riscuotere. Spinto dai dirigenti del partito, per finanziare la causa finisce per accettare qualunque parte e l’etichetta di attore maoista ed extraparlamentare che gli resta appiccicata addosso certo non l’aiuta professionalmente. Ma non molla. Resta nell’Unione anche quando, qualche anno dopo, le autorità italiane cercano di espellerlo in modo pretestuoso.
Ma l’arte dell’Unione non è solo cinema.
Tra i militanti ci sono musicisti di rango impegnati soprattutto nel recupero del canti della tradizione popolare, spesso di lotta, da salvare dal rischio dell’oblio e da attualizzare per le nuove proteste. È un lavoro che negli spettacoli per il partito si interseca con quello degli attori di teatro che propongono piccole storie dal sapore edificante, dove si mescolano ricerca, sperimentazione e propaganda.
Molti di quelli che negli anni Settanta rinverdiranno la musica folk con il fenomeno del Nuovo canzoniere italiano e dei canzonieri regionali, che recuperano la canzone dialettale, il canto popolare di lotta e di protesta, passano proprio dall’Unione: è il caso di Carlo Siliotto, Diego Giannattasio, Ciccio Giuffrida, Gianni Famoso, e di altri, come Pierangelo Bertoli, che più avanti daranno vita al Canzoniere del vento rosso, con il marchio di approvazione di Brandirali e del «nucleo d’acciaio».
Ricorda Claudio Meldolesi, che oltre che dirigente dell’Unione era assistente della cattedra di Storia del teatro alla Sapienza: «C’era l’idea di conciliare l’impegno politico con l’esperienza del bello, e questa era un’idea interessante. Erano cose che erano state fatte anche dal Pci nel dopoguerra, ma questa era una versione aggiornata».
Ma soprattutto l’Unione affascina pittori e scultori, giovani emergenti e anche artisti famosi.
Su tutti Mario Schifano e Franco Angeli, già affermati: non aderiscono al codice moralista dell’Unione, non rinunciano alla propria sregolatezza, alle donne e alla droga, ma partecipano, a Roma come a Paola, alle manifestazioni pubbliche del partito, che diventano anche soggetti dei loro quadri, tele emulsionate, rielaborazioni con lo smalto di foto dei cortei, con gli striscioni, i libretti rossi, i ritratti di Mao, Marx, Engels, Lenin e Stalin.
In Calabria, mentre si gira il film sull’occupazione delle case, ci sono anche loro. E addirittura i dirigenti locali chiedono che Angeli e Schifano si taglino i capelli per rispettare il decoro che i militanti del partito si erano imposti. Loro, ridendo, accettano e sfoltiscono la chioma.
Soprattutto attorno alla figura di Schifano fioriscono aneddoti. Come quello su Festa cinese, il quadro che il pittore dipinge per la sala da pranzo dell’abitazione romana di Gianni Agnelli: una selva di bandiere rosse davanti alla quale l’Avvocato, cui pure piaceva frequentare l’artista, scuote la testa. La moglie Marella spiega che il quadro non va bene: «Sai, Mario, qui da noi vengono molte persone, anche straniere, capisci?»2.
Schifano è attratto dall’Unione, gli piace quell’entusiasmo, quel tentativo di convogliare le energie del movimento. Certamente non ha l’indole del rivoluzionario di professione, dell’aspirante quadro di partito: è artista libero e libertario, ma l’idea dell’arte al servizio del popolo lo affascina, e frequenta i dirigenti del partito, a cominciare da Brandirali.
Lui stesso lo spiegherà qualche anno dopo, quando questo entusiasmo sarà finito: «Nel ’68 ho sentito il fascino della contestazione. Il motivo era uno: il rifiuto dei giovani a sentirsi assimilati ai padri mi piace, è un atto di coraggio. Non solo: è anche un atto di cultura. Quel che non mi piaceva, e tuttora non mi piace. sono coloro che discutevano e discutono con un accanimento, una cecità, una stupidità che è solo fascismo. Ho fatto dei quadri, ho fatto due film. Il popolo non lo servo con i colori o in cinepresa. Lo servo col denaro. Do denaro a questi ragazzi. D’altra parte, perché no? Il denaro lo guadagno con brutale facilità»3.
Soldi e soprattutto contributi in natura, quadri all’Unione. Per chi si occupa di reperire le risorse per il partito il passaggio nello studio di Schifano diventa quasi un rito periodico e frequente. L’artista è generoso con il gruppo marxista-leninista, e in seguito lo sarà anche con altri gruppi della sinistra extraparlamentare; regalerà i suoi quadri anche al Pci, a Rifondazione comunista, ai Verdi. È il suo modo di impegnarsi, con il suo talento, con l’arte al di là dell’arte.
* * *
Se quella di Angeli e Schifano è un’adesione sui generis, ma pur sempre un’adesione, altri artisti, pur senza far parte dell’Unione, la aiutano regalando opere utili al finanziamento: è il caso di Tano Festa e degli scultori Mario Ceroli e Giò Pomodoro.
Altri giovani che stanno emergendo nel mondo dell’arte entrano nell’Unione a tutti gli effetti. Il lavoro per chi sa disegnare non manca: tazebao, ritratti di leader, striscioni, serigrafie, cianografie, la produzione grafica di Servire il popolo è incessante. Il primo ad avere l’idea di realizzare manifesti in serigrafia, sul tipo di quelli del maggio francese, è Antonio Russo. Per l’Italia del movimento è un’assoluta novità.
«Liberare la creatività» era uno dei motti del manifesto fondativo del partito, e la capacità propagandistica dei maoisti si fondava sulla capacità comunicativa delle immagini. Nanni Valentini e Cecilia Capuana sono gli autori dei giganteschi ritratti di Mao radioso portati sul baldacchino come santi nelle manifestazioni; Wolfango De Francesco è un formidabile creatore di disegni a tempo di record; Mojmir Jezek realizza un gigantesco tazebao di 11 metri per la strage di piazza delle Tre culture a Città del Messico e poi si «arruola» nell’Unione, accettando dopo un po’ di mettere da parte la sua professione di disegnatore e vignettista.
Jezek, che nell’Unione resterà a lungo, ricorda: «A tanti artisti era sembrato plausibile che per fare la rivoluzione occorresse un “nucleo d’acciaio”. Con il senno di poi c’era – come, in modo diverso, in tutti gli altri gruppi parlamentari, da Lotta continua ad Autonomia operaia – molta ottusità, ma anche una grande passione e voglia di cambiare il mondo». A Milano c’è anche il designer Enzo Mari, e c’è Pino Spagnulo, un giovane scultore emergente, figlio di un maestro ceramista di Grottaglie, che arriva a Milano per fare, con successo, il grande salto. Convinto da Nanni Valentini, entra nell’Unione da subito con grande entusiasmo, fa il lavoro politico, la dura vita del volantinatore, le sedute di critica e autocritica e le manifestazioni, dona opere, è un organico, insomma, ma non rinuncerà mai alla sua arte: «Non ho mai lasciato il mio lavoro, la scultura. E così mi accusavano di essere borghese. Io per difendermi una volta feci un esempio: Kalashnikov costruì un grande fucile servito anche al popolo, ma è anche il fucile preferito dalla mafia. Così è l’arte: è uno strumento».
Il rapporto tra arte e rivoluzione torna ciclicamente nelle sedute di critica e autocritica. Ma se l’autore finiva sotto accusa poteva sperare in un po’ di indulgenza come finanziatore del partito: «Ci si chiedeva», continua Spagnulo, «quale fosse il significato di ogni opera d’arte, a chi fosse rivolta. La domanda chiave era: “È per il popolo o non è per il popolo?” Io ho sempre sostenuto che ci sono due livelli: uno è quello della propaganda, con Mao e gli operai con il pugno chiuso, il secondo livello è quello dell’arte, che parte dall’anima, dal rapporto con i sentimenti, anche con la disperazione. E mi dicevano: “La disperazione? Allora sei borghese, perché la disperazione è un sentimento borghese”. L’unica cosa che mi salvava dall’espulsione è che davo parecchi soldi».
Stefano Ferrante
(Tratto da: Stefano Ferrante, La Cina non era vicina. Servire il popolo e il maoismo all’italiana, Milano, Sperling & Kupfer, 2008, pp. 43-55).
Note
1 Servire il popolo, 15 giugno 1969, anno II, n. 7, p. 2.
2 L’episodio è raccontato nel romanzo di Fulvio Abbate Quando è la rivoluzione, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2007.
3 Mario Schifano, approssimativamente, in Mario Schifano tutto, Feltrinelli, Milano 2008, p. 50.
Inserito il 14/09/2023.
Dossier Quando la Cina pareva vicina
Dalla rivista «Internazionale»
Sulle tracce di Michelangelo Antonioni in Cina
Il documentario “Chung Kuo, Cina” girato nel 1972
Il documentario “Chung Kuo, Cina” girato nel 1972
di Junko Terao
Un ritorno sui luoghi delle riprese effettuate dalla RAI nel 1972 nella Cina di Mao Zedong sotto la direzione del regista Michelangelo Antonioni.
Clicca per aprire
↓ ↓ ↓
Sulle tracce di Michelangelo Antonioni in Cina
di Junko Terao
La donna avrà avuto più o meno ottant’anni. Seduta dall’altro lato del corridoio sul treno superveloce Shanghai-Pechino – 1.350 chilometri in meno di cinque ore – allungava il collo attirata dalle immagini sullo schermo del computer che avevo di fronte, cercando però di non darlo a vedere. Il resto del vagone sonnecchiava, mentre fuori dai finestrini giungle di palazzoni si alternavano a impianti industriali e alla campagna disordinata che circonda le città cinesi. Nella carrozza ristorante, occupata da un gruppo di pensionati e dai loro thermos di tè, era in corso un torneo di carte. Considerata l’età della donna, le immagini che tenevano il suo sguardo incollato al mio computer dovevano esserle familiari. Con la stessa finta indifferenza, girai il portatile in modo che potesse sbirciare meglio.
Avevo trovato una copia di Chung Kuo, Cina, il documentario girato in Cina da Michelangelo Antonioni nel 1972, in uno dei tanti negozi di dvd piratati di Shanghai, dove accanto agli ultimi blockbuster si potevano trovare film d’essai e alcune rarità della cinematografia mondiale in confezioni più che dignitose e a prezzi irrisori. Era il 2013 e in Cina il boom dei film online sarebbe arrivato di lì a poco.
Prima ancora che l’opera di uno dei giganti della storia del cinema, Chung Kuo, Cina è uno dei pochi materiali video girati nella Cina di quegli anni disponibili oggi, un documento prezioso per chi dell’epoca di Mao Zedong e della rivoluzione culturale ha sentito solo i racconti da genitori e nonni. Senza sapere chi sia Antonioni, né il titolo del film, molti cinesi di venti o trent’anni conoscono quelle immagini dai frammenti di un documentario oggi disponibile in rete, ma fino a pochi anni fa introvabile nel paese. Bandito dalle autorità di Pechino, Chung Kuo, Cina è stato proiettato per la prima volta in Cina solo nel 2004, dopo una riabilitazione del suo autore arrivata molto tardi.
La storia del film che Antonioni realizzò per conto della Rai s’intreccia con quella della Cina e del suo Partito comunista, e oggi anche con quella di un altro film, girato da una casa di produzione indipendente di Pechino nei luoghi di Chung Kuo, Cina per vedere come sono cambiati, e com’è cambiato il paese che sei anni dopo la visita di Antonioni si aprì all’economia di mercato.
Nemico del popolo
L’idea di andare a girare un documentario nella Cina di Mao era stata del regista italiano. Invitato nel 1970 a lavorare per la tv da Furio Colombo – allora responsabile dei programmi culturali della Rai –, Antonioni accettò solo a patto di andare nel paese a cui l’intellighenzia di sinistra delusa dal modello sovietico, in Francia e in Italia soprattutto, guardava con speranza. L’Italia e la Cina avevano avviato le relazioni diplomatiche solo da un anno e Zhou Enlai, allora capo del governo, voleva far uscire il paese dall’isolamento. L’idea, quindi, gli piacque, e dopo due anni di trattative l’ambasciata cinese diede il via libera. Partirono in sei: Antonioni, la giovane assistente alla regia Enrica Fico, che in seguito avrebbe sposato il regista, Furio Colombo con la moglie, il giornalista Andrea Barbato e il direttore della fotografia Luciano Tovoli.
Fico racconta che quando Antonioni le propose di andare in Cina lo conosceva da quattro mesi: «Fu la realizzazione di un sogno. All’epoca a Milano partecipavo alla contestazione studentesca e per noi il maoismo era un modello». Come avrebbe poi spiegato in un’intervista ad Alberto Arbasino, Antonioni non voleva fare un film politico: «Non è la mia materia, né un modo a me congeniale di guardare il mondo». Il regista voleva mostrare come si viveva in un paese comunista, e per farlo si concentrò sulle persone, esattamente come aveva fatto nei suoi primi due documentari: Gente del Po, undici minuti sulla vita dei pescatori che lavoravano e vivevano sul fiume, uscito nel 1947; e N.U. – Nettezza urbana, uscito l’anno dopo, sui netturbini di Roma.
Come scrive Antonioni nella prefazione alla sceneggiatura di Chung Kuo, Cina, uscita per Einaudi nel 1974:
«Ricordo di aver chiesto ai miei ospiti che cosa secondo loro simboleggiava più chiaramente il cambiamento avvenuto dopo la Liberazione. “L’uomo”, mi avevano risposto. So che (…) parlavano della coscienza di un uomo, della sua capacità di pensare e vivere giustamente. Tuttavia quest’uomo ha anche uno sguardo, un volto, un modo di parlare e di vestirsi, di lavorare, di camminare nella sua città o nella sua campagna. Ha anche un modo di nascondersi e di voler sembrare, talvolta, migliore o comunque diverso da quello che è. È una presunzione avvicinarsi a questa moltitudine di uomini girando in ventidue giorni trentamila metri di pellicola?».
Le immagini, accompagnate da una voce narrante che interviene con discrezione e commenti essenziali, furono accolte da giudizi contrapposti: non esaltavano a sufficienza la rivoluzione secondo i filomaoisti italiani, non criticavano abbastanza il comunismo secondo i moderati. Ma la reazione più violenta arrivò da Pechino: Antonioni e il suo documentario furono vittime di una lotta di potere in corso allora all’interno del Partito comunista cinese. Da una parte Zhou Enlai, favorevole a una maggiore apertura della Cina al mondo, e dall’altra la “Banda dei quattro”, con Jiang Qing, moglie di Mao, e i responsabili della propaganda, intransigenti depositari del maoismo e sostenitori della rivoluzione culturale ancora in corso.
Prevalse la linea dei duri e puri, secondo cui il film di Antonioni invece di ritrarre i progressi della nuova Cina dipingeva un paese povero e arretrato. Non aiutò il fatto che il progetto avesse avuto l’avallo di Zhou Enlai in persona. Così, nonostante il documentario fosse piaciuto ai funzionari dell’ambasciata cinese a Roma, in Cina fu messo al bando e nel 1974 Antonioni fu dichiarato “nemico del popolo cinese”, oggetto di una campagna nazionale in cui quasi quotidianamente i cittadini erano chiamati a dichiarare il loro disprezzo per un film mai visto, fatto da un italiano sconosciuto.
Il clima surreale di quel periodo è reso bene da un aneddoto raccontato dalla giornalista inglese Isabel Hilton, che all’epoca studiava all’università di lingue e culture straniere di Pechino:
«La campagna diventò nazionale e denunciare Antonioni un rito quotidiano per i nostri compagni di studi cinesi. In maniera inusuale, l’ufficio per gli affari esteri dell’istituto ci chiamò a partecipare a una riunione per discutere del film in cui elencarono la lista di crimini contro la Cina commessi dal regista italiano. Eravamo in difficoltà: non volevamo scontentare i nostri ospiti, ma non potevamo nemmeno concordare o meno sulle critiche perché non avevamo visto il film. Ci dissero che vedere il documentario era fuori questione. Milioni di cittadini lo stavano denunciando senza averlo visto, ci dissero. Perché non potevamo farlo anche noi?».
La proiezione di Chung Kuo, Cina alla Biennale di Venezia fu un caso «tra la fantascienza e la commedia all’italiana, con un pizzico di western», scrisse Umberto Eco nel 1974:
«Dentro il recinto dei carri stavano Ripa di Meana (allora presidente della manifestazione, ndr) con gli uomini della Biennale, in una disperata resistenza. Intorno, a carosello cavalcavano il governo cinese, il ministro italiano degli esteri, l’ambasciata italiana a Pechino, l’associazione Italia-Cina, la polizia, i pompieri e alcuni filocinesi sciolti. La storia è nota, la Cina protestava per l’imminente proiezione alla Fenice del documentario di Antonioni Chung Kuo, il governo italiano aveva fatto di tutto per impedire l’evento, la Biennale aveva resistito in nome del diritto all’informazione e all’espressione artistica, all’ultimo momento il prefetto di Venezia, correndo in aiuto alle autorità di Pechino, aveva scoperto che la Fenice era inagibile come sala cinematografica (dopo che da una settimana non si faceva altro che proiettarvi film), Meana spendeva nel corso di una conferenza stampa poche e sentite parole di “pena” per il signor prefetto, (…) si attaccava al telefono coi suoi collaboratori, in mezz’ora liberava la sala del cinema Olimpia (…), e quivi avveniva la proiezione mentre la polizia teneva a bada una folla strabocchevole e tesa (…). Antonioni, nervoso e sconvolto, soffriva ancora una volta il suo personalissimo e paradossale dramma di un artista antifascista che era andato in Cina animato da affetto e rispetto e che si trovava accusato di essere un fascista, un reazionario al soldo del revisionismo sovietico e dell’imperialismo americano, odiato da ottocento milioni di persone».
Enrica Fico racconta che il regista ne fu «completamente distrutto» e che quando nel 2004 il documentario fu proiettato per la prima volta a Pechino «è stato felice. Se fosse stato in grado di parlare sarebbe andato alla proiezione a discutere con il pubblico».
Un errore
Oggi in Cina la rivoluzione culturale è il ricordo lontano di un errore, mentre è celebrato a dovere il 40° anniversario delle riforme avviate da Deng Xiaoping, che aprirono la Cina all’economia di mercato portandola a diventare la seconda potenza mondiale. Ogni sera, da mesi, lo skyline di Shenzhen s’illumina di luci colorate in uno spettacolo pirotecnico senza fuochi d’artificio, ma con i grattacieli trasformati in fasci luminosi puntati verso l’alto.
È il modo in cui la città celebra orgogliosa i valori che incarna: era il 1978 quando il governo cinese inaugurò l’era del “socialismo con caratteristiche cinesi”, affermando che “arricchirsi è glorioso”, e due anni dopo sperimentò qui l’apertura all’economia di mercato, prima di estenderla al resto del paese, creando una zona economica speciale.
Gli investitori da Taiwan e dalla vicina Hong Kong arrivarono a frotte, dando il via al miracolo cinese. Sei anni prima, quando Antonioni aveva messo piede in Cina passando proprio dalla colonia britannica che nel 1997 sarebbe tornata sotto il controllo cinese, Shenzhen non era altro che campagna.
Oggi è una metropoli di quasi tredici milioni di abitanti, nota come “la Silicon Valley cinese” per via della concentrazione di grandi aziende tecnologiche. Ci arriviamo a metà settembre al termine di un viaggio cominciato a Pechino alla fine di agosto insieme alla troupe del documentario: il regista Liu Weifu, i due cameramen Zhang Jingyu e Xu Peng, e il giornalista italiano Gabriele Battaglia.
Linzhou, Henan
La prima tappa è Linzhou, nello Henan, il cuore rurale della Cina, una città di un milione di abitanti e specchio di un paese in transizione. Linzhou è una città-contea, cioè una città che amministrativamente comprende sia una zona urbana sia una rurale, con diversi villaggi. Non più la «terra di villaggi arcaici e di vita completamente fuori dal tempo» descritta da Antonioni, dove «l’arrivo di un europeo provoca immenso stupore», ma comunque un posto dove non è raro che si fermi una persona straniera per chiederle un selfie.
Ci arriviamo in macchina da Anyang, il capoluogo della regione a tre ore di treno da Pechino, la cui stazione si affaccia su un piazzale dalle dimensioni esagerate. Nell’urbanistica della Cina moderna, la monumentalità continua a essere un elemento essenziale, e la grandiosità espressa da questo immenso spazio vuoto, vietato alle auto e solo pedonale (da tenere a mente quando si ha un treno da prendere carichi di bagagli), si dissolve nella desolazione del contesto. Una strada dritta a quattro corsie che costeggia la stazione la separa da una grande area in corso di “riqualificazione”: i rendering stampati sulla staccionata alta due metri che ne impediscono la vista promettono una città nuova con il cielo blu, grattacieli scintillanti da minimo trenta piani e tanto verde curato dove le famiglie potranno vivere felici come quella sorridente ritratta nel poster, giusto il tempo di finire i lavori.
Nell’attesa, in sella a uno scooter parcheggiato lì davanti, una coppia – lui a torso nudo, lei in ciabatte con in braccio un neonato avvolto in un fagotto – aspetta annoiata le jianbing, delle specie di crêpe, che una venditrice ambulante sta cuocendo su una piastra a gas montata su una motoretta.
Il governo spera di colmare la distanza tra il poster e la realtà disseminando il paese di progetti di riqualificazione urbana e ricollocando gli abitanti delle vecchie case in moderni condomini con la luce e l’acqua corrente. È il destino di chi abita nelle città di provincia, o nei quartieri vecchi di metropoli come Pechino e Shanghai. Negli ultimi anni, infatti, in Cina si è versato più cemento che negli Stati Uniti in tutto il Novecento. Oggi è un altro paese rispetto a quello visitato da Antonioni all’inizio degli anni Settanta, certo, ma nonostante sia ormai la seconda economia mondiale ha ancora da risolvere un grande problema di distribuzione della ricchezza, e il fatto che si trovi a metà tra paese in via di sviluppo e paese ricco è visibile soprattutto nelle città medio-piccole come Anyang e nelle zone rurali come quelle intorno a Linzhou.
Dacaiyuan
Negli anni Settanta Dacaiyuan (pronuncia Tatsaiyuan) era in condizioni migliori rispetto ad altri villaggi della zona: grazie al Canale Bandiera rossa – un sistema d’irrigazione per un totale di 1.500 chilometri ancora adesso orgoglio della regione – c’era l’acqua. Oggi il villaggio è un’enclave recintata in mezzo alla città. La parte più esterna, vicino all’ingresso, è già stata demolita, e il terreno ripulito dalle macerie delle vecchie costruzioni è ricoperto dalla rete di plastica scura ormai tipica del paesaggio cinese. L’odore di fogna proveniente dai rivoli che costeggiano la strada in cemento spegne ogni tentazione nostalgica rispetto ai bei tempi andati e rende più accettabili i palazzoni tutt’intorno, che incombono sulle vecchie case basse con il tetto a pagoda e i mesi contati. La riqualificazione presto inghiottirà anche l’ultima reliquia di Dacaiyuan, una casa di fango disabitata che ricorda come si viveva fino a pochi anni fa.
Ma Yongxi, il presidente del comitato rivoluzionario del villaggio che aveva accompagnato Antonioni in giro per la comune agricola, oggi ha ottant’anni e vive ancora nella sua casa a due piani tipica delle campagne. Ambienti spaziosi e spogli che si sviluppano intorno a una corte, alla parete della camera da letto-soggiorno un grande poster di Mao e poco altro, un po’ casa, un po’ magazzino per gli attrezzi, un po’ dispensa. Nel gennaio 2019 Ma si trasferirà con la moglie in un grande appartamento nella torre in costruzione lì vicino, appena fuori dall’enclave. Come gli altri abitanti del villaggio, riceverà il triplo dei metri quadri che possiede oggi: nel suo caso, tre appartamenti dove sistemerà anche due dei cinque figli che vivono ancora a Dacaiyuan. Non gli dispiacerà lasciare la casa dove ha vissuto tutta la vita? No, per niente. Lì finalmente avranno riscaldamento, elettrodomestici e una vita più comoda.
Il suo vice di allora, Ma Dongsheng, ha già fatto il salto mesi fa. Sette anni meno del vecchio Ma, lo troviamo che gioca a carte con gli amici, seduto a uno dei tavolini da campeggio sistemati ai piedi delle torri color caffelatte dov’è stato trasferito insieme ad altri abitanti del villaggio. La dimensione comunitaria si è ricomposta su quel marciapiedi, diventato una specie di centro anziani a cielo aperto, nato spontaneamente in barba all’isolamento della vita di città.
Ma Dongsheng abbandona la partita e ci fa strada verso il comprensorio dove vive. L’appartamento al settimo piano è molto grande: ci fa accomodare nel soggiorno illuminato da una grande finestra che dà sulla torre di fronte. Si siede su una poltrona in finta pelle che massaggia anche i piedi, il pavimento bianco è lucido e alla parete un calendario digitale segna ora, temperatura e umidità con l’immagine di una cascata in un paesaggio idilliaco retroilluminato.
«È come vivere in paradiso», ammette. «Negli anni Settanta un abitante di Dacaiyuan guadagnava cento yuan all’anno e le uniche cose che possedeva erano un orologio, una bicicletta, un telaio e una radio. Oggi il reddito medio è salito a diecimila yuan, abbiamo l’aria condizionata, l’auto, quasi tutto quello di cui un cittadino ha bisogno. L’80 per cento degli abitanti del villaggio ha un’auto di proprietà: nella mia famiglia ne abbiamo addirittura tre».
Nel suo documentario Antonioni aveva filmato una riunione del comitato rivoluzionario locale presieduta dai due Ma, in cui si leggevano e commentavano delle frasi di Mao dopo il lavoro nei campi. «Allora dovevamo farlo quasi ogni giorno, serviva a ispirare il lavoro, ma dopo l’apertura abbiamo smesso», racconta ridendo l’ex vicepresidente del comitato riferendosi alle riforme economiche di Deng Xiaoping. «In quella Cina, Mao andava bene, oggi va bene Xi Jinping».
Rencun
A pochi chilometri da Dacaiyuan, lungo una strada dritta che esce da Linzhou e va verso la campagna, c’è Rencun (si pronuncia Renzun), un villaggio per ora risparmiato dallo sviluppo urbano. Su un muro bianco all’ingresso del villaggio, una grande scritta rossa recita: “Prendiamoci cura dei poveri. Lavoriamo insieme per dare alla gente una vita migliore”.
Ecco, questo posto si avvicina molto al racconto di Antonioni: «Un uomo si nasconde dietro una casupola di pietra, cercando di guardare senza farsi vedere, poi esce guardando un po’ incuriosito e un po’ attonito verso la camera», scriveva il regista nelle note a margine della sceneggiatura. «Un gruppo di bambini fugge all’avvicinarsi della macchina da presa. Tre bambine appoggiate ad un muro: hanno un’espressione curiosa e spaurita insieme. Altra gente si affaccia sugli usci, uomini, donne, bambini».
Sono passati 46 anni ma più o meno è quello che potremmo scrivere anche noi del nostro arrivo nel villaggio, che alle dieci di mattina sembra deserto. Mentre camminiamo tra le case di fango – qui ce ne sono ancora tante – un gruppo di bambini ci segue a distanza, spiandoci dai portoni quando entriamo a curiosare nei cortili.
Arriviamo a casa di Zhao Guolin, ripreso nel 1972 dalla telecamera di Antonioni. La casa è fatta di due stanze con il pavimento di cemento. Su un mobile qualche statuina di Budda, bandiere rosse e un piccolo ritratto di Mao. Qualcosa non va, perché Zhao è furioso. Urla di spegnere la telecamera e di andare via perché non vuole essere intervistato. Sembra una messinscena, l’uomo urla agitando le braccia mentre i cameramen non sembrano molto preoccupati. Entrano in casa anche i bambini, incuriositi dal baccano. Arriva la moglie di Zhao. L’uomo si calma solo quando il regista gli mostra il fotogramma di Chung Kuo, Cina in cui c’è lui giovane con in braccio la figlia neonata. «Avevi 22 anni», commenta la moglie.
L’uomo riprende a urlare, deve farsi sentire dai vicini. Il problema, mi spiegheranno poi, è che già due troupe televisive sono andate a intervistarlo e i compaesani pensano che lui si faccia pagare. Una questione di invidia e malelingue che si rivela insormontabile. Ci lasciamo in tono cordiale.
L’orgoglio della regione, si diceva, è il canale Bandiera rossa, opera mastodontica scavata a mano in dieci anni, lunga 1.500 chilometri (così recita la propaganda, ma nessuno l’ha mai misurata) e inaugurata nel 1970 per portare acqua nella zona rocciosa e far fiorire l’agricoltura. I funzionari del Partito comunista che accompagnarono Antonioni e la sua troupe in giro per il paese si accertarono che non mancasse di visitare il fiore all’occhiello del Grande balzo in avanti, oggetto di propaganda in Cina e all’estero, e ancora oggi la principale attrazione turistica della zona.
Scriveva il regista:
«Un tempo qui l’acqua, dicono gli uomini che vi abitano, “era più rara del petrolio”. Trentamila uomini, che vengono celebrati come “gli eroi di Linshien”, hanno impiegato dieci anni a farsi strada nel granito; hanno rimosso 17 milioni di metri cubi di roccia, costruito dighe, serbatoi, acquedotti, tutto con utensili elementari. Linshien è celebre oggi in Cina come “la prima montagna socialista”».
Linshien, in realtà Linxian (contea di Lin), è il vecchio nome dell’attuale Linzhou. Oggi il luogo ha un po’ perso la sua laica sacralità, stemperata dalla disneyficazione che ha investito tutte le attrazioni turistiche cinesi, ma è ancora meta di pellegrinaggio in quanto «simbolo della benevolenza del partito e dei suoi valori più alti», mi spiegano. A turno i vari gruppi di pellegrini si dispongono sotto alla parete di roccia con incisa la scritta “grotta della gioventù”, alzano il pugno chiuso e recitano ad alta voce la dichiarazione di fedeltà al partito.
L’atmosfera è da gita al monastero, ma con un risvolto ideologico: una ventina di persone con la giacca a vento blu elettrico, compiuto il rito, lascia il posto ai ragazzi della Lega della gioventù comunista, in tuta bianca e rossa, «più simili agli atleti di una squadra olimpica di badmington o ping pong che agli aspiranti futuri leader del partito», commenta Gabriele Battaglia. La telecamera attira l’attenzione dei semplici turisti, famiglie con bambini o gruppetti di amiche che individuano nel giornalista italiano un personaggio famoso di un qualche paese straniero con cui val la pena di farsi un selfie, se no perché lo riprenderebbero?
Più in là, sedute all’ombra di una parete di roccia, cinque donne in pantaloni blu da operaie, camicie a quadri con in testa una paglietta e sulle spalle una mantellina bianca cuciono le suole di gomma alle famose scarpe da arti marziali simili a pantofoline in attesa che sia di nuovo il loro turno: ogni mezz’ora mettono in scena per i turisti la fatica delle operaie che negli anni Sessanta contribuirono allo scavo armate solo di piccozza. Vengono dallo Shanxi, la regione al di là del confine segnato in parte dal canale Bandiera rossa, e tra uno show e l’altro ne approfittano per fare lavoretti a mano con cui arrotondano.
Suzhou, Jiangsu
Alle otto del mattino di un giorno infrasettimanale, la tavola calda Dongwu nel centro di Suzhou – piastrelle bianche da obitorio per terra e alle pareti – lavora già a pieno ritmo. I clienti sono tutti uomini, ricurvi su scodelle fumanti di pasta in brodo. Un kuaidi (fattorino) in divisa giallo limone ha evidentemente i secondi contati perché senza nemmeno accomodarsi con le gambe sotto il tavolo sorbisce rumorosamente gli spaghetti con il casco in testa e il telefono in mano. Nella cucina a vista, vassoi di pasta fresca, cesti di verdure pulite e pentoloni di brodo da cui escono nuvole di vapore. Il tutto ricorda molto, e non è certo un caso, la scena di Chung Kuo, Cina, quando la telecamera entra in un ristorante di Suzhou.
«Gli avventori siedono a gruppi di quattro o più attorno a tavoli quadrati, fra i quali si muovono camerieri e cameriere con grandi grembiuli bianchi. Bevono da larghe tazze, mangiano con i bastoncini, qualcuno anche spaghetti. Il settore delle cucine, dove i cuochi preparano le vivande in grossi pentoloni, usando bastoncini più grandi o mestoli. Ancora sugli avventori, su uno in particolare, che mangiando fuma contemporaneamente una sigaretta», annotava Antonioni nella sceneggiatura.
Il locale dove nel 1970 andò a girare oggi non esiste più, ma la donna che all’epoca lo gestiva è ancora in grande forma, grazie allo yoga che pratica da tanti anni – ci dice mostrandoci una foto recente in cui fa la spaccata – e a una grinta invidiabile. Ouyang Juanjuan aveva 25 anni all’epoca e il partito l’aveva assegnata al ristorante perché troppo minuta per lavorare in fabbrica. Era uno dei due locali halal della città, chiamata la “Venezia asiatica” per via dei suoi canali. Già allora era una discreta meta turistica e aveva una comunità musulmana, la maggior parte appartenente alla minoranza hui. Ci racconta queste cose nel soggiorno del suo appartamento dove, nonostante le dimensioni ridotte, sono in funzione due condizionatori d’aria impostati sui 16 gradi e altrettanti ventilatori. Per fortuna il marito, ex dirigente locale del partito, si è messo a scaldare il brodo di pollo che la signora ha preparato per farci assaggiare i suoi famosi wanton, i ravioli ripieni di granchio e maiale che, complice un programma tv, l’hanno resa famosa in città.
La signora Ouyang parla senza sosta con una voce vigorosa che si rompe all’improvviso quando le domando cosa vorrebbe dire alla vedova di Antonioni se la incontrasse. Glielo chiedo perché ha appena finito di dire che vorrebbe tanto andare in Italia a trovare Enrica Fico, di cui conserva «un bel ricordo», e che le manca tanto. La dichiarazione d’affetto sorprende anche perché durante le riprese le due donne, come spiega lei stessa, non avevano mai interagito: «Se ne stava in disparte a osservare e seguiva il regista senza dire nulla». In quanto responsabile del ristorante, durante la campagna nazionale contro il regista la signora Ouyang era stata costretta a scrivere un articolo contro «il pagliaccio Antonioni nemico della Cina». E oggi non se lo perdona. Le scendono le lacrime mentre spiega che a Enrica Antonioni vorrebbe chiedere scusa. «Gli ho fatto un torto, il governo cinese li ha fatti soffrire. A quell’epoca il partito ci ha costretto a fare delle cose terribili», si sfoga scuotendo la testa. Il marito lascia i fornelli e interviene per consolarla: «Non è stata colpa tua, hai dovuto farlo, non avevi scelta».
La posizione ufficiale del Partito comunista cinese, formulata nel 1981 in occasione del sessantesimo anniversario della sua fondazione, è che la rivoluzione culturale fu un errore. Insieme al Grande balzo in avanti – il disastroso piano che avrebbe dovuto trasformare l’economia cinese da rurale a industriale attraverso la collettivizzazione e a una mobilitazione della popolazione senza precedenti – la campagna di epurazioni e rieducazione lanciata nel 1966 dal Grande timoniere fa parte di quel 30 per cento dell’operato di Mao di cui è stato riconosciuto l’esito fallimentare. Lo sfogo della signora Ouyang, quindi, è perfettamente coerente con la linea ufficiale.
Facciamo un giro lungo i canali, dove i pullman turistici scaricano gruppi di cinesi, giapponesi e coreani che qui possono trovare tutto: Starbucks, negozi di “artigianato tipico”, banchetti di street food e ristoranti sull’acqua. Per essere una metropoli – ha poco meno di cinque milioni di abitanti, che raddoppiano se si considera l’area amministrativa totale – Suzhou è una città piacevole, ingentilita da molto verde e dalla presenza del fiume Yangtze, che sfocia a Shanghai, poco più a est.
È una delle città più sviluppate e ricche del paese e, pur essendo turistica, la sua parte più vecchia non ha ancora ceduto completamente alla gentrificazione. Nella zona dei canali, deliziosi ponticelli in pietra e salici piangenti creano un’immagine da cartolina, ma la riva di fronte a quella di Starbucks è ancora abitata da gente del posto, che vive in vecchie case di corte malandate e affittate a prezzi calmierati: 2-300 renminbi, circa 40 euro, per una casa per quattro persone. Case popolari che per il loro valore storico sono mantenute in piedi tali e quali, e dove il comune contribuisce a sostenere i costi della manutenzione, oltre a garantire le forniture di base.
Rispetto alla riva di fronte è un altro mondo. Una donna accucciata davanti a casa sua lava le verdure con l’acqua del secchio appena issato da un pozzo scavato nel terreno. Il marito sciacqua lo spazzolone nel canale e una vecchia passa con il carretto a vendere i prodotti del suo orto. Scene di vita di campagna nel cuore della seconda città più importante della regione dopo Nanchino e il cui pil pro capite, si legge su Wikipedia, dalle riforme economiche del 1978 è stato tra quelli che sono cresciuti più rapidamente al mondo. In realtà nelle metropoli cinesi non è così raro trovare sacche di passato, anche se a Pechino e a Shanghai sono sempre meno.
Nanchino, Jiangsu
Una delle critiche ad Antonioni, espresse dai funzionari di partito a cui toccò argomentare nel dettaglio le cattive intenzioni del regista, riguardava l’inquadratura del ponte sullo Yangtze a Nanchino, grande infrastruttura di sei chilometri inaugurata nel 1968 dopo otto anni di lavori.
Nel documentario la voce narrante lo descrive come «un’opera maestosa, che unisce le due sponde del fiume avvicinando le due metà della Cina, che fino a ieri erano separate», ma le immagini, secondo i canoni cinesi, erano punitive. Scrive ancora Eco nel suo saggio dedicato a Chung Kuo, Cina che la campagna contro il film di Antonioni, al di là delle ragioni politiche interne al Partito comunista cinese, nasceva da un’incomprensione di fondo dovuta alla lontananza delle culture e alla disparità tra le «sovrastrutture simboliche attraverso le quali le civiltà diverse si rappresentano gli stessi problemi politici e sociali».
Per questo, dice Eco in modo convincente, i cinesi non hanno apprezzato le immagini del ponte sullo Yangtze, interpretandole come «il tentativo di farlo apparire storto e instabile; solo perché una cultura che privilegia la rappresentazione frontale e l’inquadratura simmetrica in campo lungo non può accettare il linguaggio della cinematografia occidentale che, per dare il senso dell’impotenza, inquadra dal basso, e di scorcio, privilegiando la dissimmetria, la tensione contro l’equilibrio».
La distanza tra le due estetiche creò un equivoco e deluse le aspettative di Pechino. Lo conferma il tono contrariato con cui l’ex direttrice della scuola materna Wu Lao di Nanchino ricorda la visita della troupe italiana. «Ci eravamo preparati a lungo per fare una buona impressione, i bambini avevano imparato canzoni e balletti da fare davanti alla telecamera, invece Antonioni ha voluto riprendere le latrine, che peraltro all’epoca non erano messe bene».
Lo ripete più volte seduta sul divano della sua stanza da letto, come se gli oltre quarant’anni trascorsi non fossero mai passati e, complice un po’ di nebbia legata all’età, il torto subìto le bruciasse ancora. Dal che si capisce che Chung Kuo, Cina non l’ha mai visto. Nella parte sulla scuola materna, infatti, si vedono i bambini che cantano, recitano, ballano e marciano in onore di Mao. Nessuna traccia delle latrine, evidentemente tagliate durante il montaggio. «E poi», aggiunge, «dopo due giorni di riprese se ne sono andati senza nemmeno salutare, e non abbiamo più saputo nulla».
La scuola, aperta nel 1958, esiste ancora; la visitiamo nel giorno di riapertura dopo la pausa estiva. All’ingresso c’è un gran viavai, molta eccitazione e qualche scena straziante, come sempre e ovunque il primo giorno di scuola: frotte di genitori e nonni con i bambini per mano e i piumoni per il riposo pomeridiano sottobraccio sono accolte da maestre sorridenti, mentre qualche bambino disperato del primo anno non ne vuole sapere di entrare.
Finita la fase di ambientamento, nel cortile comincia la cerimonia. Dopo l’alzabandiera fatto da due bambini in divisa e guanti bianchi, comincia la recita dei precetti di Confucio: l’importanza di imparare in tenera età, il ruolo fondamentale dei genitori e degli insegnanti, la pietà filiale come principio a cui rimanere saldi tutta la vita. Confucio è stato riabilitato ufficialmente nel 2015 da Xi Jinping dopo decenni in cui era stato il simbolo del passato imperiale della Cina e di una società tradizionalista e conservatrice. Oggi ha sostituito Mao Zedong come figura a cui ispirarsi, e gli scolari imparano a memoria la raccolta dei suoi precetti al posto del libretto rosso. L’ideale della “società armoniosa” – lanciato nel 2004 dal presidente Hu Jintao per promuovere una società senza spigoli né minacce a turbare la vita serena del popolo cinese – è ancora oggi un mantra del governo di Pechino, che in nome dell’armonia giustifica repressione, ipercontrollo sociale e limitazione della libertà dei cittadini.
Shenzhen, Guangdong
Vista dalla Cina continentale, Hong Kong è una distesa di basse colline verdi al di là del fiume che la divide da Shenzhen, la città simbolo dello sviluppo cinese. Ancora negli anni Ottanta molti cinesi cercavano di raggiungere l’ex colonia britannica scavalcando la rete metallica che corre lungo il fiume, mentre oggi è Shenzhen il polo d’attrazione della regione. Sede di Huawei e Tencent (proprietaria dell’app WeChat), per citare le più note, la città ospita alcune delle aziende tecnologiche più importanti del mondo, fedele alla linea inaugurata da Deng Xiaoping nel 1978.
Quando qui fu stabilita, in via sperimentale, la prima zona economica speciale, da Hong Kong cominciarono ad arrivare gli investitori. Negli anni sono tornati i figli degli immigrati cinesi, che hanno visto nell’apertura un’occasione di profitto e di riscatto. È il caso di Yang, un pensionato venuto a vivere a Shuiwei, uno dei villaggi urbani di Shenzhen, dove la sua famiglia aveva lasciato un terreno su cui lui ha costruito un condominio. I villaggi urbani, spiega Battaglia, sono centri inghiottiti dalla città ma dipendenti da un’amministrazione rurale, quindi separata da quella urbana. Sono di fatto indipendenti, per cui i contadini costruiscono 2-3-4 piani sopra le loro case e affittano gli appartamenti, o le singole stanze, ai migranti che vanno lì per lavoro, e loro non devono più spaccarsi la schiena per vivere.
Le autorità cittadine non possono mandarli via se non risarcendoli, ma dato che loro già guadagnano dagli affittuari, pretendono una cifra molto alta. È il caso del signor Yang. «Come si può credere alla rivoluzione economica quando le strade sono in queste condizioni?», si lamenta e urla perché il marciapiedi davanti alla palazzina è crollato. Sono settimane che chiede di intervenire, ma nessuno fa niente e lui rischia di dover abbassare l’affitto agli inquilini. Mentre nel quartiere, come nel resto della città, il valore degli immobili è in costante aumento (altra analogia con la Silicon valley), la strada dissestata nel villaggio già malmesso potrebbe costargli cara.
Nel caso di Shenzhen i villaggi urbani hanno svolto un ruolo fondamentale nello sviluppo economico, offrendo alla forza lavoro arrivata dalle altre provincie case a buon mercato. «Oggi, però, anche a Shuiwei i prezzi stanno salendo e le persone fanno fatica», dice il signor Won, ex vigile urbano, hongkonghese da generazioni, che si è trasferito a Shenzhen per raggiungere la fidanzata e, probabilmente, vivere meglio. Lui ce la fa a pagare l’affitto ma, dice, molti dovranno andarsene.
Rivelazione
Dire che la Cina è molto cambiata da quando la visitò Antonioni è un’ovvietà. Ma la misura di quanto sia un altro universo rispetto non solo ai primi anni Settanta di Mao, ma anche agli anni Ottanta delle rivendicazioni di piazza Tiananmen, me la dà, alla fine del viaggio, Haijing, la producer che ha percorso con noi una parte del viaggio, figlia esemplare del capitalismo “con caratteristiche cinesi” avviato quarant’anni fa. Trent’anni, intelligente, esuberante, studi negli Stati Uniti e un anno trascorso a Barcellona, dopo aver lavorato per qualche anno come fixer e interprete per i giornalisti occidentali, Haijing si è messa in proprio e nel suo lavoro è un fulmine.
Passa quasi metà dell’anno in giro per la Cina e per il mondo, nel weekend va a fare surf sulla costa di Shenzhen, il dentista ce l’ha a Chongqing, nel sudovest del paese, e il commercialista a Hong Kong. Il prototipo della nuova borghesia istruita e benestante del suo paese, una percentuale in crescita ma pur sempre minima della popolazione. Un giorno, scorrendo sul suo telefono gli articoli postati su WeChat (un’app che aggrega Facebook, WhatsApp e il servizio di pagamento via smartphone), scuote la testa e dice: «I giornalisti occidentali che scrivono di Cina sono ossessionati dalla politica, ma a me e ai miei coetanei istruiti non interessa nulla di quel che dice o fa Xi Jinping. Seguiamo la politica solo se ci riguarda direttamente, quindi a livello locale, non certo quella che si fa a Pechino. Se alzano le tasse sui miei guadagni, per dire, m’interessa, ma per il resto è davvero molto lontana da me, da noi».
«Capisco, e del resto, dato che non votate, perché dovrebbe interessarvi?», osservo. E qui la rivelazione, che poi tanto rivelazione non è: «Se avessimo il diritto di voto con il suffragio universale per me sarebbe la fine. Se il miliardo e passa di cinesi che non hanno studiato potessero votare, io lo vivrei come un sopruso: eleggerebbero persone incapaci che distruggerebbero quello che ho e la mia vita così com’è. Preferisco sapere che al governo ci sono persone competenti che non ho scelto io piuttosto che essere in balia del voto della maggioranza dei cinesi».
13/12/2018
Junko Terao
(Tratto da: Junko Terao, Sulle tracce di Michelangelo Antonioni in Cina, in https://www.internazionale.it/reportage/junko-terao/2018/12/13/chung-kuo-cina-antonioni).
Inserito il 02/10/2024.
Dossier Quando la Cina pareva vicina
Il Sessantotto e la genesi del maoismo italiano
di Ferdinando Dubla
Una ricostruzione storica della nascita in Italia di un’importante corrente del comunismo e del movimento studentesco italiano.
Clicca per aprire
↓ ↓ ↓
Il Sessantotto e la genesi del maoismo italiano*
di Ferdinando Dubla
Nel n. 1 del marzo 1964 di «Nuova Unità», giornale che già nel titolo rivendicava una purezza di posizioni politico-ideologiche e di critica serrata al “revisionismo” del PCI, vengono pubblicate le Proposte per una piattaforma dei marxisti-leninisti d’Italia, che avranno lo scopo di organizzare sistematicamente la nuova elaborazione sul partito dei comunisti e della classe operaia, nonché inizieranno a mettere a fuoco le nuove suggestioni internazionaliste, prime fra tutte la cinese e l’albanese. Un occhio attento e particolare è a tutti quei militanti del PCI, ormai insofferenti del gradualismo estenuante e infastiditi da un “ceto professionale burocratico” lontano, tranne eccezioni pure notevoli e rilevanti, all’interno delle federazioni e delle sezioni, dalla concreta e attiva lotta di classe. Tra la fine degli anni ’50 e i primi ’60, la linea della “via italiana al socialismo” aveva dispiegato tutta la sua potenza “normalizzatrice” in chiave istituzionalista e parlamentaristica: la riflessione creativa contava molto meno dei numeri delle tessere, dei voti conquistati alle elezioni, dei posti ottenuti nei consigli elettivi e la “linea di massa” si traduceva nel peso specifico dei comunisti all’interno del gioco politico (i “rapporti di forza”), per la conquista dei ceti “intermedi”, rendendo nella pratica evanescente ogni prospettiva strategica verso il socialismo, se non negli infiammati comizi domenicali. Non che la realtà del PCI potesse essere così semplicisticamente dipinta e corrispondesse al vero (molto più ricca e articolata era la vita al suo interno, molto più ascendente nelle concretissime passioni delle masse proletarie), ma così il PCI fu recepito da strati sempre crescenti di avanguardie, che ebbero il merito di formare altri quadri rivoluzionari che sfociarono nel movimento di massa del ’68/’69. Il discrimine, dalle Proposte in poi, venne individuato nel XX Congresso del PCUS del 1956 e nel processo di “destalinizzazione”, che aveva aperto la breccia al “revisionismo” e all’abdicazione quindi dei principi rivoluzionari, in occidente manifestandosi con il riformismo imbelle, nell’oriente sovietico con la palude stagnante del burocratismo dall’alto. Senza alcuna considerazione critica (o quasi) lo stalinismo venne identificato con la retta via della rivoluzione socialista, quella a cui non avevano rinunciato la Cina di Mao e l’Albania di Enver Hoxha. Ma solo la prima di queste dimostrò vitalità e dinamicità e accelerò questa convinzione con l’inaugurarsi della “rivoluzione culturale”, che era la più straordinaria critica comunista al burocratismo dall’alto, di cui non poca responsabilità portava lo stalinismo. E già nell’analisi si aprivano brecce che non potevano alla lunga non provocare profondi dissidi interni, ma, ancora più grave, il progressivo allontanamento dalle masse e lo svuotamento della linea di massa.
Alle origini del maoismo italiano
Il primo gruppo in assoluto che si costituì coscientemente come raggruppamento marxista-leninista fu quello padovano raccolto intorno al giornale «Viva il leninismo!» già nel settembre 1962, guidato da Vincenzo Calo, Ugo Duse, A. Bucco ed altri: nell’estate del 1963 a Milano, su iniziativa di G. e M. Regis, sorsero le Edizioni Oriente, che ebbero un importantissimo ruolo di diffusione di materiale ideologico proveniente dalla Cina. Proprio il richiamo all’esperienza maoista fu il carattere distintivo del marxismo-leninismo italiano, che divenne tout-court maoismo e fu fattore di critica asperrima nei confronti della realtà sovietica e dei paesi dell’Est, accusati di degenerazione “burocratico-revisionista”, accelerata poderosamente dalle controriforme kruscioviane dopo il XX Congresso del PCUS del 1956, come si è già annotato a proposito delle Proposte. Fu la stessa interpretazione del maoismo (liturgia da “libretto rosso” o azione politica concreta con la “linea di massa”) che divise in modo verticale il movimento, divisione aggravata dal tarlo del protagonismo piccolo-borghese che contraddistingueva molti dei suoi leaders e che trovò forme di farsa caricaturale nelle modalità con cui Brandirali organizzò il raggruppamento di Servire il popolo!, che ormai con il maoismo storico e con una seria politica marxista-leninista non aveva più nulla a che fare.
Prima delle esperienze del ’68/’69, il gruppo milanese di Azione Comunista di Luciano Raimondi, cristallina figura di partigiano esasperato dall’attendismo del PCI, era stato l’unico tentativo serio di coagulo di forze alla sinistra del partito di Togliatti e Longo (il primo numero del giornale era stato pubblicato nel giugno 1956). In esso aveva trovato rifugio anche il transfuga Seniga all’indomani della fuga con soldi e documenti che erano costati l’emarginazione di Pietro Secchia, responsabile dell’organizzazione dal 1945 al 1954 del partito, ma anche il gruppo di Raimondi si rese ben presto conto della reale fattura del personaggio, che da ottimo e valente partigiano era passato ad un disordinato e caotico velleitarismo estremistico per approdare negli anni successivi al socialismo riformistico di marca neo-liberale1. Ma Azione Comunista, per la sua composizione eclettica (all’inizio vi confluiscono trotzkisti, gli internazionalisti di Onorato Damen, gruppi filo-anarchici ecc.), all’origine anche qui di profonde lacerazioni e spaccature, e a prescindere dalla simpatia crescente dimostrata dal 1960 per l’esperienza cinese, non può essere considerato raggruppamento organicamente m-l e lo stesso Raimondi dovette confluire nel ’66 nella Federazione m-l d’Italia. Dunque, è proprio «Nuova Unità» il primo vero e proprio nucleo dei marxisti-leninisti in Italia, a partire dal 1964. Ε, come testimoniato da uno dei personaggi più appassionatamente legati alle vicende dei comunisti maoisti italiani, il rapporto con il PCI e con una presunta “corrente” secchiana al suo interno, diventa immediatamente terreno di diaspora politica:
«A Secchia e agli ambienti vicini a Secchia andavano allora le simpatie dei negatori dell’indipendenza dei marxisti-leninisti, e in realtà la frazione [sic] di Secchia era disposta a servirsi della fiducia dei marxisti-leninisti per il proprio trionfo. I fatti banno dimostrato quanto fossero mal riposte quelle speranze».2
In realtà, una “frazione” secchiana all’interno del PCI non esisteva affatto, se per frazione si intende una componente organizzata che cerca di contare all’interno dei rapporti di forza tra le varie anime del partito; men che mai guidata dallo stesso Secchia e men che mai mirante al “proprio trionfo”. Magari, potrebbe affermare qualcuno, la concezione della disciplina di partito di Secchia non gli avesse impedito questa costituzione in “frazione”! Vero è, invece, che l’esempio e le idee coerenti di Secchia avevano fatto breccia in centinaia e centinaia di militanti comunisti, in agguerrite avanguardie che non volevano arrendersi a strategie considerate “capitolazioniste”, in chi mal sopportava la controffensiva delle classi dominanti e la scarsa resistenza oppostagli dalla linea politica del PCI e il suo paradossale “essere di massa” senza una coerente “linea di massa” (sebbene la riflessione di Mao al riguardo venne conosciuta meglio in seguito, ma c’era ben viva la lezione di Lenin!). Un gruppo di questi militanti (non sappiamo quanto numeroso) nel ’63/’64, inviava “lettere anonime ai compagni del PCI”, attaccando la linea politica del partito (e dunque tutelandosi con l’anonimato) e nel contempo confidando, come si legge in una “lettera” del novembre 1964, «che il compagno Luigi Longo sappia muoversi in tempo per liberare il PCI dalla piaga del revisionismo, degli opportunisti e dei carrieristi». Naturalmente queste prese di posizione non potevano non suscitare le rimostranze di «Nuova Unità» e la penna di G. Regis colpisce nel dicembre 1964:
«Resta dimostrato che la sola lotta all’interno del partito, ha portato e può portare solo alla sostituzione di un uomo o di un gruppo di uomini, ma non al cambiamento di una linea politica, anzi in certi casi può, come potrebbe essere nel caso di un uomo come Kruscev, persino contribuire a rafforzarla. Il rinnovamento del PCI, che gli autori contrappongono alla ricostituzione di un nuovo partito comunista marxista-leninista rivoluzionario, dal contesto delle posizioni delle “Lettere”, non può pertanto significare che un cambio di alcuni uomini, lasciando sostanzialmente intatta l’ideologia, la linea politica e le strutture dell’attuale partito».3
Così si liquidava il reale travaglio che attraversava la base del PCI, la reale, materiale dialettica della lotta di classe interna e esterna al partito “revisionista”; ma quella dialettica non poteva essere così liquidata e l’analisi sul PCI sarà sempre discriminante delle varie posizioni della sinistra extraistituzionale, m-l o meno.
I “documenti cinesi’ del ’62/’63
Né potevano bastare le ortodossie rivendicate sull’argomento dai compagni cinesi, che già si erano occupati delle vicende dei comunisti italiani compiutamente nel 1962, con la pubblicazione alla fine di quell’anno dell’editoriale Le divergenze tra il compagno Togliatti e noi sul «Quotidiano del Popolo» (Renmin Ribao) e di un preciso scritto Ancora sulle divergenze tra il compagno Togliatti e noi nel 1963. Furono comunque articoli-saggio che circolarono nel movimento m-l e che costituirono la vera e propria base programmatica delle organizzazioni che si costituirono dal 1966 in poi4. I comunisti cinesi riuscirono a interpretare sentimenti reali e politici della militanza marxista italiana, e non solo italiana, subito dopo il X congresso del PCI (Roma, 2-8 dicembre 1962). Innanzitutto contro il riformismo:
«È del tutto necessario per la classe operaia nei paesi capitalisti condurre quotidiane lotte economiche e lotte per la democrazia. Ma lo scopo di queste lotte è di conseguire miglioramenti parziali nelle condizioni di vita della classe operaia e del popolo lavoratore e, ciò che è più importante, di educare le masse e organizzarle, elevare la loro coscienza e accumulare la forza rivoluzionaria per la conquista del potere dello Stato quando i tempi sono maturi. I marxisti-leninisti favoriscono la lotta per le riforme, ma si oppongono risolutamente al riformismo.
I fatti hanno provato che quando le rivendicazioni politiche ed economiche della classe operaia e del popolo lavoratore abbiano ecceduto i limiti permessi dai capitalisti monopolisti, il governo italiano, che rappresenta gli interessi del capitale monopolista, è ricorso alla repressione. Non hanno forse innumerevoli fatti storici provato che questa è una legge inalterabile della lotta di classe? Com’è concepibile che la classe capitalista monopolista abbandoni i suoi interessi e il suo dominio ed esca volontariamente dalla scena della storia?».
Un atto d’accusa durissimo, qui indiretto, ma in altri luoghi dello stesso articolo molto esplicito, alla strategia togliattiana della “via italiana al socialismo”, la stessa per la quale il segretario del PCI aveva sacrificato Secchia e un buon numero di quadri della generazione dei “resistenti”. Secchia che, tra l’altro, non poteva non condividere uno dei tratti salienti dell’analisi del PCC, perché aveva operato per una ben determinata concezione del partito. In un altro passo dello stesso articolo del «Quotidiano del Popolo», quella concezione è ben caratterizzata, in raccordo con l’illegalità diffusa della borghesia e del suo sovversivismo che erano stati oggetto di analisi di Secchia in particolare negli anni dal dopoguerra al 1954 e che i cinesi estendono in un’organica visione dei principi marxisti-leninisti:
«Finora la storia non è stata mai testimone di un solo esempio di transizione pacifica dal capitalismo al socialismo. […] La borghesia non uscirà mai volontariamente dalla scena della storia. Questa è una legge universale della lotta di classe. I comunisti non devono neanche in minima misura indebolire la loro preparazione alla rivoluzione. Essi devono essere preparati a respingere gli assalti della controrivoluzione e a rovesciare la borghesia con la forza armata, nel momento critico della rivoluzione, quando il proletariato sta prendendo possesso del potere dello Stato e la borghesia ricorre alla forza armata per reprimere la rivoluzione. […] si deve essere preparati ad avere immediatamente a che fare con l’intervento armato degli imperialisti stranieri e con le ribellioni armate controrivoluzionarie appoggiate dagli imperialisti. I comunisti devono concentrare la loro attenzione sull’accumulazione della forza rivoluzionaria mediante instancabili sforzi e devono essere pronti a combattere contro gli attacchi armati della borghesia, quando sia necessario».5
Per un Togliatti impegnato in quegli anni come non mai a respingere le accuse di “doppiezza” che colpivano i comunisti italiani, specie dopo le vicende seguite all’attentato del luglio 1948, quest’analisi era da criticare e respingere, come ogni sospetto per la “doppia tattica” di cui esplicitamente facevano menzione i cinesi, sospetto che poteva vanificare lo sforzo di accreditamento alle regole della democrazia (ma che questa democrazia fosse la democrazia borghese che minava continuamente le prerogative costituzionali, non era convinzione solo dei comunisti di Pechino) e ad una strategia politica (la “via italiana”) che, per definire il problema delle alleanze, aveva finito per appannare la centralità di classe del partito e stemperato potentemente la sua carica rivoluzionaria. E infatti le repliche del PCI non si fecero attendere e furono affidate prima alla penna dello stesso Togliatti [Riconduciamo la discussione nei suoi termini reali, in «l’Unità», 10 gennaio 1963] e poi a quella di Longo [La questione del potere, in «l’Unità», 16 gennaio 1963]. Ma furono repliche che, nel ribadire i deliberati congressuali appena approvati, nel dicembre 1962, dettero modo allo stesso PCC di precisare con ancora più nettezza le posizioni che un partito comunista di classe e rivoluzionario, pur impegnato in una difficile transizione in occidente, non poteva abbandonare e, tra l’altro, aveva dimostrato di non abbandonare, in teoria, sottoscrivendo le due dichiarazioni di Mosca del 1957 e del 1960, a cui la replica, stavolta pubblicata su «Bandiera Rossa», continuamente rimanda, e che denuncia, tra l’altro, oltre la visione conciliatorista internazionale che Togliatti (ma qui si parla a Togliatti perché Kruscev intenda) dopo l’avvento dell’atomica esprimeva contestando l’espressione di Mao sull’imperialismo come tigre di carta la degenerazione socialriformista del PCI:
«Secondo il compagno Togliatti: primo, l’economia nazionale può svilupparsi in modo pianificato non solo nei paesi socialisti, ma anche in regime capitalista; secondo, è possibile che nell’Italia capitalista siano accettate la pianificazione e la programmazione economica proprie del socialismo.
I marxisti-leninisti hanno sempre sostenuto che un paese capitalista trova necessario e possibile adottare una politica che in qualche modo regoli l’economia nazionale nell’interesse della borghesia presa nel suo insieme. […] All’epoca del capitale monopolista, la funzione regolatrice dello Stato capitalista si esercita essenzialmente nell’interesse della borghesia monopolista. Sebbene questa regolazione possa qualche volta anche sacrificare gli interessi di alcuni gruppi monopolisti, non danneggia mai, ma, al contrario, rappresenta gli interessi generali della borghesia monopolista».
E tutta l’analisi, non in base alla liturgia dei classici (che fu accusa mossa per la quantità di citazioni di Marx, Engels, Lenin, Stalin e Mao che fu impiegata dai cinesi e che fu presa a modello da chi a loro, almeno teoricamente, poi si ispirò nel movimento del ’68), ma contro il dogmatismo e per un marxismo-leninismo creativo:
«Attenendoci alla verità universale del marxismo-leninismo, noi dobbiamo opporci al dogmatismo, perché il dogmatismo si distacca dalla pratica concreta della rivoluzione e considera il marxismo-leninismo come una formula rigida.
Il marxismo-leninismo è pieno di vitalità e invincibile proprio perché è nato e si è sviluppato nella pratica rivoluzionaria e perché si arricchisce incessantemente delle nuove esperienze conquistate nella nuova pratica della rivoluzione.
Lenin diceva spesso che il marxismo unisce il massimo rigore scientifico con lo spirito rivoluzionario».6
La lettura di questi due saggi-articolo sarà nutrimento vitale per tutti coloro che animeranno quello spezzone significativo del movimento del ’68 definito tout-court “filocinese”.
Nell’arcipelago del maoismo militante
Tra questi, assunse un’importanza notevole per diffusione, capillarità, spessore d’analisi e incidenza nella realtà universitaria, il Movimento Studentesco (della Statale di Milano, poi ribattezzato semplicemente MS). I fondatori di questo gruppo, tra cui M. Capanna e S. Toscano, L. Cafiero, rifiutarono di confluire nelle organizzazioni m-l esistenti, ma ebbero una capacità aggregativa fra le più consistenti: decisivo il suo ruolo nella promozione della manifestazione antifascista del 31 gennaio 1970 cui parteciparono circa 50.000 persone e che emblematicamente assurse a data dell’inizio della riscossa dopo la strage del 12 dicembre ’69 alla Banca dell’Agricoltura. L’atteggiamento del MS nei confronti del PCI non era liquidatorio, tanto da essere accusato di codismo o di rappresentare la “quinta colonna” dello stesso all’interno del movimento; questo fu dovuto in gran parte, per chi scrive, alla spiccata sensibilità e acutezza politico-culturale di un intellettuale meridionale (nativo di Catania) dai marcati tratti “scotellari” e che ha lasciato la scena politica italiana e della sinistra di classe troppo presto, il 24 marzo 1976, a soli 38 anni, dopo aver fondato nello stesso anno il Movimento Lavoratori per il Socialismo di cui fu naturalmente il primo segretario: Salvatore “Turi” Toscano.
Le analisi non coincidenti, allora, confluivano in scontri fisici molto pesanti, e la rivalità tra MS (prima)-MLS (dal ’76) e gli altri gruppi fu una caratteristica abbastanza “celebrata” nel movimento, anche a causa di un episodio drammatico: il 12 dicembre 1973, manifestazione di massa a Milano per ricordare l’anniversario della strage, un militante di Avanguardia Operaia fu gravemente ferito dal servizio d’ordine del MS. La stessa organizzazione, però, dovette subire una durissima repressione: nel gennaio 1973 fu ucciso un suo militante, lo studente universitario R. Franceschi, continue furono le cariche dei celerini nell’università nella primavera dello stesso anno, Capanna e Toscano furono arrestati e processati, ecc.
La riflessione di “Turi” Toscano è forse il lascito più fecondo dell’organizzazione indubbiamente più rappresentativa dei gruppi studenteschi del ’68: le sue asciutte analisi sul PCI, mai sbrigative e liquidatorie, la categoria della fascistizzazione, che lo avvicina in modo evidente al pensiero di Pietro Secchia, così come anche la sua insistenza sulla necessità della formazione dei quadri, l’applicazione creativamente marxista e maoista all’analisi politica di fase in Italia, rendono necessario rilevare alcune sue notazioni particolari. La categoria di “strategia della tensione”, per Toscano, era inadeguata per articolare una progressiva politica delle classi dominanti italiane, e dell’imperialismo nel suo complesso, volta a svuotare tutte le sostanziali prerogative democratiche della Costituzione; non il “colpo di Stato”, comunque sempre incombente e immanente nelle fasi acute di scontro sociale come arma della borghesia in difficoltà, ma progressiva “fascistizzazione”, l’illegalità e il sovversivismo delle classi dirigenti che rispondono all’offensiva di classe: un recupero forte, “concreto”, dell’analisi gramsciana e della intera riflessione di Secchia dopo la Liberazione:
«La fascistizzazione dello Stato è la forma che assume la reazione della grande borghesia quando essa sente d’impaccio al suo dominio le stesse libertà democratiche borghesi. Poiché dunque la fascistizzazione è la tendenziale riscossa della borghesia, che in questo modo spera di salvare il suo dominio, essa è comune come tendenza a quasi tutti gli Stati imperialisti nell’epoca storica del tramonto dell’imperialismo».
E ancora:
«La tendenza al fascismo è organica all’imperialismo in quanto un’economia imperialista non può che fondarsi sull’assoggettamento violento di altri popoli, l’economia imperialista non può reggersi se non intensificando lo sfruttamento dei popoli oppressi e dei popoli degli stessi paesi imperialisti più deboli.
Lo Stato imperialista è il garante di questa rapina e questa rapina diventa tanto più indispensabile all’imperialismo quanto più esso riceve dure sconfitte».7
L’analisi sulla fascistizzazione e sulla natura dell’imperialismo rendeva Toscano particolarmente avvertito della necessità di lavorare per un governo autenticamente di sinistra, di “fronte popolare”, e dunque il suo giudizio sul PCI risentiva positivamente di questa necessità, della necessità cioè di lavorare per una coerente “linea di massa”, differenziandolo dallo schematismo degli altri raggruppamenti m-l:
«Riducendo all’osso, il discorso dei gruppetti è questo: dato un capitale che ha bisogno di svilupparsi e un PCI revisionista, essi si incontreranno sul terreno delle riforme. […] Questo tuttavia non significa né che l’azione di salvaguardia della produttività capitalistica promessa dal PCI abbia alcuna possibilità di riuscire, né, di conseguenza, che la borghesia passi dalle enunciazioni riformistiche alla loro esecuzione. […] Quale sia la scelta in questo periodo e alla lunga, dipende dal modo concreto in cui si svolge la lotta di classe nel nostro paese, dalla situazione internazionale, ecc.».8
Insomma, una visione dinamica, non molto frequente nelle organizzazioni m-l e molto attenta a non consegnare l’intero patrimonio del PCI al grande capitale e alle sue mene reaziona rie o “conciliatoriste”. Un punto d’analisi fortemente dialettico, dunque fortemente marxista, che non poteva provocare, nello stesso gruppo di Toscano, tensioni e contrasti sfocianti in scissioni e mini-scissioni9.
Il nodo-PCI e la lotta al “revisionismo”
Ma che il nodo-PCI e le relazioni da tenere con la sua base e della lotta della sua base contro i gruppi dirigenti “revisionisti”, siano i temi che ritornano con più costanza nel dibattito, non è certo casuale. Espulso dalla porta, il PCI, appena si torna a discutere di altro partito e di organizzazione di massa del movimento operaio, rientra dalla finestra. Chi sono, a parte l’agguerrito gruppo militante che gli dà vita, i lettori di «Nuova Unità»? Sono molti, moltissimi attivisti del PCI che conducono la loro battaglia interna contro la deriva moderata e burocratica del loro partito. Lo dimostra lo stesso dibattito ospitato dal giornale, come la lettera di alcuni “compagni di Napoli”, sempre coperti dall’anonimato, pubblicata nel numero del settembre 1964, precedente dunque alla stessa presa di posizione di Regis. In essa si taccia il giornale, che dovrebbe essere di tutti i marxisti-leninisti comunque collocati, di scadere a volte nel nocivo estremismo, di non tener conto «dell’epoca storica, perché non è condannando indiscriminatamente la politica del PCI dalle origini ad oggi che si indica chiaramente al proletariato italiano la via da seguire. […] Non dobbiamo cadere, conducendo una risoluta lotta all’estremismo di destra, nell’altrettanto pericoloso estremismo di sinistra». Per questi motivi, la ricostruzione di un altro partito, di un partito autenticamente rivoluzionario, che astragga dall’analisi di fase e salti disinvoltamente il problema del rapporto ancora esistente, e saldo, tra il PCI e le masse, e quindi non lo ricostruisca solo ideologicamente ma nella prassi concreta dell’azione politica (condizioni che si rendono indispensabili per non scadere nell’avventurismo) non è ancora inscrivibile all’ordine del giorno:
«Noi dobbiamo essere capaci di indicare la linea alternativa con chiarezza, di batterci per essa all’interno del Partito, in tutte le sue istanze, per ottenere che venga portata avanti dov’è possibile (e noi a volte siamo riusciti ad ottenerlo) dagli strumenti stessi del Partito. Solo di tali strumenti disponiamo e sarebbe illusorio, ed errato marxisticamente, credere che l’ideologia sia sufficiente alla mobilitazione delle masse senza l’organizzazione! Altrettanto illusorio sarebbe pensare che le condizioni attuali consentano un’organizzazione autonoma, cioè un altro partito».10
Le ragioni esposte in questa lettera saranno un leit-motiv ricorrente nel dibattito che si farà progressivamente più serrato negli anni tra il ’67 e il ’69, con l’esplodere della contestazione studentesca e la nascita effimera e morte rapida di miriadi di sigle ed organizzazioni antagoniste, molte delle quali si presumeranno l’autentico partito rivoluzionario marxista-leninista, anche se poche riusciranno a radicarsi in maniera significativa come il PCd’I (m-l), affatto sufficiente, però, a costituire un’alternativa seria all’egemonia del PCI sul movimento operaio italiano. Le continue scissioni dimostravano un’insufficiente analisi della fase storico-politica, anche se interpretavano una giusta esigenza obiettiva delle masse popolari, e il movimento studentesco, nazionale e internazionale, forniva un’accelerazione positiva che dislocava la lotta sul versante della “guerra di movimento”, ma provocava anche un’autoesaltazione dei quadri dirigenti delle organizzazioni rivoluzionarie in una chiave marcatamente ideologica che ne spezzava tutte le velleità a lungo termine. Non deve stupire, allora, che è proprio su questo che si consuma quella possibilità concreta di costruzione di un processo rivoluzionario profondo, contraddetto dalla vicenda dei marxisti-leninisti italiani negli anni appena precedenti al ’68/’69. La pubblicazione di «Nuova Unità» dal 1964 mette in moto una dinamica ricchissima dal punto di vista dell’elaborazione teorica, drammaticamente carente nel concepire un’effettiva e necessaria unità:
«Quanti ritenevano ormai matura la costituzione del partito – seppure dopo una fase di preparazione, di consolidamento organizzativo e di chiarificazione ideologica – proposero di passare dalla semplice redazione del giornale alla formazione del Movimento marxista-leninista. Esso in effetti si costituì nel 1965, continuò la pubblicazione del giornale «Nuova Unità» e tenne successivamente il suo congresso trasformandosi circa un anno dopo, nell’ottobre 1966, a Livorno, nell’attuale Partito Comunista d’Italia (m-l). Altri, opponendo a questa impostazione una concezione profondamente diversa del partito e dichiarando che doveva essere opera di lunghi anni il processo che ne avrebbe consentita la fondazione, uscirono ai primi del 1965 col giornale «Il Comunista», e si costituirono agli inizi del 1966 in Lega dei comunisti marxisti-leninisti d’Italia. Ad essi si unì anche la Lega della gioventù comunista (m-l), che pubblicò il giornale «Gioventù proletaria». All’interno del gruppo che aveva dato vita a «ll Comunista», peraltro, non finirono i dissensi. Si avvicinarono e poi si staccarono da «Il Comunista» alcuni dirigenti dell’organo di origine trozkista «Azione Comunista». Furono espulsi con l’accusa di trozkismo alcuni dirigenti della Lega della gioventù che, insieme ad altri, formarono una lega omonima e il giornale «Gioventù marxista-leninista». Uscirono o furono espulsi altri singoli militanti. Quasi tutti costoro si unirono, nel luglio 1966, con nuclei e militanti generalmente vicini alle Edizioni Oriente e che in precedenza non avevano ancora aderito a nessuna organizzazione. Insieme fondarono in quel mese la Federazione dei comunisti marxisti-leninisti d’Italia, col giornale «Rivoluzione proletaria», che ha tenuto verso la fine del 1967 il suo primo congresso, dandosi uno Statuto».11
Ci sembra questo un passaggio delicato della storia delle organizzazioni m-l in Italia, che spiega, senza soverchi sforzi ermeneutici, anche, e forse soprattutto, l’incapacità di costruire un polo di aggregazione realmente significativo a lungo termine alla sinistra del PCI, se si esclude il PCd’I (m-l) (ma il suo peculiare sviluppo ne impedirà il definitivo decollo), anche se in quegli anni dovuto principalmente alla sua capacità di riprendere tradizioni, identità e simboli (a partire dalla testata, «Nuova Unità», appunto) propri della storia del PCI.
Il legame analizzato da questo settore importante del marxismo-leninismo italiano, importante anche perché proveniente dallo stesso PCI, intrecciato con le nuove suggestioni provenienti dall’esperienza maoista della rivoluzione culturale (inaugurata da Mao il 5 agosto 1966 con il “Manifesto a grandi caratteri” intitolato Fuoco sul quartier generale!) produrranno una serie di concettualizzazioni che filtreranno nel senso comune del movimento del ’68, in particolare della sua variante “m-l”:
• rivoluzione contro riformismo (il gradualismo contro la costruzione del processo rivoluzionario e il “punto di rottura”);
• saldezza dei principi contro il “revisionismo” (fermezza dei propri valori costitutivi contro gli ondeggiamenti nella tattica, la strategia non chiara, l’eclettismo ideologico);
• creatività delle masse contro l’opportunismo burocratico (il partito di quadri dotato di una “linea di massa” e rigorosamente di classe e rivoluzionario contro il partito di massa infiltrato dalla piccola e media borghesia, oltre che nella composizione sociale nella sua omologazione ai valori dominanti).
Su questi punti teorico-programmatici il maoismo militante in Italia darà vita, anche grazie al movimento del ’68, alla sua caratterizzazione storica.
Ferdinando Dubla
* Rielaborazione di un capitolo del testo dello stesso autore: Secchia, il Pci e il movimento del ’68, Datanews ed., Roma, 1998.
(Tratto da: Ferdinando Dubla, Il movimento del Sessantotto e la genesi del maoismo militante in Italia, in «Il Calendario del popolo», anno 53, n. 619, aprile 1998, pp. 47-57).
Note
1 Su questi temi, mi si permetta il rimando per una ricostruzione più precisa a Ferdinando Dubla: A sinistra di Togliatti (1945/54), in «Il Calendario del Popolo», n. 582, dicembre 1994, pp. 36/43; la lettera di Nunzia Raimondi Augeri Azione Comunista e il caso Seniga in «Il Calendario» cit., n. 590/95, pp. 62/63 e la risposta di F. Dubla Ancora sul caso Seniga sul numero 594/96 dello stesso, p. 2.
2 Cfr. G. Maj: Storia dell’organizzazione marxista-leninista in Italia (1963/69), in «Che Fare», fascicolo dell’estate 1969, p. 65. A prescindere dalla non celata ricostruzione di parte, ad opera di un militante attivamente impegnato nel movimento di allora, che opera le sue scelte, le difende e le giustifica, a Maj si deve, proprio grazie a quest’articolo già del ’69, un recupero parziale ma efficace della memoria storica del movimento m-l, nonché una limpida coerenza dei propri principi anche in fasi storiche successive, in piena epoca di pentiti e di controffensiva ideologica della borghesia.
3 Cfr. G. Regis: Lettere (anonime) ai compagni del PCI, in «Nuova Unità», n. 10, dicembre 1964, p. 9.
4 E per un buon periodo ancora, cfr. il reprint a cura della Cooperativa editrice Nuova Cultura, p. 206, Como, 1972.
5 Cfr. Le divergenze tra il compраgno Togliatti e noi, «Quotidiano del Popolo», Pechino, 31 dicembre 1962, sta in Opere di Mao-Tse-Tung, ed. Rapporti sociali, Milano, pp. 159 (cit. precedente)-160. Gli stessi testi sono ora riprodotti integralmente nell’ipertesto multimediale Antologia per il ’68, Micla, Catania, 1998 - http://www.planio.it/linearossa
6 Cfr. Ancora sulle divergenze fra il compagno Togliatti e noi, in «Bandiera Rossa», Pechino, n. 3/4, febbraio 1963, sta in ivi, pp. 261 (cit. precedente) e 286.
7 Cfr. Anonimo (ma di S. Toscano): Note sulla natura del fascismo odierno, in «Movimento studentesco», rivista trimestrale, n. 4, Milano, aprile 1974, р. 8. Citazione precedente da Anonimo (ma di S. Toscano): Fascistizzazione e strategia della tensione, in «Movimento studentesco», n. 1, aprile-maggio 1973, p. 16, entrambi nella raccolta (a cura di E. Criscione) A partire dal ’68, Milano, 1978, p. 97 e p. 73.
8 Cfr. S.Toscano: La situazione attuale e i compiti politici del Movimento Studentesco (II), Milano, dicembre 1970, pp. 19/30, sta in A Partire cit., pp. 134/142. Anche secondo Criscione, per ‘Turi’ Toscano «in Italia i partiti di sinistra e soprattutto i sindacati erano ancora in grado di reagire positivamente alla spinta delle masse. Non dovevano quindi essere considerati mediazioni come le altre, ma potevano anzi costituire momenti di rottura del potere borghese», ivi, p. 13.
9 Una prima scissione nella seconda metà degli anni ’70, con il gruppo-Saracino che confluisce nel Gruppo Gramsci, poi l’espulsione di Mario Capanna e Giuseppe Liverani nel marzo ’74; sull’intera radiografia del gruppo MS cfr. la scheda in Il Sessantotto – La stagione dei movimenti (1960-1979), (1), a cura della redazione di «Materiali per una nuova sinistra», Ed. Associate, 1988, p. 229.
10 Cfr. A proposito di una lettera dei compagni di Napoli, «Nuova Unità», n. 7, settembre 1964, pp. 10/11.
11 Cfr. Marxisti-leninisti: quale unità?, articolo redazionale in «Lavoro Politico», n. 5/6, marzo-aprile 1968, p. 41.