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Dal canale Telegram «Коммунистический мир»

Uccise perché donne libere

URSS anni ’20: la lotta delle donne musulmane contro il burqa

“Chudžum” (“Offensiva”) fu un movimento per l’uguaglianza e l’istruzione delle donne attivo negli anni ’20 e ’30 nell’Asia Centrale sovietica e in Azerbaigian.

Una delle pagine più luminose ed eroiche dell’emancipazione delle donne dei popoli dell’Oriente è stata la lotta per eliminare il burqa come simbolo dell’oppressione e della schiavitù delle donne. Le mogli dei lavoratori uzbeki furono le prime a togliersi il burqa nel 1924 dopo l’emanazione del decreto sull’abolizione del prezzo della sposa.

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La lotta delle donne musulmane contro il burqa


“Chudžum” (“Offensiva”) fu un movimento per l’uguaglianza e l’istruzione delle donne attivo negli anni ’20 e ’30 nell’Asia Centrale sovietica e in Azerbaigian.

Una delle pagine più luminose ed eroiche dell’emancipazione delle donne dei popoli dell’Oriente è stata la lotta per eliminare il burqa come simbolo dell’oppressione e della schiavitù delle donne. Le mogli dei lavoratori uzbeki furono le prime a togliersi il burqa nel 1924 dopo l’emanazione del decreto sull’abolizione del prezzo della sposa. L’8 marzo 1927, su iniziativa del primo segretario dell’Ufficio per l’Asia Centrale del Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (Bolscevico), I. Zelenskij (il cognome è proprio questo!, ndt), in piazza Registan a Samarcanda, 10.000 donne uzbeke si tolsero i burqa e ne fecero un gran mucchio cui dettero fuoco. Nei tre mesi successivi altre 90.000 donne ripeterono il gesto, ben più che simbolico.

La campagna contro il burqa incontrò una feroce resistenza da parte del clero musulmano e dei conservatori. Nel 1927-1928 solo in Uzbekistan furono uccise più di 2.500 donne che facevano parte dei collettivi femminili, tra cui presidentesse di case della cultura e direttrici di biblioteche. Ad esempio, in Kirghizistan, l’attivista ventiduenne Alymkan Mamytkulova partecipava a incontri fra donne e studiava in una scuola per la liquidazione dell’analfabetismo. Suo marito ne era estremamente insoddisfatto, la picchiava regolarmente e infine la pugnalò a morte proprio durante il processo per la loro causa di divorzio. Ajnabjubju Džalganbaeva, membro del soviet di villaggio, era responsabile della cosiddetta “yurta rossa” (un’istituzione culturale ed educativa, una casa della cultura), frequentava programmi educativi ed era attiva tra le donne nel villaggio di Kyzyl-Tuu, nella provincia di Kočkor. Il marito, così come i parenti di lui, era molto scontento di questo tentativo di emancipazione e la picchiava duramente. Ajnabjubju lo denunciò sul giornale murale, lo lasciò e andò a vivere dai genitori, continuando a studiare e a lavorare. Successivamente il marito le tese un agguato e l’uccise, infliggendole 14 coltellate.

“Chudžum” contribuì ad ampliare gli orizzonti delle donne, a coinvolgerle nel lavoro dei club culturali e dei collettivi femminili e a risvegliare in loro il desiderio di conoscenza e di una nuova vita. Già all’inizio degli anni ’30 le donne dei popoli dell’Oriente sovietico erano lavoratrici attive nella produzione industriale e nei campi agricoli collettivizzati, partecipando attivamente alla lotta per aumentare la produttività del lavoro socialista.

«Distruggiamo definitivamente il burqa!»

«Lavoratrice dell’Oriente, entra nelle file dei costruttori del socialismo.

Liberati dalla schiavitù.

Vai in fabbrica.

Entra nel kolchoz.»

Dal sito «abbattoimuri.wordpress.com»

Angela Davis: «I diritti delle donne sono i diritti umani di tutto il pianeta»

Il discorso pronunciato dalla famosa attivista afroamericana alla Marcia delle donne svoltasi il 21 gennaio 2017 a Washington

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Il Discorso di Angela Davis alla Women’s March a Washington


In un momento difficile e decisivo della nostra storia, permettiamoci di ricordare a noi stessi che noi, le centinaia di migliaia, i milioni di donne, persone transgender, uomini e giovani che siamo qui alla Women’s March, noi rappresentiamo la più grande forza di cambiamento che non permetterà alla cultura morente del razzismo, dell’etero-patriarcato di sollevarsi ancora.

Noi riconosciamo di essere degli agenti collettivi della storia e che la storia non può essere cancellata come le pagine del web. Sappiamo che ci stiamo radunando, oggi pomeriggio, nella terra degli indigeni e che seguiamo le orme delle prime persone che, nonostante la violenza dei genocidi di massa, non hanno mai abbandonato la lotta per la terra, l’acqua, la cultura, la propria gente. Oggi porgiamo omaggio alla Standing Rock Sioux.

L’anelito per la libertà delle persone di colore che ha inciso profondamente sulla natura reale della storia di questo paese non può essere cancellata con un colpo di spugna. Non siamo fatti per dimenticare che le vite delle persone di colore contano. Questo è un paese ancorato alla schiavitù e al colonialismo, e questo significa, nel bene e nel male, che la storia reale degli Stati Uniti è una storia di immigrazione e schiavitù. Spargere xenofobia, lanciare accuse di omicidio e stupro e costruire muri non cancellerà la storia.

Nessun essere umano è illegale.

La battaglia per salvare il pianeta, per fermare il cambiamento climatico, per garantire l’accessibilità all’acqua dalle terre della riserva Standing Rock Sioux, al Flint, Michigan, alla Cisgiordania e Gaza. La lotta per salvare la nostra flora e fauna, per salvare l’aria – queste sono le fondamenta della lotta per la giustizia sociale.

Questa è una marcia delle donne e questa marcia delle donne rappresenta la promessa del femminismo contro i poteri perniciosi della violenza di stato. Ed è un femminismo inclusivo e intersezionale che ci coinvolge tutti nella lotta di resistenza al razzismo, all’islamofobia, all’antisemitismo, alla misoginia, allo sfruttamento del capitalismo.

Sì, celebriamo la lotta per i 15 dollari l’ora dei lavoratori. Ci consacriamo alla resistenza collettiva. Resistenza alla ipoteca miliardaria dei gentrificatori e degli speculatori. Resistenza a coloro che vogliono privatizzare il sistema sanitario. Resistenza agli attacchi verso i Musulmani e gli immigrati. Resistenza agli attacchi alle persone disabili. Resistenza alla violenza di stato perpetrata dalla polizia e attraverso il sistema carcerario industrializzato. Resistenza alla violenza di genere istituzionale e privata, specialmente contro le donne trans di colore.

I Diritti delle donne sono diritti umani in tutto il pianeta ed è per questo che diciamo “libertà e giustizia per la Palestina”. Festeggiamo l’imminente rilascio di Chelsea Manning (Accusata di aver trafugato decine di migliaia di documenti riservati mentre svolgeva il suo incarico di analista di intelligence durante le operazioni militari in Iraq, e di averli consegnati all’organizzazione Wikileaks , è stata arrestata, imputata di svariati reati contro la sicurezza nazionale, e detenuta in condizioni considerate lesive dei diritti umani.) . E Oscar López Rivera (leader portoricano delle forze armante di liberazione nazionale – FALN – e combattente anticolonialista.). Ma chiediamo anche che venga liberato Leonard Peltier (attivista statunitense per i diritti dei nativi). Liberate Mumia Abu-Jamal 8attivista giornalista e membro delle Pantere Nere). Liberate Assata Shakur (JoAnne Deborah Byron , è un’attivista e rivoluzinaria statunitense afro-americana, ex membro del partito delle Pantere Nere, e successivamente del Black Liberation Army (BLA) ).

Nei prossimi mesi e anni saremo chiamati a intensificare le nostre richieste per la giustizia sociale, a diventare più militanti in difesa dei più deboli. Quelli che ancora difendono la supremazia dell’uomo bianco etero-patriarcale faranno meglio a fare attenzione.

I prossimi 1.459 giorni di amministrazione Trump saranno 1.459 giorni di resistenza: Resistenza sul campo, resistenza nelle classi, resistenza al lavoro, resistenza nelle arti e nella musica.

Questo è solo l’inizio e citando le memorabili parole di Ella Baker: “Quelli che credono nella libertà non potranno riposare finché non l’avranno ottenuta”. Grazie.


Angela Davis

(Traduzione di Ethan Bonali*)


* «Ho tradotto il discorso di Angela Davis perché desideravo che il messaggio di questa storica giornata arrivasse a tutti superando l’ostacolo della lingua e il filtro dei media. Chiedo perdono per la qualità del mio lavoro che non restituisce il carisma di questa leader». Ethan Bonali


(Tratto dal sito: https://abbattoimuri.wordpress.com/2017/01/23/il-discorso-di-angela-davis-alla-womens-march-a-washington/).


Inserito il 07/03/2024.

Dal «Corriere della sera»

La lezione repubblicana di Franca Caffa

Intervista a cura di Elisabetta Andreis


La storica attivista: «Io in piazza a quasi 95 anni. Volevo essere in mezzo ai giovani ad impedire le strumentalizzazioni e la violenza. Ho fatto anche una carezza sul viso a un militare che poteva essere mio figlio. Quel carabiniere? Mancanza di coscienza, mi sono cascate le braccia»

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La lezione repubblicana di Franca Caffa


La storica attivista: «Io in piazza a quasi 95 anni. Volevo essere in mezzo ai giovani ad impedire le strumentalizzazioni e la violenza. Ho fatto anche una carezza sul viso a un militare che poteva essere mio figlio. Quel carabiniere? Mancanza di coscienza, mi sono cascate le braccia»


«La giornata della Memoria invece di essere utilizzata per difendere il diritto di tutti ad avere un mondo di pace senza stragi e senza morti, sta diventando il giallo di che cosa ha detto quel carabiniere». Franca Caffa, 94 anni, storica attivista del quartiere Molise Calvairate Ponti e fondatrice del relativo comitato inquilini, «comunista originaria di Genova», come ama definirsi, risponde al clamore suscitato dal suo botta e risposta scambiato con un agente sabato pomeriggio mentre era in piazza a Milano per manifestare tra le bandiere palestinesi in un clima piuttosto teso.


Signora Caffa, cosa è successo?

«La manifestazione ha riempito la piazza (1200 persone, ndr) e la tensione era palpabile. Mi sono portata passetto dopo passetto, con il bastone, sulla linea dello schieramento delle cosiddette forze dell’ordine: ho pensato fosse utile perché se avessero cominciato a usare i manganelli io volevo essere in mezzo ai giovani ad impedire le strumentalizzazioni e la violenza. Eravamo pacifici dimostranti in piazza per affermare il diritto universale alla Memoria del dolore, dunque anche alla memoria del popolo palestinese».


In verità era la giornata di una Memoria specifica…

«Con tutti gli orrori e le persecuzioni cui abbiamo dovuto assistere, gli ebrei dovrebbero essere i primi ad opporsi alle politiche di scellerate di Benjamin Netanyahu. C’è chi lo fa e magari era persino in piazza con noi nel giorno della Memoria, una memoria che vale per tutti».


Quando si è trovata con le forze dell'ordine davanti cosa è successo?

«Mi sono portata in prima fila, erano tutti molto più alti di me, con gli scudi, tra le urla. Ho voluto fare una carezza sul viso di un carabiniere che poteva essere mio figlio e lui ha accettato il mio gesto di pace con un sorriso. Ma non bastava. In quella situazione ho voluto argomentare, proporre un dialogo».


Cosa gli ha detto?

«Ho richiamato le parole del presidente della Repubblica perché finalmente l’abbiamo sentito prendere una posizione giusta e aperta. Mattarella ha detto che la storia di tutta la sofferenza e della persecuzione non si deve ripetere mai più, in nessuna forma. Il diritto ad esprimere questo concetto vale per tutti, anche per chi non condivide le politiche scellerate di Netanyahu, e per i palestinesi, povera gente le cui sofferenze vengono talvolta coperte».


Cosa ha risposto il carabiniere?

«Mi ha fatto trasecolare: ha detto “Con tutto il rispetto signora, non è il mio presidente”, e io gli ho chiesto di che Paese è, ma era italiano. Mi ha detto che Mattarella non l’ha scelto lui e che non lo riconosce, ma che cosa c’entra? Questa è mancanza di coscienza, cascano le braccia».


Il comando generale dell’Arma disporrà l’immediato trasferimento del carabiniere, è stata informata l’autorità giudiziaria ordinaria e militare e aperto un fascicolo presso la Procura…

«A me interessa altro. Sono anziana, ho fatto la guerra, ho sofferto perché è così difficile vedere rappresentate certe idee fuori dal coro».


La responsabilità di chi è, se non vengono rappresentate?

«Non vede come è difficile fare passare notizie su ingiustizie e povertà? C’è uno schieramento di giornalisti che non escono dal coro dei benpensanti. Danno voce a chi detiene il potere, il dominio. Creano un muro intorno all’informazione e sono purtroppo parte del problema. Se crede che siano parole fuori dal tempo, sbaglia. Il mestiere di giornalista è importante, c’è chi ha dato la vita per fare passare un’idea diversa».


I social network danno una lettura diversa?

«Non li leggo, magari danno uno sguardo differente e forse è quello degli analfabeti di cui nessuno si occupa. L’informazione che serve è un’altra. Abbiamo diritto di avere giornali e media colti che però sappiano parlare a tutti e tessere relazioni anche con la parte della società che non ha ancora coscienza della propria condizione».


Quali rischi vede?

«Intanto vedo intanto una responsabilità, che è la nostra. Non è pensabile lasciare solo sulle spalle dei ragazzi l’onere di dare voce a chi non ne ha, ed è la ragione per cui a quasi 95 anni scendo in piazza. Vedo poi un rischio, sì: quello che tutti quei proletari privi di coscienza della loro condizione un domani possano inclinare le loro energie verso i fascismi. Il processo è già in corso e sottovalutarlo significa proprio rinnegare quel diritto e dovere di tutti alla Memoria».


Intervista di Elisabetta Andreis

 

(Tratto dal «Corriere della sera», 29 gennaio 2024: https://milano.corriere.it/notizie/cronaca/24_gennaio_29/franca-caffa-io-in-piazza-a-quasi-95-anni-quel-carabiniere-mancanza-di-coscienza-mi-sono-cascate-le-braccia-b6b649da-b1a0-4825-bcb2-943ba3319xlk.shtml).

Chi è Franca Caffa

Franca Caffa, comunista genovese trasferitasi a Milano, è attiva nei movimenti politici e sociali fin dagli anni Sessanta. A Milano si è impegnata come attivista nel quartiere delle case popolari Molise-Calvairate-Ponti e nel 1979 ha fondato il Comitato Inquilini con l’obiettivo di proteggere gli abitanti, promuovere le risorse locali e favorire l’autonomia e l’integrazione, specialmente per gli stranieri. Nel corso degli anni, il Comitato è diventato un collettivo solidale autonomo, organizzando corsi di italiano e informatica, oltre a fornire assistenza legale a coloro che non possono permettersi un avvocato.

Successivamente, Franca Caffa è stata consigliera comunale di Milano con Rifondazione Comunista, diventando un’icona storica della Sinistra milanese. Nel 2021, all'età di 91 anni, si è nuovamente candidata con la lista Milano in Comune – Sinistra Costituzione, che però non è riuscita a superare la soglia di sbarramento.

Nel 2023 ha ricevuto l’Ambrogino d’oro del Comune di Milano per essersi distinta come un modello di cittadinanza attiva e di impegno sociale per la centralità dei quartieri popolari, è stata elogiata per la sua forza, il carattere rivoluzionario, critico e controcorrente, insieme alla dedizione, passione, coraggio e impegno politico che ha dedicato alle fasce più vulnerabili della popolazione.

Dolores Ibárruri, “La Pasionaria” (1895-1989).

Fonte della foto: https://www.libertaddigital.com/cultura/historia/2022-09-27/pedro-fernandez-barbadillo-dolores-ibarruri-reina-de-mentiras-6936596/

Dolores Ibárruri, “La Pasionaria”

di Raffaella Sutter

Dolores Ibárruri Gómez, detta “La Pasionaria”, fu una donna politica, attivista e antifascista spagnola, già segretaria generale e poi presidente del PC spagnolo, e membro del parlamento spagnolo prima della dittatura franchista e dopo il ritorno della Spagna alla democrazia (1977–1979). Cittadina sovietica e spagnola.

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Dolores Ibárruri, “La Pasionaria”


di Raffaella Sutter


Dolores Ibárruri Gómez, detta “La Pasionaria” (Abanto-Zierbena, 9 dicembre 1895 – Madrid, 12 novembre 1989), fu una donna politica, attivista e antifascista spagnola, già segretaria generale e poi presidente del PCE (1944–1960), e membro del parlamento spagnolo prima della dittatura franchista (1939) e dopo il ritorno della Spagna alla democrazia (1977–1979). Il suo vero nome era Isidora Ibárruri Gómez.


Dolores Ibarruri nasce il 9 dicembre 1895 a Gallarta, nella provincia basca di Vizcaya, una piccola città mineraria. Era l’ottava di undici figli: suo padre Antonio, detto “l’Artigliere”, lavorava in miniera. Sua madre aveva lavorato in miniera sino al matrimonio. Il nonno materno era morto in miniera, schiacciato da un blocco di minerale. I suoi fratelli erano minatori.

A 15 anni Dolores, non avendo mezzi la famiglia, deve interrompere gli studi, pur volendo dedicarsi all’insegnamento, va a imparare cucito, a fare la cameriera in case benestanti, vende per strada sardine.

A 20 anni diventa moglie di un minatore, Julian Ruiz. Il marito entra e esce di prigione per ragioni politiche, per cui lei e i figli spesso vivono di carità. Di sei figli avuti quattro sono morti per stenti o malattie.

Comincia a leggere alcuni testi di Marx ed Engels, rendendosi conto che la vita non è “un pantano nel quale gli uomini sprofondano senza remissione, ma – come lei stessa dirà – un campo di battaglia nel quale ogni giorno l’immenso esercito del lavoro guadagna posizioni”.

Quando nel 1920 si forma in Spagna il Partito comunista, lei vi aderisce immediatamente. E nello stesso anno viene eletta membro del primo comitato provinciale del Partito comunista basco.

Inizia la sua carriera politica firmando con lo pseudonimo “La Pasionaria” (il fiore della passione) tutti gli articoli su «El Minero Vizcaíno» («Il minatore della Biscaglia») e poi, nel 1931, trasferendosi a Madrid, dopo essersi separata dal marito, sull’organo ufficiale del partito, «Mundo Obrero» di Madrid.

È una donna bella, alta e robusta, con un’espressione decisa e una grande oratoria, è sempre vestita di nero, con l’ampia e lunga gonna delle donne del suo paese, abbigliamento che è il suo distintivo e che abbandonerà solo una volta, travestendosi da dama alla moda, per sfuggire a un arresto.

Nel 1927 guida un gruppo di donne comuniste, mogli di detenuti politici, sino all’ufficio del governatore per avanzare alcune richieste. Guida gli scioperi dei minatori e li incita alla resistenza.

Nel 1928 è delegata della Biscaglia al III congresso comunista che si tiene in Francia. Due anni dopo partecipa alla conferenza di Pamplona e viene eletta membro del Comitato centrale. Organizza nel 1931 un comizio a Bilbao, resiste alle guardie a cavallo, afferra una bandiera e conduce i compagni per le vie della città, in un corteo di protesta.

Nel settembre 1931 viene arrestata per la prima volta a Madrid, messa in carcere insieme alle delinquenti comuni, con le quali dà il via allo sciopero della fame, al fine di ottenere la libertà dei detenuti politici. In seguito a un secondo arresto fa cantare l’Internazionale nel parlatorio e nel cortile, incitando le recluse a rifiutare il lavoro miseramente pagato. Dopo il terzo arresto spedisce i figli a Mosca.

Nel marzo del 1932 organizza il IV congresso del partito a Siviglia, il primo tenuto ufficialmente in Spagna, dopo anni di clandestinità. L’anno dopo è delegata al 13° congresso internazionale del partito e si reca per la prima volta a Mosca. Nel 1934 organizza, con le donne socialiste e repubblicane del suo paese, il Comitato femminile contro la guerra e il fascismo.

Verso la fine del 1934, in piena repressione antioperaia, va nelle Asturie con due repubblicane, per prendere più di un centinaio di bambini, figli di operai in sciopero, che muoiono letteralmente di fame e portarli a Madrid in famiglie disposte ad accoglierli.

Nel 1935 a Mosca, dove Dolores arriva passando la frontiera spagnola a piedi, per sfuggire all’arresto, viene eletta membro del Comitato esecutivo del Comintern ed è tra quelli che approvano la costituzione del Fronte Popolare tra socialisti e comunisti, che vincerà le elezioni nel febbraio 1936. Dopo che il Fronte popolare è giunto al potere, fa liberare i prigionieri politici di sinistra e convince i minatori delle Asturie a sospendere uno sciopero. Dal 1935 diventa il più importante dirigente del Partito comunista dopo José Diaz.

Dopo che il Fronte popolare è giunto al potere, fa liberare i prigionieri politici di sinistra e convince i minatori delle Asturie a sospendere uno sciopero. Il 16 giugno 1936 denuncia apertamente in parlamento la preparazione di un golpe di destra, non creduta dal primo ministro Quiroga.

La sera stessa del colpo di stato annuncia alla radio un grido che passerà alla storia: «Meglio morire in piedi che vivere in ginocchio! No pasarán!». Dopodiché entra con un compagno nella caserma di fanteria n. 1 di Madrid e arringa i soldati incerti, li conquista alla resistenza. Poi si adopera per formare una milizia sicura, facendo nascere il “Quinto Reggimento”.

Grazie alle sue capacità persuasive riesce a far accorrere dai paesi nemici della Spagna libera, o indifferenti alla sua libertà, uomini famosi e ignoti che formeranno le “Brigate internazionali”, pronte a combattere a fianco del Fronte popolare.

Suscita grande commozione il suo viaggio di propaganda in Francia e in Belgio. La delegazione riesce a farsi ricevere dal primo ministro francese Léon Blum, il quale però le conferma la decisione del governo di non intervenire nella guerra civile. Quando il Partito comunista spagnolo accetta di entrare nel governo del Fronte popolare, guidato dal socialista Caballero, diventa vicepresidente del parlamento.

Lascerà la Spagna nel 1939, per ritirarsi esule in Francia e da qui partire per la Russia di Stalin. Nel 1942, alla morte di Diaz, viene eletta segretaria del Partito comunista spagnolo in esilio e lo resterà fino al 1960, quando cede il posto a Santiago Carrillo. Nel 1945 è vicepresidente del Comitato esecutivo della Federazione internazionale delle donne democratiche.

Agli inizi degli anni ’60 le viene concessa la cittadinanza sovietica. Nel 1964 riceve il premio Lenin per la pace. L’anno dopo viene insignita con l’ordine di Lenin. Diventa presidente del Partito comunista spagnolo in esilio nel 1960 sino alla morte. Riceve una laurea ad honorem dall’Università di Mosca.

Il figlio Rubén morirà sotto i bombardamenti nazisti della città di Stalingrado. L’altra figlia Amaya sposerà un russo.

La sua autobiografia, No Pasarán, viene pubblicata nel 1966.

Tornata in Spagna, dopo la morte di Franco e quindi dopo 38 anni di esilio, viene eletta deputata nel 1977. Nel 1983 partecipa alla manifestazione di solidarietà con le Madri della Plaza de Mayo argentine.

Dopo una vita di passione e altissima dignità morale morì di polmonite, alla veneranda età di 94 anni, il 12 novembre 1989.


Raffaella Sutter


(Tratto da: Raffaella Sutter, Dolores Ibarruri detta la Pasionaria, in: https://www.ccisim.it/ricorrenze-di-raffaella-sutter-dolores-ibarruri-detta-la-pasionaria/).


Inserito il 23/12/2023.

Pagine di letteratura

Lettera di Mademoiselle Lenormand, cartomante, a Dolores Ibarruri, rivoluzionaria

di Antonio Tabucchi

«Crescerai con la giusta rabbia che hanno i poveri quando non sono rassegnati; parlerai a coloro che i potenti considerano strame e insegnerai loro a non diventare come era tua madre. Accenderai in loro la speranza, ed essi ti seguiranno, perché i poveri come vivrebbero senza speranza?».


Nelle pagine che presentiamo, tratte dalla raccolta di racconti e frammenti I volatili del Beato Angelico, Antonio Tabucchi immagina una lettera che la veggente Mademoiselle Lenormand, cartomante di Napoleone, invia alla rivoluzionaria spagnola, predicendole una vita eroica e drammatica.

Ringraziamo l’amica Francesca per la segnalazione.

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Lettera di Mademoiselle Lenormand,* cartomante,
a Dolores Ibarruri, rivoluzionaria


di Antonio Tabucchi

Le mie carte effigiano dame vestite di sontuosi broccati, forzieri, castelli, e scheletri graziosi e danzanti, per niente macabri, onde predire acconciamente i fasti e la morte a principi delicati e a imperatori iracondi. Non so perché esse mi chiedono di leggere la tua vita che ancora non è, e che i molti anni che la separano da questo mio tempo attuale mi lasciano discernere solo per larghi e forse ingannevoli squarci. Forse è perché, nonostante la tua umile nascita, qualcosa nel tuo destino partecipa della natura dei monarchi e dei potenti: la profonda tristezza, come di una malattia mortale, di coloro che hanno la facoltà di decidere della sorte altrui, di disporre degli uomini, di muovere sulla scacchiera del destino, anche se per un nobile fine, povere vite umane.

Vedrai la luce nel cuore della Spagna, in un villaggio il cui nome mi è indistinto, velato di una polvere nera e crocchiante. Tuo padre si calerà nel buio ogni mattina all’alba e ne riemergerà a notte fonda, greve di sporcizia e di stanchezza, per dormire un sonno di pietra in un letto vicino al tuo. Silenziosa e pia, terrorizzata da eventuali disgrazie, sarà tua madre, rinchiusa nel guscio di un vestito nero. Ti chiameranno Dolores, nome di cristiana reverenza, ignari che sia un nome presago del senso della tua vita.

La tua infanzia sarà vuota di tutto, questo lo scorgo con trasparenza: perfino del desiderio esatto di una bambola, perché non avendola mai vista non potrai neppure sognarla, ma desidererai solo vagamente una forma antropomorfa sulla quale trasferire i tuoi terrori infantili. Tua madre, povera donna rozza, non sa cucire fantocci, e ignora che i fanciulli hanno bisogno di giochi, perché essi hanno principalmente bisogno di cibo.

Crescerai con la giusta rabbia che hanno i poveri quando non sono rassegnati; parlerai a coloro che i potenti considerano strame e insegnerai loro a non diventare come era tua madre. Accenderai in loro la speranza, ed essi ti seguiranno, perché i poveri come vivrebbero senza speranza?

Conoscerai le minacce dei giudici, le percosse dei gendarmi, la volgarità dei carcerieri, il disprezzo dei servi. Ma tu sarai bella, furente, intrepida, infiammata dallo sdegno. Ti chiameranno la Pasionaria, per indicare il fuoco che ti brucia nel cuore.

Poi vedo una guerra. Tu organizzerai la tua gente, con voi ci saranno gli umili e coloro che credono nel riscatto degli uomini, e questa sarà la bandiera della tua battaglia. Combatterai anche gli ideali affini al tuo, perché li crederai meno perfetti. E il vero nemico, intanto, ti vincerà. Conoscerai la fuga, l’esilio, i nascondigli. Vivrai di silenzio e poco pane; e lunghe strade, diritte, ti indicheranno al tramonto orizzonti di terre estranee come quelle da cui starai fuggendo. Ti ospiteranno fienili e stalle, fossati, compagni sconosciuti, la pietà della gente.

Eri una donna del Sud, scura d’occhi e di capelli, avvezza a paesaggi assolati e biondi punteggiati dal rado bianco dei mulini di Don Chisciotte. Ti accoglieranno le pianure dell’Est, dove d’inverno il gelo mina la terra e il cuore degli uomini. Avevi una favella sonora e latina, dove le sillabe sembrano schiocchi di mani: una lingua fatta per chitarre, feste negli aranceti e sfide nelle arene dove uomini coraggiosi e stupidi lottano contro la bestia. Ti suonerà barbarica la lingua delle steppe, ma dovrai sostituirla alla tua. Ti daranno una medaglia e ogni anno, all’entrare del maggio, siederai su una tribuna, accanto a uomini taciturni, anch’essi con medaglie, a guardare sfilare sotto di te i soldati vestiti per l’occasione, mentre il vento diffonderà il rosso delle bandiere e le note stentoree di inni marziali suonati da macchine. Sarai un reduce con un appartamento, ricompensa in forma edile dell’eroismo.

La guerra ti visiterà di nuovo. Ci sono persone che la vita destina a vedere macerie e morte: tu sei una di queste. Il figlio che avrai avuto, il vero conforto della tua esistenza, te lo rapirà la morte in una città che verrà a chiamarsi Stalingrado. Dio, come fuggono rapidi gli anni per le mie carte e per i tuoi rimpianti: era un bambino appena ieri, e oggi è già un soldato morto. Tu sarai un eroe madre di eroe, e il tuo petto avrà un’altra medaglia. Sarà un dopoguerra, a Mosca. Vedo passi felpati sulla neve; un manto di immacolato candore tenta inutilmente di confondere le mie carte; percepisco la funerea tetraggine che impregna la città: alle fermate delle carrozze ciascuno guarda per terra per evitare lo sguardo del vicino.

Anche tu, la sera, rientrerai guardinga, perché è tempo di diffidenza. La notte ti sveglierai di soprassalto, madida di sudore, sospettando della tua stessa fedeltà, perché la peggiore eresia è quella di stimarsi ortodossi, e molti furono perduti dalla superbia. Lunghi e capziosi saranno i tuoi esami di coscienza. E intanto, dove sono finiti i vecchi compagni. Tutti scomparsi, tutti. Ti girerai nel letto, le lenzuola saranno di rovo; fuori fa così freddo, possibile che il guanciale sia una fornace?

«Tutti traditori?».

«Tutti».

«Anche Francisco, che rideva come un bambino e cantava il romancero?».

«Anche Francisco».

«Anche El Campesino, che aveva pianto con te i tuoi morti?».

Certo, anche El Campesino, che ora pulisce le toilettes di Mosca. E il breve sonno sarà già finito, seduta sul letto, gli occhi sbarrati nella penombra (dovrai sempre lasciare una piccola luce accesa, perché non sopporterai l’oscurità), a fissare la parete di fronte. Ma che fare, d’altronde? Troppo lontano è il Sudamerica, e poi non si lascia uscire la Pasionaria dai confini amici di Russia.

Dunque penserai che è meglio attaccarti al tuo ideale, farne una fede più salda, ancora più salda, ancora più salda. E poi, in fondo, il tempo starà passando. Lentamente, molto lentamente: ma tutto passa. Passano gli uomini, le sofferenze, i disastri. Anche tu sarai già quasi passata, e ciò ti darà un sottile e segreto conforto. La crocchia frugale dei tuoi capelli si imbiancherà di anni e di dolori. Il viso sarà ascetico, secco, con due scavi profondi. Poi morirà anche il tuo Re. Starai in mezzo alla piazza, accanto alla bara: sarai sempre lì, giorno e notte, identica a te stessa, con gli occhi sempre aperti, silenziosa, inflessibile, mentre una folla immensa sfila muta di fronte al cadavere imbalsamato. Ieratica, statuaria, ritagliata nel macigno: quella è la Pasionaria, penserà la gente guardandoti, e qualche padre ti indicherà ai bambini. E intanto tu, per non cedere al panico e allo struggimento che ti hanno scavato gallerie nell’animo, con le mani in grembo andrai avvolgendo il fazzoletto e lo annoderai in un lembo (che cosa curiosa: perché le tue mani lisciano quel batuffolo tondo?); e ti verrà in mente una camera che il tempo si è portata via, un povero letto di ferro e una minuscola Dolores impaurita e malata, con le pupille invase dalla febbre, che chiama lamentosamente: «Mamaita, el jugete… Mamaita, por favor, el jugete…». E tua madre si alza dalla seggiola e ti confeziona una bambola approssimativa annodando le cocche della sua pezzuola marrone.

Poi ti aspetteranno molti altri anni, ma saranno tutti uguali. Dolores Ibarruri, ti potrai guardare allo specchio, esso ti restituirà l’immagine della Pasionaria, non ci sarà nessun cambiamento.

Poi un giorno, forse, leggerai la mia lettera. O non la leggerai, ma ciò non avrà nessuna importanza, perché tu sarai vecchia, e tutto sarà già stato. Perché se la vita potesse tornare ad essere diversa da quella che è stata, annullerebbe il tempo e la successione delle cause e degli effetti che sono la vita stessa; e ciò sarebbe assurdo. E le mie carte, Dolores, non possono cambiare ciò che, dovendo essere, è già stato.


Antonio Tabucchi


* Mademoiselle Lenormand fu la cartomante di Napoleone e una delle più celebri veggenti della Francia dell'epoca.


(Tratto da: Antonio Tabucchi, Lettera di Mademoiselle Lenormand, cartomante, a Dolores Ibarruri, rivoluzionaria, in Antonio Tabucchi, I volatili del Beato Angelico, Palermo, Sellerio Editore, 1987 [XII ed. 2012], pp. 26-31).


Inserito il 23/12/2023.

Dolores Ibárruri, “La Pasionaria” (1895-1989).

Fonte della foto: https://images.collettiva.it/view/acePublic/alias/contentid/MGE1Y2M1ODUtN2MxOC00/1/image_2551509.webp?f=16%3A9&q=0.75&w=640

Dal sito «infoaut.org»

Ricordo di Olga Benario

di Raffaella Sutter

Olga Benario (1908-1942), ebrea nata a Monaco di Baviera, visse buona parte della sua breve vita di rivoluzionaria comunista in esilio tra Mosca, Londra e il Brasile, sino alla tragica morte nella camera a gas del lager nazista di Bernburg. Raffaella Sutter traccia il profilo biografico di questa – da noi poco conosciuta – martire del comunismo.

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Ricordo di Olga Benario


di Raffaella Sutter


Olga Benario (Monaco di Baviera, 12 febbraio 1908 – Bernburg, 23 aprile 1942), comunista, ebrea e compagna dell’uomo politico brasiliano Luís Carlos Prestes, fu uccisa nella camera a gas del lager di Bernburg.

Olga Gutmann Benario proveniva da una famiglia ebrea molto benestante di Monaco di Baviera, figlia di Leo Benario e di Eugénie Gutmann; il padre, avvocato, aveva idee politiche socialdemocratiche: nel suo studio legale di Karlplatz riceveva sia la ricca clientela borghese sia modesti operai che difendeva gratuitamente.

Il successo della Rivoluzione bolscevica e la grave crisi economica e sociale in cui versava la Repubblica di Weimar, le fece ritenere che il futuro della Germania fosse nel socialismo e così, appena quindicenne, Olga si iscrisse al KJVD, la Lega Giovanile Comunista Tedesca e, per rendersi indipendente dalla famiglia, s’impiegò come commessa in una libreria del centro di Monaco.

Alla fine del 1923 s’innamorò di Otto Braun (1900-1974), un colto ventitreenne comunista che aveva già compiuto esperienze rivoluzionarie durante la fallita sollevazione spartachista del 1919, che le consigliò le letture necessarie per la formazione di una militante esperta. Quando questi fu chiamato dal suo Partito a Berlino, Olga lo seguì.

Il Partito comunista tedesco si era dato anche una struttura clandestina: a Berlino andarono a vivere in una povera soffitta sulla Weserstrasse sotto falso nome come una coppia, ma marito e moglie soltanto sulla carta, perché Olga era contraria al matrimonio, che considerava un’istituzione borghese.

L’attività di Olga era quella di ogni militante comunista: stampe di ciclostili, volantinaggi, picchetti alle fabbriche in sciopero, manifestazioni, lettura dei classici del marxismo e riunioni con i compagni fino a notte nella birreria Müller della Zietenstrasse.

Nel 1926, Olga fu promossa segretaria politica della gioventù comunista di Berlino. Nell’ottobre fu arrestata con Otto Braun con una serie di gravi accuse: partecipazione ad associazione clandestina, tentativo di modificare con la violenza la Costituzione, alto tradimento. Accuse senza fondamento, tanto che dopo due mesi di interrogatori, fu rilasciata, mentre il suo compagno rimase in carcere senza la possibilità di ricevere visite e ottenere assistenza legale. L’accusa nei suoi confronti era di essere una spia al servizio dell’Unione Sovietica.

Dopo più di un anno di carcere, l’11 aprile 1928, mentre Otto Braun veniva condotto dal giudice istruttore della Corte penale di Moabit a Berlino, un gruppo di giovani, comandato da Olga, armata di pistola, lo liberava.

L’azione fu rapida e incruenta: il gruppo riuscì a dileguarsi e vane furono le ricerche e inutile la taglia di 5.000 marchi posta sul capo dell’evaso. Otto e Olga stettero nascosti per qualche tempo a Berlino poi, in auto e con falsi documenti, espatriarono in Polonia per raggiungere in treno l’Unione Sovietica.

A Mosca Olga col nuovo nome di Olga Sinek, entrò a far parte del Comitato centrale della Gioventù comunista internazionale e seguì un lungo corso di addestramento militare a Borisoglebsk, imparando a usare le armi, ad andare a cavallo, a pilotare aerei e a lanciarsi con il paracadute: finita la relazione con Otto Braun, alla fine del1931, con il nome di Eva Kruger, fu inviata dall’Internazionale in missione a Parigi da cui, in seguito alla sua partecipazione a una manifestazione, fu espulsa. Dal Belgio passò allora a Londra, fermata dalla polizia e schedata, tornò a Mosca dove, nel 1934, fu messa in contatto con un giovane comunista brasiliano, Luís Carlos Prestes.

Prestes, rivoluzionario, guerrigliero, dirigente de partito comunista brasiliano, si oppose alla presa di potere dittatoriale di Getúlio Vargas nel 1930 (che abolì la costituzione e sciolse il parlamento) e 1931 si trasferì in Unione Sovietica, dove lavorò come ingegnere, studiò la teoria marxista e la tattica leninista e, incaricato dall’Internazionale comunista, alla fine del 1934 sembrò essere pronto per la difficile impresa di organizzare in Brasile un movimento rivoluzionario.

Il 30 dicembre 1934 Olga e Luís Carlos partirono insieme per il lungo viaggio che doveva condurli in Brasile, dopo soste ad Amsterdam, Bruxelles, Parigi ove, con falsi documenti intestati al commerciante di Lisbona Antônio Vilar e a sua moglie Maria Bergner Vilar, forniti dal console portoghese, ottennero dall’ambasciata americana il visto d’ingresso per gli Stati Uniti. Da Brest si imbarcarono per New York, e durante il viaggio in nave si sposarono realmente, poi passando per il Cile e l’ Argentina, ove ottennero il visto per il Brasile, giunsero a San Paolo il 15 aprile 1935.

Intanto in Brasile era stata fondata l‘Aliança Nacional Libertadora di cui era stato proclamato presidente onorario Luis Carlos Prestes – in quel momento ancora in viaggio sotto falso nome – in virtù della popolarità e il prestigio procuratosi alcuni anni prima. All’ANL aderirono migliaia di persone, comunisti, socialisti, liberali ed anche appartenenti alle forze armate e Prestes ne divenne il leader. Dopo che, il 5 luglio, il deputato del Paranà Otávio da Silveira lesse alla Camera dei deputati il manifesto scritto da Prestes nel quale si annunciava prossimo «il momento dell’assalto» che l’ANL, con il concorso della popolazione, avrebbe dato all’«odioso governo di Vargas», questi emanò l’11 luglio il decreto di scioglimento dell’Aliança Nacional Libertadora che passò in clandestinità e operò in stretto contatto col partito comunista. Olga e Luis entrano in contatto con esuli e militanti comunisti provenienti da tutto il mondo. La rivolta decisiva contro la dittatura sarebbe dovuta avvenire il 27 novembre, ma la defezione delle forze armate che avrebbero partecipare all’insurrezione portò al fallimento della rivolta e agli arresti degli ufficiali rivoltosi e in pochi giorni migliaia di dirigenti, di iscritti e di simpatizzanti dell’ANL e del Partito comunista finirono in carcere. Olga e Luís Carlos cambiarono più volte rifugio a Rio de Janeiro, mentre la polizia brasiliana torturava i prigionieri per farsi rivelare il loro nascondiglio. Olga e Prestes furono arrestati la notte del 5 marzo 1936 e condotti alla sede centrale della polizia. Qui furono separati e da allora non si sarebbero più rivisti.

Durante i primi interrogatori, Olga sostenne di chiamarsi Bergner, di essere belga di origine e ora brasiliana in virtù del suo matrimonio con Luís Carlos Prestes. A questo punto, la maggiore preoccupazione di Olga era quella di non rivelare le sue origine tedesche per evitare di essere estradata in Germania. Ma l’ambasciatore brasiliano a Berlino fece i passi necessari per scoprire la sua identità e la Gestapo gli fornì le notizie richieste: la donna si chiamava Olga Benario, era un’ebrea tedesca, agente del Comintern e nel 1928 era stata condannata a tre mesi di prigione per aver favorito l’evasione di Otto Braun.

Trasferita in carcere, in aprile si accorse di essere incinta. Malgrado Prestes si fosse assunto tutte le responsabilità della fallita insurrezione del 27 novembre, la prospettiva dell’espulsione di Olga dal Brasile quale soggetto indesiderabile e la sua conseguente consegna alle autorità naziste si faceva molto concreta, stante la decisa volontà in tal senso del dittatore Getúlio Vargas e un articolo della legge sulla sicurezza nazionale, da lui fatta approvare due anni prima, che stabiliva che la Repubblica brasiliana poteva «espellere dal territorio nazionale gli stranieri pericolosi per l’ordine pubblico o nocivi agli interessi del paese».

Olga era in gravidanza e la sua difesa opponeva che non fosse possibile espellere una donna che portava in grembo un bambino, figlio di un brasiliano e che alla nascita sarebbe stato un cittadino brasiliano. Il 17 giugno 1936 la Corte suprema dispose il rigetto dell’eccezione dell’avvocato difensore di Olga.

Intanto, Leocádia e Ligia Prestes, la madre e la sorella di Luís Carlos, fin dalla notizia dell’arresto avevano iniziato dalla Russia un lungo viaggio per l’Europa per mobilitare l’opinione pubblica: si erano trasferite in Spagna, poi in Inghilterra e in Francia, dove fu costituito un comitato, di cui facevano parte, tra gli altri, André Malraux e Romain Rolland.

Il 28 agosto fu reso noto il decreto con il quale Getúlio Vargas disponeva l’espulsione dal Brasile di Olga Benario, «elemento nocivo per gli interessi del paese e pericoloso per l’ordine pubblico». Una nuova istanza, presentata dalla difesa il 15 settembre, di sospensione del decreto in attesa del parto di Olga, e una richiesta di intervento a favore della Benario indirizzata alla moglie del presidente, Darcy Vargas, rimasero senza risposta. In realtà il governo brasiliano aveva già disposto il trasferimento di Olga in Germania mediante un mercantile tedesco – e non tramite un comune piroscafo – in modo che non fossero previsti scali durante il viaggio. Il 23 settembre 1936 Olga Benario fu imbarcata a forza sulla nave La Coruña, ancorata nel porto di Rio e battente la bandiera del Terzo Reich.

Olga Benario ed Elise Ewert, altra espulsa dal decreto di Vargas, la mattina del 16 ottobre furono consegnate a un plotone di SS nel porto di Amburgo e qui furono ancora separate: si ritroveranno anni dopo nel lager di Ravensbruck. Olga fu trasportata nella prigione femminile della Gestapo a Berlino, in Barnimstrasse 15. Quando Ligia e Leocádia Prestes seppero dell’estradizione di Olga e della sua gravidanza si misero in contatto con la Croce rossa internazionale di Ginevra, dove ebbero assicurazioni sulla sorte della nascitura. La bambina – chiamata Anita Leocádia Prestes in onore di Anita Garibaldi e della suocera – nacque il 27 novembre 1936. (Anita Leocádia Prestes, tuttora vivente è stata docente universitaria, scrittrice e politica).

Benché le autorità naziste non l’accusassero di nessun reato specifico, Olga rimase nell’infermeria del carcere con la figlia. Era tuttavia previsto che, terminato lo svezzamento, Anita fosse affidata a un orfanotrofio. Per evitare questa possibilità, Leocádia e Ligia Prestes ottennero, il 21 gennaio 1938, l’affidamento della nipotina, portandola subito fuori dalla Germania: non poterono vedere Olga e i carcerieri strapparono la figlia ad Olga senza comunicarle la novità. Solo un mese dopo poté ricevere una lettera della suocera, che la informava che Anita era al sicuro a Parigi.

In marzo Olga fu trasferita nel lager di Lichtenburg: qui rimase poco più di un anno, intervallato da alcuni trasferimenti a Berlino per essere interrogata. Con il trascorrere dei mesi, Lichtenburg si riempiva di sempre nuovi detenuti, così che nell’aprile del 1939 Olga e altre centinaia di detenute furono trasferite nel nuovo lager femminile di Ravensbruck.

Le prigioniere erano identificate da un numero e da uno o più triangoli colorati, attaccati sulla giacca della divisa carceraria, che indicavano il motivo della detenzione: Olga portò il triangolo giallo delle ebree e quello nero delle «antisociali». Il lavoro forzato nei lager rappresentava naturalmente un affare per le industrie che ne erano beneficiarie: nel capannone della Siemens installato nel campo di Ravensbruck si produceva materiale bellico, e la giornata lavorativa veniva pagata la miserabile somma di 30 centesimi direttamente al Lagerkommand e non alla detenuta. Con l’inizio della guerra vennero meno anche le rare possibilità di comunicare per posta, aumentò il numero delle detenute prelevate dai territori conquistati dalla Wehrmacht e nel campo fu aggiunta una sezione maschile. Iniziarono anche gli esperimenti condotti dal medico personale di Heinrich Himmler, il dottor Karl Gebhardt: alcune detenute venivano infettate per studiare lo sviluppo delle malattie veneree e del tetano, ad altre si trapiantavano arti di altre detenute per poter osservare il fenomeno del rigetto. La «soluzione finale» ebbe inizio nel 1942 e a Ravensbruck fu coordinata dal dottor Fritz Mennecke: le stesse detenute scoprirono che le eliminazioni venivano compiute a Bernburg, nel cui ospedale psichiatrico fin dal 1939 erano stati ricavate stanze sotterranee apparentemente simili a bagni collettivi, in realtà camere a gas, e i cadaveri venivano bruciati in un annesso forno crematorio. Il «successo» dell’iniziativa presa a Bernburg convinse le autorità naziste a costituire analoghe camere a gas a Grafeneck, Brandenburg, Harteim, Sonnenstein, Hadamar.

In aprile anche Olga fu destinata a Bernburg. La notte prima della partenza, sapendo di morire, scrisse la sua ultima lettera ai famigliari, riportata bel libro di Fenando Morais, Olga.Vita di un’ebrea comunista (ed. it. Il Saggiatore, 2005):


« … Cara Anita, amore mio caro, mio Garoto, piango sotto le coperte perché nessuno mi senta, perché oggi sembra che non avrò la forza di sopportare una cosa così terribile. Ed è proprio per questo che mi sforzo di dirvi addio adesso, per non farlo nelle ultime e difficili ore. Dopo questa notte, voglio vivere per il breve futuro che mi resta. Da te ho imparato, caro, cosa significa la forza di volontà, specialmente se emana da fonti come la nostra. Ho lottato per ciò che c’è di più giusto e di più buono e di migliore al mondo. Ti prometto adesso che fino all’ultimo istante non dovrai vergognarti di me. Spero che mi capiate: prepararmi alla morte non vuol dire che mi arrendo, ma che saprò affrontarla quando arriverà … Conserverò fino all’ultimo momento la voglia di vivere … »


Olga entrò nella camera a gas di Bernburg il 23 aprile 1942. Carlos Prestes seppe della morte di Olga il 15 luglio 1945 quando, liberato dal carcere per effetto di un’amnistia promulgata il precedente 18 aprile, tornava a Rio da una manifestazione politica tenuta a San Paolo.

A Olga Benario Prestes sono state dedicate strade in sette città, 91 scuole e brigate operaie dell’ex Repubblica Democratica Tedesca. In varie città brasiliane ci sono strade, piazze e scuole che portano il suo nome.


Raffaella Sutter


(Tratto da: Raffaella Sutter, Olga Benario, in https://www.ccisim.it/ricorrenze-di-raffaella-sutter-olga-benario/; in seguito ripubblicato in: https://www.infoaut.org/storia/12-febbraio-1908-ricordo-di-olga-benario).


Inserito il 15/12/2023.

Olga Benario (1908-1942).

Fonte della foto: https://www.ccisim.it/wp-content/uploads/2016/02/Olga_benario_2.jpg

Dal quotidiano «il manifesto»

Marisa Rodano, memoria di una che c’era

di Luciana Castellina

L’addio a Marisa Rodano, partigiana, femminista, cattolica, comunista, scomparsa all’età di 102 anni. A lei la “Festa della donna” in Italia deve la mimosa come simbolo.

«Siamo ad un passaggio d’epoca, quando se ne va una persona così importante per noi donne comuniste, così lucida e partecipe, per un secolo intero, della contemporaneità».

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Marisa Rodano, memoria di una che c’era


di Luciana Castellina


L’addio. Siamo ad un passaggio d’epoca, quando se ne va una persona così importante per noi donne comuniste, così lucida e partecipe, per un secolo intero, della contemporaneità.


Quando una persona, in particolare quando questa persona ha avuto un ruolo così rilevante come ha avuto su noi donne comuniste e non solo; quando è riuscita anche a vivere questo lungo tempo restando viva a tutti gli effetti, e cioè lucida e partecipe della contemporaneità come è stato per Marisa Rodano, la sua scomparsa acquista un valore particolare: ci fa prendere improvvisamente atto che una fase della storia, a cominciare da quella di ognuno di noi, è terminata, che siamo arrivate/i ad un passaggio d’epoca . Per me poi, che di anni ne ho quasi quanti lei, e che con lei ho a lungo lavorato a stretto contatto di gomito (prima perché ero nella sezione femminile al tempo diretta da Nilde Iotti, poi perché nella presidenza dell’Udi), confesso che è come se morissi anche io.

Perché ti torna alla mente tutta in una volta la storia della tua stessa vita. Fra l’altro Marisa per me in particolare è anche il ricordo di una grande esperienza degli anni ’50, quella compiuta in relazione a due riviste molto particolari degli ultimi anni ’50,

“La rivista trimestrale” e il “Dibattito Politico”, fondate e dirette da suo marito Franco Rodano, un importantissimo, assai appartato, protagonista della storia del Pci, proveniente, come la sessa Marisa, dal Movimento dei cattolici comunisti, già attivo durante la Resistenza e poi già dal ’46, confluito nel Pci. Stesso percorso di Marisa che peraltro fu anche arrestata per la sua militanza partigiana in quella formazione.


Non scriverò di tutte le cose che ha fatto Marisa, a partire dalla più nota – essere stata la prima donna vicepresidente della Camera dei Deputati. E però anche per un decennio consigliere comunale, poi provinciale di Roma, deputata dal ‘48 all’’89, gli ultimi dieci anni a Bruxelles, e tante altre cose. Vi parlerò dell’Udi (Unione donne italiane), di cui fu a lungo presidente, una grande storia di cui persino quelle/i che oramai hanno più di 50 anni sanno quasi niente. E in particolare del difficile incontro nei primi anni ’70 con il movimento femminista appena nato in Italia.

Perché è in quella sfida che Marisa ha mostrato più che in ogni altra pur rilevante occasione, la sua intelligenza e capacità politica, l’importanza per una dirigente di essere stata una straordinaria militante del Pci che non ha mai perso il contatto con la vita quotidiana dei suoi iscritti, senza però farsi irrigidire nella propria cultura di provenienza ma sapendo cogliere quanto arrivava di nuovo e per questo gestendo con grande saggezza la transizione, all’inizio anche molto conflittuale, fra il vecchio e il nuovo dell’Udi stessa.


Voglio riprendere quanto già allora ne dissi in un momento particolare della storia dell’Udi, il primo incontro con il movimento del ’68, quando in occasione del nostro VIII Congresso cominciammo a scoprire che c’era qualcosa che ci accumunava, Non una cultura ancora, ma il fatto di essere l’espressione di un reale movimento autonomo e nuovo alle prese con il rapporto con un grande partito come il Pci. È un fatto che parecchi sessantottini erano venuti ad ascoltare incuriositi. Lo sottolineo nella relazione che io tenni in quell’occasione dedicata alle «indicazioni di lavoro emerse dal congresso». Nella quale dico che «è interessante notare come la interpretazione della condizione femminile, quella che del problema era contenuta nella relazione di Marisa Rodano, abbia colpito gli osservatori esterni. I commenti della stampa ne sono la testimonianza. E non sottovaluterei il fatto che la nostra problematica sia stata compresa dallo stesso schieramento di sinistra perché non sempre – lo sappiamo – questo è accaduto in passato».

In ballo, sopratutto, c’è un giudizio di cui l’Udi, con difficoltà, ma con l’importante sollecitazione di una presidente così autorevole come Marisa, che legittima l’idea allora niente affatto affermata, che non sono le donne che devono adeguarsi alla società, ma è la società che deve adeguarsi alle donne e dunque cambiare profondamente.

Questa posizione, badate, è importante perché corrisponde al momento in cui le donne – e qui sta l’incontro, certo inizialmente scabroso, con le femministe – devono innanzitutto acquisire soggettività, non continuare a sentirsi «un po’ meno degli uomini», «un po’ vergognose» perché ancora non sono capaci di essere come i maschi.


Ho usato la parola scabroso per indicare la difficoltà di un momento particolare, quando alla fine anni ’70 arriva in parlamento la questione del divorzio e poi dell’aborto, che produce una vera divisione fra l’Udi e la battaglia in atto per ottenere quelle due leggi , e quindi lo scontro con l’area laicista della sinistra.

Uno scontro che ancora mi fa litigare con i radicali che la capeggiavano. Noi volevamo invece che prima di tutto si approvasse una seria riforma del Codice di famiglia per ottenere che le donne conquistassero prima tutti quei diritti che non avevano e che le avrebbe lasciate senza niente, nemmeno il letto per dormire ove fossero state divorziate, perché erano allora totalmente prive di diritti propri.


Nei primi anni del dibattito parlamentare su questi temi, quando l’UdiI, ma io credo giustamente, si intestò a combattere queste riforme, fu perché ogni volta erano i maschi che discettavano, proponevano, decidevano su questioni che riguardavano le donne e che implicavano persino questioni relative persino alla loro sessualità. Ed è singolare che proprio su questo punto – il diritto delle donne di parlar con la propria voce e non lasciare che decidessero i maschi (che è poi il problema della conquista della propria soggettività) che alla fine si realizzò l’incontro.

Fino a ritrovarsi nelle immense manifestazioni femminili di quegli anni assieme, e poi anche a capirsi. Vi consiglio davvero di leggere, maschi compresi, due libri che possono farvi capire meglio qualcosa che la storia ufficiale di quegli anni ha completamente oscurato. Credo che sarebbe il modo migliore di ricordare Marisa Rodano: Memoria di una che c’era. Una storia dell’Udi, scritto da lei nel 2010; e la corposa raccolta ragionata che fa conoscere tutti i documenti, L’Udi, Laboratorio di politica delle donne, scritto nel 2010 da Maria Michetti, Luciana Viviani, Margherita Repetto.


Io comunque dell’Udi ho grande nostalgia. non è stata neppure solo alla fine – quando negli anni’80 si è mischiata col femminismo ed è nato un nuovo movimento – una storia «vecchia», ma la storia di grandi utilissime battaglie che hanno «fertilizzato» il terreno indispensabile all’esplosione della odierna rivoluzione femminile.


Luciana Castellina


(Tratto da: Luciana Castellina, Marisa Rodano, memoria di una che c’era, in «il manifesto», 3 dicembre 2023).


Inserito il 09/12/2023.