don Lorenzo Milani

«Se voi avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri miei stranieri».

don Lorenzo Milani

Dal settimanale «Rinascita», n. 10/1965

Lettera ai cappellani militari toscani

di don Lorenzo Milani

Un testo fondamentale, di una forza incredibile


«Se voi avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto».

«Diteci esattamente cosa avete insegnato ai soldati. L’obbedienza a ogni costo? E se l’ordine era il bombardamento dei civili, una azione di rappresaglia su un villaggio inerme, l’esecuzione sommaria dei partigiani, l’uso delle armi atomiche, batteriologiche, chimiche, la tortura, la esecuzione d’ostaggi, i processi sommari per semplici sospetti, le decimazioni (scegliere a sorte qualche soldato della Patria e fucilarlo per incutere terrore negli altri soldati della Patria), una guerra di evidente aggressione, l’ordine d’un ufficiale ribelle al popolo sovrano, la repressione di manifestazioni popolari?».

Clicca per aprire

↓ ↓ ↓

Lettera ai cappellani militari toscani


di don Lorenzo Milani


Il 12 febbraio scorso la «Nazione» di Firenze, sotto il titolo I cappellani militari e la obiezione di coscienza pubblicava la seguente nota:

«Nell’anniversario della conciliazione tra la Chiesa e lo Stato italiano, si sono riuniti ieri, presso l’Istituto della Sacra Famiglia in via Lorenzo il Magnifico, i cappellani in congedo della Toscana. Al termine dei lavori, su proposta della sezione don Alberto Cambi, è stato votato il seguente ordine del giorno: «I cappellani militari in congedo della regione Toscana nello spirito del recente congresso nazionale dell’Associazione, svoltosi a Napoli, tributano il loro riverente e fraterno omaggio a tutti i caduti per l’Italia, auspicando che abbia termine finalmente, in nome di Dio, ogni discriminazione e ogni divisione di parte di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutte le divise che morendo si sono sacrificati per il sacro ideale di Patria. Considerano un insulto alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta “obiezione di coscienza” che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà».

La presa di posizione dei cappellani toscani, che si inserisce in una persistente campagna scatenatasi particolarmente in occasione del processo contro padre Ernesto Balducci sui fogli di destra e fascisti, ha indotto il sacerdote don Lorenzo Milani a scrivere la lettera aperta che integralmente riproduciamo, nello stesso spirito nel quale pubblicammo, recentemente, quella dei preti-operai francesi. Si tratta di un’altra testimonianza di un complesso e profondo travaglio in atto nella società umana e che si riflette nel mondo cattolico. Non si vuol certo lo «scandalo» né si vogliono ricercare identità: ma la lettera di don Milani ci sembra offrire motivi validi, e degni di considerazione, non soltanto sul problema specifico dell’obiezione di coscienza, ma anche sugli eventi storici italiani dell’ultimo secolo e sul rapporto tra sacerdote e guerra che il Concilio stesso ha dovuto dibattere.

Don Lorenzo Milani, oggi residente a Barbiana, un borgo del comune di Vicchio di Mugello nel fiorentino, pubblicò sei anni orsono Esperienze pastorali: analisi spregiudicata di un prete che si trova a vivere i drammi dell’apostolato religioso all’interno di quelli più generali dell’odierna società. Fu un libro audacissimo, spregiudicato, intransigente, opera di un sincero credente.

Il volume apparve con l’imprimatur del cardinale Elia Dalla Costa, allora arcivescovo di Firenze, e con una lettera-prefazione di mons. D’Avach, fino allo scorso anno, vescovo di Camerino. Tutto questo non risparmiò Esperienze pastorali dalle severe critiche dell’«Osservatore romano» e, quindi, dal divieto di ristampa e dall’ordine di ritiro delle copie emanati dal Sant’Offizio. L’ordine del giorno dei cappellani militari viene preso polemicamente in esame anche da un gruppo di sacerdoti e di cattolici, i quali hanno inviato una lettera (che riportiamo integralmente) a cinque giornali.



Ai Cappellani Militari Toscani che hanno sottoscritto il comunicato dell’11 febbraio 1965


Da tempo avrei voluto invitare uno di voi a parlare ai miei ragazzi della vostra vita. Una vita che i ragazzi e io non capiamo.

Avremmo però voluto fare uno sforzo per capire e soprattutto domandarvi come avete affrontato alcuni problemi pratici della vita militare. Non ho fatto in tempo a organizzare questo incontro tra voi e la mia scuola.

Io l’avrei voluto privato, ma ora che avete rotto il silenzio voi, e su un giornale, non posso fare a meno di farvi quelle stesse domande pubblicamente.

Primo perché avete insultato dei cittadini che noi e molti altri ammiriamo. E nessuno, ch’io sappia, vi aveva chiamati in causa. A meno di pensare che il solo esempio di quella loro eroica coerenza cristiana bruci dentro di voi una qualche vostra incertezza interiore.

Secondo perché avete usato, con estrema leggerezza e senza chiarirne la portata, vocaboli che sono più grandi di voi.

Nel rispondermi badate che l’opinione pubblica è oggi più matura che in altri tempi e non si contenterà né di un vostro silenzio, né d’una risposta generica che sfugga alle singole domande. Paroloni sentimentali o volgari insulti agli obiettori o a me non sono argomenti. Se avete argomenti sarò ben lieto di darvene atto e di ricredermi se nella fretta di scrivere mi fossero sfuggite cose non giuste.

Non discuterò qui l’idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni.

Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto.

Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre se le giustificherete alla luce del Vangelo o della Costituzione. Ma rispettate anche voi le idee degli altri. Soprattutto se son uomini che per le loro idee pagano di persona.

Certo ammetterete che la parola Patria è stata usata male molte volte. Spesso essa non è che una scusa per credersi dispensati dal pensare, dallo studiare la storia, dallo scegliere, quando occorra, tra la Patria e valori ben più alti di lei.

Non voglio in questa lettera riferirmi al Vangelo. È troppo facile dimostrare che Gesù era contrario alla violenza e che per sé non accettò nemmeno la legittima difesa.

Mi riferirò piuttosto alla Costituzione.

Art. 11: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli…».

Art. 52: «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino».

Misuriamo con questo metro le guerre cui è stato chiamato il popolo italiano in un secolo di storia.

Se vedremo che la storia del nostro esercito è tutta intessuta di offese alle Patrie degli altri dovrete chiarirci se in quei casi i soldati dovevano obbedire o obiettare quel che dettava la loro coscienza. E poi dovrete spiegarci chi difese più la Patria e l’onore della Patria: quelli che obiettarono o quelli che obbedendo resero odiosa la nostra Patria a tutto il mondo civile? Basta coi discorsi altisonanti e generici. Scendete nel pratico. Diteci esattamente cosa avete insegnato ai soldati. L’obbedienza a ogni costo? E se l’ordine era il bombardamento dei civili, una azione di rappresaglia su un villaggio inerme, l’esecuzione sommaria dei partigiani, l’uso delle armi atomiche, batteriologiche, chimiche, la tortura, la esecuzione d’ostaggi, i processi sommari per semplici sospetti, le decimazioni (scegliere a sorte qualche soldato della Patria e fucilarlo per incutere terrore negli altri soldati della Patria), una guerra di evidente aggressione, l’ordine d’un ufficiale ribelle al popolo sovrano, la repressione di manifestazioni popolari?

Eppure queste cose e molte altre sono il pane quotidiano di ogni guerra. Quando ve ne sono capitate davanti agli occhi o avete mentito o avete taciuto. O volete farci credere che avete volta volta detto la verità in faccia ai vostri «superiori» sfidando la prigione o la morte? Se siete ancora vivi e graduati è segno che non avete mai obiettato a nulla. Del resto ce ne avete dato la prova mostrando nel vostro comunicato di non avere la più elementare nozione del concetto di obiezione di coscienza.

Non potete non pronunciarvi sulla storia di ieri se volete essere, come dovete essere, le guide morali dei nostri soldati. Oltre a tutto la Patria, cioè noi, vi paghiamo o vi abbiamo pagato anche per questo. E se manteniamo a caro prezzo (1000 miliardi l’anno) l’esercito, è solo perché difenda colla Patria gli alti valori che questo concetto contiene: la sovranità popolare, la libertà, la giustizia. E allora (esperienza della storia alla mano) urgeva più che educaste i nostri soldati all’obiezione che all’obbedienza.

L’obiezione in questi 100 anni di storia l’han conosciuta troppo poco. L’obbedienza, per disgrazia loro e del mondo, l’han conosciuta anche troppo.

Scorriamo insieme la storia. Volta volta ci direte da che parte era la Patria, da che parte bisognava sparare, quando occorreva obbedire e quando occorreva obiettare.

1860. Un esercito di napoletani, imbottiti dell’idea di Patria, tentò di buttare a mare un pugno di briganti che assaliva la sua Patria. Fra quei briganti c’erano diversi ufficiali napoletani disertori della loro Patria. Per l’appunto furono i briganti a vincere. Ora ognuno di loro ha in qualche piazza d’Italia un monumento come eroe della Patria.

A 100 anni di distanza la storia si ripete: l’Europa è alle porte.

La Costituzione è pronta a riceverla: «L’Italia consente alle limitazioni di sovranità necessarie…». I nostri figli rideranno del vostro concetto di Patria, così come tutti ridiamo della Patria Borbonica. I nostri nipoti rideranno dell’Europa. Le divise dei soldati e dei cappellani militari le vedranno solo nei musei.

La guerra seguente 1866 fu un’altra aggressione. Anzi c’era stato un accordo con il popolo più attaccabrighe e guerrafondaio del mondo per aggredire l’Austria insieme.

Furono aggressioni certo le guerre (1867-1870) contro i Romani i quali non amavano molto la loro secolare Patria, tan’è vero che non la difesero. Ma non amavano molto neanche la loro nuova Patria che li stava aggredendo, tant’è vero che non insorsero per facilitarle la vittoria. Il Gregorovius spiega nel suo diario: «L’insurrezione annunciata per oggi è stata rinviata a causa della pioggia».

Nel 1898 il re «Buono» onorò della Gran Croce Militare il generale Bava Beccaris per i suoi meriti in una guerra che è bene ricordare. L’avversario era una folla di mendicanti che aspettavano la minestra davanti a un convento a Milano. Il generale li prese a colpi di cannone e di mortaio solo perché i ricchi (allora come oggi) esigevano il privilegio di non pagare le tasse. Volevano sostituire la tassa sulla polenta con qualcosa di peggio per i poveri e di meglio per loro. Ebberго quel che volevano. I morti furono 80, i feriti innumerevoli. Fra i soldati non ci fu né un ferito né un obiettore. Finito il servizio militare tornarono a casa a mangiar polenta. Poca perché era rincarata.

Eppure gli ufficiali seguitarono a farli gridare «Savoia» anche quando li portarono a aggredire due volte (1896 e 1935) un popolo pacifico e lontano che certo non minacciava i confini della nostra Patria. Era l’unico popolo nero che non fosse ancora appestato dalla peste del colonialismo europeo.

Quando si battono bianchi e neri siete coi bianchi? Non vi basta di imporci la Patria Italia? Volete imporci anche la Patria Razza Bianca? Siete di quei preti che leggono la «Nazione»? Stateci attenti perché quel giornale considera la vita d’un bianco più che quella di 100 neri. Avete visto come ha messo in risalto l’uccisione di 60 bianchi nel Congo, dimenticando di descrivere la contemporanea immane strage di neri e di cercarne i mandanti qui in Europa?

Idem per la guerra di Libia.

Poi siamo al ’14. L’Italia aggredì l’Austria con cui questa volta era alleata.

Battisti era un Patriota o un disertore? È un piccolo particolare che va chiarito se volete parlare di Patria. Avete detto ai vostri ragazzi che quella guerra si poteva evitare? Che Giolitti aveva la certezza di poter ottenere gratis quello che fu poi ottenuto con 600.000 morti?

Che la stragrande maggioranza della Camera era con lui (450 su 508)? Era dunque la Patria che chiamava alle armi? E se anche chiamava, non chiamava forse a una «inutile strage»? (l’espressione non è d’un vile obiettore di coscienza ma d’un Papa canonizzato).

Era nel ’22 che bisognava difendere la Patria aggredita. Ma l’esercito non la difese. Stette a aspettare gli ordini che non vennero. Se i suoi preti l’avessero educato a guidarsi con la Coscienza invece che con l’Obbedienza «cieca, pronta, assoluta» quanti mali sarebbero stati evitati alla Patria e al mondo (50 milioni di morti). Così la Patria andò in mano a un pugno di criminali che violò ogni legge umana e divina: riempiendosi la bocca della parola Patria, condusse la Patria allo sfacelo. In quei tragici anni quei sacerdoti che non avevano in mente e sulla bocca che la parola sacra «Patria», quelli che di quella parola non avevano mai voluto approfondire il significato, quelli che parlavano come parlate voi, fecero un male immenso proprio alla Patria (e, sia detto incidentalmente, disonorarono anche Chiesa).

Nel ’36, 50.000 italiani si trovarono imbarcati in una nuova infame aggressione: avevano avuto la cartolina di precetto per andar «volontari» a aggredire l’infelice popolo spagnolo.

Erano corsi in aiuto d’un generale traditore della sua Patria, ribelle al suo legittimo governo e al popolo suo sovrano. Coll’aiuto italiano e al prezzo d’un milione e mezzo di morti riuscì a ottenere quello che volevano i ricchi: blocco dei salari e non dei prezzi, abolizione dello sciopero, del sindacato, dei partiti, d’ogni libertà civile e religiosa.

Ancor oggi, in sfida al resto del mondo. quel generale ribelle imprigiona, tortura, uccide (anzi garrota) chiunque sia reo d’aver difeso allora la Patria o di tentare di salvarla oggi. Senza l’obbedienza dei «volontari» italiani tutto questo non sarebbe successo.

Se in quei tristi giorni non ci fossero stati degli italiani anche dall’altra parte, non potremmo alzar gli occhi davanti a uno spagnolo. Per l’appunto questi ultimi erano italiani ribelli e esuli dalla loro Patria. Gente che aveva obiettato.

Avete detto ai vostri soldati che cosa devono fare se gli capita un generale tipo Franco? Gli avete detto che agli ufficiali disobbedienti al popolo loro sovrano non si deve obbedire?

Poi dal ’39 in là fu una frana: i soldati italiani aggredirono una dopo l’altra altre sei Patrie che non avevano certo attentato alla loro (Albania, Francia, Grecia, Egitto, Jugoslavia, Russia).

Era una guerra che aveva per l’Italia due fronti L’uno contro il sistema democratico. L’altro contro il sistema socialista. Erano e sono per ora i due sistemi politici più nobili che l’umanità si sia data.

L’uno rappresenta il più alto tentativo dell’umanità di dare, anche su questa terra, libertà e dignità umana ai poveri.

L’altro il più alto tentativo della umanità di dare, anche su questa terra, giustizia e eguaglianza ai poveri.

Non vi affannate a rispondere accusando l’uno o l’altro sistema dei loro vistosi difetti e errori. Sappiamo che son cose umane. Dite piuttosto cosa c’era di qua dal fronte. Senza dubbio il peggior sistema politico che oppressori senza scrupoli abbiano mai potuto escogitare. Negazione d’ogni valore morale, di ogni libertà se non per i ricchi e per i malvagi. Negazione di ogni giustizia e d’ogni religione. Propaganda dell’odio e sterminio d’innocenti. Fra gli altri lo sterminio degli ebrei (la Patria del Signore dispersa nel mondo e sofferente).

Che c’entrava la Patria con tutto questo? E che significato possono più avere le Patrie in guerra da che l’ultima guerra è stata un confronto di ideologie e non di Patrie?

Ma in questi cento anni di storia italiana c’è stata anche una guerra «giusta» (se guerra giusta esiste). L’unica che non fosse offesa delle altrui Patrie, ma difesa della nostra: la guerra partigiana.

Da un lato c’erano dei civili, dall’altro dei militari. Da un lato soldati che avevano obbedito, dall’altro soldati che avevano obiettato.

Quali dei due contendenti erano, secondo voi, i «ribelli», quali i «regolari»?

È una nozione che urge chiarire quando si parla di Patria. Nel Congo p. es. quali sono i «ribelli»?

Poi per grazia di Dio la nostra Patria perse l’ingiusta guerra che aveva scatenato. Le Patrie aggredite dalla nostra Patria riuscirono a ricacciare i nostri soldati.

Certo dobbiamo rispettarli. Erano infelici contadini o operai trasformati in aggressori dall’obbedienza militare. Quell’obbedienza militare che voi cappellani esaltate senza nemmeno un «distinguo» che vi riallacci alla parola di San Pietro: «Si deve obbedire agli uomini o a Dio?». E intanto ingiuriate alcuni pochi coraggiosi che son finiti in carcere per fare come ha fatto San Pietro.

In molti paesi civili (in questo più civili del nostro) la legge li onora permettendo loro di servir la Patria in altra maniera. Chiedono di sacrificarsi per la Patria più degli altri, non meno. Non è colpa loro se in Italia non hanno altra scelta che di servirla oziando in prigione.

Del resto anche in Italia c’è una legge che riconosce un’obiezione di coscienza. E proprio quel Concordato che voi volevate celebrare. Il suo terzo articolo consacra la fondamentale obiezione di coscienza dei Vescovi e dei Preti.

In quanto agli altri obiettori, la Chiesa non si è ancora pronunziata né contro di loro né contro di voi. La sentenza umana che li ha condannati dice solo che hanno disobbedito alla legge degli uomini, non che son vili. Chi vi autorizza a rincarare la dose? E poi a chiamarli vili non vi viene in mente che non s’è mai sentito dire che la viltà sia patrimonio di pochi, l’eroismo patrimonio dei più?

Aspettate a insultarli. Domani forse scoprirete che sono dei profeti. Certo il luogo dei profeti è la prigione, ma non è bello star dalla parte di chi ce li tiene.

Se ci dite che avete scelto la missione di cappellani per assistere feriti e moribondi, possiamo rispettare la vostra idea. Perfino Gandhi da giovane l’ha fatto. Più maturo condannò duramente questo suo errore giovanile. Avete letto la sua vita?

Ma se ci dite che il rifiuto di difendere se stesso e i suoi secondo l’esempio e il comandamento del Signore è «estraneo al comandamento cristiano dell’amore» allora non sapete di che Spirito siete! che lingua parlate? come potremo intendervi se usate le parole senza pesarle? se non volete onorare la sofferenza degli obiettori, almeno tacete!

Auspichiamo dunque tutto il contrario di quel che voi auspicate: auspichiamo che abbia termine finalmente ogni discriminazione e ogni divisione di Patria di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutte le divise che morendo si son sacrificati per i sacri ideali di Giustizia, Libertà, Verità.

Rispettiamo la sofferenza e la morte, ma davanti ai giovani che ci guardano non facciamo pericolose confusioni fra il bene e il male, fra la verità e l’errore, fra la morte di un aggressore e quella della sua vittima.

Se volete diciamo: preghiamo per quegli infelici che, avvelenati senza loro colpa da una propaganda d’odio, si son sacrificati per il solo malinteso ideale di Patria calpestando senza avvedersene ogni altro nobile ideale umano.


Don Lorenzo Milani


(Tratto da «Rinascita», Anno 22, N. 10, 6 marzo 1965).


Inserito il 10/01/2025.

Don Lorenzo Milani e Luca Pavolini a processo 

di Anselmo Pagani

La Lettera ai cappellani militari toscani comparve il 6 marzo 1965 sul settimanale teorico-culturale del Partito Comunista Italiano «Rinascita». Vicedirettore responsabile del giornale era Luca Pavolini, comunista e cattolico, amico d’infanzia di don Lorenzo Milani. La pubblicazione del testo integrale, con la difesa del diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare, costò ai due un processo presso il Tribunale militare.

Clicca per aprire

↓ ↓ ↓

Sul finire del mese di dicembre del 1966, presso il Tribunale militare di Roma, si concluse un processo destinato a segnare la storia culturale e politica del nostro paese.

Sul banco degli imputati sedevano un prete e un comunista, con la differenza però che quest’ultimo in aula c’era per davvero, il primo invece solo virtualmente perché impossibilitato a muoversi a causa di un linfoma maligno che l’anno seguente l’avrebbe condotto alla tomba a soli 44 anni d’età.

Il prete in questione si chiamava don Lorenzo Milani ed era figlio di una donna ebrea e di un noto anticlericale, sposatisi con rito solo civile quando la cosa destava ancora scalpore. La sua era una famiglia agiata, tanto che delle 15 automobili circolanti a Firenze negli anni ’20 due erano loro, così come una serie di tenute, fra cui la villa al mare di Castiglioncello.

Qui, compagno d’ombrellone del piccolo Lorenzo fu il suo coetaneo e futuro giornalista Luca Pavolini, destinato a militare nel “Movimento dei cattolici comunisti”. All’epoca dei fatti dirigeva il periodico «Rinascita», l’unico organo di stampa che ebbe l’ardire nel 1965 di pubblicare per intero la Lettera ai cappellani militari toscani scritta da don Milani. Di fronte infatti al comunicato con cui questi ultimi avevano considerato «un insulto alla patria e ai suoi caduti la cosiddetta obiezione di coscienza», don Lorenzo insieme ai ragazzi della sua scuola di Barbiana non era riuscito a stare zitto.

In quel piccolissimo borgo appenninico arrampicato sul Mugello e con meno di cento abitanti lo scomodo prete fu trasferito nel 1954 dalla sua precedente parrocchia di San Donato di Calenzano, dalla quale in Arcivescovado erano giunte lamentele su di lui perché “faceva il gioco delle sinistre”.

Si pensava che lassù, dove si poteva arrivare solo a piedi, si sarebbe calmato un po’. In verità la voce del futuro “priore di Barbiana”, anziché tacitarsi, da quelle montagne si fece sentire ancora più forte e chiara di prima, perché in quel luogo disperso don Lorenzo ritrovò il senso della propria vita nel salvare se stesso, insieme agli altri, nella fede in Dio, e tutto ciò per mezzo dell’educazione basata sull’espressione “I care!” (“Mi interessa!”), volutamente contrapposta al volgare “Me ne frego!” fascista.

Secondo lui, i figli di quei contadini e montanari semi-analfabeti soltanto interessandosi alla lettura quotidiana e comunitaria dei giornali con relativo scambio d’idee, allo studio delle lingue moderne, di storia, geopolitica, relazioni sindacali, diritto etc. e imparando ad esprimersi in un italiano impeccabile, avrebbero potuto colmare il divario che li separava dai loro coetanei appartenenti alle classi sociali più agiate, «perché la povertà non si misura a pane, casa e caldo, ma sul grado di cultura».

Corollario di questo rivoluzionario sistema educativo fu il saper reagire all’ingiustizia, non però con le rivoluzioni o la violenza, ma con le armi pacifiche costituite dal voto e dall’esercizio del diritto di sciopero.

E null’altro che un particolare tipo di sciopero era per lui l’obiezione di coscienza, perché «l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, di cui i giovani non credano di potersi fare scudo né davanti agli uomini, né tanto meno davanti a Dio».

Per primo sostenne dunque il dovere di disobbedire ad ordini ritenuti sbagliati (tipo bombardamenti di civili, rappresaglie, decimazioni, fucilazioni o comunque punizioni riservate ai disertori e guerre d’aggressione) non solo in base al comandamento biblico del “non uccidere”, ma anche al dettato costituzionale che all’art. 11 ripudia la guerra come strumento d’offesa.

Se però i giudici di primo grado assolsero i due coimputati «perché il fatto non costituiva reato», la condanna di Pavolini arrivò in appello, quando invece don Lorenzo era già morto da quattro mesi.

In uno degli ultimi incontri col suo Arcivescovo, il Card. Florit, don Milani gli si rivolse così: “Sa, Eminenza, quale è la differenza fra me e lei? Io sono avanti di cinquant’anni!”.

Parole quanto mai profetiche perché nel maggio del 2014, parlando al mondo scolastico, Papa Francesco avrebbe detto che il segreto della scuola è «imparare ad imparare, così educando i giovani ad essere esperti della realtà, come insegnava un grande educatore italiano: don Lorenzo Milani».


Anselmo Pagani


(Tratto dalla pagina Facebook dell’autore consultata il 18/01/2025).

Dal quotidiano «Il Tirreno»

Quando la mamma di don Lorenzo Milani si rifugiò in Valdera
Alice Weiss, irredentista in fuga da Trieste

di Giuseppe Cecconi

Clicca per aprire

↓ ↓ ↓

Quando la mamma di don Lorenzo Milani si rifugiò in Valdera

Alice Weiss, irredentista in fuga da Trieste


di Giuseppe Cecconi


A vent’anni Alice Weiss, la futura mamma di don Lorenzo Milani, fuggì precipitosamente da Trieste e si rifugiò a Forcoli (Valdera, Pisa) nella bella villa di Rudolf Brunner. Siamo nel 1915 e, con l’entrata in guerra dell’Italia contro l’Austria, gli irredentisti e per di più repubblicani come lei, correvano seri rischi a vivere nell’Impero asburgico di Francesco Giuseppe. Sicuramente Alice avrà avuto molti libri nei suoi bagagli, perché presso la sua famiglia la cultura era di casa. I Weiss erano imparentati con lo scrittore Italo Svevo. Edoardo Weiss, allievo di Freud, fu un pioniere della psicanalisi in Italia. Alice inoltre aveva conosciuto James Joyce, che le fece da maestro di inglese alla Berlitz School di Trieste. Lei viaggiò al seguito della moglie di Rudolf Brunner, Gina Segré, che portò con sé le figlie e i figli. Gina Segré parteggiava per l’Italia, mentre il marito, ricco industriale e amico dell’Imperatore, restò a Trieste, manifestando così la sua fedeltà a Vienna. Il figlio più grande dei Brunner, Guido, una notte partì per il fronte arruolandosi, con lo pseudonimo di Mario Berti, nella Brigata Sassari. Fu ucciso dagli Austriaci sul Monte Fior nel 1916. È stato insignito della medaglia d’oro al valor militare, e una piazza di Forcoli porta il suo nome. Dopo la morte di Guido, con cui Alice aveva avuto una tenera amicizia, ella si fece crocerossina, prestando aiuto ai feriti di guerra.

Da tutto ciò si capisce il fervore patriottico di una certa borghesia colta, che andava ben oltre le esaltazioni xenofobe e le etnie, dato che i Brunner e i Weiss erano di cultura mitteleuropea ed ebrei.

Ci sono delle foto di Alice Weiss a Forcoli, e sarebbe interessante ricercare altre tracce della sua permanenza su quel territorio. Continuando in tal modo lo studio della storica Stefania Di Pasquale, che ha recentemente pubblicato un libro su Guido Brunner dal titolo L’eroe irredento della Brigata Sassari.

Senza mai più spostarsi dalla Toscana, Alice Weiss conobbe Albano Milani, di ricca e colta famiglia fiorentina, e dopo poco convolarono a nozze. Ebbero tre figli, il secondo fu appunto don Lorenzo Milani.

Alice non rinnegò mai gli ideali di gioventù, tant’è che in una lettera al cugino Ottocar Weiss scriveva: «Per molti che non hanno il senso storico, il superamento del concetto nazionalistico di patria è difficile. Penso a quando ero giovane io, e ai miei compagni di Trieste irredentisti, che erano certo i migliori. Oggi i giovani – vedi mio nipote Andrea – non riescono neanche a capire la nostra esaltazione di allora e dicono con Lorenzo “gli oppressi sono la mia patria”».

Eppure dalla patria italiana Alice fu perseguitata, quando Mussolini emanò le leggi razziali. Infatti nel 1940 Alice dovette fuggir via dalla Tenuta di famiglia di Montespertoli e, a piedi, con la figlia Elena in braccio, raggiunse Firenze trovando rifugio nel Seminario del Cestello, proprio lì dove suo figlio Lorenzo, poco tempo dopo, sarebbe diventato don Milani. Alice Weiss rispettò sempre le scelte radicali di suo figlio e, pur essendo di formazione laica e aconfessionale, non lo ostacolò quando, di punto in bianco, dall’oggi al domani, decise di farsi prete. E probabilmente, come si evince dal tono di certe lettere al figlio, non condivise neppure il fatto che don Milani avesse accettato con obbedienza il suo esilio in Mugello. Tuttavia, conoscendo bene il carattere intransigente del priore di Barbiana, ella sapeva tener nel cuore i suoi crucci. Ma il colpo più grosso lo ricevette quando, nel 1965, don Milani scrisse la famosa Lettera ai cappellani militari, in cui, rivolgendosi a costoro, afferma a proposito della prima guerra mondiale: «L’Italia aggredì l’Austria con cui questa volta era alleata… Avete detto che quella guerra si poteva evitare? Che Giolitti aveva la certezza di poter ottenere gratis quello che fu poi ottenuto con 600.000 morti? Che la stragrande maggioranza della Camera era con lui (450 su 508)? Era dunque la Patria che chiamava alle armi? E se anche chiamava, non chiamava forse a una “inutile strage”? (l’espressione non è di un vile obiettore di coscienza ma di un Papa canonizzato)». Così, suo figlio aveva cancellato d’un colpo il passato della giovane irredentista rifugiata a Forcoli.


Giuseppe Cecconi


(Tratto da: Giuseppe Cecconi, Quando la mamma di don Lorenzo Milani si rifugiò in Valdera. Alice Weiss, irredentista in fuga da Trieste, in «Il Tirreno», Anno 148, n. 267, 28 settembre 2024).


Inserito il 20/10/2024.

Dalla rivista «Quaderni piacentini», luglio 1967

Tre interventi sul libro di Don Milani

di Elvio Fachinelli, Franco Fortini, Giovanni Giudici

«Quaderni piacentini» fu una rivista politico-culturale, fondata nel 1962 da Piergiorgio Bellocchio (fratello del regista Marco) e Grazia Cherchi, che giocò un ruolo di primo piano nel dibattito politico, filosofico, letterario della sinistra marxista degli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Basti pensare al lungo elenco di illustri collaboratori: Franco Fortini, Sebastiano Timpanaro, Goffredo Fofi, Edoarda Masi, Giovanni Giudici, Giacomo Marramao, Alberto Asor Rosa, Cesare Cases, Roberto Roversi, ecc.

Oggi da questa rivista riprendiamo tre articoli dedicati al libro dei ragazzi di Barbiana e del loro maestro Lorenzo Milani Lettera a una professoressa: dal tenore di questi articoli di tre illustri intellettuali del tempo possiamo capire l’impatto dirompente che ebbe il libro negli ambienti culturali di sinistra di quegli anni.

«Un testo cinese»

di Elvio Fachinelli

Clicca per aprire

↓ ↓ ↓

«Un testo cinese»


Un testo cinese. L’autore del libro di cui parlo è collettivo, Scuola di Barbiana, il titolo Lettera a una professoressa (Libreria Editrice Fiorentina, 1967, L. 700). L’appellativo: cinese, è più provocatorio, e meno indeterminato, di quel che può parere a prima vista. Se il libro non mi fosse capitato tra le mani per caso, e non temessi la mia disinformazione, oserei persino scrivere: il primo testo cinese del nostro paese. Penso che i motivi della denominazione – diversi ma non in contrasto fra loro, e tutti presenti, qui e ora – si andranno chiarendo man mano.

In forma di brevi capitoletti, accompagnati e spesso commentati da sottotitoli, senza grande ordine apparente, e con molte note esplicative, il libro è opera dei ragazzi-scolari, dei ragazzi-maestri e del loro maestro comune, Don Lorenzo Milani, della scuola di un paese toscano, Barbiana di Vicchio Mugello. Notare le numerose stranezze del fatto. Il punto di vista da cui partono. da cui esaminano il mondo, è altrettanto strano: il ragazzo contadino, e anche operaio, bocciato a scuola.

«Entriamo il primo ottobre in una prima elementare. I ragazzi sono 32. A vederli sembrano eguali. In realtà c’è già dentro 5 ripetenti».

…«Prima di cominciare mancano già 3 ragazzi. La maestra non li conosce, ma sono già stati a scuola. Hanno assaggiato la prima bocciatura e non sono più tornati».

…«A giugno la maestra boccia 6 ragazzi. Disobbedisce alla legge del 24 dicembre 1957 che la invita a portarseli dietro per i due anni del primo ciclo.

Ma la maestra non accetta ordini dal popolo sovrano. Boccia e parte per il mare.

Bocciare è come sparare in un cespuglio. Forse era un ragazzo, forse una lepre. Si vedrà a comodo».

…«A ottobre in seconda la maestra trova ancora 32 ragazzi. Vede 26 visi noti e le pare d’essere di nuovo tra i suoi ragazzi cui vuol bene. Poi vede 6 ragazzi nuovi. Cinque sono ripetenti. Uno di loro ha già ripetuto due classi, ha quasi 9 anni. Il sesto ragazzo nuovo è Pierino del dottore».

…«Non ha avuto bisogno di far la prima. Entra in seconda a 6 anni. Parla come un libro stampato».

…«Dei sei ragazzi bocciati, quattro stanno ripetendo la prima. Per la scuola non sono persi, ma per la classe sì».

…«Per [la maestra], che ne ha 32, un ragazzo è una frazione. Per il ragazzo la maestra è molto di più. Ne ha avuta una sola e l’ha cacciato. Gli altri due non son tornati a scuola. Sono a lavorare nei campi».

…«La maestra… è difesa dalla sua smemoratezza di mamma a mezzo servizio. Chi manca ha il difetto che non si vede».

…«Alla fine delle elementari 11 ragazzi hanno già lasciato la scuola…».

Tutti i cittadini sono eguali. «Ma quegli 11 no. Due hanno eguaglianza zero. Per firmare fanno una croce. Uno ha un ottavo di eguaglianza. Sa firmare. Gli altri hanno 2, 3, 4, 5 ottavi di eguaglianza. Leggono un po’ meglio, ma non leggono il giornale. Neanche uno di loro è figlio di signori. La cosa è così evidente che fa sorridere.»

…«Solo i figlioli degli altri qualche volta paiono cretini. I nostri no. Standogli accanto ci si accorge che non sono. E neppure svogliati. O per lo meno sentiamo che sarà un momento, che gli passerà, che ci deve essere un rimedio».

…«In tutto, nei cinque anni, [la maestra] ha avuto per le mani 48 ragazzi e ne consegna 23. I 29 Gianni le son passati per la classe trasversalmente senza lasciare traccia. Dei 32 che ha avuto in consegna in prima glie n’è rimasti 19».

…«In prima media i ragazzi sono 32. Per la professoressa son tutti visi nuovi. Degli 11 persi lei non sa nulla. Anzi è convinta che non manchi nessuno».

…«Inesorabilmente la bocciatura colpisce i ragazzi più vecchi. Quelli che hanno il lavoro a portata di mano».

…«Bocciando i più vecchi i professori hanno colpito anche i più poveri».

E per finire, «un quadro riassuntivo degli otto anni dell’obbligo».

«La classe ha perso 40 ragazzi. Sedici di loro sono andati a lavorare prima d’aver compiuto l’obbligo. Ventiquattro sono a ripetere. In complesso son passati per la classe 56 ragazzi. In terza media ci sono solo 11 dei 32 ragazzi che la maestra ha avuto in consegna in prima elementare».

…«Voi dite d’aver bocciato i cretini e gli svogliati.

Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri. Ma Dio non fa questi dispetti ai poveri. È più facile che i dispettosi siate voi».

A questo punto occorre cercare di capire l’emozione che nasce in chi legge queste notizie, queste cifre così scarne, elementari.

Chi legge, ho scritto – dunque uno di noi, uno che ha tutti i suoi otto ottavi di eguaglianza; dunque uno per cui è facile coltivare sentimenti di colpa, o di rimpianto, verso i Gianni che ne hanno meno, o non ne hanno nessuno.

È infatti ciò che facciamo di solito, in modi svariati che mi sembra superfluo descrivere. Ne conosciamo tanti.

Ma qui ci si svela qualche cosa di più. Quello che dice il libro – lo sappiamo già; o lo sapevamo; è già tutto inquadrato e sistemato. Ma lo dimentichiamo continuamente. La sorpresa, insieme al disagio, nasce appunto dal fatto che ora vediamo una cosa che sapevamo, e che abbiamo dimenticato, allontanato da noi.

Il testo che ho citato usa appunto le espressioni appropriate: «smemoratezza», «passati trasversalmente senza lasciar traccia», «persi», «non manca nessuno». Le stesse cifre da una riga all’altra traballano, si confondo, come quelle dei dispersi in guerra.

Si potrebbe inventare una prova individuale: quanti compagni di scuola ricordiamo e, tra questi, quanti sono quelli che abbiamo perso per strada, i bocciati, i ripetenti, i renitenti.

Poi si potrebbe fare la prova inversa, chiedere a loro se si ricordano di noi.

Si vedrebbe allora che, mentre noi li abbiamo per lo più dimenticati, e se li ritroviamo ci sembrano lontani, estranei, essi non ci hanno dimenticato, non riescono a dimenticarsi. Anzi, ogni giorno tocca loro d’incontrarci di nuovo da vicino.

Detto con una formula che qui suona, giustamente, povera: la mia rimozione individuale del sociale è parallela alla rimozione sociale degli individui. E ciò che è rimosso (i milioni di «timidi come me, cretini come Sandro, svogliati come Gianni. Il meglio dell’umanità»), questo rimosso permane, sta sempre sveglio, mi deforma dal di dentro anche se lo ignoro.

Infatti anche Pierino libro stampato non sta tanto bene. A scuola, «è vissuto sempre tra compagni più maturi. Non è maturato, ma si è allenato a affrontare adulti».

…«A 18 anni ha meno equilibrio di quanto ne avevo io a 12. Ma passa sempre. Si laureerà a pieni voti. Farà l’assistente universitario gratis. Sì gratis…».

…«Pierino dunque diventerà professore. Troverà una moglie come lui. Tireranno su un Pierino a loro volta. Più Pierino che mai».

Il privilegio lo paga caro. «Deformato dalla specializzazione, dai libri, dal contatto con gente tutta eguale».

E se c’è con lui qualcuno che non è figlio di dottore, «cambia razza» e gli altri «lo accolgono come fratelli e gli regalano tutti i loro difetti».

Qui non ci sarà uno di noi che non gridi al settarismo, allo schematismo cinese. Affiora alle nostre labbra, estrema risorsa, l’antica parola Cultura.

Ciò che ci si mostra in questo libretto è la fragilità della nostra identità personale; ciò che ci spaventa, e di cui ci si minaccia, è in fondo la perdita di questa identità.

Siamo infatti costretti a vedere il modo in cui siamo stati formati come il modo della nostra deformazione. Riapprendiamo, in maniera semplice e convincente, che siamo il frutto di un sistema selettivo che, mentre lusinga noi, scarta altri, operando pressappoco come «un carro armato che fa la guerra da sé senza manovratore». Ma nello stesso tempo senza mai sbagliare direzione di tiro.

Appare così in piena luce la vecchia radice della nostra potente-impotente segregazione di “uomini di cultura”: nel punto in cui gli altri, i Gianni, diventano muti, noi diventiamo ciechi.

Infatti, noi Pierini assumiamo come nostro diritto, merito e premio ciò che per loro si è dimostrato condanna, biasimo ed esclusione. La Cultura dunque, come Scuola e Istituzione, possiede una funzione di schermo morale in una doppia direzione, tale da mascherare il processo di selezione reale cui pure partecipa: Gianni vive come colpa la sua eliminazione, Pierino come qualità, come dote, la sua promozione.

Senza voler fare una fenomenologia della cultura, qui si delineano alcuni movimenti tipici.

L’escluso Gianni, che non può considerare non avvenuta la sua ferita, nutrirà un impacciato rispetto, o rancore d’amore, verso la cultura dell’altro. Potrà anche vagheggiare e plasmare una sua cultura, diversa. Ma mentre l’altro la chiamerà sottocultura, egli sarà costretto a ritrovarvi, invano rovesciato, il suo scacco reale.

Per Pierino promosso la questione è anche più complicata.

Pierino infatti è fondato ed esiste come incarnazione di valore. Ma la presenza dell’altro, per quanto rimossa, gli rimanda come un boomerang la deformità del suo valore.

Può allora tentare di fare come se l’altro non ci fosse: diventerà, in modi persino squisiti e sublimi, il Sacerdote o il Mago della cultura.

È la soluzione più antica e gloriosa, è anzi la Storia della cultura come la conosciamo. Ma di fronte alla crescente evidenza di ciò che nega, questa impostazione si fa giorno per giorno più irreale; al limite delirante.

Il delicato cantore della continuità è costretto, per sopravvivere, a farsi il rozzo celebrante di se stesso.

Si è allora imposta un’altra soluzione. In un certo senso, quella che finora abbiamo preferito. Siamo portatori di un valore monco; lo sappiamo. Possiamo ancora illuderci di non essere ciò che siamo trasferendolo nell’altro: la partecipazione ci consente per un momento di sentirci integri. Ma questa partecipazione è di fatto illusoria: all’altro, a Gianni, abbiamo semplicemente attribuito la nostra figura, l’abbiamo dipinto secondo ciò che siamo (che include, evidentemente, anche ciò che vorremmo essere).

Passiamo perciò di volta in volta dall’entusiasmo alla delusione e all’indignazione, per qualcosa che è fuori di noi e ci tradisce continuamente.

Di fronte a questi struggimenti senza fine, negli ultimi anni qualcuno ha deciso di dimettersi in persona, di morire alla cultura così com’è e di rientrare più o meno in fretta nelle file dei Gianni.

È vero, questi lo accolgono per lo più come un esemplare di una curiosa specie di bocciati volontari. Ma la vocazione al suicidio è per definizione una scelta minoritaria, una domanda rivolta alla tranquillità delle maggioranze, e come tale accenna qualche cosa che noi ancora non percepiamo.

È dunque ben chiaro che questo libro di testo per genitori e insegnanti, come è stato definito, rischia di essere un testo di base per tutti. Il primo piano coinvolge necessariamente l’altro, e mentre ci si parla di ciò che occorre alla scuola, nel profondo sentiamo che ci si parla di ciò che occorre a noi. Quali sono infatti i principi per l’azione che ci propongono i ragazzi di Barbiana?

Primo, «tutti sono adatti a tutte le materie». È il principio scientifico che nega validità biologica ai criteri di differenziazione fra gli uomini, basati in realtà sulla differenza socio-economica. Ed è insieme il programma minimo di Lenin: una cuoca al governo del paese.

Secondo, «il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia». Quindi fine di tutti i meccanismi di selezione degli uomini-cavallo.

Terzo, si accettano «consigli purché siano per la chiarezza. Si rifiutano i consigli di prudenza». Questo si commenta da sé.

E il fine? Rispondo i ragazzi di Barbiana e il loro Maestro: una scuola che non boccia, in cui si sta tutti insieme, una scuola che dura dodici ore al giorno e trecentosessantacinque giorni l’anno. Ma questa è la follia, diranno i professori e le professoresse, o per lo meno un’utopia. Appunto. Qualche cosa che confusamente si avvicina da molti punti dell’orizzonte, da Berkeley fino a Barbiana, da San Francisco e da Chicago fino a Canton.


Elvio Fachinelli


(Tratto da: Tre interventi sul libro di Don Milani, in «Quaderni Piacentini», Anno VI, n. 31 - luglio 1967, pp. 271-275).


Inserito il 18/06/2023.

«Lotta per l’eguaglianza»

di Franco Fortini

Clicca per aprire

↓ ↓ ↓

«Lotta per l’eguaglianza»


La questione non è di dire a chi non l’ha letto che il libro Lettera a una professoressa dev’essere letto: basta una pagina e chi ha orecchi intende. Non è nemmeno di dire che è, quasi sempre, eccezionalmente ben scritto: l’intellettuale cretino che lo elogerà è già previsto e d’altronde (come dirò poi) quelle sue qualità di energia immediatezza violenza hanno anche un risvolto negativo. La questione è di sapere a chi e a che cosa serve un libro così.

Si risponde: alla scuola e a tutti. È una parabola, si dice. I personaggi scolari e insegnanti sono figure di tutti noi.

Un momento. La cosa veramente importante è che nessuno di noi leggerebbe il libro se fosse soltanto un contributo ai problemi della scuola dell’obbligo e degli istituti magistrali. Quel che ci fa tenere il fiato è quel passaggio – ora oscuro ora aperto – da un problema particolare, grandissimo quanto si voglia, al tema della rivoluzione-salvezza. Dico subito: è un salto, non un passaggio. Al posto del passaggio c’è un uomo, una disperazione, «una mano tesa al nemico perché cambi», la coscienza delle diseguaglianze, la coscienza; c’è una precettistica stupenda, una retorica di forza classica. Una fede e una letteratura. Non una politica.

Eppure il libro batte e ribatte ad ogni pagina sulla politica come vita. Insiste su alcune verità assolutamente politiche. Fachinelli le ha riassunte benissimo. Che cos’è che non gira?

«Vendi quel che hai e dallo ai poveri» è il precetto. Ai «Pierini» si intima di sparire o di farsi maestri, ossia discepoli. I «poveri» sono, nel mondo intero, i «contadini», gli uomini di un’altra cultura.

La parola populismo è stata usata, in questi anni, a torto e a traverso. Se c’è un caso in cui bisogna usarla è questo. Nel senso di: la lotta per i valori del mondo subalterno e per l’eguaglianza.

Ma se la rabbia-amore ha da avere un senso e non rischiare il compiacimento non può che essere trasformazione dei rapporti reali ossia rivoluzione esteriore, non rivoluzione interiore ossia conversione. Ora per la trasformazione della società (a partire dalla scuola) qui si propone, in sostanza, il volontariato, il «doposcuola classista»; la vocazione non l’organizzazione, l’immediatezza non il rapporto tattica-strategia.


Gli uomini come Milani e probabilmente tutti i veri uomini religiosi vogliono, come Antigone, essere dalla parte dei morti. Ognuno di noi se conosce e quando misura l’irrimediabilità della sorte singola e anche di quella visibile del gruppo e dell’età umana cui si è toccati in sorte si volge dalla parte dei morti, del non più o del non ancora. Antigone sepolta viva, nella condizione intermedia, nella grotta che comunica con il vuoto sotterraneo, pronuncia per la città leggi nuove.

E non ho a vergognarmi del vecchio privilegio di Pierino, che sa chi era quella ragazza greca: se per un verso gli esclusi, gli oppressi, sono più gravemente esclusi ed oppressi, oggi, proprio perché partecipano, non perché non partecipano, delle conoscenze della borghesia, per l’altro verso i Pierini cresciuti, noi insomma, non scontiamo soltanto la nostra colpa storica nei confronti del mondo «muto» dei contadini con la cecità verso più della metà del mondo ma subiamo la strangolazione, l’immiserimento caotico, la falsificazione.

È difficile valutare questo libro e l’opera di Milani perché è difficile parlare sotto un indice teso. Si rischia di reagire con ingiustizia. È difficile per la natura allegorica, l’ho detto, di queste pagine: può sembrare meschino e incomprensivo contestare – e può esser fatto senza difficoltà – molte affermazioni singole sulla scuola, gli insegnanti, le istituzioni, quando sai che la parola scritta ti chiama a ben altro. Ma d’altra parte la dimensione universalistica del discorso non può non rimandarti alla sua verifica immediata, al suo pretesto di partenza. Ancora una volta, il fascino, la chiamata di questo libro-uomo è nella pratica abolizione dei «corpi intermedi»: per quanto parli di collettività fraterna, senti che Milani ha in cuore l’Uno-Tutti, uniti dal trattino dell’immediatezza. E gli avversari, i nemici di classe devono essere combattuti ma perché cambino, sono in sostanza dei fratelli separati dall’errore e dall’avarizia. A questo proposito vorrei mettere in evidenza per la sua straordinaria genialità e ricchezza la definizione di «opera d’arte» che si legge a pagina 132:

«Così abbiamo capito che cos’è l’arte. È voler male a qualcuno o a qualche cosa. Ripensarci sopra a lungo. Farsi aiutare dagli amici in un paziente lavoro di squadra.

«Pian piano vien fuori quel che di vero c’è sotto l’odio. Nasce l’opera d’arte: una mano tesa al nemico perché cambi».

L’arte è veduta come mossa da una negazione, da un odio; la verità che ne esce è «mano tesa» e specchio e proposta di cambiamento (il «nemico» sono gli altri, la vita, te stesso…) quindi non è negazione reale e intera ma collaborazione (e in questo si distingue dalla prassi e dall’aut-aut del discorso scientifico…). Ma qui va rilevato soprattutto che «opera d’arte» ha qui anche il suo etimo medievale, artigiano; e che è riferita esplicitamente alla costruzione del libro di cui si parla. Nell’intento dell’autore esso è «mano tesa al nemico perché cambi» ed è «opera d’arte». Si chiarisce qui, fino in fondo, il carattere letterario, nel miglior senso della parola, di questo libro. Esso è opus rhetoricum, come uno Specchio di Vera Penitenza o il Quaresimale di Bernardino da Siena. E cade qui opportuno dire che il rovescio dei più forti esiti di questa prosa sta in certi molto sgradevoli effetti d’eco (accenti che debbono aver tradito – mi dice chi l’ha conosciuto – l’uomo Milani, immune di retorica dei sentimenti e della missione); eco, voglio dire, del cattolicesimo di destra, toscano, degli Anni Venti e anche dopo, da «omo salvatico» e da «Cento pagine di poesia», con nomi autentici e meno autentici, certo Tozzi, certo Soffici, esaltazione della durezza contadina, della lingua soda, eco a sua volta di certo Péguy e di certo Bloy, ultimo rivolo della contestazione antiborghese e antidemocratica, su fino a De Maistre.

Ultimo? Chi, come me, non ha fatto che mettere in guardia, con se stesso, i propri amici dall’inganno storico che riducesse la rivoluzione alla eredità democratico-giacobina e poi positivistica del marxismo, e poi dalla sua filiazione inevitabile, l’eurocentrismo operaistico, dovrebbe riconoscere e riconosce infatti nell’accento di un libro come questo il timbro d’una nuova lega metallica, risonante, come scrive Fachinelli, ai quattro angoli del mondo, nella volontà, entusiastica o ironica, di unire attimo e illimitato, fraternità e felicità, rifiuto del consumo e consumo di se stessi: «perché anche io ti amo, o Eternità». Eppure – eppure sente di dover dire che qui, in questo libro e probabilmente in molti dei movimenti e dei momenti che oggi corrono il mondo, c’è o almeno prevale un aspetto dell’autentica passione religiosa e rivoluzionaria: l’aspetto della «nazione», del «popolo scelto», della «città dei santi». Quanto più si insiste sul momento del «tutti», più si privilegiano i poveri, gli oppressi, gli «idioti», insomma gli eletti. La «cultura» dei «padroni» appare come qualcosa che contamina, sostanzialmente inutilizzabile (basta notare come il discorso annaspa, nelle sue analisi e proposte, quando si passa dalla Media Unica alle Magistrali: e peggio accadrebbe se parlasse di altri tipi di scuole). Insomma, qui si separano gli uomini troppo e troppo poco: troppo, nella misura in cui non si vuol vedere che la ideologia dominante pervade tutto il linguaggio e non ne esenta il parlar comune (onde ogni docente è, per posizione, bilingue e traslatore); troppo poco, perché la distruzione degli avversari è vista, amorevolmente e cristianamente, come una mano tesa per entrare nella square dance della fraterna gioia non come un processo, molto concreto, di spoliazione, perdita di diritti e di privilegi, immiserimento, umiliazioni, suicidi e fucilazioni. C’è, in fondo, un ottimismo disperato, quello di tutti i momenti catari della storia religiosa, di tutte le città assediate: «Ho li testimoni qui a Firenze. Io conosco che questa mattina io sono pazzo… bisogna combattere contro duplice sapienza… contro duplice scienzia… credimi che il coltello di Dio verrà e presto».

So di aver appena sfiorati alcuni dei temi che questo libro-uomo suggerisce. Ma mi è chiaro che Milani è della specie d’uomini cui lo sterminio dei viventi e quello dei trapassati, l’irrecuperabilità degli individui, spinge alla rivoluzione che dovrebbe, nell’ordine della storia, salvarli. Ma è l’antico Iddio, non la storia, a salvare gli individui; la storia, se mai, potrà «salvare» la specie; e allora la «politica» sarà, necessariamente, il contrario di ogni abbreviazione, la «rivoluzione» il contrario di ogni entusiasmo, la «felicità» il contrario di ogni illusione. Chi non regge, scelga la mezza fede, le deviazione estetica, la morte-vita immediata. Altrimenti non resta che il lavoro senza luce e senza alcuna speranza immediata, che è della politica autentica; e che a nulla somiglia tanto quanto la fede autentica e la poesia vera.


Franco Fortini


(Tratto da: Tre interventi sul libro di Don Milani, in «Quaderni Piacentini», Anno VI, n. 31 - luglio 1967, pp. 276-279).


Inserito il 19/06/2023.

«Mi parlò del lavoro che progettava…»

di Giovanni Giudici

Clicca per aprire

↓ ↓ ↓

«Mi parlò del lavoro che progettava…»


Ha scritto: «… io non splendo di santità. E neanche sono un prete simpatico. Ho anzi tutto quel che occorre per allontanare la gente». Giornali che sono spesso prodighi di lodi a ogni profeta integrato del momento hanno ignorato la morte di don Lorenzo Milani, il 27 giugno 1967. La televisione ha fatto sfoggio, per l’occasione, di una «imparzialità» a prova di virgola (nome, cognome, è morto oggi a Firenze), appena scalfita emotivamente dal particolare dell’età: quarantaquattro anni. Ma è bene sia stato così: gli onori militari resi al nemico non sono desiderabili, specialmente quando chi li riceva sia stato, a sua volta, un vero nemico nei confronti di quello (un’intera società) che sopravvive.

Io credo che questo prete « che aveva «tutto quel che occorre per allontanare la gente» – sia stato un vero nemico di tutto ciò che è nostra colpa non saper odiare abbastanza e con abbastanza tenacia, in noi stessi e negli altri. La lettura del suo libro Esperienze pastorali fu per me, nel 1958, un avvenimento decisivo, sulla via di quella chiarezza che, troppe volte sfiorata, troppe volte si trova comodo perdere nuovamente di vista. La grandezza di quel discorso non era nel suo apparente fascino ereticale: non amo i cultori di eresie in vitro, né don Milani (credo) poteva amarli, intuendone il limite piccolo-borghese e l’inevitabile complementarietà al sistema. L’Eresia è nulla senza la Chiesa.

Sotto le mentite spoglie di un’inchiesta sociologica destinata a far sorridere tanti inutili sociologi di professione, c’era in Esperienze pastorali una profonda percezione politica, la stessa che anni dopo avremmo ritrovato in Frantz Fanon, la stessa che oggi ritroviamo nella Lettera a una professoressa, che otto scolari di don Milani hanno di recente pubblicato, ancora sotto la sua guida: «I bianchi non faranno mai le leggi che occorrono per i negri» (ma è un modo come un altro per dire, come tutto diceva in Esperienze pastorali, come tutto dice nel meglio di Fanon: i servi non potranno mai esprimersi liberamente nel linguaggio dei padroni; non in quel che ci piace è la verità, ma in quel che ci lacera, pura prosa).

L’argomento immediato di Esperienze pastorali erano problemi di cura d’anime; l’argomento immediato di Fanon era la rivoluzione «africana»; quello di Lettera a una professoressa è la scuola italiana, la denuncia del suo persistente carattere di classe: ma come in ogni discorso capace di superare i limiti del contingente, i loro argomenti veri vanno ben al di là. In Esperienze pastorali, oggi che la storia del mondo è camminata avanti di un decennio, possiamo davvero riconoscere uno dei primi contributi teorici che la cultura «europea» abbia prestato alla causa della nuova rivoluzione, alla miseria del mondo che non ha libri, che non vuole libri, alla violenza (e qui cito Fanon) «in atto di darsi un diverso indirizzo».

Non amo i tatticismi, né le strumentalizzazioni (anche se talvolta non è in noi discernere di che cosa possiamo essere strumenti: anche se sappiamo che gli strumenti più efficaci sono talvolta gli strumenti inconsapevoli). E mi rendo dunque conto che sembrerà paradossale il mio legare l’immagine di questo prete di montagna (che era peraltro un intellettuale di città, il vero intellettuale che ha la forza di rifiutare il suo ceto e la sua cultura) alle immagini, alcune tanto più suggestive e leggendarie, di una lotta di classe «pirata», combattuta a latitudini e longitudini diverse, in modi tanto spesso (e salutarmente) incommensurabili al nostro orizzonte mentale: ai Fanon, ai Lumumba, ai Guevara, certamente; ma anche più a quelli che non conosciamo; ma soprattutto a quelli che ci appaiono «odiosi» e «incomprensibili» (perché il nostro grave peccato è l’attaccamento a quel che ci «comprende» e che noi «comprendiamo»; a quel che accieca, anche, la nostra facoltà di giudizio). Ma il legame resta: legame fra tutto ciò che è futuro senza di noi; e balbetta vanamente la nostra estraneità ad esso, essendo il nostro futuro individuale solo la morte.

Non so se gli otto ragazzi che otto anni or sono don Lorenzo Milani per invito (credo) ed a spese di qualche incauto benefattore, accompagnò in visita a Milano, siano gli stessi che hanno redatto Lettera a una professoressa. Allora il più grande poteva avere al massimo quattordici anni. Lui mi aveva scritto per ringraziarmi di un mio articolo e per dirmi di quell’occasione d’incontrarci. Avevano visitato fabbriche e (mi sembra) fiera campionaria e grattacieli: i ragazzi si erano divertiti (probabilmente in tacito accordo col loro «rettore») a porre ad alta voce quesiti di esplosiva inopportunità, alla presenza di autorevoli e imbarazzati accompagnatori. Li raggiunsi dopo cena in un ristorante e, andati a letto i ragazzi, facemmo a piedi don Milani ed io tutto il parco. Mi aveva dato del tu, ma io trovavo difficile, benché fosse un mio coetaneo, fare altrettanto con un religioso. Mi disse, ad una mia richiesta di chiarimenti, rivolta soprattutto al sacerdote, che un certo cardinale sarebbe andato sicuramente all’inferno. Mi parlò del lavoro che progettava: una raccolta di citazioni di Padri della Chiesa contro la proprietà privata. Se debbo esser sincero (ma non glielo dissi) trovavo ingenua l’idea: era proprio necessario? Ma ancora una volta, forse, il limite era mio, che giudicavo da intellettuale, condizionato dalla vanità intellettuale e non (come lui) da uno scopo concreto di lotta. Non vidi più da quella sera don Lorenzo Milani, né ci scrivemmo più, l’unico rapporto possibile con lui non era di quelli che ordinariamente gli intellettuali intrattengono fra loro: era un rapporto di cose, un rapporto di possibili azioni in comune. Era un prete alto, a capo scoperto, il cappuccio rovesciato sulle spalle di un impermeabile nero, a mantello: ci salutammo sotto la pioggia, indugiando davanti al portone della casa dove qualcuno l’aveva ospitato.

Ha scritto: «Io al mio popolo gli ho tolto la pace. Non ho seminato che contrasti, discussioni, contrapposti schieramenti di pensiero. Ho sempre affrontato le anime e le situazioni con la durezza che si addice al maestro. Non ho avuto né educazione, né riguardo, né tatto. Mi sono attirato contro un mucchio d’odio, ma non si può negare che tutto questo ha elevato il livello degli argomenti di conversazione e di passione del mio popolo… Avrò seminato zizzania, ma insegno anche a chi mi darebbe fuoco».


Giovanni Giudici

(Tratto da: Tre interventi sul libro di Don Milani, in «Quaderni Piacentini», Anno VI, n. 31 - luglio 1967, pp. 279-281).


Inserito il 19/08/2023.

Foto tratta da ilmanifesto.it

Dal periodico «Sinistra sindacale»

Don Lorenzo Milani e noi

In occasione del centenario della nascita

di Giorgio Riolo

Clicca per aprire

↓ ↓ ↓

Don Lorenzo Milani e noi

In occasione del centenario della nascita


Don Lorenzo Milani è nato il 27 maggio 1923. Proveniva da una famiglia ragguardevole di intellettuali e di borghesi illuminati. Divenuto prete nel 1947, la sua indole intelligente, autonoma, anche ribelle, lo portò a scontrarsi con le gerarchie ecclesiastiche su tante questioni, in primo luogo sul collateralismo politico della Chiesa alla Dc e su ciò che scrisse in Esperienze Pastorali (libro ritirato dal commercio con decreto del Sant’Uffizio). Per queste ragioni fu confinato, nel 1954, in una piccola e sperduta parrocchia a Barbiana, nel comune di Vicchio del Mugello. Come disse Pier Paolo Pasolini, le gerarchie pensavano così di spezzarlo, di annientarlo. In realtà gli fecero il più grande dono. Don Milani veniva a trovarsi nel suo elemento, i poveri, gli ultimi.

Qui creò una scuola popolare di recupero per i ragazzi, figli di montanari e di contadini, e ad essa dedicò le migliori energie fino alla morte, avvenuta nel giugno 1967 a soli 44 anni. Nel 1965 intervenne con lo scritto L’obbedienza non è più una virtù a favore degli obiettori di coscienza al servizio militare, scontrandosi con i cappellani militari e con le gerarchie e subendo un procedimento e un processo per apologia di reato. Memorabili in questa vicenda la Lettera ai cappellani militari e la Lettera ai giudici.

La forma-lettera è il genere letterario prediletto. Capolavori letterari, appunto, le suddette lettere, le tante missive ai suoi interlocutori raccolte in Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana (Edizioni S. Paolo), ora nella preziosa edizione di Tutte le opere, nei Meridiani Mondadori, e “la” lettera per eccellenza.

Lettera a una professoressa apparve nel maggio 1967, poco prima della sua morte e nelle sembianze di un libro collettivo (l’autore è “Scuola di Barbiana”), dal momento che vi è depositata l’intera esperienza della scuola popolare, la cui anima è sì don Milani, ma ha come retroterra l’esperienza, la vita vissuta dei ragazzi coinvolti. In ventotto capitoletti e con un ‘io narrante’ (uno dei ragazzi) viene esposta, in uno stile scarno, sobrio, secco, martellante, con frasi brevi, concise, una sorta di “inversione dei valori”. Ne venne un attacco diretto a “quella istituzione che chiamate scuola”, fatta per i “Pierini del dottore” contro i Gianni e i Sandri, figli di montanari e di contadini. Concepita la scuola paradossalmente non per guarire gli “ammalati”, ma per promuovere i “sani”, selettiva e discriminatoria.

L’affermazione iniziale è perentoria. Nella scuola popolare il privilegiato è “l’ultimo”, sono i Sandri e i Gianni, “perché non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti eguali fra diseguali”. Il problema è che la scuola invece di attenuare le sperequazioni le aggrava. Tuttavia per i contadini e i montanari la scuola è importante. “La scuola sarà sempre meglio della merda” (delle mucche da accudire). Inoltre lo stare assieme abitua alla cosa fondamentale, l’impulso a organizzarsi. “Per esempio ho imparato che il problema degli altri è eguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”.

La posta in gioco è comunque “la Parola”. Nel muro della scuola di Barbiana vi era scritto “l’operaio conosce 100 parole, il padrone 1.000, per questo è lui il padrone”. “Gianni disgraziato perché non si sa esprimere, lui fortunato che appartiene al mondo grande. Fratello di tutta l’Africa, dell’Asia, dell’America Latina. Conoscitore da dentro dei bisogni dei più” e “Pierino fortunato perché sa parlare. Disgraziato perché parla troppo”.

La visione espressa nella Lettera” è apocalittica, anche manichea, “pasoliniana”, con una potente carica evangelica, arcaica. In nome della irrimediabile divisione del mondo in ricchi e poveri, colti e “poveri di spirito”, città e campagna, Nord e Sud del mondo. Padre Ernesto Balducci, nella sua visione planetaria dei problemi, affermò che la Barbiana reale si rivolgeva soprattutto alle tante Barbiane del mondo. Una visione palingenetica, da appunto “inversione dei valori”, che giunge anche a rinnegare i valori culturali e letterari della tradizione (Omero, Monti, Foscolo), delle cosiddette lingue morte, latino e greco, come appannaggio dei ricchi e congiura a danno dei poveri. Una visione che portò don Milani a criticare severamente gli stessi partiti della sinistra, poiché i loro gruppi dirigenti erano formati da laureati, da “pierini”.

Il messaggio fu sconvolgente, suscitò entusiasmi e aspre polemiche, anche perché l’attacco era diretto alla scuola dell’obbligo e alla scuola media unificata (in Italia dal 1963), per molti di noi, delle classi subalterne, un passo avanti enorme. Lettera a una professoressa divenne uno dei libri del Sessantotto, al pari di libri come I dannati della terra di Frantz Fanon, L’uomo a una dimensione di Marcuse, il Diario del Che, Il capitale monopolistico dei Baran e Sweezy, la Autobiografia di Malcolm X, ecc. Dal 1967 al 1972 ne sono state vendute un milione di copie, e viene sistematicamente ristampato.

Essa ha contribuito potentemente a creare la cultura alternativa dell’antiautoritarismo, della contestazione studentesca della scuola e dell’università di classe (autoritarie, selettive, tradizionali). La carica fu travolgente. Ma alla fine del percorso, attraverso gli anni settanta, come “eterogenesi dei fini”, varie dinamiche agirono, tra le quali, ma non solo, la volontà delle classi dominanti di lasciare che la scuola e l’università di massa si degradassero, subissero lo svilimento, il pauroso discredito dell’abbassamento del livello intellettuale e morale della scuola.

I “pierini” si sono vendicati. Oggi nei primi anni di università spesso bisogna organizzare corsi paralleli per l’alfabetizzazione di base. Letteralmente, imparare a leggere e scrivere, con lezioni di calligrafia, di ortografia ecc. Con l’altro aspetto collaterale, dell’analfabetismo di ritorno in società cosiddette moderne e avanzate, ormai rese passive dai mass-media, dalla televisione ecc., ma anche a causa dell’uso indiscriminato dei cosiddetti “social”. I quali frammentano, frantumano il flusso coscienziale della “narrazione”, del discorso compiuto, saggistico-conoscitivo o letterario che sia. Il risultato è che oggi solo metà della popolazione italiana possiede la capacità di intendere, anche a grandi linee, il contenuto di un semplice articolo di giornale.

La scuola di Barbiana doveva compiere la necessaria opera iconoclasta, di contro alla scuola classista, clerico-fascista ecc. Doveva mettere in fila le priorità nella conoscenza e nella cultura. Doveva favorire l’irruzione delle masse di contadini e di montanari nel loro impossessarsi della parola. Oggi occorre, in modo democratico e non discriminatorio, non classista, ribadire che la conoscenza, il sapere, la cultura sono fatica, dedizione, costruzione.

Per noi la ricezione della lezione di don Milani e dell’esperienza della Scuola di Barbiana avvenne nel generale clima suscitato dal Concilio Vaticano II e dal profondo rinnovamento del mondo cattolico. Ricordo solo l’enciclica Populorum Progressio di Paolo VI e l’esperienza dell’Isolotto di Firenze e l’azione di don Enzo Mazzi. E poi a seguire la Teologia della Liberazione e l’esperienza dei Cristiani per il Socialismo. Un vento purificatore entro il generale moto storico dei movimenti di emancipazione. Dei popoli su scala mondiale, in primo luogo.

La chiesa dei poveri e delle comunità di base come tentativo, ormai quasi disperante, entro una istituzione come la Chiesa cattolica, vecchia di migliaia d’anni, di recuperare l’ispirazione originaria, egualitaria, libertaria del cristianesimo delle origini. L’intera opera di don Milani, anche se in perfetta solitudine e non in relazione o organizzato con altri preti ispirati alla chiesa dei poveri, andava comunque in questa direzione.

Padre Ernesto Balducci parlò di “rivoluzione antropologica” compiuta da don Milani. L’eguaglianza non concepita solo nella dimensione materiale, economica. I senzapotere, per mezzo del “voto” (la politica) e dello “sciopero” (il sindacato), le grandi metafore usate nelle sue lettere, possono e debbono organizzarsi per riuscire a “farsi eguali”. E la Parola (la lingua italiana padroneggiata, la cultura, il sapere) rimane ancora oggi il mezzo fondamentale per conseguire questo fine.

Dopo l’intermezzo reazionario di Karol Woytila, nella chiesa come istituzione, cominciò il cardinale Martini a valorizzare la sua lezione, pur esprimendo alcune riserve (per esempio sul ruolo della donna). Infine, nel 2017, per i 50 anni dalla scomparsa, a Barbiana si è recato Papa Francesco a rendergli onore pregando sulla sua tomba.

Così tardivamente la “ditta”, come la definiva don Milani stesso, si è riconciliata con lui. Ad opera di un capo della chiesa stessa, non a caso venuto dalle periferie del mondo.


Giorgio Riolo


(Tratto da «Sinistra sindacale», n. 10, 28 maggio 2023).


Inserito il 29/05/2023.

don Lorenzo Milani

I doveri dei genitori

Un ragazzo senza istruzione è un passerotto senza ali

Le parole forti rivolte dal parroco ai genitori della sua parrocchia perché spingano in ogni modo i figli a istruirsi. Erano gli anni Cinquanta, il luogo era la parrocchia di San Donato a Calenzano (Firenze).

Clicca per aprire

↓ ↓ ↓

San Donato, 26 luglio 1953

Quando penso ai vostri ragazzi il mio pensiero è alla loro poca istruzione, e il mio tormento è che non si possono portare a superare a scuola i figli dei signori per superarli poi nella vita e prendere le redini d’ogni cosa. […]


San Donato, 22 agosto 1954

I doveri dei genitori sono di vario genere e comprendono tutti gli aspetti della vita del ragazzo e dell’uomo futuro. Dal latte materno al vitto, al vestire, all’esempio, ecc. E fra l’altro, naturalmente, dare modo ai figli di guadagnarsi la vita. E siccome non si sa come andranno le cose e a cosa si vada incontro, così occorre che queste possibilità siano più ampie e vaste possibili.

Quando a un ragazzo di 100 anni fa si insegnava a fare per esempio il fabbro, poi lavorava. Un babbo poteva morire sicuro di avergli lasciato qualcosa. Oggi con un mestiere in mano e basta non si vive più.

Bisogna anche saper vivere in tante altre circostanze: c’è da riempire fogli, consultare orari, telefonare e consultare l’elenco telefonico, far domande scritte e chiedere un anticipo o sollecitare un pagamento, c’è da prendere treni ecc. ecc.

Quando avete buttato nel mondo d’oggi un ragazzo senza istruzione avete buttato in cielo un passerotto senza ali. […]

Non ne hanno voglia? Fateli studiare per forza. Voi non li mandereste al lavoro senza il fagottino del mangiare e volete mandarli nella vita senza il fagottino del sapere?

C’è dei figlioli carogne che non vogliono mangiare e voi li forzate. Altrettanto fate per lo studio.


don Lorenzo Milani


(Brani tratti dal volume: Don Lorenzo Milani, La parola fa eguali. Il segreto della scuola di Barbiana, a cura di Michele Gesualdi, Fondazione Don Lorenzo Milani, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 2019 [nuova edizione]).


Inserito il 29/12/2022.

Don Lorenzo Milani:

«Ve lo devo dire, io baso la scuola sulla lotta di classe»

Il 31 gennaio 1962, nella Sala dei Duecento in Palazzo Vecchio a Firenze, si tenne una conferenza tra don Lorenzo Milani e i direttori didattici delle scuole fiorentine, organizzata dall’assessora alla Pubblica Istruzione Fioretta Mazzei d’intesa con la segreteria del sindaco Giorgio La Pira.

Riportiamo sotto alcuni stralci della registrazione del confronto tra i partecipanti, da cui emergono con chiarezza le caratteristiche della scuola tenuta da don Milani a Barbiana per i figli dei contadini e dei montanari.

Clicca per aprire

↓ ↓ ↓

Conferenza ai direttori didattici


Don Lorenzo

[…]

Ci sono due tipi di discorsi che si possono fare a un ragazzo per invogliarlo a prendere sul serio la vita.

Uno può dirgli: “Senti bambino, guarda come sei indietro. Non sai leggere un giornale, non sai difenderti da nessuno, sei timido, che umiliazione! Bisogna che tu ne esca, che tu ti elevi con lo studio, con la scuola».

Si può fare questi discorsi buoni, nobili, incitare un ragazzo alla propria elevazione.

Il discorso che faccio io è più nobile e, mi dispiace, ma qui mi tocca dire una parola che la Fioretta non voleva che dicessi.

Faccio questo discorso: “Senti ragazzo, la tua classe sociale, gli oppressi, gli infelici di tutto il mondo, dall’Algeria, al Congo, a Barbiana, al Monte Giovi, nell’officina, nei campi, soffrono di questa data sofferenza che tu hai. Dedica tutta la tua vita a fare sortire questa classe da questa situazione».

Cioè – ve lo devo dire – io baso la scuola sulla lotta di classe. Io non faccio altro dalla mattina alla sera che parlare di lotta di classe. E la scuola funziona perché io faccio soltanto questo discorso.

Qualcuno può dire che questi sono discorsi che non devo fare, che la parola ‘lotta di classe’, come diceva la Fioretta, non si deve rammentare.

Ma lasciamo andare il nome, la sua etichetta. Io vi ho descritto due discorsi: il primo che è senz’altro ignobile dire a un ragazzo: vivi per te stesso, fatti strada nel mondo, studia, così diventerai chissà che cosa, non voglio dire la parola più volgare: farai i quattrini. Invitarlo a vivere per se stesso è considerato nobile e lecito nella scuola attuale. Una cosa così sporca e immorale. Invitarlo all’egoismo, invitarlo a studiare tutto per sé. – “Studia, così avrai delle gioie dallo studio”. “Studia, così ti farai un posto”.

Questo è lecito. Invece dirgli: “Studia per tutta una classe, che è il 90% degli uomini, allarga il tuo cuore al resto del mondo”, questo è proibito, perché c’è di mezzo quella parola.

Si può anche non usarla, ma perché dobbiamo fare fatica a non usarla? Non possiamo aver paura delle streghe. Bisogna dire così, non possiamo mica fare scuola e, tutte le volte che occorre dire una parola, mordersi la lingua. Io non me la mordo per nulla. Io la uso dalla mattina alla sera. I ragazzi miei sono appassionati a studiare perché vogliono elevare se stessi per tutta la loro classe. Hanno davanti agli occhi tutto il mondo sofferente.


Un direttore didattico

Sono concetti marxisti.


Don Lorenzo Milani

Non mi dica signor direttore che questo è marxismo perché mi fa dispiacere. A dargli solo il nome non si distrugge questa visione della scuola.

Io l’ho descritta in una maniera che non vedo come potreste smontarmi. Quale ideale potreste propormi che io dessi alla scuola? Le gioie infinite della cultura, per esempio? Io potrei far amare il Leopardi perché è Leopardi. Per la gioia di tutti che è di poter intendere un canto di Leopardi, ma per grande che sia il Leopardi, quando una gioia è individuale è minore di quella sociale. Se io dico “Farò leggere a tutti gli operai del mondo il Leopardi!” è più bello, è in sé più cristiano. Vi parlo da sacrdote perché oltretutto io sono più prete di voi. Io sono prete, se ve lo dico io, si può dire.


Direttore didattico

Cioè elevare il sapere dal livello individuale a un piano più universale.


Don Lorenzo Milani

Più universale? Si può far amare tutti, ricchi e poveri. Fatelo voi se sapete. Io non so. Io mi contento di aver fatto amare il 90% dell’umanità. La scuola attuale fa amare uno solo: se stessi. Sicché, ho fatto più io. Come allargamento di cuore, gliene do più io con il classismo, che non la scuola attuale con l’individualismo. Poi se viene fuori uno che sa fare amare l’umanità intera, alzi la mano, lo seguo. Se trovate il trucco per appassionare i ragazzi ad amare l’umanità intera, ricchi e poveri, oppressori e oppressi, colonialisti e colonizzati, bravi voi. Io non ci riesco. Io riesco a fare amare la scuola e tutto quello che si insegna a scuola, perfino la matematica, perché dico: “Domani la insegnerai a un algerino”1, siamo cioè sempre tesi a questa passione sociale di lotta. E con questa s’appassiona i ragazzi piccini e quelli grandi. Si può cominciare da piccolissimi: i miei ragazzi di quarta elementare sanno ciò che succede in Algeria. Quindi sono già appassionati e vogliono sapere di più.

Così la scuola funziona, non ho nessuna difficoltà a farli stare a scuola quante ore voglio. Non ho nessun problema di ricreazione. Non esiste. La ricreazione è totale.

Tra badar pecore e stare a scuola, la scuola è tutta una ricreazione.


Direttrice didattica

Non è un problema di ricreazione, è che lei rende amabile, divertente lo stare insieme.


Don Lorenzo Milani

Le assicuro che non sono molto amabile. Questa è una conferenza e si fa presto a essere amabili, ma io le farei vedere sopportarmi dodici ore al giorno.


Stessa direttrice didattica

Lei ha qualità personali che altri non hanno.


Don Lorenzo Milani

No, guardi signora, mi offende, perché non è con qualità personali che io ottengo questa cosa, glielo garantisco. Insegnato il trucco, chiunque può usarlo.


Direttore didattico

Ma la direttrice ha parlato di un suo atteggiamento che dà ai ragazzi un’importanza che trascende l’individuo, e allora si sentono elevati a una specie di primato, ma è il suo modo di fare che crea questo.

La signora anche lei è un’educatrice tutta protesa per il bene dei bambini e della popolazione, tant’è vero – sia detto per inciso – il Ministero l’ha promossa ispettrice e lei gli ha risposto: “Grazie eccellenza il Ministro, rimango a fare la direttrice perché non abbandono la mia famiglia e i miei bambini”.

Questa è quella che l’ha interrotto.


Don Lorenzo Milani

Appassiono perché ho trovato e uso quella parola che ci voleva e cioè rispondeva a esigenze ch’esistevano prima della mia venuta: esigenze profonde.

Avete sentito parlare di spopolamento della campagna?

A Barbiana non è partita neanche una famiglia. Hanno fatto con me l’Avviamento. Io pensavo che, ottenuto il diploma di Avviamento, partissero ad ogni ora, facessero un polverone, andassero a sfruttarlo in fabbrica. C’è lavoro per tutti oggi. Invece sono rimasti lì. Hanno fatto un altro anno, quelli più grandicelli, di disegno tecnico e di tedesco. Con questo altro diploma di disegno tecnico, sono disegnatori qualificati e pensavo: “Ora scappano di certo”. Invece sono rimasti un altro anno. Ora vogliono l’inglese. Nel frattempo, questi grandicelli di 14-15 anni, mi fanno scuola ai piccoli. Io non faccio più scuola ai piccoli.

Dunque ho colto un’esigenza profonda dei loro genitori. Non l’ho mica creata io. Sennò avrei fatto quello che Gesù non fece, cioè, di convincere tutti. Io li avrei convinti tutti e Gesù ne avrebbe convinti dodici a fatica? Che poi hanno tradito anche loro!

Io non ho convinto tutti, ho solo proposto quello che avevano voglia loro di avere: era nel loro cuore, era una loro esigenza, mentre quello che proponeva Gesù era in contrasto con le nostre passioni. Io ho colto le loro passioni. Ho dato quello che volevano e allora ho avuto io soddisfazione e loro anche.


Direttore didattico

Le passioni vanno guidate in modo giusto sennò possono degenerare.


Don Lorenzo Milani

Guardi, io non ho mai insegnato a mettere le mine, a mettere le bombe. Io non insegno a mettere le bombe, però parliamo dello sciopero come nelle vostre scuole si parla della patria. E si parla della patria come nelle vostre scuole si parla dello sciopero. Si legge moltissimo le pagine sindacali dei giornali e si conosce bene i contratti di lavoro. Si segue attentissimamente tutte le vertenze sindacali, si è letto moltissimo di Gandhi e su Gandhi. Tutto quello che è bello, tutto quello che è nuovo, tutto quello che è totalmente progredito, è il nostro pane quotidiano.

[…]


Assessore Fioretta Mazzei

[…] Io ci tenevo che don Milani desse lo shock: a me lo ha dato. Effettivamente il problema di chi ha avuto troppo poco, e con responsabilità di tutti noi, è colossale. È madornale che oggi ci sia ancora chi non sa nemmeno parlare e per questo non può farsi strada nella vita.

[…]


Don Lorenzo Milani

[…] I figlioli dei contadini, i ragazzi di campagna sono stati rovinati in prima media. Bocciati in una maniera da scoraggiarli, da svogliarli allo studio. Sicché mi pare che sia proprio alle elementari, a dire poco verso la quarta e quinta, che occorre preparare i ragazzi affinché non avvenga questo shock di differenza di classe. Differenza che di fatto esiste. Non l’ho inventata io, e bisogna dirlo al ragazzo, bisogna proprio dire: “Succederà questo a te e ai tuoi compagni figli di operai e contadini”. Farne un apostolo di queste idee. E quindi, un apostolo contro il gioco, un apostolo contro la ricreazione, un apostolo contro lo sport, contro tutta la dispersione di forze. La dispersione di forze bisognerebbe lasciarla fare ai signori.


Direttore didattico

Non mi pare da sacerdote dire a un ragazzo: “Tu sei figliol d’un ignorante, tu sei un ignorante, datti da fare e picchia sodo se vuoi arrivare al figliolo del signore”.


Don Lorenzo Milani

No, questa frase io non la uso. Io gli dico: “Sciopera sodo domani”. Sono cose scritte sulla Costituzione. Lo sciopero è un sacro istituto che è accettato dalla nostra Costituzione, non è mica una rivoltellata. Quando io dico a un ragazzo: “Onora lo sciopero come la più alta espressione della tua dignità di uomo”, non dico nulla di illegale, né come cattolico, né come cittadino italiano. Dire a un ragazzo: “L’operaio ha in mano il suo lavoro e lo può negare con lo sciopero”, è un atto d’una elevata dignità. È una cosa bella, nobilissima.


Lo stesso direttore didattico

“Proletari di tutto il mondo unitevi”, è quello che dice lei con questi discorsi…


Don Lorenzo Milani (interrompendo)

La frase “proletari di tutto il mondo unitevi” in sé è buona. La frase “proletari di tutto il mondo armatevi di rivoltelle e bombe” è cattiva e io non la uso. Ma: “proletari di tutto il mondo unitevi con libri in mano e studiate” sì.


Lo stesso direttore didattico

Ma bisogna anche dire che è male arrivare al sovvertimento e alla rivoluzione.


Don Lorenzo Milani

Ma non è un sovvertimento studiare.


Altro direttore didattico

Io parlerei di evoluzione di classe, anziché di lotta di classe, perché parlando di lotta si fa riferimento alla forza.


Don Lorenzo Milani (interrompendo)

La forza del sapere.


Stesso direttore didattico (continuando il suo intervento)

…lotta di classe, così concepita, e non evoluzione di classe, porta alla rivoluzione.


Don Lorenzo Milani

Vi ho spiegato, fin dall’inizio, di non prendere sul serio questa parola. Perché di questa parola tutti hanno paura? Chissà perché! Allora, se qui non si può dire, la ritiro, la cambio e ci metto: passione, gara. Lo sport voi lo permettete, io no. La gara sportiva per noi è una cosa, in sé, disgustosa e cattiva. Voi la considerate persino nobile. Permettete perfino ai ragazzi che s’interessino delle partite sportive, facciano onore a uno che ha le gambe più lunghe e più forti. Permettete certe cose che per noi a Barbiana sono pornografiche. Allora parliamo di gara sportiva di classe. Cioè, una classe che è sempre arrivata ultima, che arrivi prima.

[…]


(Brano tratto dal volume: Don Lorenzo Milani, La parola fa eguali. Il segreto della scuola di Barbiana, a cura di Michele Gesualdi, Fondazione Don Lorenzo Milani, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 2019 [nuova edizione]).


Note

1 Siamo negli anni della guerra di liberazione dell’Algeria e a Barbiana si era schierati col popolo algerino.


Inserito il 16/12/2022.