Frammenti balcanici

Monumento dedicato ai bambini deportati di fronte al Museo dell’Olocausto macedone, Skopje (Meridiano 13/Nicola Zordan).

Fonte della foto: https://www.meridiano13.it/wp-content/uploads/2024/02/museo-Olocausto-macedone-Skopje.jpeg

Dal sito «meridiano13.it»


Bulgaria vs Macedonia del Nord

Olocausto macedone, narrazioni a confronto

di Nicola Zordan

Mentre il 10 marzo a Sofia si celebra la “Giornata del salvataggio degli ebrei bulgari”, l’11 marzo a Skopje si ricorda l’Olocausto macedone.

La questione degli ebrei bulgari e macedoni attraverso le visite al Museo Nazionale di Storia della Bulgaria a Sofia e al Museo dell’Olocausto macedone a Skopje: due narrazioni e interpretazioni degli eventi della Seconda guerra mondiale diametralmente opposte e confliggenti, con ricadute tutte attuali sulle relazioni diplomatiche tra i due stati confinanti.

Clicca per aprire

↓ ↓ ↓

Olocausto macedone, narrazioni a confronto


di Nicola Zordan


Ohrid, ottobre 2022: l’apertura di un circolo culturale bulgaro dedicato allo zar Boris III scatena le ire dei macedoni, che interpretano l’avvenimento come una bassa provocazione da parte di Sofia. Tra la folla compare un cartello, che recita “Con i fascisti non si tratta” (Со фашисти не се преговара). Il rimando è duplice: da un lato si fa riferimento alle negoziazioni in corso sull’allargamento dell’Ue in Macedonia del Nord, ostaggio dei diktat bulgari e del loro potere di veto in sede di Consiglio dell’Ue; dall’altro al ruolo assunto dalla monarchia bulgara nel corso della Seconda guerra mondiale, quando si schierò con le forze dell’Asse e occupò militarmente quasi tutto il territorio corrispondente all’odierna Macedonia del Nord.

Secondo quello che oramai è andato a costituirsi come un vero e proprio topos comune nella narrazione politica macedone, abbracciato in maniera bipartisan tanto dai conservatori di Vmro-dpmne quanto dalla sinistra di Levica, c’è dunque una sostanziale continuità tra i bulgari occupatori e fascisti della Seconda guerra mondiale e i bulgari di oggi. Questi ultimi sarebbero rei di promuovere una politica di “bulgarizzazione” della cultura, lingua e storia macedoni, esigendo da Skopje la promulgazione di riforme irricevibili come lasciapassare per l’ingresso in Ue.

Dall’altra parte del confine, invece, non si parla di occupazione in riferimento ai drammatici eventi avvenuti tra il 1941 e il 1944, ma piuttosto di amministrazione territoriale; le richieste mosse ai macedoni vengono giustificate in termini di tutela della minoranza bulgara in Macedonia del Nord – tutela che, vale la pena sottolinearlo, non è invece concessa alla minoranza macedone in Bulgaria.

Uno dei tanti tavoli ai quali si gioca questa partita di narrazioni e contronarrazioni tra Bulgaria e Macedonia del Nord – nonché uno dei più confliggenti e, proprio per questo motivo, esemplificativi – riguarda però il modo in cui è ricordato l’Olocausto in ciascuno dei due paesi confinanti. O, per essere più specifici, come l’Olocausto macedone sia ricordato in Macedonia del Nord e come (non) sia ricordato in Bulgaria.


La narrazione di Sofia: il salvataggio degli ebrei bulgari

Non c’è modo migliore di analizzare la narrativa nazionale di un determinato evento storico che armarsi di spirito critico e visitare l’offerta museale di un paese. Il Museo Nazionale di Storia della Bulgaria in questo senso è illuminante. L’edificio, ex residenza governativa dell’ultimo presidente della Repubblica popolare di Bulgaria, Todor Živkov, si sviluppa nella periferia sud-occidentale di Sofia, su una superficie complessiva di 6mila metri quadrati, suddivisa in cinque sezioni che accompagnano il visitatore alla scoperta dei momenti salienti della storia del paese balcanico.

La sezione relativa al Principato e al Regno di Bulgaria, a confronto delle altre, colpisce per la propria modestia. Al suo interno, più di 30 vetrine sono dedicate allo sviluppo del paese a seguito dell’indipendenza dall’Impero ottomano (1878). Solo un paio affrontano gli anni della Seconda guerra mondiale.

Di queste, una è dedicata interamente all’Olocausto. Su tutto, svetta un grande trofeo a forma di menorah. Le didascalie informano il visitatore che si tratta di un dono della comunità ebraica di Washington al presidente bulgaro Želju Želev (1990-1997) per il “salvataggio degli ebrei bulgari nella Seconda guerra mondiale”. Una seconda targa esprime la gratitudine degli ebrei americani al “popolo giusto” della Bulgaria, che ha rischiato la vita per evitare la deportazione dei propri connazionali di origine ebraica. Ecco qui condensata l’intera narrazione bulgara attorno all’Olocausto: il “popolo giusto” bulgaro che salva da deportazione e morte certa l’intera comunità ebraica nazionale, costituita da più di 48mila individui.

Se tuttavia la resistenza dello zar Boris III (lo stesso del centro culturale aperto a Ohrid) alle pressioni tedesche, che pretendevano l’esecuzione della soluzione finale anche nell’alleata Bulgaria, è degna di nota, restano molte lacune importanti nella narrazione degli eventi. Innanzitutto non vi è alcun riferimento al clima antisemita che pur si respirava in territorio bulgaro all’epoca dei fatti: ancora prima di aderire al patto tripartito, su iniziativa del primo ministro germanofilo Bogdan Filov, misure a difesa della razza e apertamente antisemite erano già state prese, come la legge per la protezione della nazione promulgata dal parlamento bulgaro nel 1941. Campi di lavoro entro i quali veniva confinata in condizioni pietose la popolazione bulgara di origini ebraiche restarono in attività fino alla resa di Sofia.

In secondo luogo, non è minimamente menzionata la responsabilità delle autorità bulgare nella deportazione degli ebrei dalle aree occupate. Solo un pannello informativo marginale informa i visitatori più attenti che “11.363 ebrei della Macedonia Egea e della Macedonia di Vardar furono deportati”, senza accennare in alcun modo al fatto che le deportazioni fossero state organizzate e gestite dalle forze d’occupazione bulgare.

Un lapsus tutt’altro che casuale, come ci confermano le dichiarazioni di Božidar Dimitrov, ex ministro del governo Borisov e direttore del museo. Per Dimitrov, gli ebrei macedoni non furono deportati dalle autorità bulgare, e questo sarebbe dimostrato dal fatto che, altrimenti, l’intera popolazione ebraica bulgara avrebbe seguito la stessa sorte. Ciò invece non avvenne “perché erano cittadini bulgari” e dunque scamparono alla Shoah. Ma chi è dunque il colpevole per l’Olocausto macedone? Il parere di Dimitrov è netto:


Nel 1941, la Germania vietò alla Bulgaria di concedere la cittadinanza bulgara a circa 11.000 ebrei macedoni. (…) Gli ebrei macedoni furono mandati nei campi di sterminio dai tedeschi come parte della cosiddetta “soluzione finale”.


La responsabilità, quindi, nonostante i territori incriminati fossero sotto diretta amministrazione di Sofia, secondo Dimitrov, non sarebbe da attribuire alle autorità bulgare, ma a quelle tedesche. In questa chiave di lettura distorta l’Olocausto macedone sarebbe avvenuto perché gli ebrei macedoni non erano considerati cittadini bulgari, a differenza degli ebrei di Bulgaria, e in quanto tali sono potuti essere stati deportati nei campi di concentramento nazisti. Una facile via di fuga da un passato con il quale è difficile fare i conti.


La narrazione di Skopje: occupazione e Olocausto macedone

Se al Museo Nazionale di Storia della Bulgaria l’Olocausto macedone viene relegato a poche righe di una stanza dedicata al Principato, a Skopje è stato costruito un museo intero a due passi dalla piazza principale della città. Inaugurato nel 2013 nel bel mezzo del mastodontico piano di restyling della città noto come “Skopje 2014”, il museo risulta all’avanguardia sia dal punto di vista architettonico che di offerta multimediale al suo interno.

Si inizia al pian terreno con la visione di sagome umanoidi che reggono foto di ebrei deportati, cornici vuote o specchi. L’intento di questo espediente è quello di far immedesimare il visitatore nei panni di una delle vittime dell’Olocausto macedone sin dal primo momento.

Proseguendo si sale una scalinata dove è possibile informarsi sulla storia del popolo ebraico, dalle origini fino alla contemporaneità. Al primo piano, infine, si giunge al cuore del museo: l’occupazione bulgara dal 1941 al 1944. Differentemente rispetto a quanto appreso a Sofia, si ripercorre con dovizia di particolari lo smembramento della Jugoslavia da parte delle forze dell’Asse, l’occupazione della Macedonia avvenuta il 18 aprile e l’imposizione della cittadinanza bulgara “a tutti i popoli della Tracia e della Macedonia, ad esclusione degli ebrei”.

A sostegno di questi sviluppi viene fornita un’ampia documentazione fotografica ed audiovisiva, arricchita dalle testimonianze dei superstiti, senza che venga censurata in alcun modo la brutalità delle truppe bulgare nei confronti della minoranza ebraica. Allo stesso modo non si tace l’esperienza degli ebrei bulgari, ma piuttosto che come un “salvataggio”, viene qui presentata come una mancata deportazione.

Infatti poco oltre un altro cartello descrittivo riporta la seguente nota informativa:


Le notizie del destino riservato agli ebrei dei territori occupati innescò una forte reazione pubblica. Una delegazione di bulgari assistita dal vicepresidente del parlamento, Dimitar Pešev, e da 43 parlamentari presentò al governo una decisa protesta. Grazie agli sforzi e all’intervento di personaggi pubblici influenti sul regime, nonché all’opposizione della Chiesa ortodossa bulgara, l’ordine di deportazione fu annullato. 48mila ebrei bulgari originari dei vecchi confini della Bulgaria non furono né deportati né uccisi.


La decisione dello zar Boris III viene qui presentata sotto una luce diversa, in quanto attore più passivo che attivo sulla fatidica decisione che porterà alla sopravvivenza della comunità ebraica bulgara: appare infatti più spinto dall’impegno diretto della società civile del suo stesso paese piuttosto che mosso da sinceri intenti umanitaristici. Ecco però che poco più avanti viene fatta una precisazione: “Solo quando i cittadini ebrei bulgari furono minacciati di deportazione parlamentari, leader ecclesiastici, avvocati e scrittori protestarono e chiesero la protezione dei loro concittadini. Ma per gli ebrei macedoni non è servito a nulla”. Come a dire che la mobilitazione avvenne, ma fu solo quando furono i bulgari ad essere minacciati, mentre nessuno in Bulgaria manifestò in difesa degli ebrei macedoni.

A seguito di questa sezione informativa – che va notato essere colma di riproduzioni e riferimenti nazi-fascisti, dai manifesti propagandistici alle bandiere con la svastica – si discende una seconda scalinata, dopo la quale si è costretti ad attraversare la replica di un carro bestiame delle ferrovie dello stato bulgare utilizzato per la deportazione degli ebrei e l’attuazione dell’Olocausto macedone (la provenienza del carro è palesata dalla sigla delle ferrovie bulgare riportata sulla fiancata esterna).

Dopo aver attraversato il carro, ci si imbatte in una replica in miniatura del campo di sterminio di Treblinka, destinazione finale degli internati. Qui vennero deportati 4.221 ebrei dalla Tracia occidentale e dalla provincia greca della Macedonia, oltre a 7.148 ebrei dalla Vardar Macedonia, spazzando via per sempre la secolare comunità ebraica che vi si era insediata. Di questi, solo 12 fecero ritorno.


La memoria come strumento per politiche identitarie

Nonostante la narrazione ufficiale sull’Olocausto macedone risulti decisamente più accurata e meno fuorviante a Skopje piuttosto che a Sofia, nemmeno la Macedonia del Nord può considerarsi esente da ogni critica rispetto a questo aspetto. Non tanto in termini contenutistici – sicuramente più fedeli alla realtà e completi nell’esposizione dei fatti – quanto nei modi e nei fini. Rispetto ai primi, l’iper-immedesimazione imposta al visitatore nei confronti degli ebrei vittime dell’Olocausto macedone – arrivando a farlo salire su una fedele riproduzione di un carro bestiame utilizzato per la deportazione – può risultare eccessiva, sconfinando dall’esposizione oggettiva degli eventi alla ricerca di un forte coinvolgimento emotivo. Con quale fine?

Questa domanda ci porta al secondo punto e, circolarmente, all’inizio dell’articolo. Se è importante ricordare, infatti, è altrettanto importante interrogarsi su come si ricorda, sul perché si ricorda. L’istituzione del “Giorno della memoria” a livello internazionale ha un fine ben preciso: ricordare la Shoah e fare in modo che il ricordo impedisca a simili barbarie di riaffacciarsi nuovamente nel corso della storia umana.

Accanto a questo fine, la narrazione sull’Olocausto macedone da parte di Skopje ne definisce però un altro, ben più attuale e politicizzato: la difesa dell’identità macedone, messa recentemente in discussione proprio da Sofia con pressioni e dichiarazioni politiche volte a negare o sminuire l’esistenza di una popolazione macedone con tradizioni, lingua e cultura distinte da quelle bulgare. In questo modo, all’insinuazione proveniente dall’altro lato del confine di un’identità macedone quale “invenzione di Tito”, i macedoni rispondono tracciando un parallelismo tra gli anni Quaranta e il Ventunesimo secolo, tra gli occupatori bulgari alleati dei nazisti e dei fascisti e l’élite politica d’oltreconfine di oggi. Se la Bulgaria di ieri occupò militarmente la Macedonia, oggi cerca di “bulgarizzarla” culturalmente.

A sostegno della narrazione del “bulgaro fascista”, il ricordo dell’Olocausto macedone è utilizzato strumentalmente per rafforzare l’immagine dei bulgari come occupatori, violenti e revanscisti, e per compattare la popolazione a difesa della propria identità nei confronti di aggressive ingerenze esterne. Non si fa del revisionismo storico (tendenza invece ben più marcata all’altro lato del confine, come abbiamo visto), ma la retorica costruita attorno alla memoria non può essere definita esattamente riconciliante, nella misura in cui viene utilizzata per etichettare la Bulgaria di oggi. Bulgaria che, d’altro canto, con le sue posizioni – quando non aperte provocazioni – sulla questione macedone non fa molto per stemperare la situazione.

Lo sciovinismo, potremmo chiosare, genera altro sciovinismo.


Nicola Zordan


(Tratto da: https://www.meridiano13.it/olocausto-macedone-narrazioni-a-confronto/).


Inserito il 08/03/2025.

Da «QF Quaderni di Farestoria»

Un socialismo diverso. L’Autogestione in Jugoslavia

di Stefano Bartolini

Un breve saggio sul sistema politico-economico della Jugoslavia dal dopoguerra alla crisi generata dai nazionalismi riemersi con forza al venir meno dell’autorevole figura carismatica di Tito.

«Farestoria» è il periodico dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Pistoia.

Clicca per aprire

↓ ↓ ↓

Un socialismo diverso. L’Autogestione in Jugoslavia


di Stefano Bartolini


Il 28 giugno del 1948, con la risoluzione di Bucarest, la Jugoslavia veniva espulsa dal Cominform. Era il culmine di una crisi che trovava le sue ragioni nel fiero autonomismo dei comunisti jugoslavi dall’URSS, nonché in frizioni di politica estera dovute in particolare ai progetti di federazione balcanica mal visti da Mosca. La rottura metteva in discussione la pedissequa replica del modello sovietico seguita fino ad allora, con il varo nel 1946 di una costituzione federale che riproduceva quella dell’URSS del ’36, l’avvio della collettivizzazione nelle campagne e del primo piano quinquennale1. Ma invece di capitolare ed “andare a Canossa”, come forse si aspettava Stalin, gli jugoslavi proclamarono allora la propria diversità e originalità nel campo socialista.

All’inizio Tito ed i suoi furono disorientati, ma quando fu chiaro che la rottura era definitiva, lo “scisma” pose ai dirigenti comunisti un pressante problema di identità e legittimazione sia all’interno, con i propri militanti legati al mito e al modello sovietico, che all’esterno, verso il resto della compagine del comunismo internazionale. La questione non era di facile soluzione per gli jugoslavi che, orfani dell’URSS, avvertivano l’esigenza di differenziarsi per mantenere il potere e sopravvivere. In gioco c’era la stessa evoluzione in senso socialista del Paese: nel contesto di incipiente guerra fredda, una Jugoslavia abbandonata dai sovietici che non avesse trovato una propria via poteva diventare preda del capitalismo occidentale. Gli USA, non a caso, capirono subito che si poteva aprire una finestra di opportunità e si mossero per tenere a galla Tito, includendo il Paese nell’UNRRA con lo Jugoslav Emergency Relief Act2.

Così gli jugoslavi arrivarono a partorire il proprio inedito disegno, che avviava un’esperienza rimasta unica e singolare nella storia degli esperimenti comunisti, l’Autogestione. I dibattiti del pensiero socialista furono scavati alla ricerca degli elementi su cui basare la nuova teoria, passando da Owen, Fourier, Proudhon, Marx, Lenin e recuperando una distinzione tra “nazionalizzazione” e “socializzazione” dei mezzi di produzione, tramite la quale leggere l’involuzione statalista e burocratica dell’Unione Sovietica. Ferma restando l’interpretazione della Rivoluzione d’ottobre come primo tentativo di introdurre l’autogestione operaia, accanto a questo riferimento fu ripreso l’esempio della Comune di Parigi per quanto atteneva alle forme di governo locale. Quest’ultimo modello permise di mettere subito in essere i primi provvedimenti, con la legge del 28 maggio 1949, innestandoli sugli istituti sperimentati durante la lotta partigiana nelle aree liberate, i Consigli popolari3. L’anno successivo, il 27 giugno 1950, ve niva varata la Legge sul passaggio delle fabbriche alla gestione operaia. L’articolo 1 stabiliva:


Fabbriche, miniere, comunicazioni, trasporti, commercio, agricoltura, silvicoltura, aziende comunali e altre aziende statali, in quanto proprietà pubblica, sono gestite dai collettivi di lavoro a nome della comunità sociale nel quadro del piano economico statale […]. I collettivi di lavoro esercitano questa gestione attraverso i consigli operai e i comitati di gestione delle aziende e delle associazioni economiche in cui sono riunite numerose aziende.4


Nel giro di breve tempo vennero varati i Consigli operai e quelli dei produttori, questi ultimi inseriti negli ambiti repubblicani e federali, e già nel 1950 esistevano 200 aziende autogestite. Ma l’Autogestione comportava un processo di revisione ideologica molto più profondo – che i comunisti jugoslavi non saranno in grado di portate a termine –, dando vita ad un assetto sconosciuto nei paesi dell’est. Iniziava un percorso che avrebbe dovuto investire quattro elementi cardine di ogni struttura statale: democratizzazione; de-statalizzazione; de-burocratizzazione; decentralizzazione. Era un orizzonte ambizioso, tant’è che nel ’49 Djlas sostenne che la nuova Jugoslavia non aveva bisogno del passato ma solo del futuro5.

L’Autogestione non riguardava solo l’organizzazione della produzione, ma lo stesso assetto istituzionale, con una dialettica fra centro e periferia che vedrà alternarsi la preferenza verso i comuni o le Repubbliche federali in funzione del prevalere di questa o quella corrente all’interno della dirigenza comunista. Il socialismo jugoslavo puntava ad un rapporto fra autogoverno e autogestione economica di tipo bilaterale e bidirezionale al fine di realizzare la socializzazione del potere, creando una forma avanzata di democrazia che superasse la partitocrazia occidentale6.

Al tempo stesso, la diversità socialista comportava in politica estera scelte capaci di rompere la rigidità dei blocchi della guerra fredda, per trovare una collocazione autonoma. Una ricerca che si incontrerà con la decolonizzazione e che nel 1956 approderà alla nascita del movimento dei paesi “non allineati”, il cui primo vertice ebbe luogo a Belgrado nel 1961.

Anche il partito cambiò nome e nel 1952 il KPJ si trasformò nella Lega dei comunisti jugoslavi, SKJ, la cui organizzazione era ancorata al sistema federale. Un cambiamento che in teoria doveva portare all’abbandono della concezione sovietica del partito, ma nella pratica il suo ruolo come centro propulsivo e guida della società non venne meno. Anche il Fronte popolare nel 1953 mutò nome in Alleanza socialista, e in teoria avrebbe dovuto essere il cuore pulsante dell’Autogestione7.

In linea con questi orientamenti, nel ’52 venivano riorganizzati i comuni, aumentandone l’autonomia, mentre gli elementi autogestionari venivano estesi al di fuori della produzione di beni tangibili in senso classico marxista, allargandosi a scuole e ospedali ed alle aziende con più di 30 lavoratori8.

Per sancire la svolta, nel 1953 venne varata la seconda costituzione, che spingeva il decentramento decretando la fine dei ministeri centrali federali, sostituiti con appositi dipartimenti repubblicani, eccezion fatta per quelli della Difesa, dell’Interno e degli Esteri. Il Comune diventava l’unità fondamentale del potere locale, si aumentavano le prerogative dei Consigli popolari e si istituivano a tutti i livelli (federale, repubblicano e locale) delle camere dei produttori in rappresentanza dei lavoratori. Inoltre, si passava a un meglio calibrato piano annuale e la collettivizzazione aveva termine, anche se si incentivava la costituzione di cooperative. Ai lavoratori veniva riconosciuto il diritto all’autogestione e in alternativa alla proprietà statale, ed a quella privata, si proclamava la “proprietà sociale” dei mezzi di produzione, sottoposti a “gestione sociale”. Una proprietà che mancava di intestatario, non essendo né dello Stato né dei gruppi di lavoratori ma bensì dell’intera società.

L’articolo 4 identificava i tre punti cardine del nuovo sistema: «La proprietà sociale dei mezzi di produzione, l’autogestione dei produttori nell’econonia e l’autogoverno del popolo lavoratore nel comune, nelle città e nel distretto»9. Tito, parlando davanti all’Assemblea del popolo, incitava quello stesso anno alla lotta contro il burocratismo e rigettava qualsiasi ombra di “deviazionismo” dal marxismo:


Desidero in primo luogo analizzare la sostanza della nostra via verso il socialismo. Si tratta di qualcosa di nuovo, che richiede una spiegazione teorica, che nega la validità, almeno su alcuni punti, della teoria marxista nel momento attuale? È evidente che non è così. La sostanza della nostra via al socialismo, o, per meglio dire, al comunismo, si può definire in poche parole: la nostra via al socialismo consiste nel mettere in pratica la teoria marxista nel momento attuale e in collegamento – il più stretto possibile – con le condizioni specifiche del nostro paese. Per noi questa teoria non è un dogma, ma un metodo per gestire la società.10


Il decentramento continuò ad essere approfondito con ulteriori interventi sui comuni e i distretti nel ’55, ’57 e ’59. Circolarono addirittura progetti per abolire le repubbliche e mantenere solo i comuni, che furono ridotti di numero e aumentati nelle dimensioni, passando dagli 11.556 del 1946 ai 1.479 del 195511. Con il 7º congresso della SKJ nel 1958 veniva varato un Programma d’azione che proclamava il superamento del lavoro salariato tramite la trasformazione dei lavoratori in produttori e gestori diretti della proprietà sociale («il lavoro diventa libero, mentre i rapporti di lavoro perdono il carattere di lavoro salariato»), e tratteggiava le linee di sviluppo della società autogestita, inquadrata come forma specifica di estinzione dello Stato (richiamandosi al Lenin di Stato e rivoluzione del 1917)12. Attraverso l’autogoverno e l’autogestione lo Stato avrebbe perso sempre più di importanza, fino a scomparire, come il capitalismo, dentro alla nuova democrazia socialista: «il socialismo si sviluppa in Jugoslavia da un lato mentre ancora esiste ed assolve ad una importante funzione lo Stato, dall’altro mentre sussiste ancora la produzione mercantile». Se ne concepiva la sopravvivenza nella fase transitoria – dalla durata indefinita – come strumento per assicurarne il corretto svolgimento, ma in via residuale, in un delicato equilibrio, quasi un bilanciamento di poteri:


Ben sapendo che fin quando esiste lo Stato non viene meno nemmeno il pericolo che esso assuma un potere autonomo ed inasprisca così le esistenti contraddizioni nello sviluppo socialista e le renda antagonistiche, la Lega dei comunisti ritiene che nella fase attuale di sviluppo sociale della Jugoslavia lo Stato avrà un ruolo positivo nella misura in cui esso stesso evolverà verso una tale strutturazione democratica attraverso la quale si esprimano e si armonizzino gli interessi dei fattori socialisti fondamentali: i produttori, i collettivi di lavoro, le comuni e la società come comunità di produttori. In altri termini, la funzione dello Stato sarà progressiva nella misura in cui le contraddizioni che sorgano su tale base potranno trovare in esso una soluzione democratica, senza intralciare, da un lato, l’autonomia del produttore socialista e la sua iniziativa economica e sociale e senza permettere, dall’altro lato, che le inevitabili contraddizioni si trasformino in spontaneità anarchica ed in conflitti antagonistici, i quali condurrebbero alla distruzione delle basi del socialismo.13


Ma negli anni Cinquanta iniziarono già a manifestarsi le prime crepe. Fu Djlas a contestare frontalmente il sistema. Nel 1954 sostenne che nella società esisteva un pluralismo di interessi, preludio a quello politico, evidenziando la contraddizione di un modello che riconosceva la massima democrazia dal basso e quindi, in linea teorica, un pluralismo di opinioni, ma che poi riservava l’interpretazione della “verità” e della “giusta strada” solo alla SKJ. Incarcerato e poi esiliato, nel ’57 pubblicò all’estero La nuova classe. Una analisi del sistema comunista, dove si scagliava contro l’intolleranza filosofica dei comunisti, che erano stati per di più artefici di una rivoluzione assai diversa da quella propagandata. Al governo era ascesa una “nuova classe” composta da burocrati di partito, ligi al dogmatismo ideologico e attaccati al potere, che si era sostituita alla borghesia capitalista replicandone le peggiori pratiche autoritarie. Djlas propose anche una precoce interpretazione storiografica del comunismo come ideologia che aveva fornito le basi analitiche e filosofiche, nonché lo “strumento” del partito, per portare avanti l’emancipazione delle classi più umili, contadine e operaie, lasciando però sul terreno una nuova classe burocratica assai lontana dagli intenti che proclamava14.

Nel 1958 arrivava a sua volta la prima “fermata sul lavoro” in Slovenia. I minatori scioperarono contro le basse retribuzioni, prendendosela innanzitutto contro la gestione delle risorse economiche, cioè contro l’autogestione guidata dai dirigenti locali della SKJ. Si inaugurava una prassi che sarà tollerata ma non legalizzata, legata spesso ai contesti locali e in maniera solo apparentemente paradossale rivolta proprio contro le decisioni “autogestite”15.

L’irrequietudine del sistema jugoslavo, teorizzato come in continua trasformazione, portava a frequenti interventi normativi, anche alti. Nel 1963 fu varata la terza costituzione, anche come esito dello scontro fra i centralisti di Rankovic e i federalisti di Kardelj. Vinsero i primi, contro i secondi che erano più propensi a potenziare i poteri delle repubbliche rispetto a quelli dei comuni, mentre per i centralisti approfondire l’autogestione e l’autogoverno a danno delle repubbliche – che in un paese multinazionale potevano sempre indebolire il potere centrale – rafforzava il centro del sistema come potere regolatore e di indirizzo. Lo Stato cambiò denominazione, trasformandosi da popolare in Repubblica socialista federale della Jugoslavia, SFRJ. La costituzione approvava la Carta dell’autogestione e rafforzava ulteriormente i comuni – che avevano continuato a scendere di numero e aumentare di dimensioni, attestandosi a 561 – i quali assunsero una funzione di coordinamento dei servizi pubblici e delle attività produttive, con poteri diretti nel governo dell’economia e del territorio, divenendo i costruttori “dal basso” dello Stato16. Dopo la riforma, l’Autogestione era divenuta rilevante anche costituzionalmente, con l’esplicita menzione delle Unità di lavoro come forma di organizzazione produttiva decentralizzata, e si trovò a dover affrontare quelli che resteranno i suoi due fronti critici: la concretizzazione dei suoi principi assieme alla salvaguardia della pianificazione solidale tra le varie componenti del Paese, con il rischio di un’esplosione centrifuga di interessi sempre presente17.

Nel 1965 venne varata un’ampia riforma economica, in 35 leggi, considerata un successo degli innovatori. Venivano introdotti elementi di mercato, anche per assicurare margini di movimento alle unità produttive autogestite. Si mirava al tempo stesso a razionalizzare ed efficientare per aumentare la produttività, addirittura abbandonando il principio del pieno impiego. Iniziarono però a manifestarsi altre disfunzioni. Tecnici e manager tendevano a costituirsi in una sorta di tecnocrazia indipendente, anche se formalmente ossequiosa all’SKJ, che assumeva su di sé tutti i poteri decisionali, dando vita a un’altra incarnazione della “nuova classe” a detrimento delle prerogative dei lavoratori nei Consigli.

Un altro intervento introdusse un ulteriore elemento di criticità. Nel 1963 furono soppressi i fondi sociali federali di investimento, trasferendo le risorse alle banche. La SFRJ poteva adesso istituire solo fondi specifici e la pianificazione, priva di ogni strumento, diveniva un mero indirizzo generale. Le banche a loro volta furono investite dalle misure del 1965 e poste de facto sotto il controllo delle imprese e delle comunità socio-politiche, che potevano fondarle e quindi orientarne le scelte in materia di investimenti – dato che il Consiglio di gestione non aveva possibilità di intervento sulla politica creditizia – creando fratture proprio nella pianificazione solidale. Gli obbiettivi di aziende e comuni seguivano logiche di prossimità e iniziarono a divergere da quelli sociali del piano federale. In un contesto in cui gli squilibri fra repubbliche sull’asse nord-sud non erano stati superati, queste dinamiche finivano con l’andare ad aumentare le differenze nella velocità di sviluppo.

Alla fine degli anni Sessanta il sistema jugoslavo iniziava a divaricarsi, da una parte si spingeva sempre più ideologicamente sull’Autogestione, dall’altra i suoi risultati erano soprattutto di facciata mentre prendeva piede una struttura economica che gli osservatori definivano anche come “capitalismo larvato”18.

Nei primi anni Settanta, una serie di ricerche sociologiche evidenziò come l’Autogestione stesse fallendo sulla strada dell’emancipazione e della democratizzazione. Di fatto si verificava al massimo una co-decisione e una mera esecuzione degli obiettivi. La partecipazione non alterava di per sé la distribuzione asimmetrica del potere tra dirigenti e lavoratori – i primi continuavano a disporre di maggiori competenze, informazioni e contatti per prendere le decisioni – e si era formato un potere oligarchico direttamente proporzionale ai livelli gerarchici. Gli operai risentivano positivamente della partecipazione solo su due variabili, importanti ma “classiche”, il salario e le condizioni di lavoro. Di positivo c’era che i lavoratori che non partecipavano all’autogestione non percepivano uno iato fra la loro influenza personale e quella di chi vi prendeva parte. Chi partecipava invece era più alienato in senso marxiano ma anche più soddisfatto del lavoro. Inoltre, i lavoratori iscritti alla SKJ partecipavano molto di più ai processi decisionali, confermando il potere del partito.

Per alcuni studiosi jugoslavi l’unica soluzione al permanere del potere oligarchico poteva avvenire solo con un passaggio dalla gestione partecipata alla partecipazione organizzata, cosa che sarebbe stato possibile fare solo attraverso una forte e autonoma organizzazione sindacale. Un elemento che avrebbe significato il riconoscimento del perdurare del conflitto anche nel socialismo e che era inibito dalla funzione non chiara e scivolosa dei sindacatı dentro l’Autogestione, ridotti spesso a una sorta di dopolavoro19.

In questo quadro, iniziò a aumentare la conflittualità sociale. La crescita economica rallentava, l’inflazione saliva e la disoccupazione crebbe rapidamente (300.000 unità nel ’71, più 700.000 emigrati). Gli operai si mobilitavano chiedendo aumenti salariali, segno che i Consigli non erano in grado di esaurire del tutto i contrasti al loro interno. I tecnocrati a loro volta vedevano l’Autogestione come inadatta al “socialismo di mercato”, poiché manteneva strumenti di difesa come la possibilità per i lavoratori di opporsi ai licenziamenti in sede consiliare. Gli scioperi comunque non divennero mai politici o generali, restando confinati nei territori o nelle aziende, e durarono poco, con le richieste in genere accolte tramite il Consiglio. La Jugoslavia sul momento riuscì ad assorbire queste criticità, permanendo una congiuntura favorevole che permetteva di far fronte alle richieste (fra il ’65 e il ’68 il reddito nazionale medio crebbe del 18%)20.

Tuttavia, un’altra problematica si apprestava a occupare la scena, con l’esplodere delle questioni nazionali nel 1968 in Kosovo, con la rivolta degli albanesi, nel 1969 in Slovenia ma soprattutto nel 1971 in Croazia. Un vero e proprio spettro si riaffacciava davanti agli occhi dei dirigenti comunisti.


Le risposte a quelli che sembravano intoppi nella costruzione del socialismo – le contraddizioni che inevitabilmente sarebbero sorte lungo la strada – arrivarono alla metà degli anni Settanta, con due poderosi interventi, la nuova Costituzione del 1974 e la Legge sul lavoro associato del 1976, che portava al suo apice il sistema autogestito.

La Costituzione del ’74 contava ben 406 articoli e segnò una vittoria del federalismo di Kardelj. Le Repubbliche riguadagnarono la centralità nell’ordinamento statale, a scapito del potere centrale federale. Per questa via si pensava di rispondere alle tensioni nazionali, ed il Paese diventò simile a una confederazione. Le competenze centrali dello Stato in materia economica, monetaria, fiscale, di pianificazione e di rapporti economici con l’estero venivano inserite in un complicato e farraginoso sistema di trattativa continua e di bilanciamento fra la SFRJ e le repubbliche, dotate di poteri a tutto campo. Gli unici elementi forti di unità rimanevano la figura carismatica di Tito, la SKJ, a cui era affidata l’effettiva direzione politica del Paese, e l’esercito popolare, la JNA, non toccata dall’Autogestione21.

L’autogoverno locale raggiunse una sistemazione compiuta. Al centro del sistema c’era il Comune, dotato di un territorio vasto e i cui compiti erano il coordinamento dei servizi pubblici e delle attività produttive autogestite. Il Comune veniva concepito come comunità politica-sociale di base dalla natura associativa, definita dalla Costituzione come «la comunità politico-sociale d’autogestione fondamentale basata sul potere e sull’autogestione della classe operaia e di tutti i lavoratori». Facevano parte del Comune le Comunità locali, le Organizzazioni di base del lavoro associato e le Comunità autogestite di interessi. I comuni avevano un proprio Statuto, che trovava la disciplina giuridica a cui conformarsi nelle singole costituzioni delle 6 repubbliche e delle 2 regioni autonome, il Kosovo e la Vojvodina.

Le Comunità locali, MZ, a loro volta erano una sorta di replica per frazione del Comune, dove veniva esercitata al tempo stesso la democrazia diretta e rappresentativa. Al loro interno trovavano spazio i Consigli dei consumatori e quelli di pacificazione. L’assemblea delle MZ risultava composta dai delegati eletti dai cittadini, delle organizzazioni del lavoro associato, delle comunità di base autogestite, delle Comunità di interesse, delle organizzazioni politico-sociali (SKL, sindacati, Alleanza socialista, ecc.) e da altre organizzazioni sociali. Anche le MZ avevano natura associativa, in un sistema misto che compendiava una rappresentanza per categorie e centri di interesse, ed una su base elettiva. Nelle MZ lo strumento referendario, previsto per tutti i livelli a partire dalle repubbliche, trovava diffusa attuazione. I referendum in Jugoslavia potevano essere obbligatori, facoltativi con obbligo di attuazione e disponibili, quest’ultimo possibile su richiesta per tutti i casi non normati delle leggi. Le consultazioni avevano natura vincolante qualora si pronunciassero in via preventiva su provvedimenti e altro oppure quando si trattava di verificare a posteriori la validità di certi atti, compresi quelli legislativi. Nelle MZ poi ai cittadini potevano essere richiesti pareri tramite inchieste e dichiarazioni scritte. La discussione pubblica era prevista per ogni caso in cui si dovesse prendere una decisione attraverso il voto personale22.

Per quanto riguardava l’autogestione economica, dopo la legge del ’76 il sistema si assestò a sua volta su un’organizzazione assai complessa. Alla base c’erano le Organizzazioni di base del lavoro associato, OOUR, per i processi produttivi omogenei, assimilabili alle piccole imprese o ai grandi reparti delle fabbriche occidentali. I lavoratori avevano il diritto/dovere di costituire una OOUR quando si trovavano a formare un gruppo impegnato in un processo produttivo coerente e unitario, con un reddito lordo prodotto passibile di essere calcolato in maniera indipendente e solo se erano disposti ad assumersi le responsabilità e gli obblighi connessi. Le OOUR potevano poi esistere solo all’interno di una struttura superiore, l’Organizzazione di lavoro, RO, che aveva dimensioni da piccola o da media impresa. Le RO potevano essere create dalle OOUR, oppure dalle MZ, dalle Comunità autogestite di interesse e dai Comuni.

A un livello più alto si situavano le Organizzazioni complesse di lavoro associato, SOUR, formate dalle altre organizzazioni di livello inferiore sulla base di legami di filiera, di processo produttivo o di interdipendenza. Le SOUR nel sistema autogestito andavano ad occupare il posto delle grandi imprese. Di fatto, a tutti i livelli le organizzazioni nascevano sempre per impulso politico o da aziende preesistenti, non intaccando il potere dei gruppi dirigenti23.

Sempre nell’ambito dell’autogestione economica trovavano la loro sistemazione le già menzionate Comunità autogestite di interessi, SIZ. Queste erano organizzazioni che si occupavano della produzione di servizi nei comparti non prettamente produttivi di beni “materiali” in senso marxiano. Le SIZ dovevano rispondere al soddisfacimento di bisogni individuali e collettivi come gli ospedali, l’assistenza sociale, le scuole, centri scientifici e culturali, i trasporti ecc., ma ne veniva consentita la formazione ache per l’edilizia abitativa, la produzione energetica, la gestione delle acque. Di norma erano le costituzioni repubblicane a specificarne gli ambiti di intervento, con la SFRJ che manteneva poteri di regolamentazione e supervisione24.

Il problema insoluto rimaneva sempre quello di come sviluppare maggiormente la partecipazione cercando un bilanciamento fra lotta alle oligarchie e salvaguardia degli attributi di direzione. La strutturazione dell’autogestione nei suoi vari livelli di OOUR, RO, SOUR e SIZ, conteneva due linee gerarchiche. Quella esecutiva, affidata al management, e quella “legislativa” degli organi autogestiti. Questi ultimi erano l’Assemblea collettiva (o delle organizzazioni di base in caso di RO e SOUR); il Consiglio operaio con un suo comitato esecutivo; il Controllo operaio. L’unione fra le due linee era affidata alla figura del direttore, posto nella posizione di più basso organo esecutivo dell’autogestione e più alto organo della direzione tecnica. All’Assemblea spettava il compito di emanare lo Statuto, e di norma discuteva anche sulle questioni economiche e sociali importanti. Era previsto l’uso dello strumento referendario. Il Consiglio, vincolato alla verifica verso le componenti dell’Assemblea e i cui membri erano a rotazione, deteneva poteri di indirizzo strategici; i tempi e metodi di lavoro; la divisione del reddito; la sicurezza; gli investimenti. Per regolare il funzionamento interno doveva essere approvato l’Accordo di autogestione, che stabiliva anche i casi di incompatibilità fra i ruoli dirigenziali e l’appartenenza al Consiglio. Dato che c’era sempre il rischio di scatenare dinamiche centrifughe, l’Accordo funzionava da correttivo e prevedeva la collaborazione con le organizzazioni socio-politiche, la SKJe i sindacati, che trovavano per questa via il modo di esercitare la loro influenza. Infine, il Controllo operaio, regolato dall’Accordo, doveva vigilare affinché la divisione dei poteri reali non si allontanasse dalle norme. Complessivamente il sistema, tra livelli di organizzazioni del lavoro, gerarchie interne e rapporti incrociati, era così complicato che anche i tentativi di rappresentazione grafica si risolvevano in un labirinto25.

Nel tentativo di correggere le storture, negli anni Settanta si intervenne anche sul complesso bancario. Dal 1972 venne creato un nuovo sistema incentrato su banche “nazionali”, una per repubblica più 2 per le regioni autonome, affiancate dalla banca federale. Nel ’78 fu poi istituita una banca jugoslava per la cooperazione economica internazionale. Le banche continuavano ad essere integrate nell’autogestione come forma specifica di associazione, potevano essere formate dalle organizzazioni di lavoro, dalle SIZ e da altri enti con personalità giuridica che ne controllavano il capitale. Ad un livello inferiore esistevano le banche interne, per la tesoreria delle organizzazioni, e le banche di base fondate da SIZ, SOUR e banche interne, che potevano svolgere tutte le operazioni tipiche ed unirsi in una banca associata. Per i crediti al consumo e i finanziamenti locali esistevano invece le Casse di risparmio. Oltre a questi enti, operavano la Cassa depositi postali e le cooperative di credito e risparmio. Nell’insieme, una polverizzazione del sistema bancario che solo parzialmente era mitigata dalla possibilità di unirsi in consorzi e associazioni26.


In questi anni i comunisti jugoslavi sviluppavano discussioni sulla “democrazia industriale” dove, pur ammettendo le difficoltà, si ponevano all’avanguardia tanto rispetto all’Occidente che al blocco sovietico. Ma, nonostante tutto, la Jugoslavia continuava a non progredire nella direzione auspicata.

Le riforme non riuscirono a correggere i guasti interni all’Autogestione, aumentando l’articolazione ma non intervenendo sui fattori che ne vanificavano l’essenza. Non difettava solo l’assenza operativa di strutture come i sindacati. Il tempo da dedicare all’Autogestione era al di fuori dell’orario lavorativo, e per dirigere davvero un’azienda i lavoratori avrebbero dovuto documentarsi, mantenersi informati, fare riunioni, acquisire competenze, iniziare ad avere una mentalità non da “dipendenti” e assumersi i rischi propri dell’economia. Tutte cose che semplicemente interessavano poco o niente al comune cittadino non motivato politicamente o da ambizioni di carriera, non attratto dall’essere un dirigente, convinto di essere responsabile solo per il proprio lavoro. Come è stato detto, l’Autogestione non era a misura di lavoratore ma di eroe. Sempre le ricerche sociologiche svelarono il quadro. Per i lavoratori jugoslavi le cose importanti erano, nell’ordine: i guadagni; colleghi simpatici, supervisori capaci; mansioni interessanti; possibilità di carriera e infine, buona ultima, la possibilità di autogestire.

Anche l’efficienza era in sofferenza. I dirigenti trovavano nelle strutture autogestite una scappatoia su cui scaricare le colpe dei propri errori, mentre i lavoratori usavano i meccanismi autogestionari per le proprie strategie personali e familiari di reddito e occupazione. Entrambi ragionavano in un’ottica di corto respiro, mentre l’innovazione tecnologica segnava il passo. Il sistema era tale per cui nessuno portava la responsabilità per le scelte effettuate, aumentava il peso dei gruppi informali e si creavano inefficienze a non finire27

Di fronte a questo stato di cose, il gruppo dirigente comunista continuava a rispondere in maniera ideologica. Kardelj arrivò a riconoscere, alla fine degli anni Settanta, che nel Paese esisteva un pluralismo di interessi – come aveva detto Djlas più di 20 anni prima – che avrebbe dovuto trovare espressione nell’Autogestione. L’anziano dirigente individuò nell’Alleanza socialista l’organo adatto a questo scopo. Quest’ultima era rimasta ai margini dell’assetto jugoslavo fin dal dopoguerra, e veniva adesso rispolverata. L’Alleanza era una sorta di “oggetto non identificato” e dalle funzioni non chiare di cui facevano parte l’SKJ (con funzione trainante), i sindacati, le organizzazioni giovanili, femminili e degli ex partigiani, la Croce Rossa, associazioni culturali, sportive, professionali, singoli cittadini, sacerdoti, intellettuali… Nel 1984 contava quasi 17 milioni di iscritti, il 76% della popolazione sopra i 14 anni. L’Alleanza in pratica si trovava a relazionarsi con la società intera. Secondo Kardelj questo sarebbe diventato il luogo deputato all’espressione della pluralità di interessi autogestiti, con strumenti partecipativi, delegatari e decisionali improntati allo spirito dell’Autogestione e per questa via passibili di superare sia il pluripartitismo che il monopartitismo. Ad ogni modo, la scomparsa nel 1979 del leader comunista chiudeva ad ulteriori sviluppi su questa via28.

Il socialismo autogestito jugoslavo al suo apice era ripiegato esattamente su quello che aveva proclamato di voler combattere alla sua nascita: il dogmatismo, il burocratismo. Le sue strutture politiche, a partire dall’SKJ, erano diventate parte delle contraddizioni del sistema. La Lega non aveva mai perso il ruolo di partito unico e di guida, vi continuava a vigere il centralismo democratico e l’idea della dittatura del proletariato, ed il pluralismo di idee era malvisto fuori dalle sue strutture, in evidente contrasto con tutta l’impalcatura del socialismo autogestito29.

Alle contraddizioni interne mai risolte si aggiunsero gli effetti nefasti degli interventi degli anni Settanta. Il Paese iniziò a frammentarsi. Lo Stato in via di deperimento divenne quello federale, a vantaggio delle repubbliche, ormai dotate di banche e degli attributi propri di uno stato-nazione, compreso un sistema di difesa locale. Il mercato interno si segmentò sui loro confini, e altrettanto fece la SKJ. L’impatto della gravissima crisi economica che colpì la Jugoslavia negli anni Ottanta dette il colpo di grazia e liberò le spinte centrifughe. I meccanismi di governo federale si incepparono e tanto il revisionismo serbo che il secessionismo sloveno e croato ebbero via libera. Nel giro di pochi anni, della Jugoslavia e dei suoi grandiosi progetti di una nuova democrazia socialista non sarebbero rimaste che le macerie.


Stefano Bartolini


(Tratto da: Stefano Bartolini, Un socialismo diverso. L’Autogestione in Jugoslavia, in «QF Quaderni di Farestoria», Anno XIX, n. 3 settembre-dicembre 1917, Comunismo: a cento anni dalla Rivoluzione di Ottobre, pp. 57-68).


Note

1 F. Privitera, Jugoslavia, Milano, Unicopli, 2017, pp. 92-95. S. Bianchini, La questione iugoslava, Firenze, Giunti, 1999, pp. 73-87. J. Krulic, Storia della Jugoslavia. Dal 1945 ai giorni nostri, Bergamo, Bompiani, 1999, pp. 30-67. Sugli organismi del comunismo internazionale vedi S. Pons, La rivoluzione globale. Storia del comunismo internazionale 1917-1991, Torino, Einaudi, 2012.

2 F. Privitera, Jugoslavia… cit., pp. 95-96. S. Bianchini, La questione… cit., p. 89. Id., Sarajevo, le radici dell’odio. Identità e destino dei popoli balcanici, Roma, Edizioni associate, 1993, p. 214. J. Krulic, Storia della Jugoslavia… cit., p. 4.

3 R. Supek, Socialismo e autogestione, Milano, La Pietra, 1978, pp. 35-36.

4 Il testo della legge in Ivi, pp. 203-204.

5 F. Privitera, Jugoslavia… cit., p. 97. J. Kralic, Storia della Jugoslavia… cit., pp. 71-82. Z. Cepic, I problemi politici della Federazione jugoslava (1945-1991), in L. Bertucelli, M. Orlic (a cura di), Una storia balcanica. Fascismo, comunismo e nazionalismo nella Jugoslavia del Novecento, Verona, Ombre corte, 2008, p. 209. M. Ganino, A partire dal basso. Autogestione e “Comunità locali” in Jugoslavia, p. 103; M. Dogo, La crisi, le nazioni, la storia: avanti verso il passato?, p. 310, entrambi in S. Bianchini (a cura di), L’enigma jugoslavo. Le ragioni della crisi, Milano, Franco Angeli, 1989. R. Supek, Socialismo… cit., p. 36.

6 N. Pasic. L’idea della democrazia autogestita diretta e la socializzazione del potere politico, in R. Supek, Socialismo… cit., pp. 237-242.

7 Il Fonte popolare era nato nel 1945 in sostituzione del Consiglio antifascista di liberazione popolare della Jugoslavia (AVNOJ). G.C. Reghizzi, La disciplina giuridica della Lega dei comunisti in Jugoslavia, pp. 41-43; S. Bianchini, L’Alleanza socialista nel sistema politico jugoslavo, p. 56, entrambi in S. Bianchini (a cura di), L’enigma… cit.

8 M. Ganino, A partire dal basso… cit., p. 103. R. Supek, Socialismo… cit., p. 36.

9 F. Privitera, Jugoslavia… cit., pp. 95-99. J. Krulic, Storia della Jugoslavia… cit., p. 36. Z. Cepic, I problemi politici…, p. 209, M. Ganino, A partire dal basso…, p. 103, e P. Brera, L’economia jugoslava nell’euforia della crisi, p. 193, da cui è tratta la citazione. Tutti e tre in S. Bianchini (a cura di), L’enigma… cit.

10 Il testo del discorso di Tito in R. Supek, Socialismo… cit., pp. 185-189.

11 M. Ganino, A partire dal basso… cit., p. 103.

12 J. Krulic, Storia della Jugoslavia… cit., p. 76. R. Segatori, Dall’autogestione solidale all’eterodirezione conflittuale: origini e sviluppo del “paradosso jugoslavo”, p. 90; R. Gatti, Marxismo e politica nell’ideologia e nella prassi del socialismo jugoslavo, p. 329, entrambi in S. Bianchini (a cura di), L’enigma… cit.

13 Il testo del Programma in R. Supek, Socialismo… cit., pp. 196-202.

14 F. Privitera, Jugoslavia… cit.. p. 101. M. Gilas. La nuova classe. Una analisi del sistema comunista, Bologna, Il Mulino, 1957.

15 G. La Pira, Il sindacato fra crisi sociale e crisi di rappresentatività, in S. Bianchini (a cura di), L’enigma… cit., p. 264-275.

16 F. Priviera, Jugoslavia… cit., p. 101. Z. Cepic, I problemi politici… cit., pp. 211-212. M. Ganino, A partire dal basso… cit., p. 103. Pur segnando un passo indietro nell’importanza istituzionale delle repubbliche, per Favaretto tuttavia la Costituzione del 1963 rimase ancorata ad un’impostazione federale di tipo classico, con una chiara divisione di competenze tra Stato e unità federali. T. Favaretto, Origini e sviluppi della crisi jugoslava: un tentativo di interpretazione, in S. Bianchini (a cura di), L’enigma… cit., p. 20.

17 R. Segatori, Dall’autogestione… cit., pp. 91-92. Nel 1960 si era iniziato a parlare di Unità economiche. G. Leman, Organizzazione e funzionamento dell’autogestione operaia nelle imprese jugoslave, in R. Supek, Socialismo… cit., p. 219.

18 F. Privitera, Jugoslavia… cit., pp. 101-102. J. Krulic, Soria della Jugoslavia… cit., pp. 81-84. T. Favaretto, Origini… cit., pp. 20-21. R. Segatori, Dall’autogestione… cit., p. 92.

19 J. Zupanov, La partecipazione degli occupati e il potere sociale nell’industria, pp. 261-262; J. Obradovic, La distribuzione della partecipazione nei processi decisionali, pp. 264-269; V. Rus, I limiti della partecipazione organizzata, pp. 276-277, tutti in R. Supek, Socialismo… cit. G. La Pira, Il sindacato… cit., p. 265.

20 F. Privitera, Jugoslavia… cit., p. 102. J. Krulic, Storia della Jugoslavia… cit., pp. 83-84. R. Segatori, Dall’autogestione… cit., p. 94.

21 F. Privitera, Jugoslavia… cit., p. 107. T. Favaretto, Origini… cit. pp. 23-26. Per un’analisi delle posizioni interne alla dirigenza comunista vedi D. Jovic, Yugoslavism and Yugoslav Communism: From Tito to Kardelj, in D. Djokic (editor), Yugoslavism. Histories of a Failed Idea 1918-1992, Glasgow (UK), University of Wisconsin Press, 2003, pp. 157-181. Secondo Denitch i due approcci al decentramento, quello verso le repubbliche e quello verso i comuni, pur svolgendosi simultaneamente, erano fra loro contraddittori, con il primo improntato ad affrontare la questione nazionale mentre il secondo era più adatto alle esigenze dell’Autogestione. B. Denitch, Forme e intensità della partecipazione nella autogestione jugoslava, in R. Supek, Socialismo… cit., pp. 244-245.

22 M. Ganino, A partire dal basso… cit., pp. 102-131, da cui è tratta la citazione.

23 P. Brera, L’economia… cit., pp. 194-196.

24 Ivi, pp. 205-206.

25 G. Leman, Organizzazione… cit., pp. 215-233.

26 P. Brera, L’economia… cit., pp. 196-199.

27 Р. Вrera, L’economia… сіt., pp. 210-245.

28 S. Bianchini, L’Alleanza… cit., pp. 56-63.

29 G.C. Reghizzi, La disciplina… cit., p. 49.


Inserito il 29/08/2024.