Tribuna
«Per parecchi mesi a Pietrogrado, ed in tutta la Russia, ogni angolo di strada fu una tribuna pubblica. Nei treni, nei tram, ovunque, zampillava improvvisamente la discussione».
John Reed (I dieci giorni che sconvolsero il mondo, 1919)
Come i democratici sono diventati il partito dell’establishment italiano
di Tommaso Nencioni
Questo articolo di Tommaso Nencioni, apparso sulla rivista “Jacobin”, analizza efficacemente gli errori della classe dirigente del Partito Democratico nel corso della sua storia; in fondo non fa che confermare i motivi della nostra sfiducia e diffidenza nei confronti di quel Partito. Ma crediamo che l’utilità di una lettura risieda anche nella sua capacità di suscitare, socraticamente, delle domande. Ecco quelle che ci ha suggerito l’articolo:
1) A chi, a quali classi o settori sociali, a quali soggetti si dovrebbe rivolgere un moderno movimento politico che si possa dire veramente di sinistra? E se questi settori sociali sono, oggi, da un lato i milioni di italiani sotto la soglia di povertà assoluta o relativa, di malpagati e sfruttati (citazione Rino Gaetano), di persone che dipendono dal reddito di inclusione, e dall’altro lato la piccola e media borghesia intellettuale, costituita da laureati, professionisti, insegnanti, le istanze di queste due classi sociali coincidono davvero, potrebbero conciliarsi nel programma di un Partito?
2) Con la parola “sinistra” intendiamo tutti la stessa cosa quando auspichiamo un diverso, grande Partito di sinistra? Una sinistra moderna dovrebbe o no uscire dal recinto del neoliberismo in cui ha finito per rinchiudersi dopo il 1990? Porterebbe voti a questo fantomatico Partito definirsi “anticapitalista”?
3) Nell’articolo di Nencioni la storia del PD è scandita attraverso i suoi leader. Per fare politica oggi, si può prescindere dal leaderismo?
Per il momento ci fermiamo qui con le domande, ma Socrate aveva ragione: è uno straordinario esercizio cercare di farsi le domande “giuste”, cioè utili – speriamo.
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Come i democratici sono diventati il partito dell’establishment italiano
di Tommaso Nencioni
I Democratici italiani si sono spesso posti come garanti della stabilità istituzionale e della linea atlantista di Roma. L’attuale leader Elly Schlein ha virato a sinistra, ma ha fatto poco per cambiare l’identità del partito come forza per stabilizzare il capitalismo italiano.
In vista delle elezioni di giugno per il parlamento dell’Unione Europea, il primo ministro italiano Giorgia Meloni turba il sonno dell’opinione pubblica progressista, non solo in patria ma in tutto il Vecchio Continente. La sua posizione interna è così forte che la leader postfascista Meloni è ora un punto di riferimento per le forze conservatrici europee in generale.
Ma la forza politica di Meloni si deve anche alla debolezza dell’opposizione. La semplice verità è che la destra italiana non godrebbe di una posizione così dominante se non fosse per le numerose mosse autodistruttive della principale forza del centrosinistra, il Partito Democratico. Ciò vale anche sotto la nuova segretaria (leader del partito) Elly Schlein, che ha suscitato molte speranze quando è stata eletta a questo incarico nel marzo 2023.
Ma questo ci dice anche qualcosa di più ampio sui Democratici e sulla loro posizione attuale. Le tante scelte dannose del centrosinistra italiano non sono state follie individuali o addirittura esplosioni di follia collettiva. Piuttosto, sono radicate nella storia recente e nella cultura politica di questo partito – e nella sua particolare base sociale.
Fuori tempo
Il Partito Democratico ha una storia breve, ma ha già attraversato diverse fasi, talvolta sorprendentemente contraddittorie. Il partito nasce nel 2007 dalla convergenza dei Democratici di Sinistra (eredi diretti del Partito Comunista Italiano) e della Margherita (erede di parte della Democrazia Cristiana). Ma sotto la guida di Walter Veltroni, il nuovo partito fu caratterizzato meno da un tentativo di sintetizzare le tradizioni post-comunista e post-democratica cristiana, quanto da un tentativo di allontanarsi dalle culture politiche esistenti in Italia. Il modello – a cui si fa riferimento esplicitamente anche nel nome del partito – era quello dei Democratici statunitensi e della Terza Via sostenuta da Bill Clinton e Tony Blair.
Tuttavia, la leadership di Veltroni fu di breve durata. A trascinarlo verso il basso sono stati la dura sconfitta elettorale per mano di Silvio Berlusconi nel 2008 e l’impossibilità di recintare l’intero spazio politico del centrosinistra all’interno di un unico partito. Ma, cosa ancora più fondamentale, gli sforzi di Veltroni sono falliti perché il quadro all’interno del quale il partito era stato concepito – la missione di una governance neoliberista stabile – è fallito.
Il peccato originale del Partito Democratico non è stato quello di aver sommato culture politiche diverse (e già allora fortemente diluite), ma di essere stato concepito per un momento politico già superato. È stata fondata in un’epoca in cui si immaginava ancora che la “globalizzazione reale” fosse – e avrebbe continuato ad essere – un fattore di progresso per l’intera società e in particolare per una certa classe media che i democratici consideravano centrale nella vita nazionale. Questa promessa riguarda soprattutto i settori creativi della finanza e della cultura, considerati strutturalmente più idonei a trarre profitto dalle opportunità di un mercato mondiale sempre più aperto.
Il Partito Democratico si presentava così ai cittadini come un partito postideologico, postnazionale e postclasse che avrebbe guidato efficacemente l’inserimento dell’Italia nel “villaggio globale”, garantendo al tempo stesso alle classi lavoratrici livelli di welfare che avrebbero permesso loro di resistere alla crescente precarietà lavorativa. A questo proposito, l’impegno dei democratici verso l’UE (in Italia chiamato europeismo) non era tanto mirato alla creazione di una struttura politica europea con una forte identità sociale e autonomia dagli interessi geopolitici statunitensi. Lo consideravano piuttosto il mezzo migliore per inserire l’Italia nella rete delle interdipendenze globali, rompendo i vari conservatorismi che ostacolavano questa operazione.
La crisi finanziaria e le sue ricadute hanno devastato sia questo approccio che quello adottato da Pier Luigi Bersani, succeduto a Veltroni alla guida. Bersani ha promesso un approccio più classicamente socialdemocratico, ispirandosi all’esempio dei socialisti francesi di François Hollande (la cui presidenza dal 2012 al 2017 lascerà sicuramente poche tracce negli annali del socialismo europeo).
In teoria, quindi, questa avrebbe dovuto essere una svolta a sinistra. Ma, paradossalmente, è stato sotto la guida di Bersani che i democratici hanno preso la direzione opposta. Per la sua leadership è iniziata l’era del sostegno a governi variamente tecnocratici, austeristi o comunque totalmente favorevoli alle imprese sotto Mario Monti (2011-2013) e Mario Draghi (2021-22). Tra questi due governi guidati da tecnocrati – entrambi sostenuti acriticamente dai Democratici, ed entrambi sfociati in una rovinosa sconfitta elettorale – la leadership di Matteo Renzi e Nicola Zingaretti non ha rotto con lo schema iniziato con il governo Monti. Il governo formato dal centrosinistra in alleanza con il Movimento Cinque Stelle (2019-21), sotto la guida del primo ministro Giuseppe Conte, è stato più sofferto che realmente sostenuto dai democratici. Il popolare primo ministro Conte (un promotore di politiche pro-lavoro, intollerante all’austerità e aperto a una visione multipolare della politica internazionale) è stato scaricato alla prima occasione, per tornare al rifugio sicuro della tecnocrazia e dell’atlantismo sfrenato sotto l’ex capo della banca centrale Draghi.
Una caratteristica cruciale di questa lunga fase è stata la cessione della leadership di fatto del Partito Democratico al Presidente della Repubblica, una figura che non è né capo del governo né eletto direttamente dagli elettori. Tuttavia, il partito lo ha fatto in un momento in cui la Presidenza (prima di Giorgio Napolitano e poi di Sergio Mattarella) stava attraversando una svolta considerevole, poiché gli occupanti di questa carica passavano dal loro ruolo storico di garanti della Costituzione del 1948 a quello – talvolta esplicito — di garanti dei vincoli economici e geopolitici esterni alla politica italiana. In particolare, l’uso del veto presidenziale ha delimitato le scelte del governo e le nomine ministeriali, tutte escluse quelle che obbedivano a un quadro comunitario e atlantista, eufemisticamente noto come collocazione dell’Italia.
Il suicidio politico di Bersani, che sostenne una svolta “a sinistra” ma finì impantanato nel sostegno al gabinetto di tecnocrati Monti – nonostante la sua presunta neutralità politica, il governo più palesemente classista e perfino più genuinamente “di destra” nella storia della repubblica – non può essere spiegato senza considerare questo cambiamento nel ruolo del Presidente.
Indispensabile
Qui dovremmo anche considerare un elemento della cultura politica dei democratici che spesso viene trascurato. Le discussioni su questo partito lo vedono quasi sempre nei termini della sua derivazione dal Partito Comunista Italiano. La sinistra ha la ben nota mania di scrivere la propria storia e, data la sua incapacità di avere un reale impatto politico, si è nominata custode della memoria storica della diaspora post-comunista. Nei giornali e nei dibattiti televisivi italiani, la “storia” sui colpi di scena che hanno dato vita al Partito Democratico è raccontata da personaggi di origine comunista. Ma del tutto assente da questa autorappresentazione è il contributo alla sua cultura politica proveniente dall’ex partito democristiano, che ha prodotto anche una parte massiccia, se non maggioritaria, del gruppo dirigente democratico.
Questo contributo democristiano è importante. L’analisi del suo ruolo dovrebbe partire da due angolazioni. Il primo è che questo partito si considerava “indispensabile” e identificava la propria egemonia (ha guidato il governo dal 1945 al 1981 e ci è rimasto fino al 1994) con la salvezza della democrazia in Italia. In altre parole, più che un partito di governo, si è trasformato in un partito-stato. L’altro elemento connesso è il ruolo della Democrazia Cristiana come garante dei “vincoli esterni” all’azione del governo italiano, e la sua quiescenza ai diktat della NATO. In quest’ottica, non solo era essenziale che i democristiani rimanessero al governo: oltretutto, senza questo partito nella sala di controllo, le istituzioni liberali italiane avrebbero vacillato; la crisi di questo partito sarebbe andata di pari passo con la crisi della repubblica stessa. L’alternativa sarebbe stata il caos e la presa del potere da parte dei comunisti.
Per molti sembra più facile immaginare la fine del mondo che la fine del Partito Democratico.
Questo elemento della cultura politica democristiana ha fortemente influenzato il Partito Democratico fin dalla sua fondazione nel 2007. Tuttavia, la visione dei leader democratici del loro partito come fulcro della democrazia italiana fa appello anche a una parte dell’opinione pubblica progressista. Ogni volta che si tengono le primarie per eleggere un nuovo leader democratico, molti della sinistra partecipano a questo rito nonostante non appartengano al partito, non abbiano mai votato a suo favore e, a seconda del risultato e in alcuni casi anche indipendentemente dal risultato, non avendo intenzione di votarlo in futuro. Molti italiani votano alle primarie democratiche per paura del baratro. Oh Dio, il Partito Democratico potrebbe scomparire, che ne sarà di noi? E che dire della povera vecchia Italia?
Per molti sembra più facile immaginare la fine del mondo che la fine del Partito Democratico. Ciò non fa altro che alimentare la caratteristica percezione di sé di questo partito, ereditata dai Democratici Cristiani, di considerarsi indispensabile. È come un gatto che si morde la coda: il Partito Democratico si identifica con lo Stato neoliberista; tradisce regolarmente il proprio elettorato per sostenere quest’ordine; l’elettorato punisce il Partito Democratico per essersi autoimmolato in nome della logica neoliberista; e allora lo stesso elettorato che lo ha appena punito si precipita con gioia a salvarlo, per evitare di perdere il partito indispensabile alla salvezza dello Stato neoliberista, come se dimenticasse perché lo ha punito fin dall’inizio.
Qui mi limiterò solo a delineare brevemente un’ulteriore considerazione, ovvero che dalla metà degli anni ’70 una parte significativa del gruppo dirigente del Partito Comunista – non a caso, lo stesso di cui lo stesso presidente Napolitano nel 2006-2015 era stato una figura di spicco – aveva anch’esso adottato questa visione. Ha sviluppato questa idea sia da un punto di vista istituzionale (il Partito Comunista “doveva” essere al governo, perché la democrazia dipendeva da esso) sia da un punto di vista socioeconomico (riformismo non come conquista graduale del potere da parte della classe operaia, ma come un appello a riforme “d’emergenza”. La parola “riforma” è stata qui intesa come qualsiasi misura che possa contribuire a fornire le condizioni ideali per rimettere in moto i meccanismi tormentati dell’accumulazione capitalista).
Nel 2014, quando alla guida del partito vinse Renzi – personaggio totalmente avulso dalla storia e dalle ragioni della sinistra – la (auto)giustificazione data da leader e attivisti del partito per l’ enorme voto per l’ex sindaco di Firenze fu che lui era "un vincitore". Il Pd deve cioè vincere, deve poter andare al governo, a prescindere dai contenuti dell’azione di governo stessa, per salvaguardare le istituzioni democratiche italiane, altrimenti destinate a finire in balia del “populismo”.
Per il Partito Democratico, quindi, l’esperienza del gabinetto tecnocratico Monti – sostanzialmente confermata dal governo Draghi 2021-22 – ha significato il passaggio da un “partito di governo” a un modello di partito-stato. Ciò conferisce anche un certo carattere razionale al suicidio politico dell’allora leader democratico Enrico Letta quando il governo Draghi entrò in crisi nell’estate del 2022. Ruppe l’alleanza dei democratici con il Movimento Cinque Stelle – provocando un disastro elettorale per il centrosinistra e una vittoria schiacciante per la coalizione di destra di Meloni.
Allora, cosa stava facendo Letta? Per prima cosa, voleva allontanare i democratici da un alleato (i Cinque Stelle) ritenuto “inaffidabile” in termini di rispetto dei “vincoli esterni” sull’Italia e sulle sue istituzioni. Ciò era particolarmente importante in un momento in cui il governo risultante dalle elezioni sarebbe stato chiamato a votare la riforma del Patto di stabilità e crescita dell’UE (ovvero, una nuova ondata di austerità) e a includere il Paese nella coalizione contro la guerra della Russia. Inoltre, nella lettura di Letta, un governo di destra non avrebbe resistito a queste richieste e il Partito Democratico sarebbe stato nuovamente richiamato al governo sotto la pressione delle istituzioni internazionali, con UE e NATO in testa. Letta non ha capito che la coalizione di destra di Meloni era – e rimane – perfettamente in grado di fungere da garante dei vincoli esterni all’Italia. Non appena il governo Meloni ha avuto la possibilità di dimostrare la sua “affidabilità” ai suoi partner internazionali, Letta ha proclamato che il governo si sta dimostrando “migliore del previsto”.
Dopo questo ennesimo suicidio politico, l’eredità disastrosa è caduta nelle mani di Elly Schlein, una giovane politica formatasi nelle campagne presidenziali americane di Barack Obama e senza un background storico né nella tradizione comunista né in quella democristiana. Nel partito di Schlein assistiamo alla difficile coesistenza di due modelli: la visione originaria di Veltroni, anche se in chiave un po’ più di sinistra – alla base della spinta dei non iscritti che ha portato Schlein a vincere le primarie del 2023 – e il modello di sostegno ai governi tecnocratici, che rimane assolutamente dominante nell’apparato del partito.
Clientelismo
Una tale combinazione presenterebbe comunque difficoltà oggettive. Ma più recentemente è esplosa una polemica sulle accuse di clientelismo, dopo gli scandali sulla presunta compravendita di voti e i legami tra funzionari democratici e loschi interessi economici. Vale la pena soffermarsi più da vicino su questa controversia, perché, anche al di là delle questioni morali o giuridiche coinvolte, può costituire un’interessante cartina di tornasole della funzione del Partito Democratico nella società italiana e nelle sue istituzioni.
Non appena il governo di Giorgia Meloni ha avuto la possibilità di dimostrare la sua “affidabilità” ai suoi partner internazionali, l’ex leader democratico Enrico Letta ha proclamato che questo governo si è dimostrato “meglio del previsto”.
Il clientelismo ha sicuramente una lunga storia nella vita pubblica italiana. Sia l’ordine liberale-elitario successivo all’unificazione nazionale che il fascismo erano (anche) regimi clientelari. Per quanto riguarda la repubblica fondata nel 1946, il clientelismo fu la risposta della seconda generazione di leader democristiani al fallimento del modello di politica economica liberista di Alcide De Gasperi nell’immediato dopoguerra. Questo clientelismo non era il prodotto – come ci viene solitamente detto – degli eccessi dello Stato, ma piuttosto dell’eccessiva ritirata dello Stato.
Era impossibile raccogliere un consenso di massa attorno al modello liberista dell’immediato dopoguerra e la presa di coscienza di questo fatto da parte del gruppo dirigente democristiano avvenne contemporaneamente all’avanzamento della secolarizzazione e all’inizio della distensione internazionale. Anche il consenso militarizzato della crociata anticomunista, così evidente nelle cruciali elezioni generali del 1948, fallì per il partito cattolico. Mentre il movimento operaio si collocava sul terreno della democrazia di massa, cercando di costruire il rapporto tra conflitto sociale e potere istituzionale, i democratici cristiani organizzavano un consenso di tipo verticale, costruendo artificialmente le classi medie attraverso la spesa pubblica e la permissività nella tassazione. Questa organizzazione verticale del potere spiega anche, tra le altre cose, il carattere particolaristico del welfare italiano, in cui le prestazioni sociali non sono un diritto universale, ma un favore concesso dal partito al potere.
Quindi, prima di esprimere il nostro stupore per il fatto che il Partito Democratico sia invischiato in accuse di clientelismo, dovremmo considerare 1) il fallimento del modello neoliberista degli anni ’90-2000, che fu ancora più aggressivo nell’ indebolire i lavoratori rispetto ai governi degli anni ’40-’50, e 2) la massiccia iniezione di cultura politica democristiana nella formazione del Partito Democratico.
Allora, cosa si chiede veramente ai democratici, quando si chiede loro di rompere con il clientelismo? Data la struttura di questo partito, gli si chiede in effetti di rinunciare a porsi il problema del sostegno di massa. In teoria, sarebbe una buona cosa se esistesse un partito che rappresentasse “puramente” la classe media urbana progressista e quel poco che resta di una classe operaia protetta e con forti garanzie. Un partito di questo tipo costituirebbe (come è sempre stato, a partire dai fronti popolari degli anni ’30) un elemento cruciale di qualsiasi coalizione progressista. Ma, nella crisi occidentale post-2008, questa forma di rappresentanza difficilmente garantisce un grande successo elettorale, nonostante la generale sovrarappresentanza delle classi medie urbane e altamente istruite. I voti vengono o guadagnati rappresentando interessi parziali ma potenzialmente maggioritari – quelli che una volta venivano chiamati interessi di classe – oppure acquistati (non necessariamente illegalmente!) costruendo un consenso verticale e interclassista attraverso l’uso del potere burocratico e della spesa pubblica, oltre alla distribuzione diretta di incarichi politici.
Idealmente, negli anni a venire, costruire un’alleanza tra il mondo del lavoro precario e i ceti medi urbani sarebbe una grande cosa. Ma ciò richiederebbe un primo passo, e per molti sgradevole, una mossa almeno temporanea per spezzare il peso del sostegno storicamente accumulato dietro il Partito Democratico.
Tommaso Nencioni
(Traduzione di Barbara Cipriani)
(Tratto da: Tommaso Nencioni, How the Democrats Became Italy’s Establishment Party, in: https://jacobin.com/2024/05/italy-democratic-party-history?utm_source=substack&utm_medium=email).
Inserito il 31/05/2024.
La piramide del sistema capitalista (1911).
Fonte della foto: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/e/e8/Pyramid_of_Capitalist_System.jpg
Dibattito aperto sulla sinistra/1
«Classi come mondi separati. Superare la subalternità alla cultura anglosassone»
🔴 di Marco Bartalucci 🔴
L’articolo sul PD di Tommaso Nencioni e le domande lanciate dalla redazione del nostro sito hanno stimolato un primo, graditissimo contributo da parte dell’amico e compagno Marco Bartalucci, fiorentino con radici senesi che collabora con noi da Kassel, la città tedesca nella cui Università tiene dei corsi di Storia della filosofia.
All’intervento di Marco seguiranno altri, speriamo numerosi.
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«Classi come mondi separati. Superare la subalternità alla cultura anglosassone»
di Marco Bartalucci
Per rispondere alla prima domanda si dovrebbe anzitutto, a mio parere, chiarire se le persone che vivono sotto o sul limite della cosiddetta soglia di povertà da un lato e la piccola borghesia intellettuale hanno o possono avere una stessa cultura o modelli di pensiero. Se hanno le stesse chiavi interpretative che gli permettono di interfacciarsi alla loro esperienza quotidiana. In soldoni, se hanno le stesse disillusioni o le stesse speranze. O se almeno queste si assomiglino.
Andare a ripescare qualche impressione di fondo dalle riflessioni di Pasolini non guasterebbe.
Azzardando una osservazione personale direi che i due mondi siano decisamente separati. La piccola e media borghesia intellettuale aspira a realizzare per sé ideali che lei stessa non ha creato ma che ha assorbito da una cultura straniera, d’origine sostanzialmente anglosassone. È una classe che vorrebbe tanto insegnare quali sono le cose giuste e quelle sbagliate, vorrebbe “illuminare” gli altri, il popolino ignorante e grezzo, arretrato culturalmente perché inconsapevole delle buone maniere di una inclusività sbandierata per ogni dove. È una classe che si ritiene moralmente superiore anche se insoddisfatta delle sue condizioni e della sua mancanza di potere.
La classe di coloro che devono lottare quotidianamente in situazioni di degrado non solo economico ma anche civile in generale – leggi periferie, area della disoccupazione o sottoccupazione che imperversa da nord a sud ma che specie al sud raggiunge livelli estremi – ha una rabbia impotente che si rivolge contro tutto e tutti, a partire dai propri stessi vicini e compagni di sventura, basta che siano un poco “diversi” (colore della pelle o accento dialettale fa lo stesso).
Allora, prima di pensare a programmi politici che riuniscano in una stessa formazione politica questi due gruppi, queste due classi, si dovrebbe pensare a un ambito culturale che possa rispondere alle esigenze che dovrebbero essere comuni. Ma questo è possibile solo se entrambi i gruppi possono essere messi in condizione di sviluppare una loro comune autonoma cultura di riferimento. Dovrebbero potersi riscoprire come attori e non come fruitori di idee e modi di pensare importati. Un primo passo sarebbe quello di evitare di cadere nella provincialità dei colonizzati. Si dovrebbe smettere di guardare oltre Manica o oltre oceano, smettere di pensare inglese. E questo vale per entrambe le classi di cui sopra. Entrambe, infatti, sono colonizzate, seppure in modi diversi, da modelli culturali che provengono da quel mondo. Senza questa subalternità che le due classi subiscono non avremmo avuto la spirale involutiva della sinistra esplicata nei vari stadi di disfacimento descritti dal Nencioni.
Questo “recupero di sé” sarebbe la premessa per la presa di coscienza comune della necessità di allentare e, in prospettiva, di liberarsi dai cosiddetti “vincoli esterni” che sono oggi più che mai i nemici degli ideali propugnati dalla nostra Costituzione. Quelli che – esempio sia la Grecia di Syriza – impediscono qualsiasi cambiamento reale nel nostro paese e che lo impedirebbero nel caso di una “semplice” vittoria elettorale (oggi peraltro molto improbabile). Insomma, anzitutto riconoscere quale è il vero impedimento.
La seconda domanda esige una risposta netta: sì, si deve capire come navigare la crisi del neoliberismo e del capitalismo occidentale, che ha tentazioni belliciste, per risollevare le proprie sorti. Dunque antibellicismo e anticapitalismo sono oggi più che mai urgenze da connettere e da porre alla base dell’agire politico. Ma qui più che di ricostruzione di forze democratiche o di sinistra in generale ne va della nostra sopravvivenza fisica.
Per quanto riguarda la terza domanda, sulla necessità di un “leader”, rimando alle considerazioni che Nencioni fa riguardo al successo iniziale di Renzi nell’ambito della “sinistra”: si voleva qualcuno che fosse un “vincitore”. Bell’esempio, questo, di schema mentale ricevuto dal mondo americano. Si è visto a cosa porta una deriva del genere.
Kassel, 1 giugno 2024
Marco Bartalucci
Inserito il 01/06/2024.
Una manifestazione del 2022 indetta dal collettivo di fabbrica ex GKN di Campi Bisenzio (Firenze). In primo piano Adelmo Cervi.
Fonte della foto: https://fondazionefeltrinelli.it/scopri/la-classe-operaia-senza-il-paradiso/
Dibattito aperto sulla sinistra/2
Sinistra di classe o sinistra di élite?
🔴 di Stefano Gallerini 🔴
L’articolo sul PD di Tommaso Nencioni e le domande lanciate dalla nostra redazione hanno stimolato un contributo al dibattito sulla sinistra da parte del nostro compagno Stefano Gallerini, storico della Resistenza e dell’antifascismo, docente di Storia e Filosofia in un liceo fiorentino, uno dei curatori di questo stesso sito.
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Sinistra di classe o sinistra di élite?
di Stefano Gallerini
L’articolo di Tommaso Nencioni descrive in modo efficace il percorso che ha portato il PD a diventare il partito di riferimento dell’establishment, più e meglio di quanto abbiano potuto fare i maggiori partiti dello schieramento di centrodestra: prima Forza Italia e poi Fratelli d’Italia. Il suo maggior pregio sta nell’individuare il ruolo di partito del presidente progressivamente assunto dal PD. Essendo diventato il presidente della repubblica, prima con Giorgio Napolitano e poi con Sergio Mattarella, il garante del vincolo esterno che subordina il nostro paese ai diktat della troika USA-NATO-UE, il fatto che entrambi i presidenti provenissero dalle file del PD ha ulteriormente contribuito a fare di questo partito, che aveva già nel suo DNA l’allineamento alle politiche atlantiste e neoliberiste proposte da Washington, Bruxelles e Francoforte, il partito di riferimento dell’establishment. Invece il maggior difetto consiste, a mio giudizio, nell’assenza di una seria analisi di classe della natura politica del PD. Anche se ufficialmente il partito nasce nel 2007, dalla fusione dei Democratici di Sinistra (DS) con la Margherita, in realtà già l’operazione avviata nel 1989 con la proposta di scioglimento del PCI puntava a costruire un blocco sociale eterogeneo e interclassista che, in una sorta di versione neocorporativa del “patto dei produttori”, tendeva a saldare, sotto l’egemonia dei poteri forti dell’economia e della finanza (banche, grandi imprese, ecc.), ampi settori di quella che Nencioni chiama «classe operaia protetta e con forti garanzie» – un tempo si sarebbe detto molto più semplicemente «aristocrazia operaia» (Lenin) – con i cosiddetti ceti medi riflessivi, ossia la forza lavoro intellettuale inserita nel mondo della comunicazione e della formazione e la borghesia delle libere professioni. Erano queste le componenti della società più sensibili alla retorica dei diritti individuali, che di fatto andavano a soppiantare i diritti sociali per i quali fino ad allora si era tradizionalmente battuta la sinistra. Infatti, dal 1989 la cosiddetta “sinistra” ha cominciato a parlare soltanto di diritti, sempre però declinati in chiave rigorosamente individuale, e non più di bisogni, di cittadini e non più di lavoratori, di elettori e non più di popolo. Questa narrazione, termine non a caso molto caro ai teorici del postmoderno, rappresenta, insieme ad un antifascismo agito in modo strumentale per demonizzare lo schieramento avversario, il fondamento dell’identità (pseudo)progressista di quella che, dopo il 1989, si configura come la sinistra liberale (e liberista). Dall’altra parte, Silvio Berlusconi riusciva a mettere in piedi un blocco sociale altrettanto composito ed eterogeneo, che aveva i suoi punti di forza nella piccola e media impresa, nel lavoro autonomo e, più in generale, in un ceto medio sempre più immiserito ed incattivito dall’impossibilità di accedere a qualsiasi prospettiva di mobilità sociale ascendente. Il fatto che lo schieramento di centrodestra sia riuscito progressivamente ad erodere crescenti consensi anche tra i lavoratori dipendenti e i disoccupati è dovuto alle scelte di classe compiute dalla sinistra di élite – la cosiddetta sinistra ZTL – le cui politiche, a torto o a ragione, sono state percepite dai ceti popolari come molto più aggressive e lesive delle loro condizioni di vita rispetto a quelle praticate dai governi di centrodestra.
Se questo tipo di analisi, per quanto estremamente schematica, ha un fondamento ne deriva come logica conseguenza che a costituire la base sociale di riferimento per un nuovo soggetto politico di classe possono essere soltanto coloro che stanno al di fuori dei due schieramenti che compongono il partito unico del capitalismo. In primo luogo, quei settori di classe operaia che hanno conservato un minimo di coscienza di classe. Anche se, a prima vista, la classe operaia, a seguito dei processi di trasformazione che hanno travolto il mondo del lavoro, appare come una nebulosa di atomi individuali, esistono ancora avanguardie di lotta e nuclei di resistenza: l’esempio più eclatante ed anche più vicino a noi dal punto di vista territoriale è quello dell’ex GKN. Queste realtà dovrebbero andare a costituire la punta di diamante di un blocco sociale anticapitalistico, capace di aggregare tutti coloro che, a partire dalla loro condizione di lavoratori salariati, vivono sulla propria pelle una situazione di alienazione, oppressione e sfruttamento. Si tratta, quindi, di andare oltre la tradizionale distinzione tra lavoratori garantiti e non garantiti e di non perdere nemmeno troppo tempo a fantasticare di nuovi soggetti sociali destinati a mettere in moto il processo rivoluzionario, come hanno fatto certi intellettuali postoperaisti, autori di studi e ricerche su figure sociali quali, per esempio, i lavoratori precari impiegati nei settori della conoscenza – i cosiddetti knowledge workers – o dei servizi, e qui il soggetto sociale più gettonato è quello dei riders. Più semplicemente – ma sapendo che, come diceva Brecht, il comunismo è «la semplicità difficile a farsi» – si tratta di mettere insieme le fasce più deboli e meno protette del lavoro salariato con la multiforme galassia del mondo del non lavoro (disoccupati, inoccupati, ecc.) e del precariato fino ad arrivare ad includere quello che Herbert Marcuse, nelle pagine finali de L’uomo a una dimensione, chiama «il sostrato dei reietti e degli stranieri, degli sfruttati e dei perseguitati di altre razze e di altri colori». Tutto questo richiede, in primo luogo, un grande e lungo lavoro di inchiesta per comprendere chi siano veramente i soggetti sociali disponibili a dare vita ad un nuovo progetto politico anticapitalistico – a quanto mi risulta il tentativo più serio compiuto in anni recenti è stato quello del collettivo Clash City Workers che una decina di anni fa pubblicò un saggio significativamente intitolato Dove sono i nostri. Lavoro, classe e movimenti nell’Italia della crisi (La Casa Usher, Lucca, 2014). E, in secondo luogo, un’organizzazione politica di classe che diventi il luogo di ricomposizione di un mondo del lavoro e del non lavoro sempre più frammentato e spezzettato dai processi di ristrutturazione che lo hanno investito.
Detto questo, penso di aver già cominciato a rispondere alla seconda domanda. Oggi la radicalità delle questioni che sono al centro del dibattito politico prefigura un vero e proprio passaggio epocale. L’esplosione delle disuguaglianze sociali e delle povertà testimonia in modo drammatico l’attualità della contraddizione tra capitale e lavoro. Ma alla questione sociale bisogna aggiungere il rischio sempre più elevato dello scoppio di un conflitto generale tra la NATO e la Russia, che potrebbe essere il preludio della terza guerra mondiale, scelta a cui la triade dell’imperialismo collettivo – USA, NATO e UE – potrebbe fare ricorso per contrastare il declino sempre più accentuato dell’anglosfera a livello planetario. Per non parlare della catastrofe ambientale a cui ci sta conducendo la lucida follia del capitale. In queste condizioni, più che di un partito genericamente di sinistra, c’è bisogno di un nuovo soggetto politico di classe che abbia la lungimiranza di proporre una vera e propria alternativa di civiltà. Infatti, mi sembra del tutto evidente il fatto che, nell’era del totalitarismo neoliberista, la sinistra, in tutte le sue versioni, è diventata parte integrante del sistema. Se la sinistra liberale (e liberista) si è trasformata nella proiezione politically correct delle élites capitalistiche, la sinistra cosiddetta radicale (?) si è adattata al ruolo di coscienza infelice del partito unico del capitalismo. Quindi, è inutile coltivare illusioni o sperare in una inversione di rotta. Il fallimento in tutte le sue articolazioni e declinazioni di quella che l’informazione mainstream chiama “sinistra” rende oggettivamente necessaria la ricostruzione di un partito anticapitalista. Dal mio punto di vista, tale partito di classe non può essere altro che un moderno partito comunista. Che, però, sia veramente tale per identità, organizzazione e programma, che deve essere articolato in pochi punti, ma facilmente comprensibili dalle masse popolari. No alla NATO, no alla UE, lotta alla disoccupazione attraverso la riduzione delle ore della giornata lavorativa – nelle sue Prospettive economiche per i nostri nipoti (1930!) Keynes ipotizzava già una settimana lavorativa di quindici ore redistribuita su cinque giorni – e rilancio dello stato sociale finanziato attraverso il drastico taglio delle spese militari. Inoltre, dal momento che quella che oggi è presentata come democrazia in realtà altro non è se non una vera e propria dittatura dei mercati finanziari perché non pensare a qualche forma di nazionalizzazione del sistema bancario, proposta, peraltro, già presente sia nel Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels sia nelle Tesi di aprile di Lenin?
Se questo partito vedrà mai la luce, la partecipazione alla competizione elettorale dovrà essere l’ultimo dei problemi. Quello più importante, che deve andare di pari passo e affrontato in modo contestuale alla costruzione del partito, è quello del radicamento sociale, con l’obiettivo di riannodare i fili con quella parte di società che la sinistra di élite ha scelto di non rappresentare più. Una volta impostata in questi termini la questione, il problema della leadership è anche questo del tutto marginale. Se è vero che avere un leader che si sa muovere di fronte ai mezzi di comunicazione di massa aiuta, è anche vero, come dimostra la storia recente, che di leaderismo un partito può anche morire. È successo ad Alleanza Nazionale con Fini, che prese la folle decisione di sciogliere il partito nel più ampio raggruppamento di centrodestra fondato da Berlusconi, ed è successo al Partito della Rifondazione Comunista (PRC), sacrificato da Bertinotti sull’altare dell’accettazione delle compatibilità di sistema e del conseguente inserimento nelle dinamiche perverse del bipolarismo. Nato come partito antisistema, il PRC si è ridotto ad essere l’ala sinistra – in tutti i sensi! – del centrosinistra, con l’intento di limitare i danni che le politiche euroliberiste applicate dai governi di centrosinistra provocavano alle già precarie condizioni di vita dei ceti popolari. In tal modo Rifondazione Comunista è prima passata dall’anticapitalismo all’antiliberismo e poi anche quest’ultimo si è sempre più stemperato in una sorta di «liberismo progressista», secondo la felice espressione coniata dalla filosofa statunitense Nancy Fraser, una delle poche intellettuali capaci di coniugare il femminismo con il marxismo. Ecco, dal mio punto di vista, la vicenda del PRC rappresenta l’esempio negativo di tutto ciò che non dovrebbe essere fatto da un nuovo soggetto politico di classe che abbia l’ambizione di costituire un punto di riferimento per le classi popolari.
18 giugno 2024
Stefano Gallerini
Inserito il 19/06/2024.
Europa o l’impostura
di Giorgio Agamben
L’analisi e la drastica conclusione del filosofo Agamben sull’Unione europea («un patto fra stati» che «agisce oggi come una succursale della NATO») alla vigilia delle elezioni per il Parlamento europeo («non un vero parlamento»).
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Europa o l’impostura
di Giorgio Agamben
È probabile che ben pochi fra coloro che si apprestano a votare per le elezioni europee si siano interrogati sul significato politico del loro gesto. Poiché sono chiamati a eleggere un non meglio definito «parlamento europeo», essi possono credere più o meno in buona fede di star facendo qualcosa che corrisponde all’elezione dei parlamenti dei paesi di cui sono cittadini. È bene subito chiarire che le cose non stanno assolutamente così. Quando si parla oggi di Europa, il grande rimosso è innanzitutto la stessa realtà politica e giuridica dell’Unione europea. Che si tratti di una vera e propria rimozione, risulta dal fatto che si evita in tutti i modi di portare alla coscienza una verità tanto imbarazzante quanto evidente. Mi riferisco al fatto che dal punto di vista del diritto costituzionale, l’Europa non esiste: quella che chiamiamo «Unione europea» è tecnicamente un patto fra stati, che concerne esclusivamente il diritto internazionale. Il trattato di Maastricht, entrato in vigore nel 1993, che ha dato la sua forma attuale all’Unione europea, è l’estrema sanzione dell’identità europea come mero accordo intergovernativo fra Stati. Consapevoli del fatto che parlare di una democrazia rispetto all’Europa non aveva pertanto senso, i funzionari dell’Unione europea hanno cercato di colmare questo deficit democratico stilando il progetto di una cosiddetta costituzione europea.
È significativo che il testo che va sotto questo nome, elaborato da commissioni di burocrati senza alcun fondamento popolare e approvato da una conferenza intergovernativa nel 2004, quando è stato sottoposto al voto popolare, come in Francia e in Olanda nel 2005, è stato clamorosamente rifiutato. Di fronte al fallimento dell’approvazione popolare, che di fatto rendeva nulla la sedicente costituzione, il progetto fu tacitamente – e forse bisognerebbe dire vergognosamente – abbandonato e sostituito da un nuovo trattato internazionale, il cosiddetto Trattato di Lisbona del 2007. Va da sé che, dal punto di vista giuridico, questo documento non è una costituzione, ma è ancora una volta un accordo tra governi, la cui sola consistenza riguarda il diritto internazionale e che ci si è pertanto guardati dal sottoporre all’approvazione popolare. Non sorprende, pertanto, che il cosiddetto parlamento europeo che si tratta di eleggere non sia, in verità, un parlamento, perché esso manca del potere di proporre leggi, che è interamente nelle mani della Commissione europea.
Qualche anno prima il problema della costituzione europea aveva dato del resto luogo a un dibattito fra un giurista tedesco di cui nessuno poteva mettere in dubbio la competenza, Dieter Grimm, e Jürgen Habermas, che, come la maggior parte di coloro che si definiscono filosofi, era del tutto privo di una cultura giuridica. Contro Habermas, che pensava di poter fondare in ultima analisi la costituzione sull’opinione pubblica, Dieter Grimm ebbe buon gioco nel sostenere l’improponibilità di una costituzione per la semplice ragione che un popolo europeo non esisteva e pertanto qualcosa come un potere costituente mancava di ogni possibile fondamento. Se è vero che il potere costituito presuppone un potere costituente, l’idea di un potere costituente europeo è il grande assente nei discorsi sull’Europa.
Dal punto di vista della sua pretesa costituzione, l’Unione europea non ha pertanto alcuna legittimità. È allora perfettamente comprensibile che una entità politica senza una costituzione legittima non possa esprimere una politica propria. La sola parvenza di unità si raggiunge quando l’Europa agisce come vassallo degli Stati Uniti, partecipando a guerre che non corrispondono in alcun modo ad interessi comuni e ancor meno alla volontà popolare. L’Unione europea agisce oggi come una succursale della NATO (la quale NATO è a sua volta un accordo militare fra stati).
Per questo, riprendendo non troppo ironicamente la formula che Marx usava per il comunismo, si potrebbe dire che l’idea di un potere costituente europeo è lo spettro che si aggira oggi per l’Europa e che nessuno osa oggi evocare. Eppure solo un tale potere costituente potrebbe restituire legittimità e realtà alle istituzioni europee, che – se impostore è secondo i dizionari «chi impone ad altri di credere cose aliene dal vero e operare secondo quella credulità» – sono allo stato attuale nient’altro che un’impostura.
Un’altra idea dell’Europa sarà possibile solo quando avremo sgombrato il campo da questa impostura. Per dirla senza infingimenti né riserve: se vogliamo pensare veramente un’Europa politica, la prima cosa da fare è togliere di mezzo l’Unione europea –, o quanto meno, essere pronti per il momento in cui essa, come sembra ormai imminente, crollerà.
20 maggio 2024
Giorgio Agamben
(Tratto da: Giorgio Agamben, Europa o l’impostura, in «Quodlibet»).
Dei movimenti, della ragione e d’altro
Animus perverso
🔴 di Barbara Cipriani 🔴
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Animus perverso
Dalla fine degli anni ’80 ad oggi tra coloro che hanno continuato a sentirsi di sinistra, alcuni sono rimasti tra le file di un partito ma molti altri hanno preferito creare movimenti, condurre più specifiche battaglie, organizzare manifestazioni piuttosto che far parte di una formazione politica costituita.
I movimenti per la Pace hanno una storia lunga, ma anche concentrandoci solo sulla prima parte del nostro secolo, troviamo il movimento NO GLOBAL, i girotondi, le lotte per i diritti civili e della comunità LGBTQ+, per la parità di genere, contro la violenza sulle donne e il femminismo in generale; se rivolgiamo lo sguardo agli anni più recenti: il movimento delle Sardine, quello di Fridays for Future, quello in sostegno dei lavoratori della GKN, le occupazioni degli studenti. Come fenomeni sociali e non strettamente politici aggiungiamo anche i Gay Pride, il veganesimo, il vegetarianismo, l’animalismo in generale e tanti altri.
Senza voler in nessun modo togliere niente al valore di chi oggigiorno si mobilita e si attiva, a chi crede ancora nell’unione con gli altri come mezzo per raggiungere gli obbiettivi che ritiene giusti e accogliendo tutti quelli citati come sani segni di resistenza e fuoco vitale nelle coscienze – più prosaicamente “è tutto grasso che cola” con il vento che tira, – tuttavia individuiamo nel movimentismo dei limiti.
Il primo, presente in alcuni di questi fenomeni, è presto detto: hanno trovato la propria forza iniziale, aggregante e assolutamente legittima, nell’opporsi al governante di destra di turno e alla sua politica – i girotondi contro Berlusconi e in quel caso anche contro la «burocrazia di sinistra» (citaz. Nanni Moretti), le Sardine contro Salvini, – ma una volta esaurita quella spinta non sono stati capaci né di far tesoro del consenso né di costruire un soggetto propositivo e dialogante con la politica.
Ma è l’analisi di un altro limite del movimentismo degli ultimi 40 anni che ci appare più interessante e prodigo di riflessioni: ognuno vi conduce “la propria” battaglia, solo la propria, quella che lo riguarda più da vicino e nessun’altra.
I movimenti, i comitati, le associazioni potrebbero in fondo apparire come niente di più che una versione, anche se allargata e condivisa da più persone, dell’individualismo sempre più spinto verso cui persuade il soft power, in un’atomizzazione di interessi e obbiettivi politici ed esistenziali, alla fine dei conti solo deboli energie fintanto rimangono disperse e alienate da tutto il resto.
D’altronde sono lontani i tempi della contestazione studentesca del ’68 che si unì al movimento operaio e oggi è utopistico pensare che i giovani di Fridays for Future o quelli che occupano le scuole partecipino agli scioperi dei lavoratori della GKN e viceversa; ai nostri giorni i giovani comunisti che manifestano a fianco degli operai sono solo poche decine e non riescono a rimpolpare le loro fila.
Sembra mancare insomma una visione d’insieme e Don Milani, nella citazione che apre la nostra Homepage, suggerisce tutt’altro: «Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica». I problemi che viviamo quindi non sono affatto solo nostri, personali, distinti, ma al contrario collegati, tutti frutto di una matrice, o sistema che dir si voglia, che li contiene tutti.
Il mio problema è il capitalismo ma anche il patriarcato e l’omofobia
l’inquinamento e il riscaldamento globale ma anche le armi e il militarismo
la globalizzazione ma anche Giorgia Meloni e così via…
* * * * *
Le istanze dei movimenti, però, confermano prima di tutto che si è perso quasi completamente il senso di appartenenza a uno stesso partito politico e a una stessa classe sociale o lavorativa. In secondo luogo indicano che ciò che adesso mobilita non riguarda più solo l’homo economicus, ma parte da una visione, magari ancora atomizzata, ma più olistica dell’essere umano.
Non ci si aspetta più un cambiamento che venga dalla Politica di palazzo e il proprio impegno ha ristretto il campo nelle scelte di vita personali: tra i tanti esempi che si potrebbero citare, chi volontariamente e coraggiosamente lascia un “buon lavoro” – buono soltanto dal punto di vista salariale – ed esce da un sistema alienante per dedicarsi a un’attività in cui davvero senta di poter contribuire alla società, chi faticosamente promuove cultura, festival, chi contro ogni buon senso apre oggi una libreria, cerca di riattivare una sala cinematografica magari in periferia o in uno dei piccoli, innumerevoli paesini sparsi in tutta l’Italia, chi torna a vivere lì stanco di città diventate sempre più disneyland per turisti, chi attraverso il boicottaggio prova a indirizzare il mercato verso scelte eque, chi sviluppa senso critico nei giovani, tutta questa gente sta facendo politica oggi.
Fare politica. E tentare di avere una visione d’insieme e olistica dell’essere umano.
«È evidente che […] l’uomo è per natura animale politico. Perché la natura nulla fa invano: ora l’uomo, solo fra gli animali, ha il logos, la ragione. […] Questo è proprio degli uomini rispetto agli altri animali: l’aver egli solo il senso del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto» (Aristotele).
Il logos: il fondamento dell’equilibrio, la logica e il linguaggio, che poi si attuano nella conoscenza tutta, nella scienza, nella tecnica e nella matematica.
La ragione ci ha salvato dall’autodistruzione, almeno finora. Ci protegge dalle nostre derive, ci salva dalla depressione, dalle nostre ossessioni e nevrosi, filtra e frena le pulsioni.
Tuttavia la Storia passata e sempre più il mondo attuale ci stanno mostrando non soltanto che la ragione da sola non basta, ma che lasciata come unico criterio regolatore delle azioni umane sviluppa, nei secoli, versioni di sé sempre più perverse.
La sana volontà di emanciparsi e migliorarsi, nel mercato ultralibero e nel sistema capitalistico, diventa competizione senza quartiere. Il nostro sguardo corre subito alla società e mentalità statunitensi, in cui la competizione è presente in ogni aspetto e ogni momento della vita, fin dalla culla: scuole materne per futuri manager o, come minimo, piccoli geni in qualcosa, che fanno lievitare il prezzo degli immobili dove sorgono. Ma bando all’ipocrisia, allo spauracchio dell’Amerika, come se noi fossimo immuni da certe tendenze globali.
La lodevole voglia di un individuo di “crescere”, diventa perseguimento cieco e disumano dei propri fini senza scrupoli. I rapporti di lavoro si trasformano in semplici transazioni, solo i numeri contano, decide l’algoritmo.
Se l’uomo, per trarre le fonti del proprio sostentamento, ha sempre plasmato, sfruttato, usato la Terra, dalla meraviglia dei giardini, delle colline e dei campi coltivati, degli animali al pascolo, dove armoniosamente si incontrano la terra, la natura e il lavoro dell’uomo, ha poi prevalso lo spirito predatorio, avido, di nuovo semplice matematica e tecnica applicata alle attività umane – John Steinbeck docet, in The Grapes of Wrath, 1939. Per non parlare di quel che abbiamo fatto al mare.
Durante una guerra, chi la innesca, la sostiene ma soprattutto chi la combatte deve far scorrere liberi gli impulsi atavici di violenza e necrofilia, per resistere deve sospendere la propria lucidità e umanità. La diplomazia, l’intelligenza, il buon senso di sedersi allo stesso tavolo, venire a patti con chi odiamo nonostante tutto, sono frutto della ragione.
Avere come priorità assoluta e adoperarsi con ogni mezzo affinché si ponga termine subito alle stragi di vite più o meno innocenti non nasce però dalla ragione, ma va oltre di essa, muove da sentimenti a nostro avviso imprescindibili per la continuazione della nostra specie, quali la pietà e l’empatia.
Un mondo senza Anima. Siamo ancora in un mondo senza Anima, nell’accezione coniata da Carl Gustav Jung.
«Jung con Anima identificò l’immagine femminile presente nell’uomo, con Animus l’immagine maschile nella donna. In sostanza, secondo Jung, in ogni uomo esistono elementi “femminili” così come in ogni donna esistono elementi “maschili”, elementi che nello sviluppo della personalità devono essere portati a coscienza: l’uomo pertanto deve diventare conscio della propria Anima e la donna conscia del proprio Animus» (Cristina Bisi).
Solo così si attuerà il processo d’individuazione.
Questa intuizione junghiana fornisce a nostro avviso una delle chiavi di lettura per chi ancora oggi, nonostante tutto, voglia fare politica, contribuire nella direzione di una società più giusta, della cura del Pianeta e di un’esistenza umana più felice; questi tre obbiettivi, non solo non sono separati ma al contrario conditio sine qua non l’uno dell’altro.
L’archetipo dell’Anima spazza via con un sol colpo la guerra tra i generi, regalando tutt’altra prospettiva. Appare inoltre attualissima ai giorni nostri dove le nuove generazioni sono molto più sensibili di quelle precedenti ai temi della fluidità di genere.
A nostro avviso può costituire la base di una vera rivoluzione culturale. Prima che l’Animus perverso ci porti all’estinzione.
Barbara Cipriani
Inserito il 3/3/2023.
Elly Schlein, segretaria del Partito Democratico.
L’esito delle “primarie”
PD Mutant Chronicles
🔴 di Sandro Pollini 🔴
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PD Mutant Chronicles
Parte prima
Partendo dalla fine
Elly Schlein è diventata segretaria del PD vincendo le primarie aperte, ovvero con i voti dei simpatizzanti non iscritti. Nelle sezioni aveva infatti prevalso Bonaccini. A prescindere dal giudizio che si dà sui due candidati, è qualcosa che dovrebbe fare riflettere.
Personalmente ho sempre avuto una feroce ostilità verso lo strumento delle primarie, che considero una modalità non democratica ma plebiscitaria (e sono due concetti molto diversi): si chiamano le masse a scegliere un leader, senza alcuna discussione su idee, programmi, prospettive per il futuro. In pratica è il “crucifige”: Gesù o Barabba, dopo di che si torna a fare altro fino alla prossima occasione.
Si potrebbe obiettare che i candidati propongono idee diverse (almeno apparentemente e in parte) su ciò che il partito dovrebbe essere e fare, ma su queste non vi è alcuna discussione. Al confronto i vetusti congressi di partito, con i loro mille difetti, erano un bijoux di democrazia. Quanto meno, almeno nei miei 25 anni di traversata in Rifondazione, ci si confrontava su documenti che proponevano analisi anche molto articolate sulle principali questioni italiane e internazionali e proposte diverse per la propria organizzazione. Documenti di solito emendabili dai loro sostenitori. Non mancavano certo i trucchetti della burocrazia ma la maggior parte dei congressi dei circoli era vera e la discussione spesso interessante.
Peggio che mai le primarie aperte, dove in nome di un'idea veramente bislacca di democrazia vota chi passa per strada. Il ribaltamento del risultato del voto degli iscritti da parte del “voto dei gazebo” è paradossale: i membri effettivi di un’organizzazione vengono scippati della potestà di decidere chi quell’organizzazione la deve guidare, lo decidono persone esterne ad essa. Credo che anche gli iscritti di una bocciofila avrebbero da ridire in merito.
Proprio questo elemento, ovvero il fatto che la Schlein abbia vinto grazie al voto "aperto", è un’altra cosa che dovrebbe far riflettere. La neosegretaria simboleggiava una volontà di cambiamento e perfino di rottura (a mio avviso non lo è ma era largamente percepita come tale). Orbene, il risultato ci dice che la voglia di cambiamento prevale tra i simpatizzanti del PD ma non tra gli iscritti (che hanno votato in prevalenza Bonaccini). Ammesso e non concesso che la Schlein sia davvero portatrice di una proposta di cambiamento radicale delle politiche del PD (ripeto che per me non lo è) questo pone un’enorme ipoteca sulle possibilità concrete che riesca davvero a metterla in atto.
Parte seconda
Ovvero, come passare dal proletariato al capitale e vivere felici
È possibile indurre un’organizzazione politica a cambiare la propria natura fino a diventare qualcosa di completamente diverso o addirittura opposto a ciò che è stata fin dalla sua nascita? Per tentare di capire quanto la Segreteria Schlein possa produrre un cambiamento reale nel Partito Democratico, è necessario rispondere innanzitutto a questa domanda.
Le caratteristiche di un gruppo dirigente hanno naturalmente un peso nell’orientare il partito che si trovano a guidare ma questo peso è bilanciato dalla natura profonda di quell’organizzazione che può essere modificata solo in parte e solo fino a un certo punto della sua storia.
Nel caso specifico, a prescindere dal giudizio sulle qualità politiche di Elly Schlein (e il mio non è particolarmente lusinghiero), è assai improbabile che il PD possa diventare qualcosa di significativamente diverso da ciò che è, per il semplice fatto che quel partito è il frutto di una mutazione genetica che lo rende a mio avviso irriformabile.
Per comprendere nel dettaglio come si è passati dal più grande partito comunista d’Occidente a un partito alfiere del libero mercato imposto sulla punta delle baionette, delle privatizzazioni, delle guerre della NATO, dovremmo risalire molto indietro nel tempo, analizzare il ruolo dello stalinismo in salsa togliattiana, quello di Berlinguer e su su fino ad oggi. Per non rendere questa modesta riflessione infinitamente più lunga di quanto già non sarà, limitiamoci a tornare al momento dello scioglimento del PCI.
Quando alla fine del 1989 l’allora segretario comunista Achille Occhetto propose di cambiare nome e identità politica al partito che guidava, si intravedeva già quale sarebbe stata la parabola della nuova formazione. La piattaforma della maggioranza moderata del PCI non si limitava a prendere atto di un dato oggettivo, ovvero che ad onta del nome e dell’iconografia il Partito Comunista Italiano era già da un pezzo, nei fatti, niente di più di un onesto partito riformista socialdemocratico. Non si voleva semplicemente far sì che il nome fosse una conseguenza della cosa, si andava molto oltre. Era evidente già allora (perfino a un giovane inesperto appena affacciatosi alla militanza politica come ero io a quel tempo) che la proposta di Occhetto rompeva completamente con l’intera cultura politica del movimento operaio, compresa quella riformista.
Non era un caso che il nuovo nome che sarebbe stato adottato, Partito Democratico della Sinistra, non contenesse alcun riferimento al socialismo nemmeno nella sua variante socialdemocratica.
L’idea era già quella di fondare un partito liberal all’americana, genericamente progressista, che magari nell’idea originaria di Occhetto avrebbe dovuto avere un profilo un po’ più netto, un po’ meno subalterno all’ideologia dominante di quanto poi non avvenne ma in ogni caso estraneo alla tradizione del movimento operaio degli ultimi 150 anni considerata in blocco come non più utilizzabile. L’attuale Partito Democratico non è che il frutto più coerente e maturo di quel percorso.
Un’etichetta molto in voga sui media mainstream per definire il PD è “sinistra delle ZTL”. Volendo usare una definizione meno banalmente giornalistica e più scientifica dovremmo dire che il PD è un partito compiutamente borghese: le politiche liberiste e anti-operaie che ha sempre portato avanti non sono state il frutto di errori ai quali porre rimedio con un cambio al vertice ma di scelte coerenti con il suo essere il rappresentante degli interessi di un settore delle classi dominanti del nostro paese. Allo stesso modo, l’atlantismo guerrafondaio non è che una conseguenza della natura di classe del PD: a un certo stadio di sviluppo di un’economia capitalista, la difesa degli interessi borghesi non può più limitarsi all’interno dei confini nazionali, richiede politiche imperialiste all’estero. E l’Italia, con buona pace dei sovranisti di pseudo sinistra, non è una “colonia americana”, è un paese imperialista. Certo, è un imperialismo debole e in certa misura subalterno a quelli più potenti, USA in primis. Ma è comunque un paese imperialista.
Per queste ragioni, la stessa categoria di “sinistra” non è più applicabile in alcun modo al Partito Democratico.
Per almeno un secolo e mezzo, con il termine “sinistra” si sono identificati quei partiti che rappresentavano, o aspiravano a rappresentare, sul terreno politico gli interessi della classe lavoratrice, il lavoro contrapposto al capitale. Sul piano teorico, il riferimento erano le idee socialiste nelle loro diverse declinazioni, più moderate o più radicali a seconda dei partiti e dei loro dirigenti. Lenin diceva, più o meno, che i dirigenti riformisti erano gli agenti della borghesia nel movimento operaio. Continuo a credere che avesse ragione, in ultima analisi, ma almeno sulla carta (nella pratica era un altro paio di maniche) anche quegli “agenti della borghesia” condividevano con l’ala rivoluzionaria due punti di vista ben precisi:
1. Una visione di classe della società, ovvero la convinzione che le società capitaliste sono divise in classi con interessi contrapposti e quindi la Socialdemocrazia doveva essere il partito dei lavoratori, non dei cittadini genericamente intesi. Nell’ottica riformista si doveva comunque ricercare un compromesso che mettesse d’accordo tutti e i compromessi finivano con l’essere spesso al ribasso ma che si partisse da punti di vista e da interessi contrapposti non era pacifico solo per Lenin e Trockij, lo era anche per i riformisti.
2. Conseguentemente a quanto sopra, anche l’ala riformista del movimento operaio aveva una visione critica del capitalismo. Rifiutava la prospettiva della rivoluzione, rimandava il programma massimo, ovvero il socialismo, a un futuro lontano e indefinito, una sorta di Regno dei Cieli che sarebbe arrivato un giorno non si capiva bene come e quando, confidando che con la forza parlamentare dei partiti socialisti e quella sociale dei sindacati si sarebbe potuto cambiare la società poco alla volta, riforma dopo riforma, fino a ritrovarsi magicamente, in modo quasi omeopatico, in un mondo tutto diverso. Nel fare questo, i riformisti finivano col diventare davvero gli “agenti della borghesia” secondo la definizione leniniana, ma non consideravano certo il capitalismo come la fine della storia umana né il libero mercato la panacea di tutti i mali.
Era ciò che consentiva a un Eduard Bernstein e a una Rosa Luxemburg di stare nello stesso partito.
Di tutto questo nell’attuale Partito Democratico non c’è e non c’è mai stato niente. Per queste ragioni ritengo impossibile che la natura profonda di questo partito possa essere mutata da un cambio di segretario. Peraltro Elly Schlein, per quello che ho avuto modo di leggere in merito alle sue proposte e alla sua biografia, non è affatto la pericolosa estremista che dipingono i Renzi, i Calenda e compagnia cantante. È anche lei una “liberal”, solo un po’ più combattiva e avveduta del dirigente medio piddino. D’altronde, da ragazza era andata negli Stati Uniti per fare campagna per Barack Obama, non esattamente una cosa da bolscevichi.
Chi spera quindi in una rigenerazione del Partito Democratico in una forza pur sempre riformista ma con un profilo perlomeno laburista di sinistra è destinato a subire l’ennesima delusione.
A questo punto so già che cosa si stanno domandando i miei 25 lettori. Vorreste che spendessi due parole su che cosa dovremmo fare noi, su come costruire un’alternativa di sinistra ai partiti borghesi che occupano ormai l’intero spettro parlamentare, sui mille errori e gli altrettanti difetti della sinistra anticapitalista che sta fuori dalle istituzioni. È vero, sarebbe necessaria una approfondita riflessione in merito. Ma a parte che non sono Gramsci né Trockij, sono solo un bischero qualsiasi, ma poi… che devo fare tutto io?
Sandro Pollini
(Intervento tratto dalla pagina Facebook dell’autore, 1/3/2023).
Inserito il 2/3/2023.
“Der Spiegel”
Aveva ragione Marx?
Perché il capitalismo così com’è non funziona più. E come si può rinnovare
Pubblichiamo un articolo del settimanale tedesco che ha avuto vasta risonanza. Ci basiamo sulla traduzione che ne dà la rivista “Internazionale”, ma ripristinando e riadattando alcune piccole parti mancanti. Seguiranno commenti a mo’ di dibattito sul tema, a partire da una breve analisi di Marxpedia.
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Aveva ragione Marx?
Da qualche tempo si ha l’impressione che la mattina, nella sua villa di duemila metri quadrati, Ray Dalio legga Il capitale di Karl Marx invece del “Wall Street Journal”. «Il capitalismo così com’è non va più bene per la maggioranza delle persone», dice Dalio. Finora il fondatore del Bridgewater Associates, il più grande fondo speculativo del mondo, non poteva certo essere sospettato di avere simpatie socialiste: ha un patrimonio stimato in ventidue miliardi di dollari e il suo saggio I principi del successo (Hoepli 2018), che ha venduto due milioni di copie, è una lettura obbligatoria per chiunque voglia fare l’investitore. Eppure, sul capitalismo oggi Dalio ha idee di questo tipo: «Esagerando con le cose buone, si rischia di farle implodere. Se le cose non si trasformano si autodistruggono». Ormai la ricchezza è distribuita in una sola direzione e i poveri restano poveri. Di pari opportunità quasi non c’è più traccia. Secondo Dalio, il capitalismo ha bisogno di riforme profonde. Altrimenti soccomberà. E sarà giusto così.
Il fatto che di punto in bianco miliardari come Dalio sembrino fan di Karl Marx ci dice molto sullo stato del mondo in cui viviamo.
La critica del capitalismo non è una novità, ma ora, mentre comincia il quarto anno di pandemia e il secondo di guerra in Ucraina, si sta diffondendo. Ci sono troppe cose che non funzionano più: insieme alla globalizzazione sta andando in frantumi anche il modello di crescita economica tedesco e, mentre il mondo si trincera in blocchi contrapposti, l’inflazione aumenta il divario tra ricchi e poveri, la quasi totalità degli obiettivi climatici non è stata raggiunta e la politica non riesce a riparare le continue crepe del sistema. Da più parti s’invoca un nuovo ordine economico. E spesso questa richiesta arriva da fonti insospettabili. Il “Financial Times”, portavoce internazionale dei mercati finanziari, ha annunciato che per il neoliberismo è arrivato il momento di uscire di scena: ora tocca allo stato. I grandi gruppi, dalla Bosch a Goldman Sachs, discutono dell’opportunità di privilegiare finalmente gli interessi della collettività rispetto a quelli degli azionisti.
Gli intellettuali d’avanguardia e i pensatori pragmatici – nei governi e nelle aziende – pongono spesso una questione di fondo importante: è possibile andare avanti mantenendo l’ordine economico attuale, quello di un capitalismo che distrugge l’ambiente, pretende un aumento continuo di consumi, profitti e crescita, e moltiplica le ingiustizie?
La questione era già stata sollevata nel 1972 dal Club di Roma (un’associazione per l’analisi dei principali problemi mondiali composta da scienziati, economisti, imprenditori, attivisti dei diritti civili e politici), ma la discussione che ne è scaturita è stata a lungo di natura esclusivamente teorica o, meglio, ideologica. Sembrava di ascoltare esponenti della gioventù socialista o dei verdi radicali. Ora, invece, molti segnali indicano che il capitalismo – almeno quello degli ultimi 50 o 60 anni – si è lasciato alle spalle la sua età dell’oro.
Insomma, sembra necessaria una svolta epocale. Un’altra ancora? La sola parola ha su molti un effetto scoraggiante: no, grazie, meglio continuare a navigare a vista. Eppure la prospettiva può essere cambiata in senso positivo: finalmente abbiamo un’occasione reale di dar vita a un capitalismo più equo e sostenibile.
In passato, il capitalismo industriale ha assicurato livelli di benessere e crescita tali da rendere praticamente impossibile imporre nuove proposte sul modo di produrre, lavorare e redistribuire. La storia dimostra che, finché il sistema produce un numero sufficiente di vincenti, si è disposti ad accettare perfino le sue storture più evidenti.
Ma ormai le debolezze del sistema sono così evidenti che non c’è più bisogno di scomodare Marx o l’economista francese Thomas Piketty (Il capitale nel XXI secolo): la globalizzazione è fuori controllo, la ricchezza finisce quasi per intero in tasca al 10 per cento più ricco della popolazione, il consumo irresponsabile delle risorse rovina il pianeta e la finanza si abbandona a eccessi continui.
Adam Tooze, storico dell’economia britannico, riassume così la situazione: «Benvenuti nel mondo della policrisi». Uno dopo l’altro si susseguono enormi problemi collegati tra loro: la crisi energetica, lo scontro commerciale tra Cina e Stati Uniti, il rischio di una guerra mondiale, l’attacco dei populisti e dei leader autoritari alla democrazia.
Fino a poco tempo fa, per tutti questi problemi sarebbe stata proposta una sola soluzione: ci penserà il mercato. Oggi che ci crede più? Soprattutto alla luce del grande moltiplicatore di tutte le storture del sistema: la crisi climatica.
Di sicuro non ci crede più la maggior parte dei giovani. Nei paesi industrializzati cresce da anni una rabbia contro il capitalismo che non è di natura ideologica ma è riconducibile piuttosto all’esplosione del costo degli affitti e al fatto che comprare casa è ormai impensabile. Perché si dovrebbe accettare una macchina della prosperità che consuma risorse, ma non è più in grado di garantire benessere a tutti? Allora meglio lavorare solo quattro giorni alla settimana.
In Giappone, un giovane professore di filosofia è diventato una star grazie alla sua critica ecologica del capitalismo basata su Marx. Kohei Saito afferma che già 150 anni fa Marx aveva individuato i pericoli a cui è esposto il pianeta: ora è il momento di prendere sul serio le sue proposte e fermare la crescita, passando a una distribuzione più equa della ricchezza esistente.
Di idee per un ordine economico più giusto e sostenibile, ma comunque basato sul mercato, ne circolano tante. Arrivano dagli schieramenti ideologici più diversi, eppure hanno un tratto in comune: meno mercato, più stato e meno crescita. Salta all’occhio il fatto che dietro ci sono spesso delle donne. Un ordine mondiale più femminile non sarebbe male.
I. Perché ai millennial piace di nuovo Marx
La ricerca di una vita rispettosa del clima e libera dallo stress
Gli ultimi 30 anni sono stati fantastici, penserete. Tra il 1995 e il 2019 i redditi delle famiglie tedesche sono aumentati del 25 per cento. Anche quella dell’economia è stata una storia di crescita costante con qualche piccola interruzione. Nel complesso, in tutti i paesi industrializzati dell’Occidente si è andati sempre e solo avanti. Cifre e dati sembrano dimostrare che, a conti fatti, il capitalismo moderno funziona bene.
Ma allora perché non si sentono gli applausi? È soprattutto tra i giovani sotto i trent’anni che emergono emozioni completamente diverse: frustrazione, rassegnazione rabbia. E un ritrovato amore per le idee socialiste. Negli Stati Uniti il 49 per cento di chi ha tra i 18 e i 29 anni ha un’opinione positiva del socialismo. La deputata democratica Alexandria Ocasio-Cortez, 32 anni, che si definisce una socialista democratica e vuole una tassa del 70 per cento sui redditi più alti, è una star che ha più di 20 milioni di follower sui social network. Secondo un sondaggio realizzato per “Der Spiegel” dall’istituto demoscopico Civey, quasi metà dei tedeschi ritiene che sia stato il capitalismo a causare la crisi climatica nel mondo.
Il britannico “Economist” ha scritto che «il socialismo sta tornando alla carica», perché fornisce critiche puntuali a tutto ciò che è andato storto nelle società occidentali. E non è poco quel che è andato storto, osserva Carla Reemtsma, 24 anni, portavoce di Fridays for Future in Germania.
«Nessun paese al mondo è riuscito ad aumentare il pil e allo stesso tempo ridurre il consumo di risorse naturali», dice Reemtsma. A lei e a molti suoi coetanei non stanno a cuore tanto le singole questioni politiche, quanto il quadro generale: «Vogliamo una trasformazione profonda del sistema, che renda possibile una vita migliore per tutti e non solo per pochi».
Quando le chiedono che cosa intenda dire con questo, Reemtsma aggiunge: «Noi come società dovremmo di nuovo occuparci delle cose in modo collettivo. Un esempio il traffico: invece di sovvenzionare l’acquisto di auto, lo stato dovrebbe incentivare il car sharing, potenziare le ferrovie e le piste ciclabili. Insomma, dovrebbe fare cose da cui tutti possano trarre beneficio». Secondo Reemtsma, un esempio positivo è il biglietto di 9 euro per la rete ferroviaria e per il trasporto locale che il governo tedesco ha istituito quest’anno durante i tre mesi estivi: pensato come misura sociale redistributiva, era una buona idea anche dal punto di vista ambientale.
Reemtsma studia economia delle risorse a Berlino e non crede ai principi della crescita e della massimizzazione dei profitti. Immagina «un’economia orientata al bene comune», sostenuta da una politica più attiva: «Quando affidiamo la tutela del clima al mercato, creiamo un problema sociale».
Reemtsma non condivide l’argomentazione degli imprenditori secondo cui gli alti costi necessari per una produzione più sostenibile metterebbero a repentaglio posti di lavoro: «Anche se realizzano profitti enormi, le case automobilistiche affidano le mansioni più semplici a lavoratori precari, che poi subiscono il dumping salariale». Che le aziende si preoccupino del benessere dei lavoratori, «ecco, io questa cosa non la vedo proprio».
Possiamo considerare tutto questo semplicemente idealismo giovanile o attivismo di sinistra? Glenn Hubbard, professore di economia finanziaria alla Columbia Business School e in passato capo dei consulenti economici del presidente degli Stati Uniti George W. Bush, si esprime in modo molto simile: «Per avere successo nel lungo periodo un sistema economico deve migliorare il tenore di vita del maggior numero di persone possibile. Non sembra che il capitalismo attuale abbia ampi margini per aumentare il benessere collettivo». Invece produce ricchezza per pochi.
Secondo il Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung (DIW, istituto per la ricerca economica), il 10 per cento più ricco della popolazione tedesca possiede più di due terzi della ricchezza nazionale, mentre la metà più povera è costretta ad accontentarsi dell’1,3 per cento. Anche per quanto riguarda la crescita dei redditi il divario si allarga: tra il 1995 e il 2019 il potere d’acquisto del 10 per cento più povero dei tedeschi è aumentato appena del 5 per cento, mentre il 10 per cento più ricco ha registrato un aumento del 40 per cento.
A questo si aggiungono tendenze a lungo termine da cui soprattutto le generazioni più giovani ricavano l’impressione che, per quanti sforzi facciano, è ormai impossibile far parte di coloro che raggiungono il successo. L’esplosione dei prezzi degli affitti rende proibitiva la vita nelle città. I giovani rischiano di dover prolungare la loro carriera lavorativa e allo stesso tempo veder diminuire le pensioni. Secondo un sondaggio, per tre quarti dei tedeschi tra i 18 e i 32 anni la riduzione delle pensioni è un motivo di preoccupazione: perché lavorare tanto se alla fine ci si ritroverà con un pugno di mosche in mano? La promessa delle generazioni precedenti – migliorare la propria condizione e raggiungere il benessere – appare ormai irrealizzabile.
Negli Stati Uniti la situazione è ancor più drammatica, dice Ray Dalio. Per decenni la maggior parte dei redditi è rimasta praticamente ferma, mentre dal 1980, cioè dall’inizio dell’epoca neoliberista moderna, i redditi dell’1 per cento più ricco della popolazione sono quasi triplicati. Per risolvere il problema, Dalio ha una proposta: «Redistribuzione».
A 11.000 chilometri di distanza dal quartier generale di Dalio vicino a New York, Kohei Saito, seduto in un piccolo studio all’Università di Tokyo, ancora si stupisce di ciò che il suo libro ha scatenato tra i giovani giapponesi. Saito, 35 anni, si considera parte di una generazione «fortemente influenzata dallo shock della crisi economica e dell’incidente nucleare di Fukushima». Fin da quand’era studente, ha cercato di riflettere su questi due aspetti: l’ordine economico e la distruzione dell’ambiente. Ed è approdato a Karl Marx.
«In effetti Marx si è occupato molto più di quanto non si pensi delle conseguenze ambientali del capitalismo», osserva Saito, che a questo argomento, nel 2016, ha dedicato la sua tesi all’Università Humboldt di Berlino: Natura contro capitale. L’ecologia di Marx nella sua critica incompiuta del capitalismo.
La tesi ha suscitato un certo scalpore tra gli addetti ai lavori. Ma è stato ancora più stupefacente il fatto che alla fine del 2020 Saito ha scritto un libro su una nuova forma di ecosocialismo, interpretando la crisi climatica come «una manifestazione della produzione capitalista» in termini marxiani. Il collasso del pianeta potrà essere fermato solo da un sistema postcapitalista senza più crescita, in cui la produzione rallenta e la ricchezza è redistribuita in modo mirato.
Intanto in Giappone il suo Capitale nell’antropocene ha venduto più di mezzo milione di copie, una cifra raggiunta di solito da libri come Harry Potter. Il suo libro sarà presto pubblicato in inglese e in tedesco. Da quando la tv pubblica NHK ha dedicato all’interpretazione di Marx data da Saito un documentario in quattro puntate, nelle librerie di Tokyo le opere del filosofo tedesco – incluso Il capitale in versione manga – hanno una popolarità sorprendente. Perfino il premier giapponese Fumio Kishida ora promuove un «aggiornamento del capitalismo a una versione più sostenibile».
Saito spiega il successo del suo libro con il fatto che in Giappone i suoi coetanei fanno da tempo i conti con l’instabilità economica e gli «eccessi della globalizzazione». Sono aperti all’idea di un new way of life (un nuovo modo di vivere). Tutte le misure neoliberiste che promuovono la crescita, dalla deregolamentazione ai tagli allo stato sociale, si sono lasciate alle spalle divisioni sociali e instabilità. «Tra le giovani generazioni molti si chiedono perché mai dovrebbero continuare così, impostando la loro vita in base al lavoro, al guadagno e al consumo», dice Saito.
La pandemia ha segnato una svolta: all’improvviso le abitudini sociali sono cambiate e molte persone, invece di andare in ufficio, sono rimaste a casa con la famiglia. L’appello di Saito per una cultura marxista della decrescita, con orari di lavoro ridotti e più attenzione a lavori meno orientati al profitto e con maggiore utilità sociale, come l’assistenza agli anziani e ai malati, ha centrato lo spirito dei tempi.
Ma davvero Marx, che ha scritto la sua critica del capitalismo 150 anni fa, quando ancora sferragliavano le macchine a vapore, è in grado di fornire risposte all’altezza dell’attuale crisi ambientale? Secondo Saito, le risposte del filosofo sono in ogni caso migliori di quelle dei politici contemporanei, che vendono come soluzione degli obiettivi di sostenibilità meno vincolanti. «Questo non è altro che il nuovo oppio per le masse. Le persone devono essere rassicurate».
II. Tutto il potere allo Stato
La fine del neoliberismo e come l’economista preferito del governo federale vuole costruire un’economia verde
Il quotidiano conservatore britannico “The Times” una volta ha definito Mariana Mazzucato «l’economista più temibile al mondo». Di certo non voleva essere un complimento: è ovvio che chi propone di spodestare i mercati e la finanza per mettere lo stato alla guida dell’economia si faccia dei nemici, tanto più se si tratta di una donna intelligente che sa quel che dice.
Mazzucato non si scompone. Anzi: essere preceduta da questa fama non è un problema, soprattutto per una persona che dialoga continuamente con capi di stato e di governo del calibro del presidente statunitense Joe Biden o del cancelliere tedesco Olaf Scholz.
Mazzucato non solo viaggia, attualmente sta facendo il giro del mondo. A dicembre è stata in Venezuela per una consulenza al presidente del paese sudamericano, poi ha partecipato a vari incontri della conferenza mondiale sul clima in Egitto, e infine è tornata per l’ennesima volta a Berlino. Di corsa è anche la conversazione che si fa con lei: veloce, serrata, avanti con le domande.
Italoamericana nata a Roma e cresciuta negli Stati Uniti, Mazzucato ha energie da vendere: così è diventata l’economista più influente del mondo. Tanti governi si rivolgono a lei perché li aiuti a stilare i green new deals, cioè i piani per ristrutturare in senso ecologico il sistema economico e industriale. L’SPD di Berlino ha incluso le sue idee nella sua campagna elettorale. Il ministro federale dell’Economia Robert Habeck ha regolari scambi d’opinione con lei.
Questo è a dir poco stupefacente. Negli ultimi decenni la maggior parte degli economisti e dei governi occidentali aveva le idee piuttosto chiare sulle gerarchie economiche mondiali: la rotta era decisa dal mercato. Quanto allo stato, era considerato un disturbo, e più restava fuori dai giochi, meglio era.
Mazzucato sostiene l’esatto contrario: da solo, il mercato non ha nessuna speranza di vincere le sfide del ventunesimo secolo, soprattutto quella della crisi climatica. Le aziende non hanno buona volontà, stimoli e visione d’insieme. «Lo stato deve indirizzare e imporre obiettivi di rilievo», dice Mazzucato, deve fissare degli obiettivi sociali e concentrarvi tutte le forze. Per arrivare a un’economia a emissioni zero bisogna cambiare l’intero sistema economico, «dal modo in cui costruiamo a ciò che mangiamo e a come ci muoviamo». Se è possibile, nel giro di un anno, far apparire dal nulla impianti di rigassificazione perché lo vuole il governo, perché non dovrebbe essere possibile fare lo stesso con una nuova industria dell'energia solare e con 10.000 nuove turbine eoliche?
Mazzucato ha 54 anni e da venticinque insegna economia, attualmente all’University College di Londra. Grazie ai suoi studi sull’innovazione ha vinto numerosi premi. Quando sentono il suo nome, molti economisti alzano gli occhi al cielo, magari citando la famosa frase di Milton Friedman, premio Nobel per l’economia: «I grandi progressi della civiltà non sono mai arrivati da un governo centrale». La citazione, però, è del 1962, e poi Mazzucato non ha in mente né un’economia pianificata di stampo socialista né una politica industriale in cui la gestione delle aziende è in mani ai funzionari ministeriali.
I suoi sono obiettivi ambiziosi: come lo fu la missione sulla Luna da realizzare in dieci anni decisi a suo tempo dal governo americano. Ma, per raggiungere traguardi di tale portata, bisogna innanzitutto liberarsi della vecchia narrazione secondo cui lo stato serve solo a correggere i fallimenti del mercato. Ancora oggi ci si comporta come se di fatto fosse impossibile imprimere uno scopo e una direzione al capitalismo.
Ma come si fa? «È semplice, – spiega Mazzucato, – non bisogna limitarsi a indirizzare cautamente aziende e settori industriali in una certa direzione, bisogna obbligarli». L’idea di incentivi come la tassa sull’anidride carbonica è buona, ma vuoi mettere l’obbligo per legge di usare esclusivamente cemento “verde”, magari compensato da aiuti economici all’industria? E poi i governi potrebbero vincolare gli aiuti di stato a una riduzione delle emissioni delle aziende, come ha fatto la Francia per i prestiti ad Air France durante la pandemia o per gli aiuti alla Renault.
Ma di misure simili ce ne sono troppo poche. Secondo Mazzucato la colpa è di un «grande errore nel disegno» del moderno shareholder capitalism (capitalismo azionario, basato sulla massimizzazione degli utili), che consente ai gruppi industriali di reinvestire i profitti non nell’innovazione ma nelle speculazioni e nel riacquisto di azioni proprie, a esclusivo vantaggio degli investitori. Mazzucato si agita visibilmente su questo argomento. Per questo anno, le sole società statunitensi hanno annunciato che investiranno circa un trilione di dollari in riacquisti di azioni invece di investirli in nuovi prodotti sostenibili. Per Mazzucato «è una follia».
Lei vorrebbe uno stato investitore che spinga le aziende a puntare su obiettivi di ampio respiro. E il progetto che il ministro tedesco dell’Economia Robert Habeck ha presentato all’inizio di dicembre sembra provenire direttamente dal manuale di Mazzucato. Da quest’anno lo stato siglerà con l’industria i cosiddetti «patti di tutela climatica»: per un periodo massimo di 15 anni rimborserà i costi extra sostenuti da chi, nonostante le spese maggiori, si convertirà a una produzione verde. La misura è pensata soprattutto per spingere l’industria dell’acciaio, quella chimica, quella del cemento e quella del vetro verso un modello sostenibile. Quando le chiediamo che ne pensa, Mazzucato annuisce soddisfatta: «La strada è questa». Anche nelle aziende che si sono a lungo opposte a un intervento pubblico lentamente viene meno il riflesso condizionato che imponeva di tenere a distanza lo stato: le sfide sono semplicemente troppo grandi per affrontarle da soli. Per realizzare una svolta ecologica, osserva per esempio Martina Merz, amministratrice delegata della ThyssenKrupp, sono «irrinunciabili gli strumenti di sostegno statali».
Sembra proprio che l’esperienza pluridecennale neoliberista sia arrivata al capolinea. Nei primi anni Ottanta tutti gli schieramenti politici condividevano l’idea che i mercati da soli potessero garantire la migliore gestione dell’economia. Negli Stati Uniti l’avanguardia ideologica del neoliberismo è stata incarnata dal presidente repubblicano Ronald Reagan, ma la deregolamentazione e la globalizzazione sono state portate avanti nel modo più radicale dal presidente democratico Bill Clinton, e in Germania dal cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder.
L’effetto diretto di decenni di mercati senza controllo è stata la crisi finanziaria del 2008, che ha segnato anche l’inizio della fine del neoliberismo. Gli enormi interventi statali che hanno salvato l’economia dal collasso «dovevano essere interpretati come segnali di un nuovo ordine che avrebbe sostituito il neoliberismo», spiega Tooze. E il colpo di grazia potrebbe essere stata la pandemia: ancora una volta, per impedire il peggio, sono dovuti intervenire i governi. «È impossibile non accorgersi di essere arrivati a un punto di svolta».
Ciò aprirebbe la strada a una politica di bilancio basata sugli obiettivi, come la definisce Mazzucato. A partire dagli anni Ottanta il pareggio di bilancio è stato un fine in sé per gli Stati Uniti e il Regno Unito, e ancora di più per la Germania, con il suo freno all’indebitamento. «Ora, però, Berlino ha stanziato 190 miliardi di euro per sostenere l’economia, mentre durante la pandemia gli Stati Uniti hanno speso cinquemila miliardi di dollari», racconta Mazzucato. «Perché i soldi escono fuori di colpo solo nelle emergenze? Mentre quando si tratta di questioni sociali importanti, come la sanità e l’ambiente si dice: è impossibile, bisogna tenere sotto controllo il debito pubblico».
III. Senza crescita si può?
Le aziende dicono addio al valore per gli azionisti
Parlare di crescita zero nel quartiere finanziario di Londra sembra un’eresia: qui ogni edificio ospita un fondo d’investimento, e per strada si affrettano indaffarati banchieri in gessato e cravatta. In una piovosa giornata inglese di novembre, Tim Jackson guarda questa scena con un sorriso stanco. Non crede molto nella necessità di individuare per forza un nemico, anche se lui stesso si presta bene a ricoprire questo ruolo.
Economista, filosofo, professore alla University of Surrey, più di dieci anni fa Jackson ha scritto Prosperità senza crescita (Edizioni Ambiente 2017), una pietra miliare nella critica moderna al capitalismo. In questo saggio descrive l’economia come un sistema che «per sua natura deve far affidamento sulla presunta voracità dei bisogni umani, nella costante attesa di una crescita continua dei consumi». Il capitalismo insinua che l’essere umano è inevitabilmente portato a desiderare sempre di più: più soldi, più proprietà e altro ancora. Di più, di più, di più.
In realtà sono tutte stupidaggini, dice Jackson. Solo gli economisti credevano che questo fosse l’unico modello possibile. «La buona notizia è che per ottenere la prosperità non serve alcun cambiamento radicale della natura umana». La cattiva notizia, invece, è che «il nostro modello economico è totalmente sbagliato».
Questi ragionamenti Jackson li aveva esposti al governo britannico già nel 2009. Alla domanda se davvero un paese moderno dovesse essere così asservito all’idea di una crescita costante, Jackson rispondeva di no. «Non la presero bene», racconta: il premier dell’epoca, il laburista Gordon Brown, affossò il suo studio.
Oggi però la questione è più attuale che mai: per evitare il collasso economico e la fine della prosperità è davvero necessaria un’espansione infinita in questo nostro mondo finito? A questa domanda l’economia classica generalmente rispondeva con un sì entusiasta. In assenza di crescita le aziende sono costrette a risparmiare licenziando e, di conseguenza, prima collassa il mercato del lavoro e poi i consumi. Nel migliore dei casi si approda alla stagnazione: gli standard di vita peggiorano, la ricchezza non aumenta. Nel peggiore dei casi parte una spirale di recessione permanente o di depressione. Insomma, rischi che nessun politico vorrebbe mai correre.
Solo che, se il pianeta nel frattempo continua a riscaldarsi a questo ritmo, non è chiaro per quanto tempo ancora la rinuncia alla crescita possa essere considerata una scelta volontaria. È proprio necessario che ogni anno ogni produttore di scarpe da ginnastica venda cinque milioni di paia in più? E che ogni anno ogni produttore medio di viti guadagni dieci milioni di euro in più? Ed è proprio necessario che il settore della vendita al dettaglio si abbandoni a un lamento collettivo ogni volta che a Natale il giro d’affari non cresce almeno del 3 per cento rispetto all’anno precedente?
Per Jackson e altri critici la risposta è chiara: non si tratta di “fatti economici concreti” ma di un “mito culturale della crescita”, costruito nel corso di quasi due secoli, che ha messo profonde radici nella psiche collettiva dei paesi industrializzati.
Non l’ha scalfito neanche il primo, rumoroso colpo di avvertimento, esploso cinquant’anni fa. Nel marzo 1972 uscì I limiti dello sviluppo, il primo ampio studio sugli effetti dell’espansione umana, commissionato dal Club di Roma, un’organizzazione senza scopo di lucro che dal 1968 si impegna per un futuro sostenibile. Per realizzarlo i ricercatori usarono nuovi modelli informatici che produssero un risultato chiarissimo: le risorse del pianeta non avrebbero consentito una crescita costante dell’economia e della popolazione oltre il 2100. Per l’essere umano e per l’ambiente si prospettavano conseguenze drammatiche. Le conclusioni della ricerca, sommersa dalle critiche, sono state rifiutate anche nei decenni successivi, nonostante le conferme date da nuovi calcoli.
Oggi, però, il fronte degli scettici si sta ammorbidendo. «In fondo le cose non dipendono dalle dimensioni complessive di un’economia nazionale», spiega il premio Nobel per l’economia Robert Solow. «Se la maggioranza di una popolazione decide di ridurre la sua impronta ecologica, consumando meno beni materiali e puntando di più su tempo libero e servizi, dal punto di vista economico non ci sono ostacoli». Tuttavia, avverte Solow, nel periodo di transizione bisognerebbe farsi carico delle conseguenze di questa decisione, a cominciare dall’aumento della disoccupazione e dalla contrazione dei redditi.
Per questo sono pochi gli economisti che vorrebbero azzerare la crescita. Piuttosto si pensa a rinunce più limitate, in particolare a una separazione della crescita buona da quella cattiva. Si potrebbe incentivare una crescita significativa nel settore delle rinnovabili, per esempio, e ridimensionare l’industria petrolifera. Oppure sostituire le acciaierie con start-up digitali.
Già si vedono i primi successi. Di recente in 30 paesi le emissioni di anidride carbonica sono diminuite mentre l’economia è cresciuta. Anche in Germania. Ma per salvare il pianeta non basta, dice Jackson. E allora perché non accettiamo il fatto che nei paesi industrializzati la crescita economica contribuisce solo in misura limitata alla qualità della vita?
Anche per ragioni geostrategiche, probabilmente: gli europei e gli statunitensi non vogliono stare a guardare mentre l’espansione della Cina e di altri regimi autoritari procede a gran velocità. D’altro canto, però, dal 2000 l’eurozona è cresciuta in media di poco più dell’1 per cento all’anno. «In Occidente la crescita sta per esaurirsi», dice Jackson. E questo dovrebbe bastare per cominciare a ragionare su altri sistemi possibili.
In effetti, un numero sempre maggiore di aziende cerca di trovare la propria strada in un’epoca in cui la crescita non è più l’obiettivo principale. In una dichiarazione congiunta di tre anni fa, le 200 maggiori aziende statunitensi hanno annunciato che in futuro non risponderanno più solo agli azionisti ma a «tutti gli stakeholder»: clienti, dipendenti e partner commerciali, insomma alla società nel suo complesso. Per il Business Roundtable, l’associazione imprenditoriale più potente del mondo, che comprende molti gruppi da Apple a Goldman Sachs, è stato un passo importante. Fino a quel momento le imprese pensavano di dover rispondere solo agli azionisti, fedeli alla famosa massima di Milton Friedman: «La responsabilità sociale delle imprese consiste nell’aumentare i profitti».
Bisogna aspettare per capire se si tratta solo di trovate pubblicitarie o se invece sono dichiarazioni da prendere sul serio. Non tutte le aziende adotteranno comportamenti sostenibili come quelli della Patagonia, colosso statunitense degli articoli sportivi, che reinveste tutti i profitti nella tutela dell’ambiente. Ma anche i piccoli passi sono utili: la sua concorrente Adidas, per esempio, dal 2024 produrrà scarpe e vestiti senza usare poliestere di nuova produzione, ma solo fibre sintetiche riciclate.
Un passo in più lo fa la svizzera Freitag, che ogni anno vende 400.000 tra borse e portafogli in 25 paesi: la cifra non dovrebbe aumentare più di tanto in futuro, non perché il mercato o il personale siano giunti ai loro limiti, ma semplicemente in quanto l’azienda ha deciso di accontentarsi.
Il motto che finora andava per la maggiore – “più in alto, più veloce, più lontano” – non è più «il nostro primo obiettivo», spiega Daniel Freitag, che ha fondato l’azienda trent’anni fa insieme al fratello Markus. I due vogliono che «tutti siano soddisfatti e vivano bene del proprio lavoro». Secondo i Freitag «il turbocapitalismo non riesce più a offrire le risposte giuste» e produce danni eccessivi: le cose possono funzionare anche a ritmo più lento, più equilibrato e «più sano per tutti».
Già negli anni Novanta, dopo i primi successi aziendali, i due fratelli stilarono un piano in cui parlavano di qualità e longevità, dell’introduzione dell’economia circolare. Da anni, da ben prima che i grandi gruppi commerciali e le multinazionali della moda ne facessero una strategia di marketing, i Freitag offrono la possibilità di rimandare indietro le borse usate per farle riparare a prezzo di costo. Il servizio è usato da migliaia di clienti ogni anno. Loro non ci guadagnano nulla, spiega Daniel Freitag. Secondo i due fratelli non è solo la crescita dei profitti a definire “il successo” di un imprenditore.
IV. Persone al posto del mercato
Proposte per una comunità più equa
A prima vista Eva von Redecker e Minouche Shafik non sembrano avere molto in comune. Anzi, in teoria dovrebbero essere agli antipodi. Redecker, tedesca, filosofa tedesca femminista con un debole per Marx, cresciuta in una fattoria biologica, è l’avanguardia intellettuale dei movimenti di protesta ed è convinta che ci sia uno stretto legame tra l’oppressione razziale e il dominio capitalista.
Shafik, economista pragmatica, baronessa, membro della Camera dei Lord britannica, è stata vicepresidente della Banca mondiale e ora dirige la London School of Economics, fucina di quadri capitalisti.
Ma forse una peculiarità di questi tempi di svolte epocali è proprio il fatto che da punti di partenza diversi si arrivi a conclusioni simili. «Oggi in molti paesi le persone sono deluse dal contratto sociale e dalla vita che garantisce, anche se la ricchezza è incredibilmente cresciuta negli ultimi 50 anni», spiega Shafik, l’economista che ha studiato a Oxford. «Il capitalismo distrugge la vita», dice Redecker, la filosofa che si è formata a Cambridge.
Entrambe credono che per una buona convivenza servano nuove regole e riforme pensate a partire dalle persone, non dal mercato. Sull’argomento Shafik ha scritto il libro Quello che ci unisce (Mondadori 2021), mentre Redecker ha pubblicato Revolution für das Leben. Philosophie der neuen Protestformen (Rivoluzione per la vita. Filosofia delle nuove forme di protesta).
Poi, certo, ognuna ha le sue ricette: Shafik, l’esperta di finanza, avanza proposte politiche concrete.
Redecker, la pioniera affilata come un rasoio, esprime idee più radicali e, da filosofa, si rifiuta di delineare come i possibili cambiamenti possano avvenire in concreto. A lei importa soprattutto mettere in discussione una certezza: che il capitalismo nella sua forma attuale possa ancora avere un futuro. Lo ritiene inseparabile da una precisa forma di proprietà che implica il diritto all’abuso: per secoli il signore feudale ha regnato sulla terra e su chi l’abitava. E se il dominio assoluto del feudalesimo è stato superato, lo sfruttamento si è concentrato altrove: la schiavitù dei neri o la svalutazione del lavoro femminile. Tutto è collegato e, proprio per questo, la trasformazione dev’essere simultanea: bisogna cambiare allo stesso tempo i rapporti di proprietà, le relazioni di genere e quello che Redecker chiama «esaurimento della natura».
In risposta a queste sfide, Redecker immagina un «socialismo per il ventunesimo secolo» che parta da Marx per andare oltre Marx, una specie di “comunità di chi condivide”, capace di liberarsi di una serie di problemi legati tra loro: troppo lavoro stancante, sfruttamento selvaggio delle risorse, dominio della proprietà. «Invece di vendere le merci potremmo condividerle», dice. «Potremmo prenderci cura di quanto ci è stato affidato invece di sottometterlo al nostro dominio».
Non è un caso, secondo Redecker, che oggi alla guida del movimento di protesta – da Fridays for future a Black Lives Matter, dalla Bielorussia del 2020 all’Iran – ci siano soprattutto donne: «Nella storia, per secoli le donne sono state intimamente legate alla gestione del quotidiano, al lavoro di cura, alle fondamenta della convivenza. Le donne partorivano i bambini, cioè fabbricavano la vita, mentre gli uomini fabbricavano le merci». Il lavoro delle donne seguiva i bisogni delle persone, non le esigenze del mercato. Forse è per questo che oggi le donne hanno più chiaro degli uomini che qui è in gioco la sopravvivenza dell’umanità.
Minouche Shafik, direttrice della London School of Economics, ha alcune idee concrete su come garantire non solo la sopravvivenza, ma anche la convivenza. Come molti, ritiene che la leva principale sia una diversa concentrazione dei flussi di denaro, solo che secondo lei bisogna garantirla attraverso un maggiore sviluppo dello stato sociale.
«Se si limita a redistribuire, lo stato ha già fallito», spiega. Lo stato deve «pre-distribuire» investendo molto di più nell’istruzione, nelle infrastrutture e in ogni possibile forma di pari opportunità. «In tutti i settori gli investimenti devono avvenire il prima possibile, soprattutto per chi è più svantaggiato. Tutto questo per favorire un’economia più produttiva». Per esempio, ogni persona potrebbe ricevere alla nascita un contributo statale di 50.000 euro da usare per l’istruzione nell’arco di tutta la vita. Oppure si potrebbe garantire «l’assistenza totale e a basso costo dei giovani», dalla scuola materna alla maturità. «I dati parlano chiaro: è lo strumento più importante per garantire pari opportunità. Vanno risolti anche gli squilibri nei sistemi fiscali che favoriscono il capitale e penalizzano il lavoro».
Tutto questo non è una novità, lo sa bene anche Shafik. Le grandi leve – imposte, pensioni, istruzione – influenzano il modo in cui viviamo e quindi la qualità della vita e del lavoro. eppure, secondo lei, nessuno ha il coraggio di metterci mano: «Nella maggior parte dei paesi industrializzati ci comportiamo come se il mondo non fosse cambiato».
Ecco perché è giunto il momento di imprimere una nuova direzione al modello capitalista nella sua interezza. «E probabilmente dev’essere un cambio di rotta radicale», dice Shafik.
Il che, ormai, sembra più una promessa che una minaccia.
Susanne Beyer, Simon Book, Thomas Schulz
(Testo tratto da “Der Spiegel”, n. 1, 30 dicembre 2022 nella traduzione data dalla rivista “Internazionale”, anno 30, n. 1495, 20/26 gennaio 2023, integrata e rivista sulla base dell’originale da Marco Bartalucci).
Inserito il 27/1/2023.
Dibattito sull’articolo di “Der Spiegel”
La disperazione della borghesia non è una decrescita felice
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La disperazione della borghesia non è una decrescita felice
di marxpedia.org
Pubblicato il 24 gennaio 2023
Questo articolo del settimanale tedesco “Der Spiegel”, che “Internazionale” ha tradotto questa settimana e a cui ha dedicato la copertina, mostra quanto i riformisti odino il socialismo al pari dei padroni. La tesi centrale dell’articolo è che è giunto il momento per i governi di ridistribuire la ricchezza perché il mercato non garantisce più lo sviluppo. Solo il ruolo dello stato può salvare il mercato. Tradotto: solo le tasse dei lavoratori potranno salvare ancora una volta i padroni e chiameremo questa politica “socialismo per il 21esimo secolo”. Il tema centrale sottotraccia è che sono necessarie riforme per prevenire la minaccia di una nuova rivoluzione socialista, dato che già negli Stati Uniti un giovane su due ne ha un’opinione positiva.
Quanta paura hanno i borghesi ed i riformisti. La macchina non risponde più ai comandi. Fiducia nella crescita non ve n’è più. Come se lo stato, fatto di rappresentanti borghesi, potesse chiedere ai padroni di smettere di essere tali per il nostro benessere e senza la costrizione di una rivoluzione! Se le direzioni del movimento operaio fossero coscienti, il capitalismo sarebbe già caduto. E invece mentre il pianeta muore si getta il fumo negli occhi della piccola conquista di cui accontentarsi.
Ecco qui un elenco di citazioni da questo articolo che vi faranno ben capire a quale livello di paura e depistaggio ideologico la sinistra riformista europea cerca di aggrapparsi per darsi una ragione di vita:
“Questa volta, però, abbiamo un’occasione reale di dar vita a un capitalismo più equo e sostenibile.”
“Di idee per un ordine economico più giusto e sostenibile, ma comunque basato sul mercato, ne circolano tante. Arrivano dagli schieramenti ideologici più diversi, eppure hanno un tratto in comune: meno mercato, più stato e meno crescita.”
“Negli Stati Uniti la situazione è ancora più drammatica, dice Dalio (uno degli investitori più ricchi del mondo, proprietario della Bridgewater Associates – ndr). Per decenni la maggior parte dei redditi è rimasta praticamente ferma, mentre dal 1980, cioè dall’inizio dell’epoca neoliberista moderna, i redditi dell’1 per cento più ricco della popolazione si sono quasi triplicati. Per risolvere il problema, Dalio propone «la redistribuzione».”
“Il collasso del pianeta potrà essere fermato solo da un sistema postcapitalista senza più crescita, in cui la produzione rallenta e la ricchezza è redistribuita in modo mirato.”
“Ancora oggi ci si comporta come se di fatto fosse impossibile imprimere uno scopo e una direzione al capitalismo. Ma come si fa? «È semplice – spiega Mazzuccato (economista statalista borghese – ndr), – non bisogna limitarsi a indirizzare cautamente aziende e settori industriali in una certa direzione, bisogna obbligarli». L’idea di incentivi come la tassa sull’anidride carbonica è buona, ma vuoi mettere l’obbligo per legge di usare esclusivamente cemento ‘verde’, magari compensato da aiuti economici all’industria?”
“Per realizzare una svolta ecologica, osserva per esempio Martina Merz, amministratrice delegata della ThyssenKrupp, sono «irrinunciabili gli strumenti di sostegno statali».”
“Ecco perché è arrivato il momento di imprimere una nuova direzione al modello capitalista nella sua interezza.”
E con questo non abbiamo altro da aggiungere se non di tornare a leggere davvero Marx e non questi intellettuali, seguaci della decrescita borghese e delle piccole riforme, ostili all’idea di rivoluzione socialista, di economia pianificata e di controllo operaio e territoriale.
Inserito il 27/1/2023.
Dibattito sull’articolo di “Der Spiegel”
“Der Spiegel”, la borghesia, Marx e noi
🔴 di Leandro Casini 🔴
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“Der Spiegel”, la borghesia, Marx e noi
di Leandro Casini
Vorrei dire la mia sulla pubblicazione dell’articolo su Marx del settimanale tedesco “Der Spiegel”, anche dopo aver letto la critica che ne fa Marxpedia.
Ricordiamoci la sorpresa generale quando, nel duecentesimo anniversario della nascita di Karl Marx, nel 2018, “The Economist” pubblicò nelle sue pagine culturali il seguente appello: «Governanti del mondo: leggete Karl Marx!». Sottotitolo: «Nel suo bicentenario, la diagnosi di Marx sui difetti del capitalismo è sorprendentemente rilevante». E attualissima, aggiungerei.
Inizio da qui per dire che una parte della borghesia non ha mai disdegnato di approfondire la conoscenza di ciò che il filosofo di Treviri scriveva, perché da ciò che pensano gli avversari di classe si può imparare molto, anche per la propria strategia di lotta. Una lezione che a volte noi più o meno marxisti abbiamo colpevolmente dimenticato, magari facendoci le pulci a vicenda per dimostrare di essere più ortodosso o più eretico dell’altro, a seconda delle preferenze.
L’operazione dello “Spiegel” non è del tutto diversa da quella dell’“Economist”; anzi, con quella copertina strizza l’occhio a sinistra, fa un’operazione furba, anche dal punto di vista del marketing (uno come me, che non conosce il tedesco, non avrebbe mai comprato questa rivista senza quella copertina).
Comunque, basta con le forme, parliamo dei contenuti. In fondo è vero, lo “Spiegel” parte da Marx, da alcune sue concezioni di fondo sul capitalismo, che non hanno perso la loro validità anche oggi, per compiere un’operazione utile al salvataggio del sistema capitalistico stesso. Infatti, non a caso il lungo articolo si conclude con i consigli di Minouche Shafik, presentata come «economista pragmatica, baronessa, membro della Camera dei Lord britannica, è stata vicepresidente della Banca mondiale e ora dirige la London School of Economics, fucina di quadri capitalisti»; figuriamoci se da una persona con tale curriculum non possono venire «consigli pragmatici» e «idee politiche concrete». Per far cosa? Certo, per salvare il capitalismo. Il senso conclusivo è questo.
Esperti di finanza e grandi investitori si rendono conto che il sistema della crescita non regge più, che il mercato sempre più libero da vincoli sta facendo scoppiare contraddizioni tali da mettere in discussione l’esistenza dell’intero genere umano; allora si cerca di chiamare gli stati (e quindi i contribuenti, le classi medie e quelle inferiori) a salvare il sistema, a investire per tappare le falle e i buchi creatisi in questi decenni di neoliberismo sfrenato. E allora c’è chi parla di «redistribuzione» (il magnate della finanza Dalio), chi di «pre-distribuzione», di investimenti in formazione e pari opportunità (ancora Minouche Shafik), ma, dice la baronessa, «gli investimenti per chi è più svantaggiato» servono «per favorire un’economia più produttiva»: quindi, tutto sommato, con più produttività si generano ancora più profitti per chi di quell’economia detiene le quote di maggioranza, cioè quel 10% di popolazione che ha il 70% della ricchezza.
Fin qui, come si vede, la mia lettura concorda in linea di massima con ciò che scrive Marxpedia. L’articolo però non è a senso unico, ha una certa ampiezza d’analisi, dà conto di posizioni e sfumature che per noi marxisti non possono non risultare interessanti.
È vero, c’è sempre l’eterna questione di chi «parte da Marx per andare oltre Marx» (Eva von Redecker), e non so più quante volte l’abbiamo sentita, come se tutto il resto del panorama di intellettuali marxisti fosse attardato a riflettere sul sistema produttivo basato sulle macchine a vapore e sugli opifici tessili della fumosa e grigia Manchester di cui a suo tempo scrisse Friedrich Engels.
Ma c’è anche altro. Per esempio si parla del fatto che tra i giovani statunitensi le idee socialiste cominciano a non far più paura e anzi a far presa; oppure che in Giappone, grazie a un giovane filosofo laureatosi a Berlino con una tesi su “Marx e i problemi ecologici”, il Capitale ora si diffonde anche in versione manga. E che il giovane filosofo stesso, Kohei Saito, con il suo libro Capitale nell’antropocene ha raggiunto vette editoriali degne di Harry Potter.
Buono a sapersi, no? Io prima non lo sapevo, ora tenterò di informarmi meglio.
E forse, o soprattutto, dall’articolo emerge un’altra cosa positiva: la consapevolezza diffusa che il liberismo non solo non è utile, ma è dannoso. Non ci potevamo aspettare che dicessero anche che il capitalismo va abbattuto, o anche solo superato, ma è pur sempre un sintomo di disagio nel loro campo (se poi ancora esista o meno un nostro campo è un altro problema, grande come una casa). Forse segno che tra i “liberal-democratici” si ricomincia (era già successo in passato) a discutere su come riformare il capitalismo, perché ormai dovrebbero rendersi conto dei costi sociali insostenibili per sempre più larghe fasce di popolazione. E di conseguenza, se si rimette in movimento il tutto, chissà che non si creino sempre maggiori spazi per movimenti critici e radicali, o anche per chi, come noi (se esistiamo, ripeto), legge o rilegge Marx non per pura smania di citazione, ma per dare un senso alla propria vita di cittadino che lotta per l'uguaglianza e per la giustizia sociale ed economica nel mondo intero.
Leandro Casini
Inserito il 29/1/2023.
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