Compagni di strada
Quel difficile rapporto tra intellettuali e partiti comunisti
Una storia costellata di amicizie e rotture, sodalizi e polemiche, convergenze e incomprensioni, drammi, condanne
Italia, Francia, Unione Sovietica, Cecoslovacchia, Germania… Nel Novecento in tutti questi paesi i partiti comunisti hanno rappresentato dei punti di riferimento imprescindibili per centinaia di scrittori, cineasti, drammaturghi, artisti, musicisti. Il messaggio rivoluzionario del marxismo, la lotta di classe e le battaglie per l’emancipazione sociale portate avanti dai partiti comunisti – là al potere, qua all’opposizione – generavano una forza d’attrazione non indifferente sui circoli intellettuali dei rispettivi paesi. Ma, invece di far tesoro dei rapporti con questi “compagni di strada” che potevano contribuire fattivamente alla causa su più piani e su più fronti, i responsabili della politica comunista ebbero spesso nei loro confronti un atteggiamento paternalistico e pretesero a più riprese di dettare la linea in materia di estetica, di indirizzare l’arte e la letteratura su percorsi predeterminati, entrando in contrasto con le personalità più vivaci e con le menti più aperte del secolo. Occasioni perdute a causa di un’ottusità che, vista oggi, appare spesso incomprensibile; forse è un po’ diversa l’impressione che se ne trae se caliamo quelle polemiche e rotture nei contesti storici di allora, in cui determinate politiche potevano essere spiegate, pur parzialmente, dalla dura contrapposizione al fascismo prima della Seconda guerra mondiale, e dalla successiva rigida divisione in blocchi contrapposti durante la “guerra fredda”.
Su “Spazio collettivo” pubblicheremo una serie di materiali e contributi sui vari casi di legami e rotture tra intellettuali e partiti comunisti: per esempio, per l’Italia, Elio Vittorini, Franco Fortini, Leonardo Sciascia. Il nostro sarà un approccio di studio, di presentazione di materiali utili all’indagine storica di quelle polemiche e di quelle rotture, e cercheremo di restare nel campo dell’obiettività senza dare giudizi avventati e liquidatori come oggi si tende a fare da parte di molta storiografia che giudica il passato con gli occhiali del presente, che giudica l’Oriente coi criteri dell’Occidente, ecc.
Un primo contributo lo traiamo da un ricordo che Rossana Rossanda scrive di Franco Fortini in occasione della ripubblicazione della sua raccolta di articoli degli anni 1947-1957 intitolata Dieci inverni.
L.C.
Franco Fortini (1917-1994) e Rossana Rossanda (1924-2020).
Intellettuali e PCI
Franco Fortini e i nostri «dieci inverni»
di Rossana Rossanda
L’intransigenza di Fortini non è mai unidimensionale, è stato più che mai attento a non dimenticare il nemico – come invece i comunisti hanno scordato di fare nel 1989
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Franco Fortini e i nostri «dieci inverni»
Bene ha fatto Quodlibet a ripubblicare Dieci inverni di Franco Fortini, anche se è lontano il tempo in cui egli li ripubblicò per la prima volta.
Sono interventi che ruotano tutti intorno a un tema: il silenzio, o peggio, la complicità dei partiti comunisti occidentali, dunque anche nostra, sulla repressione che infuria in quegli anni sui dissenzienti nei paesi di «socialismo reale». La storia ne è stata fatta soltanto parzialmente, volta a volta sopravanzata dagli eventi e dall’uso che ne fecero gli avversari di classe, basti ricordare la campagna democristiana del ’48 e le «forche di Praga».
Ammesso che oggi io conti qualcosa, allora non ero nessuno, un modestissimo “apparatcik” della Federazione comunista milanese, addetta al «lavoro culturale» (qualcuno ricorderà il libro di Luciano Bianciardi) e quindi in una posizione che mi permetteva, anzi mi obbligava, di osservare dappresso il conflitto tra il mio partito e Franco Fortini.
Noi comunisti avevamo una visione eroica di noi stessi, per essere la forza politica più attaccata dal governo e dalle destre in quanto rappresentanti della classe operaia.
In questo c’era una verità, gli amici stentano a credere se dico che per diversi anni a me, che appunto non ero nessuno, fu tolto senza spiegazione alcuna il passaporto, per cui essere contemporaneamente attaccati anche da un compagno socialista, tanto più in quanto egli aveva ragione, ci bruciava assai, come la nostra sordità bruciava a lui, che ci rimproverava incessantemente di tacere sugli incredibili processi e le intollerabili esecuzioni che avvenivano nelle «democrazie popolari».
Ero stata incaricata tra l’altro di rimettere in piedi la Casa della Cultura di Milano, la cui prima forma era stata disastrata dalle elezioni del 1948; avevo chiesto a Fortini di farne parte, egli aveva accettato ma non per tacere nei confronti di quello che gli pareva un vero disastro sul piano politico e morale.
Per cui quando uscivano le sue rampogne e seguiva il contrattacco su «Società» o su «Rinascita», mi trovavo giusto sulla linea del fuoco incrociato: Franco mi telefonava esulcerato di prima mattina e non era facile calmarlo, Roma («Rinascita») era lontana, Firenze («Società») anche, e non si poteva contare su un intervento della Federazione socialista di Milano, allora diretta da Rodolfo Morandi, più che silenziosa nei confronti del Pci, tanto più che era in corso la vertenza sui consigli di gestione in fabbrica.
Il mio rapporto con Fortini per anni fu permanente ma difficile, per sfociare soltanto alla fine degli anni Cinquanta in un’amicizia che non sarebbe più cessata malgrado le sfuriate reciproche.
Oggi è più facile vedere quanto Fortini avesse ragione. Il Pci non attaccò l’Unione Sovietica mai, neppure con una prudente discussione fino a che Berlinguer non cominciò la sua critica nel ’69 alla Conferenza dei partiti comunisti e operai a Mosca, né si fece mai su questo un’autocritica; nel dopoguerra la sua linea contro l’imperversare di Zdanov consisté nel dare alle stampe, tramite Einaudi, i Quaderni dal carcere di Gramsci, definito da Togliatti «fondatore del Pci» nonché «martire del fascismo» e perciò inattaccabile.
Per cui Franco Fortini non rinunciava a imputargli una viltà se non una copertura delle pratiche orrende delle democrazie popolari, che pesavano su noi tutti, anche quando il problema, dopo il 1956, si fece bruciante: 1947-1957 sono appunto i dieci inverni, le gelate ideologiche che ricostituiscono le tappe di un percorso per noi in pura perdita («Politecnico», i primi sciagurati interventi di Togliatti sulle arti figurative, in cui si trovò contraddetto prudentemente anche da Guttuso, la difesa dei modestissimi ma ben intenzionati romanzi neorealisti come L’Agnese va a morire o il Metello – ricordo che Muscetta li rimproverava di passare più tempo in camera da letto che alla Camera del lavoro – e dei film neorealisti non senza passare sulle braci ardenti delle scienze, Aloisi e il caso Lysenko, fino alla contesa con i critici cinematografici «sciolti dal giuramento»).
Non so valutare quanto questi interventi abbiano pesato sul percorso della letteratura, delle arti e delle scienze, ma sono persuasa che ebbero una conseguenza fatale per la disfatta attuale dei partiti comunisti: da allora fummo segnati per sempre dal marchio di essere un partito dittatoriale. Anche se è facile, ma non ci assolve, confrontarci con altri partiti come quello francese che espelleva a destra e a manca, mentre il Pci è meno violento.
Per cui nella cerchia degli 81 partiti comunisti ci facemmo la fama di essere il più intelligente e tollerante. Certo mi impressionò, quando due o tre anni fa mi sono imbattuta per caso sui verbali stenografici del processo in cui fu coinvolto, finendo poi fucilato, anche Bucharin, accorgendomi che quel materiale era stato pubblicato formalmente dall’Urss mentre neppure i più illustri compagni di strada come Romain Rolland o Jean Pierre Vernant (che non erano neppure legati dalla milizia comunista) hanno voluto o non si sono sentiti di alzare la voce contro le nefandezze indirizzate dal procuratore Viscinski appunto a Bucharin.
Ammesso che noi possiamo scrollarci di dosso la medesima responsabilità: io me ne vergogno ancora.
Alcuni fra di essi avanzano una giustificazione: «Perché mi schierai con la posizione dell’Urss? Ma per battere il fascismo». Come se sarebbe stato più difficile batterlo prendendo le difese di Slansky.
In verità questi scritti di Fortini vanno riletti oggi perché la sua analisi va ben oltre il rifiuto di tollerare quello scandalo, anzi di tollerarlo tantomeno in quanto veniva dalla sua parte politica, riguardano il rapporto fra rivoluzione e cultura, indicando anche la debolezza di posizioni non perseguitate o almeno non messe a morte.
L’intransigenza di Fortini non è mai unidimensionale, è stato più che mai attento a non dimenticare il nemico – come invece i comunisti hanno scordato di fare nel 1989, fin dal primo scambio fra Occhetto e Craxi.
Del resto non è semplice distinguere volta a volta il crinale ideologico su cui passa lo scontro di classe. Non è semplice ma proprio per questo Dieci inverni è un testo prezioso per la riflessione ancora oggi (penso anche al modo in cui Fortini giudica le ragioni non solo nei disaccordi ma anche negli accordi come su Ladri di biciclette, o sulla posizione di Vittorini, del quale è stato sempre amico e sodale, dopo la chiusura di «Politecnico»).
Rossana Rossanda
(Tratto da «il manifesto», 28 ottobre 2018).
Inserito il 26/02/2023.
Altiero Spinelli ritratto nella foto-scheda segnaletica del Ministero dell'Interno italiano.
Idee diverse sull’Europa
1952: «l’Unità» contro Altiero Spinelli
di Lucio Lombardo Radice
Dopo le polemiche sul Manifesto di Ventotene, riprendiamo da «l’Unità» un articolo del 1952 di Lucio Lombardo Radice che dava conto di un confronto tra europeisti condotto sulla rivista fiorentina «Il Ponte», riportando in particolare le posizioni contrapposte di Piero Calamandrei e Altiero Spinelli. Emergevano due idee di Europa, l’una volta a mediare tra Stati Uniti e Unione Sovietica, l’altra tutta interna al campo occidentale e rivolta contro il comunismo.
Lombardo Radice polemizzava con Spinelli accusandolo di voler promuovere la formazione di un esercito europeo diretto contro l’Unione Sovietica e i paesi del campo socialista; un progetto che prevedeva, tra l’altro, un forte riarmo della Germania e una riabilitazione dei generali che anni prima avevano combattuto per la Germania hitleriana.
Altiero Spinelli (1907-1986), comunista antistalinista che aveva rotto col partito di cui aveva fatto parte dal 1924, cercò per tutta la vita di realizzare il proprio sogno di una Federazione europea. La sua parabola politica lo portò infine a essere eletto deputato alla Camera e quindi al Parlamento europeo come indipendente nelle liste del PCI.
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1952: «l’Unità» contro Altiero Spinelli
di Lucio Lombardo Radice
Il Poeta e gli Eroi.
Poeta: Eroi, Eroi, che fate voi?
Eroi: Ponziamo il poi
(Meglio per noi)
Poeta: Oh! del presente,
che avete in mente?
Eroi: Un tutto e un niente.
Poeta: (Precisamente). Che brava gente!
Dite: o l’Italia?
Eroi: L’abbiamo a balia.
Poeta: Balia pretesca, liberalesca,
nostra o tedesca?
Eroi: Vattelapesca
Poeta: (Lo so. Sta fresca!)
Giuseppe Giusti
Nel Movimento Federalista Europeo hanno convissuto finora due tendenze ben distinte. La Federazione Europea (non semplice unione di Stati nazionali sovrani, ma costituzione di un Superstato sovrano) è stata sempre pensata in modo diverso e forse opposto, malgrado l’identità della formula giuridica, costituzionale, da un De Gasperi o da un Calamandrei, dagli americanisti di stretta osservanza e dai fautori di un’Europa autonoma e mediatrice tra America e U.R.S.S., dai codini e dai giacobini che partecipavano insieme al Movimento. Finché il Movimento si limitava a una propaganda di massima della idea della Federazione di alcuni Stati dell’Europa occidentale, i motivi di dissenso potevano restare allo stato latente. Ma oggi, nel periodo in cui «esercito europeo», organi statali «supernazionali», e simili cose sono oggetto non più di discussioni e di movimenti d’opinione pubblica, ma di deliberazioni di ministri e generali, oggi – mentre sono in discussione non questa o quella sottile formula, ma corposi e concretissimi problemi, primo tra tutti il riarmo tedesco – quei vecchi dissensi non potevano non manifestarsi in seno al Movimento Federalista Europeo.
Per vedere in qual modo gli avvenimenti abbiano gradualmente messo a fuoco il contrasto un tempo nell’ombra, ci sembra molto utile rileggere gli articoli, i dibattiti, le inchieste che al problema della Federazione Europea ha dedicato negli ultimi anni «Il Ponte», l’interessante rivista fiorentina di politica e letteratura diretta da Piero Calamandrei. Nel dicembre 1950 «Il Ponte» proponeva un dibattito, chiedendo tra l’altro se «la Federazione Europea potesse risolvere il problema della Germania, della sua riunificazione e del suo riarmo», e pubblicava risposte ispirate «da vari umori», senza che tuttavia le differenze di impostazione – anche profonde – portassero i contendenti al di là di un pacato dibattito di idee. Esattamente un anno dopo, nel dicembre del 1951, ecco invece «Il Ponte» aprirsi con un corsivo redazionale, dal titolo Armi ed onore a Reder, che è forse la più appassionata. la più aspra, la più amara condanna del modo nel quale il governo americano va preparando il riarmo tedesco che ci sia stato dato leggere negli ultimi tempi. «Si riarmino dunque le milizie naziste, comprese le SS e la Gestapo: ma prima che le armi, si restituisca ad esse l’onore. Ben venga, a salvare la civiltà occidentale, il militarismo tedesco… All’uscir dalla catastrofe era stato giurato ai bambini di tutto il mondo che quello che era avvenuto, non si sarebbe ripetuto mai più: giuramento menzognero… Il museo di Auschwitz nulla ha insegnato: tutto è allo stesso punto». (Nel museo di Auschwitz vi è un magazzino dei giocattoli strappati ai bambini ebrei prima della loro uccisione nei forni a gas). Armi ed onore a Reder.
Nel recentissimo numero di febbraio, il dibattito si riapre, e questa volta non sulla base di idee, orientamenti e proposte, ma di posizioni politiche piuttosto nette e precise. È uno scambio di lettere tra Piero Calamandrei e Altiero Spinelli, segretario del Movimento Federalista Europeo. Cercheremo di sunteggiarlo nel modo più esatto e più conciso che ci sia possibile, per soffermarci poi sulle posizioni dello Spinelli. L’on. Calamandrei pone allo Spinelli cinque interrogativi dai quali – ci sembra – vengono fuori due domande fondamentali: 1) «Il primo ristretto nucleo federale… sorgerebbe unicamente allo scopo di permettere la creazione e il funzionamento dell’esercito europeo», come «una “bardatura di guerra”». Essendo, nelle intenzioni degli americani, elemento fondamentale dell’esercito europeo il riarmo della Germania occidentale, «che cosa si farà praticamente per evitare che l’esercito europeo sia comandato dai… criminali di guerra? e per garantire che sia un esercito di popoli democratici e non un esercito di generali neofascisti?»; 2) «La Federazione Europea è stata considerata sempre dai federalisti non come strumento di frattura militare, ma come strumento potenziale di mediazione europea tra America e Russia. Anche chi concepisce la Federazione Europea… come inserita nel sistema atlantico, considera come suo primo scopo quello di sostenere entro l’alleanza atlantica una politica di distensione che allontani la guerra dall’Europa e che non crei in Europa occasioni di frizione che invoglino la tensione mondiale a localizzarsi e a scaricarsi in Europa».
Lo Spinelli, alla prima domanda, risponde dapprima con qualche stupefacente assicurazione, «minimizzando», quindi – come meglio vedremo – affidandosi al «poi», alla Provvidenza. Le assicurazioni dello Spinelli sono piuttosto esilaranti. Tranquillizzatevi, egli dice. Non ci sarà solo un esercito europeo, ma una bella Assemblea Costituente europea, che egli confida «sarà fatta bene» se «Eisenhower, Schuman, De Gasperi, Adenauer» e il «pugno di uomini» che finora si dà da fare per la Federazione non sarà lasciato solo nella sua azione. Tranquillizzatevi, aggiunge: non ci sarà un vero e proprio esercito tedesco, ma unità nazionali tedesche nell’esercito europeo, e i quadri «non saranno più educati alle scuole prussiane, ma, sperabilmente, ad una scuola militare di tipo svizzero e americano». Quanto ai generali nazisti, anche lo Spinelli è costretto a riconoscere che «ce ne saranno parecchi», ma egli «non riesce ad essere troppo atrabiliare alla prospettiva di qualche» (qualche? ma non aveva detto parecchi?) «generale nazista incorporato nell’esercito europeo». Tranquillizzatevi: anche nell’esercito dei sanculotti c’erano generali del re di Francia, e nell’Armata Rossa ufficiali dello zar. Ma, in generale, perché occuparsi e preoccuparsi delle forze reali che presiedono alla costituzione dell’esercito «europeo», che vogliono il riarmo della Germania occidentale, che danno vita alla cosiddetta «Comunità di difesa»? Che importa se la Comunità neonata è allevata da una balia «pretesca, liberalesca, nostra o tedesca»? «Nostro unico dovere in questo momento è renderci conto con chiarezza degli ostacoli che si incontreranno, degli alleati che troveremo» (quali che siano?) «fare il possibile e l’impossibile affinché il tentativo riesca…». Secondo lo Spinelli, bisogna « costi quello che costi – creare questo strumento. «Se sarà adoperato bene, se alla fine ci sarà la vittoria o la sconfitta, la Federazione o l’ulteriore degradazione dei nostri Paesi “ciò è oscuro a tutti fuor che al Dio”».
In realtà, ciò è chiaro a tutti fuor che ad Altiero Spinelli, e agli altri eroi della rivoluzione europea i quali si rifiutano di analizzare le forze che stanno cercando di costruire lo «strumento» della «Comunità di difesa». Esulti pure lo Spinelli nel vedere «uomini che nessuno si sarebbe sognato di considerare altrimenti che moderati e prudenti» invasati da «follia federalistica», come lo Schuman, il De Gasperi, l’Adenauer. Noi, come immuni da follia (federalistica o altro), guardiamo alle forze reali che stanno dietro a questi uomini, e ai parecchi generali nazisti che non riescono a rendere atrabiliare lo Spinelli. Noi ricordiamo il senso preciso, di riabilitazione, di ripresa ufficiale dello sciovinismo, del militarismo e dell’imperialismo tedesco, dato al riarmo tedesco da Adenauer (il sistema atlantico è «il solo mezzo sicuro di recuperare le nostre province perdute»), dai generali Remer, Ramcke e Guderian («col distruggere il militarismo tedesco si è nello stesso tempo demolito il baluardo sicuto e solido» della civiltà occidentale) e dagli altri parecchi criminali di guerra che dominano di nuovo la Germania di Bonn e la sua politica, siano essi magnati dell’industria o militari. Noi sappiamo bene chi sono i Tre Grandi della Federazione: sono i leader dei partiti clericali, sempre più inclini al clerico-fascismo. Noi sappiamo bene chi c’è dietro a questi uomini e ai loro partiti: i gruppi più reazionari del grande capitale, la vecchia politica di repressione antidemocratica all’interno e di «guerra sacra anticomunista» fuori di casa. (È un falso ricordo, o era proprio lo Spinelli che, attraverso il gruppo romano estremista di «Bandiera Rossa», ci rimproverava nel 1942-43 la politica di unità con i partiti della borghesia, in nome dell’intransigenza rivoluzionaria?).
Ma è poi oscuro tutto ciò allo Spinelli? Non diremmo. «Ponzando il poi» egli, certo, fa brillare agli occhi del colto e dell’inclita innanzitutto la paccottiglia «democratica» del bazar europeo: Assemblee e scuole militari internazionali e corpi d’armata in ogni divisione dei quali si parla una lingua diversa. Ma, alla fine, ecco venir fuori chiarissimo, dalle parole dello Spinelli, il carattere di Santa Alleanza antisovietica, di Antikomintern aggressivo proprio della «Comunità di difesa». «Tra Europa federata e URSS non vi sarà amicizia». «Finché» ci saranno «centinaia di milioni di esseri umani… sottomessi alla tirannide comunista… è da prevedere che gli europei liberi resteranno inquieti ed ostili verso il regime sovietico». Al fondo della Comunità e del suo esercito, lo Spinelli confessa che vi è «il desiderio di veder liberi i nostri fratelli che si trovano al di là del sipario di ferro». Che cos’altro può significare in concreto questo desiderio, se non un proposito criminale: la guerra d’aggressione, la guerra «preventiva» per abbattere il potere operaio e socialista nei Paesi dell’Europa orientale?
«Non tutto sarà puro e nobile in questo desiderio», confessa lo Spinelli. La lettura del suo articolo ci aveva da sola pienamente convinti di ciò, senza bisogno di una confessione finale. Ma basta. Lasciamo lo Spinelli ai suoi amici naturali, agli altri eroi della «rivoluzione europea», così come egli la concepisce: i generali nazisti e i re spodestati, gli affaristi e i latifondisti spossessati, i corrotti politicanti della borghesia rumena o bulgara, gli esponenti della vecchia classe dirigente balcanica – la più marcia delle borghesie di Europa, l’unica borghesia che non ha mai consentito un regime di democrazia borghese decente. L’Europa dei vinti, degli oppressori, dei falliti, che tenta invano di soffocare la nuova Europa del popolo.
Lucio Lombardo Radice
(Tratto da: Lucio Lombardo Radice, Eroi, eroi, che fate voi?, in «l’Unità», 27 febbraio 1952).
Inserito il 23/03/2025.
André Breton (1896-1966) e Louis Aragon (1897-1982).
Fonte della foto: https://www.abretelibro.com/foro/viewtopic.php?f=28&t=124037
Dalla rivista «L’Histoire»
Avanguardie francesi
Breton, Aragon… i surrealisti e i comunisti
di Pascal Balmand*
Nel 1927 i surrealisti, André Breton in testa, aderirono in blocco al Partito Comunista Francese. Nel 1933 furono tutti esclusi, tranne Louis Aragon. Tra queste due date, un susseguirsi di incomprensioni, delusioni e dietrofront. Il surrealismo era quindi incompatibile con l’impegno politico?
I giovani scrittori ribelli della “generazione del fuoco” rifiutarono di abdicare al loro status di intellettuali e di diventare semplici agenti di propaganda del sistema burocratico di stampo stalinista.
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Breton, Aragon… i surrealisti e i comunisti
di Pascal Balmand*
Nell’ottobre 1924, in una formulazione micidiale pubblicata su Un Cadavere, un opuscolo diretto contro Anatole France, Louis Aragon associa «Mosca la viziata e il tapiro Maurras»1, cosa che attira l’ira della rivista comunista «Clarté». La polemica cresce e Aragon si spiega, nel gennaio 1925, in termini che riflettono la posizione dell’intero gruppo surrealista: «Vi è piaciuto considerare come scherzo una frase che testimonia il disgusto che provo nei confronti del governo bolscevico, e con esso di tutto il comunismo […] Se mi trovate chiuso allo spirito politico […] è perché […] pongo lo spirito di rivolta ben al di sopra di ogni politica […] La Rivoluzione russa? Non mi impedirete di alzare le spalle. Sulla scala delle idee, si tratta tutt’al più di una vaga crisi ministeriale»2.
Non si potrebbe affermare più chiaramente il rifiuto del comunismo e, più nel profondo, di ogni compromesso con la sfera politica, considerata superficiale e ridicola. Tuttavia, appena due anni dopo, all’inizio del 1927, i surrealisti aderiscono al Partito Comunista… Questo sviluppo, che può sembrare caotico, illustra chiaramente la complessità del rapporto tra il movimento surrealista e la politica. Perché i surrealisti, dopo aver proclamato a gran voce il loro disprezzo, vanno a ingrossare le fila del PCF? E, poiché le due questioni sono collegate, perché vengono esclusi a partire dal 1933, ad eccezione proprio di Aragon, che rimane comunista fino alla sua morte nel 1982? Paradossi, ambiguità, ribaltamenti: il tentativo di innestare il surrealismo nella sfera politica era destinato al fallimento?
Evocando nel 1934, in Che cos’è il surrealismo?, il clima in cui si formò il movimento, André Breton scrive: «Soprattutto, eravamo preda del rifiuto sistematico e incessante delle condizioni in cui, a quell’epoca, eravamo costretti a vivere. Ma questo rifiuto non si fermava qui, questo rifiuto era assoluto […] [Esso] riguardava tutta quella serie di obblighi intellettuali, morali e sociali che da ogni parte e da sempre abbiamo visto gravare sull’uomo in modo travolgente». In effetti, gli anni successivi alla Prima guerra mondiale sembrano segnati in Francia dal desiderio di reprimere l’orrore e ritornare alla mitizzata età dell’oro della Belle Époque. Ma il Paese soffre di una crisi d’identità tanto più perniciosa in quanto oscurata dalle illusioni della vittoria e del ritorno alla pace.
Da un lato le coscienze sono gravemente scosse da quei quattro anni sanguinosi. Come accettare i valori ottimistici del XIX secolo borghese, liberale, razionalista e scientista? Come possiamo assumere un’eredità che non è riuscita a impedire i massacri di Verdun e della Somme, e che forse li ha provocati? D’altro canto, stiamo assistendo all’emergere dell’era delle masse, caratterizzata in particolare dall’accelerazione dell’industrializzazione, dell’urbanizzazione e dall’ascesa delle classi medie, dell’era delle macchine e della standardizzazione… Sta emergendo un nuovo mondo, che destabilizzerà gli ambienti artistici e intellettuali.
È in questo contesto che prende forma la rivolta surrealista. Alle sue origini c’è il movimento Dada3, nato a Zurigo nel 1916 attorno a un giovane ventenne rumeno, Tristan Tzara, che rivendica un nichilismo radicale, un sovvertimento generalizzato nel campo dell’arte, della cultura, della logica e delle strutture sociali: «Che ogni uomo gridi: “C’è un lavoro grande, distruttivo e negativo da compiere. Spazza, pulisci”» (Manifesto Dada del dicembre 1918). Il dadaismo si diffonde in Germania, soprattutto a Berlino, per poi fare la sua comparsa in Francia nel gennaio 1920, data in cui Tzara si trasferisce a Parigi. Avviene allora l’incontro decisivo tra Dada, che fornisce il suo stato d’animo e le sue armi (violenza verbale, spettacoli provocatori), e giovani scrittori frustrati dalla cappa di moralismo conservatore “bleu horizon”4 che sembra dominare la vita intellettuale e culturale. I futuri surrealisti hanno appena fondato, attorno a Breton, Aragon e Philippe Soupault, la rivista «Littérature» (marzo 1919). Niente suggerisce gli incendi futuri… Troviamo, ad esempio, le firme di Paul Valéry, André Gide, Max Jacob, Jean Giraudoux, Jean Paulhan o Pierre Drieu La Rochelle: «Littérature» espone un modernismo in bello stile, senza alcun significato rivoluzionario. Ciò che conta è che si siano messi insieme individui di una stessa generazione, uniti da un’esperienza comune e dalla giovinezza.
André Breton, che si affermerà molto presto alla testa del movimento, nasce nel 1896. Dopo gli studi al liceo Chaptal, durante i quali scopre Baudelaire, Mallarmé e Huysmans, si trasferisce nel 1913 alla Facoltà di medicina, pubblicando contemporaneamente poesie simboliste su «La Phalange». Viene mobilitato nel 1915 e assegnato al servizio sanitario dell’esercito. Tirocinante in psichiatria, comincia ad interessarsi alle teorie freudiane e conosce nel 1916, a Nantes, un altro giovane tirocinante, Jacques Vaché, che condivide con lui il senso dell’assurdo e il rifiuto del mondo così com’è, nel suo conformismo, e la sua banalità: «Senza di lui forse sarei stato un poeta – scriverà Breton ne I passi perduti –. Egli ha sventato in me questo complotto delle forze oscure che mi porta a credere in qualcosa di così assurdo come una vocazione». Nel 1917, trasferitosi a La Pitié poi a Val-de-Grâce, Breton visita assiduamente Guillaume Apollinaire e incontra Louis Aragon.
Rivolta contro il vecchio mondo
Louis Aragon nasce nel 1897. Figlio naturale di un avvocato e deputato gambettista5, vive un’infanzia complessa nei quartieri alti (allevato dai nonni, ha creduto a lungo che sua madre fosse sua sorella maggiore), poi anch’egli sceglie di intraprendere la carriera medica, che lo porta ad essere inviato come stagista a Val-de-Grâce nel 1917. Lo stesso anno, attraverso Apollinaire, Breton e Aragon, divenuti inseparabili, stringono amicizia con Philippe Soupault, nato anche lui nel 1897. Nel 1919, Paulhan mette in contatto i tre uomini con Paul Éluard (nato nel 1895). Successivamente il gruppo si allarga: nel 1920 si uniscono Benjamin Péret (nato nel 1899) e Robert Desnos (nato nel 1900); nel 1921, René Crevel (nato nel 1900), Jacques Baron (nato nel 1905) e Roger Vitrac (nato nel 1899); nel 1923, Joseph Delteil (nato nel 1894) e Pierre Naville (nato nel 1903); nel 1924, infine, Antonin Artaud (nato nel 1896), Michel Leiris (nato nel 1901) e Raymond Queneau (nato nel 1903).
All’alba degli anni Venti, la cerchia dei futuri surrealisti si struttura quindi attorno a scrittori giovanissimi: troppo giovani per aver subito l’impronta dei valori e delle lotte del decennio 1890-1900, ma già sufficientemente maturi per la dolorosa prova della guerra (Éluard, per esempio, l’ha vissuta in prima linea). Sorge una nuova generazione, la “generazione del fuoco”, che aspira a emanciparsi e a trovare posto su un palcoscenico occupato dai sostenitori del vecchio mondo… È allora che l’influenza devastante del Dada vince sulla giovane squadra di «Littérature»: quello che era solo un disagio diffuso si trasforma, al contatto con Tzara che svolge il ruolo di catalizzatore, in rivolta.
Secondo una formula di Breton, l’immediato dopoguerra è simile a una «fase intuitiva» nella storia del surrealismo, in opposizione a una «fase ragionante» iniziata nel 1925. L’anno 1925 segna, infatti, una svolta per i surrealisti: prima di questa data, essi non si ponevano veramente la questione della politica perché si consideravano impegnati in un approccio globale e superiore rispetto a quello proposto dal discorso e dall’azione politica. Dal 1925, invece, cambiano rotta assegnando ormai un posto speciale alla politica.
È qui che l’idea di rivoluzione gioca un ruolo decisivo. Essa spiega innanzitutto la rottura tra «Littérature» e Dada, già effettiva nel febbraio 1922: per i giovani scrittori della rivista non si tratta più di negare una vita detestabile, ma di inventare una vita nuova. Così, Breton presenta la fase dadaista come una tappa da superare, nel momento della pulizia attraverso il vuoto che dovrà seguire alla nascita di un mondo nuovo: «Non si dirà che il dadaismo sarà servito ad altro se non a mantenere noi stessi in questo stato di perfetta disponibilità in cui siamo e dal quale ora ci allontaneremo con lucidità verso ciò che ci chiama» (aprile 1922).
Questo orizzonte ha un nome: rivoluzione, o più precisamente rivoluzione surrealista, cioè rivoluzione tramite il surrealismo. Questo è, infatti, l’obiettivo che diviene gradualmente più chiaro nel corso del 1924, con la pubblicazione del Manifesto del Surrealismo di Breton e la pubblicazione, in dicembre, del primo numero ddella rivista «La Révolution surréaliste», co-diretta da Pierre Naville e Benjamin Péret. In modo significativo, il sottotitolo della nuova rivista definisce così il programma surrealista: «Bisogna giungere a una nuova dichiarazione dei diritti dell’uomo»… È Breton a fissare gli orientamenti principali di un movimento lanciato alla scoperta del sogno, dell’inconscio, del “meraviglioso”. L’uomo surrealista sarà l’uomo totale, quello le cui potenzialità potranno esprimersi tutte liberamente: accanto a Rimbaud o Lautréamont, Freud occupa un posto speciale nel pantheon surrealista, come esploratore delle terre vergini dell’inconscio (già nel 1921 «Littérature» aveva pubblicato un’intervista al padre della psicoanalisi). Racconti onirici, esperienze di sonno ipnotico, scrittura automatica…, la poesia permette a tutti – poiché il surrealismo intende instaurare il «comunismo del genio» – la conquista di una vita autentica. Distruggendo i vecchi muri, abbattendo le catene morali, sociali e culturali, deve ridefinire le relazioni tra l’individuo e il mondo e in tal modo, ma secondariamente, rimodellare radicalmente le relazioni sociali.
Da quel momento in poi non sarà più necessario preoccuparsi della politica in quanto tale: il surrealismo è la rivoluzione piena e completa, molto più profonda di qualsiasi progetto limitato alla sola prospettiva politica. In quell’inverno 1924-1925 i surrealisti provano ancora solo disinteresse o disprezzo per la sfera politica. Questo è il senso della controversia tra Aragon e «Clarté»: agli occhi di Aragon il comunismo rappresenta solo un’agitazione superficiale, molto al di sotto della vera rivoluzione, che deve radicarsi nel profondo dell’essere e di tutte le sue attività.
I surrealisti lavorano per realizzare questa rivoluzione: ecco perché nell’ottobre 1924, al 15 di rue de Grenelle, viene aperto un «Bureau des Recherches surréalistes» (Ufficio delle Ricerche surrealiste) guidato da una nuova recluta, Antonin Artaud. Nato lo stesso anno di Breton, nel 1896, Artaud veniva dal teatro, dove esordì nel 1920 con Charles Dullin. Personalità complessa ed esigente, affetta da disturbi psicologici che lo hanno fatto soffrire fin dall’infanzia, Artaud conferisce alla questione della rivoluzione surrealista una dimensione quasi mistica, reintroducendo una parte del nichilismo Dada che Breton aveva scartato nel 1922.
In questa prospettiva i surrealisti si proiettano all’esterno attraverso il loro gusto per lo scandalo e la provocazione. Così, nel maggio 1921 viene organizzato un processo contro Maurice Barrès, accusato di «crimine contro la sicurezza dello spirito» a causa del suo esacerbato nazionalismo6. Allo stesso modo, nell’ottobre 1924, con l’opuscolo collettivo Un Cadavere essi rompono il consenso generale che regna intorno ai funerali di Anatole France: Breton dichiara che «con France se ne va un po’ di servilismo umano», mentre Aragon confida che «in certi giorni [egli] ha desiderato una gomma per cancellare la sporcizia umana»… Nel luglio 1925 scoppia lo scandalo del banchetto di Saint-Pol-Roux. Invitati a una serata in omaggio al poeta Saint-Pol-Roux, i surrealisti provocano una rissa generale, durante la quale si fa notare Michel Leiris, che termina la nottata alla stazione di polizia per aver gridato slogan antipatriottici. Dopodiché, ancora nel luglio 1925, compare la Lettera aperta a Paul Claudel, ambasciatore francese. Claudel, reo di aver definitivo il surrealismo come un’attività «pederastica», riceve una risposta feroce: «Speriamo con tutte le nostre forze che rivoluzioni, guerre e insurrezioni coloniali arrivino a distruggere questa civiltà occidentale il cui parassitismo voi difendete fino in Oriente».
Allo stesso tempo, però, nel luglio 1925, il surrealismo avvia una svolta decisiva modificando la propria visione della rivoluzione. Per ragioni simili a quelle che avevano portato alla cacciata di Tzara, Artaud si trova estromesso dall’avventura surrealista. Le attività del Bureau vengono ridotte e Breton si occupa della gestione della rivista «La Révolution surréaliste». Si tratta di una vera e propria frenata: sì alla rivoluzione surrealista, ma no al rischio di un radicalismo così assoluto da condurre al vuoto. Da questo momento in poi può aver luogo uno spostamento verso la politica, dalla rivoluzione surrealista totale simboleggiata da Artaud a un modello rivoluzionario completamente diverso, quello incarnato dall’URSS e, in Francia, dal Partito Comunista7.
In effetti, ha luogo un avvicinamento tra i surrealisti e altri due ambienti intellettuali, quello di «Clarté» e quello di «Philosophies». Fondata nel novembre 1921, sotto la guida di Marcel Fournier e Jean Bernier, la rivista «Clarté» non è organicamente legata al PCF, ma gli è tuttavia molto vicina8; «Philosophies», rivista lanciata nella primavera del 1924 e diretta da Pierre Morhange, Norbert Guterman, Georges Politzer e Henri Lefebvre, dal canto suo, si concentra su posizioni più spiritualiste, ma anche «rivoluzionarie»9. Nonostante molte differenze e molte controversie, i tre gruppi, rappresentativi della stessa generazione intellettuale, condividono un identico desiderio di azione e di misticismo rivoluzionario. La Guerra del Rif (1925-1926)10, durante la quale il maresciallo Pétain riiesce a sottomettere il “ribelle” Abd el-Krim che minacciava il protettorato francese in Marocco, permette a queste correnti di unirsi. Dunque «Clarté», «Philosophies» e «La Révolution surréaliste» si uniscono all’ombra del Partito, in un fronte unito di opposizione alla repressione coloniale francese. La confluenza è segnata soprattutto dalla stesura di La Rivoluzione prima e sempre, un proclama collettivo diretto contro la Guerra del Rif. Pubblicato inizialmente sotto forma di volantino indirizzato ai parlamentari, il testo viene pubblicato da «L’Humanité»11 il 21 settembre, poi da «Clarté» e da «La Révolution surréaliste» nei numeri di ottobre. Un passo essenziale per i surrealisti: per la prima volta accettano di assegnare esplicitamente una dimensione politica e sociale alla rivoluzione: «Non siamo utopisti: concepiamo questa Rivoluzione solo nella sua forma sociale».
Allo stesso tempo, il gruppo chiarisce il proprio spostamento verso la rivoluzione comunista: nell’ottobre 1925 Breton pubblica su «La Révolution surréaliste» un resoconto entusiasta del Lenin di Trockij, proclamando in particolare che il comunismo «si è rivelato come il più meraviglioso agente di sostituzione di un mondo a un altro». Nel loro slancio, i giovani rappresentanti dell’avanguardia concepiscono il «grandioso progetto» (Breton) di unificazione strutturale nel quadro di un movimento indipendente dal PCF ma legato alla Terza Internazionale, e il cui funzionamento sarebbe modellato su quello del Partito. In questo senso si stabiliscono stretti contatti tra i surrealisti e «Clarté». Nasce così, alla fine del 1925, il progetto di una rivista comune, «La Guerre civile», che avrebbe dovuto sostituire «Clarté» e «La Révolution surréaliste» a partire dal 1926. Ma la riluttanza dell’ultima ora dei surrealisti porta al fallimento del progetto. Come sempre, è Breton a esprimere la posizione del gruppo, nel numero di «Clarté» del dicembre 1925: «Non credo che attualmente ci sia motivo di contrapporre la causa dello spirito puro a quella della Rivoluzione. […] Ancor meno capirei che per fini utilitaristici qualcuno voglia ottenere da me il disconoscimento dell’attività surrealista, per esempio». La questione è chiara: se i surrealisti sono pronti a sostenere il Partito nel suo cammino rivoluzionario, non potrebbero assolutamente accettare che la loro azione venga assoggettata a una linea imposta dall’esterno. La rivoluzione surrealista e la rivoluzione comunista possono e devono completarsi a vicenda, ma la seconda non deve in alcun modo rallentare, e nemmeno arrestare, lo sviluppo della prima.
Questo passo indietro non avviene senza provocare forti tensioni all’interno del gruppo surrealista: l’anno 1926 è così segnato dall’“affaire Naville”, che alla fine accelera il passaggio dal surrealismo alla politica.
Durante l’inverno 1925-1926, Pierre Naville attacca le ambiguità dei suoi compagni in un testo che tenta di chiarire il dibattito, intitolato Cosa possono fare i surrealisti? Figlio di un finanziere in contrasto con le sue origini familiari, Naville si unisce a Breton e ai surrealisti nel 1923, per amore di un’azione concreta: è così che, dopo aver assicurato la co-direzione de «La Révolution surréaliste» nei suoi primi mesi di esistenza, ha aderito al PCF nel 1926. Si sforza quindi di mettere i surrealisti di fronte a quelle che considera le loro responsabilità, ponendo la domanda fondamentale: dobbiamo credere a «una liberazione dello spirito anteriore all’abolizione delle condizioni borghesi della vita materiale» o, al contrario, al primato della rivoluzione sociale ed economica? Secondo lui il surrealismo potrà: «1) o perseverare in un atteggiamento negativo di ordine anarchico [...]; 2) oppure impegnarsi risolutamente sulla via rivoluzionaria, l’unica via rivoluzionaria, la via marxista».
Inizialmente, questo ultimatum provoca una rottura: Naville si separa dal gruppo e diviene condirettore di «Clarté» (sarà, dagli anni ’30, uno dei leader del movimento trotskista). Breton risponde: il PCF non detiene il monopolio dell’azione rivoluzionaria. Se l’adesione di principio dei surrealisti è acquisita («non c’è nessuno fra noi che non auspichi il passaggio del potere dalle mani della borghesia a quelle del proletariato»), non si può impedire che «la fiamma rivoluzionaria arda dove vuole», e continua ad essere indispensabile «che le esperienze di vita interiore continuino, e ciò, beninteso, senza controllo esterno, fosse anche un controllo marxista” (Legittima difesa, settembre 1926).
Ma, poiché si pone il problema nei termini del “tutto o niente”, è tuttavia l’affaire Naville a indurre i surrealisti a compiere il passo dell’adesione nel 1927: Aragon, Breton, Éluard, Péret e Unik diventano membri del Partito. La spiegazione che danno lo stesso anno, nell’articolo Nel grande giorno, è rivelatrice: «Abbiamo aderito al Partito Comunista Francese credendo soprattutto che non farlo avrebbe potuto implicare da parte nostra una riserva che non c’era»! È dunque per guadagnarsi la patente di rivoluzionari, per assicurarsi una legittimità loro contestata, che i surrealisti hanno aderito al Partito. I firmatari attestano vigorosamente la loro buona fede: «Mai, insistiamo con tutte le nostre forze, abbiamo pensato di affermarci davanti a voi [comunisti] come surrealisti».
Breton, iscritto alla cellula del gas!
Ecco che il surrealismo passa nel campo del Partito. E non dimentichiamo il fatto che, poiché avevano respinto l’avvicinamento ai comunisti, Artaud e Soupault erano stati esclusi dal gruppo alla fine del 1926 (Jacques Baron, Michel Leiris, Robert Desnos e Raymond Queneau subiranno la stessa sorte nel 1929, per lo stesso motivo). E, modifica che assume valore simbolico, «La Révolution surréaliste» diventa a partire dal luglio 1930 «Le Surréalisme au service de la Révolution».
L’adesione, tuttavia, non cancella in alcun modo l’ambiguità dei rapporti tra surrealismo e Partito. Sul versante comunista – il PCF sta vivendo la sua fase di bolscevizzazione e di ripiegamento su sé stesso, culminata alla fine del 1927 con l’adozione della tattica “classe contro classe” – si è diffidenti nei confronti degli intellettuali incontrollabili e sospettati di eresia, di dilettantismo e d’individualismo borghese. Questa riserva corrisponde agli ukaz dell’Internazionale letteraria, di cui gli studi di Jean-Pierre Morel hanno mostrato l’estrema riluttanza nei confronti dei surrealisti. Così a Parigi si tenta di mettere alla prova i surrealisti: Breton, affiliato alla cellula dell’impresa del gas (!), racconta come, chiamato a fornire un rapporto sull’Italia fascista basato su innumerevoli dati statistici, dovette arrendersi di fronte della grandezza del compito…
Anche da parte surrealista la sfiducia è totale. Nel 1929, nel suo Secondo Manifesto surrealista, Breton torna all’apologia della rivolta cruda («L’atto surrealista più semplice consiste nello scendere in strada, con la rivoltella in mano, e sparare a casaccio, finché si può, in mezzo alla folla») e, soprattutto, invoca ancora una volta l’indipendenza del surrealismo: «Non vedo davvero, con tutto il rispetto per alcuni rivoluzionari di mentalità ristretta, perché dovremmo astenerci dal sollevare questioni, a condizione che le consideriamo dalla stessa prospettiva da cui loro – e anche noi – vedono la Rivoluzione: le questioni dell’amore, dei sogni, della follia, dell’arte e della religione».
Poco sensibile all’operaismo comunista, ignaro delle realtà proletarie, il surrealismo resta profondamente combattuto, intrappolato tra il martello del Partito e le sue stesse dinamiche interne. Gli erano stati proposti due orientamenti, ciascuno altrettanto coerente dell’altro: la via Artaud della rivoluzione surrealista totale, la via Naville della rivoluzione comunista. Tra le due, i surrealisti optano, con Breton, per la strada della non scelta, con tutte le tensioni e tutte le scomuniche che ciò suppone. Naturalmente continuano a lottare a fianco del Partito: ad esempio, nel 1931, partecipano attivamente alla campagna contro l’Esposizione Coloniale di Vincennes, in particolare con il volantino Non visitate l’Esposizione Coloniale («Ai discorsi e alle esecuzioni capitali, rispondete esigendo l’evacuazione immediata delle colonie e l’incriminazione dei generali e dei funzionari responsabili dei massacri nell’Annam, in Libano, in Marocco e nell’Africa Centrale»).
Ma questo o quell’impegno una tantum non risolve il malessere, scoppiato alla fine del 1930 - inizio 1931 con l’“affaire Aragon”. Accompagnato da Georges Sadoul, Aragon partecipa nel novembre 1930, a Charkov, al secondo congresso dell’Unione Internazionale degli Scrittori Rivoluzionari: lì si impegna a sottomettere la propria attività letteraria alle direttive del Partito e firma un’autocritica sul surrealismo che si dissocia dal Secondo Manifesto di Breton e dalle sue «derive» freudo-trotskiste… Tornato a Parigi, pubblica su «Le Surréalisme au service de la Révolution» un atto di totale fedeltà alla Terza Internazionale e al PCF, e chiede «il riconoscimento, nel campo della pratica, dell’azione della Terza Internazionale come unica azione rivoluzionaria». Chiaramente, i surrealisti devono sottomettersi o dimettersi: tra Aragon e i suoi ex compagni la spaccatura si allarga poco a poco, portando alla rottura di fatto a partire dal 1932. Inoltre, allo stesso tempo, l’Unione Internazionale degli Scrittori Rivoluzionari decide di andare al sodo costringendo i surrealisti a una scelta definitiva: la «risoluzione sulla Francia» del febbraio 1932 prevede che «gli elementi sani di questo gruppo, se esistono e se desiderano lottare veramente per la causa della classe operaia […], devono dissociarsi risolutamente dal gruppo e contribuire con tutti i mezzi a smascherarlo definitivamente».
Un ultimo episodio chiude il tumultuoso capitolo del passaggio dei surrealisti nel Partito: in un articolo su Il cammino della vita, film sovietico che esalta le virtù del lavoro, il filosofo Ferdinand Alquié osa denunciare il «vento di cretinizzazione che spira dall’URSS». La misura è colma: alla fine del 1933 i surrealisti Breton, Éluard e Crevel vengono esclusi dal Partito Comunista.
La tentazione trotskista
Naturalmente la cacciata del Partito non significa la fine di ogni attività politica. Il 10 febbraio 1934, dopo la sanguinosa dimostrazione di forza delle leghe antiparlamentari del 6 – interpretata dalla sinistra come un tentativo di colpo di stato fascista – i surrealisti lanciano un appello alla lotta e aderiscono al Comitato di vigilanza degli intellettuali antifascisti. Successivamente manterranno la loro duplice opposizione allo stalinismo e al fascismo, tentando invano, nell’autunno del 1935, di creare con lo scrittore Georges Bataille il gruppo Contre-Attaque, una «unione di lotta di intellettuali rivoluzionari». Ostili al Fronte popolare, cui rimproverano la mancanza di una dimensione rivoluzionaria, molti di loro finiscono per aderire al trotskismo. Nel 1938, dopo aver incontrato Trockij in Messico, Breton partecipa alla fondazione della FIARI, Federazione Internazionale dell’Arte Rivoluzionaria Indipendente, il cui bollettino mensile, «Clé», conterà solo due numeri: poi arriva la guerra e, con essa, una completa redistribuzione delle carte.
All’epoca degli Accordi di Monaco i surrealisti adottano una posizione “nénéista” (né con Stalin né con Hitler)…12 L’essenziale non c’è più: dopo il 1933 la questione del legame intrinseco tra surrealismo e politica sembrava svanire. L’impegno dei surrealisti non è più quello del surrealismo; esso si banalizza e non offre più alcuna differenza strutturale da quella di un Malraux, per esempio, o, in tutt’altra direzione, di un Drieu La Rochelle. Inoltre, il surrealismo al servizio della Rivoluzione scompare nel maggio 1933; i surrealisti salgono allora sul treno del «Minotaure», superba rivista artistica e culturale fondata nel febbraio 1933 da Albert Skira, mentre l’approccio creativo e l’approccio politico diventano sempre più indipendenti l’uno dall’altro. «“Trasformare il mondo” ha detto Marx, “cambiare la vita” ha detto Rimbaud: questi due slogan per noi sono uno solo». La celebre formula di Breton risale al giugno 1935: in quel momento, quale poteva la reale portata dei surrealisti?…
Nel complesso, la questione principale resta quella dell’avvicinamento al Partito del 1925, preludio all’adesione del 1927: ciò è stato possibile perché, nella sua impresa di liberazione rivoluzionaria, il surrealismo ha inteso condannare l’idea stessa di “arte” come attività specifica tagliata fuori dalla vita. Questa è infatti la tesi espressa con la radicalità che conosciamo da Artaud, questa è anche la posizione, più volte proclamata, dell’intero gruppo ed espressa da Aragon nel suo Trattato sullo stile (1928). Ma le cose non erano così semplici. Ad esempio, quando nel 1924 André Malraux fu processato per aver rubato le statuette del tempio di Angkor, Breton si difese in «Les Nouvelles littéraires»: è soprattutto lo scrittore che egli difende, di fronte al rischio che corre Malraux di non poter più «servire l’arte del nostro tempo in Francia» (16 agosto 1924). Allo stesso modo, quando nel gennaio 1931 Aragon fu minacciato dalla giustizia dopo la pubblicazione di Fronte Rosso, un poema mediocre e incendiario in cui esaltava «la GPU, figura dialettica dell’eroismo», e invitava all’omicidio rivoluzionario («Abbattiamo gli sbirri, compagni!»), Breton organizza una petizione per sostenerlo, sul tema della necessaria libertà della poesia e del diritto dell’artista a dire tutto…
Eredi inconsapevoli dell’Illuminismo e di una concezione messianica dell’intellettuale, i surrealisti credevano di poter svolgere, accanto e poi all’interno del Partito, il ruolo di avanguardia dell’avanguardia, il ruolo di coscienza della rivoluzione. Ciò significava ignorare la politica culturale stalinista, che fa dell’intellettuale un agente di propaganda e gli nega ogni specificità.
Pascal Balmand*
[traduzione di Leandro Casini]
* Docente presso l’Institut d’études politiques di Parigi, membro della redazione di «Vingtième siècle. Revue d’histoire», Pascal Balmand continua la ricerca sulla storia dei circoli intellettuali in Francia tra le due guerre.
(Tratto da: Pascal Balmand, Breton, Aragon… les surréalistes et les communiste, in «L’Histoire», n. 127, novembre 1989, disponibile al link: https://www.lhistoire.fr/breton-aragon-les-surr%C3%A9alistes-et-les-communistes).
Note
1 Charles Maurras (1868-1952) è stato un giornalista, politico e poeta francese, leader del movimento nazionalista monarchico Action Française, fondatore dell’omonimo quotidiano; il suo indirizzo politico reazionario fu detto maurrassismo.
2 Lettera del 1° dicembre 1924 a Jean Bernier, direttore di «Clarté», pubblicata nel gennaio 1925 su «La Révolution surréaliste».
3 Secondo la leggenda, il termine «dada» fu scelto a caso dalle pagine di un dizionario l’8 febbraio 1916 al Café Terrasse di Zurigo.
4 Il bleu horizon (blu orizzonte) è il nome del colore che corrisponde a quello delle uniformi della fanteria francese durante la Grande Guerra. Il bleu horizon divenne presto il simbolo del combattente della Prima Guerra Mondiale: dopo il conflitto simboleggiava i veterani e il nazionalismo intransigente della Camera dei Deputati detta appunto Camera Orizzonte Blu, composta, nel 1919, da conservatori desiderosi di vendicarsi con la Germania [ndt].
5 Léon Gambetta (1838-1882) è stato un politico progressista francese. Primo Ministro dal 14 novembre 1881 al 26 gennaio 1882, si mise in luce in particolare come difensore della nazione durante la guerra franco-prussiana nel 1870 e come riformatore durante il suo governo. La sua politica si scontrò spesso con le lobby finanziarie e con il conservatorismo. Essa fu una fonte di ispirazione per vari esponenti politici, in particolare per Jean Jaurès [ndt].
6 Maurice Barrès (1862-1923), scrittore e politico, fu una figura di spicco del nazionalismo repubblicano. Scrittore decadente e vicino all’estetismo, in politica fu nazionalista, su posizioni antisemite nell’affaire Dreyfus, e interventista nella guerra contro la Germania.
Il cosiddetto “processo Barrès”, intentato contro di lui dalle avanguardie, ebbe luogo il 13 maggio 1921 nella Salle des Sociétés Savantes, rue Danton, alla presenza di un manichino che incarnava l’imputato. La corte era presieduta da Breton, l’accusa da Georges Ribemont-Dessaignes e la difesa da Aragon e Soupault.
7 L’anno 1925 è stato studiato da Michel Trebitsch, La mystique révolutionnaire dans les avant-gardes des années vingt, in Révolte et société. Actes du quatrième colloque d’«Histoire au présent», t. I, Paris, Publications de la Sorbonne-Histoire au présent, 1989.
8 Su «Clarté» cfr. Nicole Racine, Une revue d’intellectuels communistes dans les années vingt : Clarté (1921-1928), in «Revue française de Science politique», juin 1967, e Olivier Balagna, Réseaux d’intellectuels et organisation partisane dans la genèse du communisme français : l’exemple du mouvement Clarté, in Du groupe au réseau. Réseaux religieux, politiques, professionnels, sous la direction de Philippe Dujardin, Paris, Éditions du CNRS, 1988.
9 Su «Philosophies» cfr. Michel Trebitsch, Le groupe Philosophies, de Max Jacob aux surréalistes (1924-1925), in «Cahiers de l’Institut d’Histoire du Temps présent», novembre 1987, e Les mésaventures du groupe Philosophies (1924-1933), in «La Revue des revues», n° 3, printemps 1987.
10 Il Rif è una catena montuosa del nord del Marocco. La Guerra del Rif (1911-1926) fu una guerra coloniale che contrappose le tribù del Rif agli eserciti spagnolo e – negli ultimi due anni – francese [ndt].
11 Organo del Partito Comunista Francese [ndt].
12 Cfr. Michel Winock, Les intellectuels français et l’esprit de Munich, Des années trente. Groupes et ruptures, sous la direction de A. Roche et de Ch. Tarting, Paris, Éditions du CNRS, 1985.
Per saperne di più
Sui surrealisti nel contesto generale:
- J.-P. Morel, Le Roman insupportable. L’Internationale littéraire et la France (1920-1932), Paris, Gallimard, 1985.
- P. Ory et J.-F. Sirinelli, Les Intellectuels en France, de l’affaire Dreyfus à nos jours, Paris, Armand Colin, 1986.
Sui surrealisti in quanto tali:
- L. Janover, Le Rêve et le Plomb. Le surréalisme de l’utopie à l’avant-garde, Paris, J.-M. Place, 1986. La Révolution surréaliste, Paris, Pion, 1989.
- M. Nadeau, Histoire du surréalisme, Paris, Le Seuil, 1945, rééd. 1972.
- N. Racine, notices biographiques, dans la 4e partie (1914-1939) du Dictionnaire biographique du mouvement ouvrier français de J. Maîtron, Paris, Éditions ouvrières.
Testi e documenti surrealisti:
- H. Béhar et M. Carassou (présentation de), Le Surréalisme. Textes et débats, Paris, Le Livre de poche, 1984.
- A. Breton, Manifestes du surréalisme, Paris, J.-J. Pau vert, 1962.
- J. Pierre (présentation de), Tracts surréalistes et déclarations collectives, t. I (1922-1939), Paris, Éric Losfeld, 1980.
Inserito il 27/12/2023.
Documenti
Manifesto per un’arte rivoluzionaria indipendente
di André Breton, Diego Rivera (e Lev Trockij)
Consumatasi la rottura con il Partito Comunista Francese e con Louis Aragon, contro lo stalinismo che cercava di imporsi sulle tendenze artistiche dei militanti del partito, nel 1938 André Breton conobbe in Messico il leader rivoluzionario sovietico in esilio Lev Trockij. Insieme a questo e al pittore rivoluzionario messicano Diego Rivera, il fondatore del movimento surrealista stilò un Manifesto per un’arte rivoluzionaria che mantenesse per principio un carattere d’indipendenza individuale.
Si noterà nel Manifesto il duro attacco all’Unione Sovietica di Iosif Stalin, accusato di rappresentare il più pericoloso nemico del comunismo.
I risvolti pratici conseguenti al lancio del Manifesto non furono esaltanti. In Francia si dette vita a una rivista, «Clé», che però non andò oltre il secondo numero.
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Manifesto in cui si invita a formare una federazione internazionale dell’arte rivoluzionaria indipendente
Per un’arte rivoluzionaria indipendente
Si può senza esagerazione affermare che mai come oggi la civiltà umana è stata minacciata da tanti pericoli. I vandali distruggono con i loro mezzi barbari, cioè molto precari, la civiltà degli antichi in una zona limitata dell’Europa. Ora è tutta la civiltà mondiale, nell’unità del suo destino storico, a vacillare sotto la minaccia di forze reazionarie armate di tutta la tecnica moderna. Non vediamo solamente la guerra che si avvicina. In tempo di pace, come siamo ora, la situazione della scienza e dell’arte è diventata assolutamente intollerabile.
Per quanto conserva di individuale nella sua genesi, per quanto mette in opera delle qualità soggettive al fine di portare alla luce un certo fatto che comporta un arricchimento oggettivo, una scoperta filosofica, sociologica, scientifica o artistica appare come il prodotto di un caso prezioso, cioè come il manifestarsi più o meno spontaneo della necessità. Un simile apporto non può essere trascurato sia dal punto di vista della conoscenza generale (che tende a fare sì che l’interpretazione del mondo prosegua) sia dal punto di vista rivoluzionario (che, per arrivare alla trasformazione del mondo, impone che ci si faccia un’idea esatta delle leggi che ne regolano il movimento). In particolare non si può disinteressarsi delle condizioni mentali nelle quali questo apporto continua a verificarsi né si può, quindi, non vigilare affinché sia garantito il rispetto delle leggi specifiche a cui è soggetta la creazione intellettuale.
Orbene il mondo attuale ci costringe a constatare la violazione sempre più generale di queste leggi, violazione a cui corrisponde obbligatoriamente uno scadimento sempre più palese non solamente dell’opera d’arte ma anche della personalità «artistica». Il fascismo hitleriano, dopo avere spazzato via dalla Germania tutti gli artisti in cui si trovava espresso in qualche misura l’amore per la libertà, non foss’altro a livello formale, ha costretto coloro che potevano ancora acconsentire a tenere in mano una penna o un pennello a farsi lacchè del regime e a celebrarlo a comando, nei limiti esteriori della peggiore convenzionalità. A parte la pubblicità, la stessa cosa si è verificata nell’URSS durante il periodo di furiosa reazione che è giunto ora al suo apogeo.
È ovvio che noi non ci sentiamo solidali neppure per un momento, qualunque sia la sua attuale fortuna, con la parola d’ordine: « Né fascismo né comunismo!», che risponde alla natura conservatrice del filisteo spaventato e aggrappato alle vestigia del passato «democratico». La vera arte, cioè quella che non si accontenta di variazioni su modelli bell’e pronti, ma si sforza di dare espressione ai bisogni interiori dell’uomo e dell’umanità di oggi, non può non essere rivoluzionaria, non aspirare cioè a una ricostruzione completa e radicale della società, non foss’altro per liberare la creazione intellettuale dalle catene che le sono d’impaccio e permettere a tutta l’umanità di raggiungere altezze toccate nel passato soltanto dai geni isolati. Nello stesso tempo riconosciamo che soltanto la rivoluzione sociale può aprire la strada a una nuova cultura. Se, tuttavia, rifiutiamo ogni forma di solidarietà all’attuale casta dirigente dell’URSS, è proprio perché ai nostri occhi essa non rappresenta il comunismo, ma il nemico più infido e pericoloso del comunismo.
Sotto l’influenza del regime totalitario dell’URSS e per il tramite degli organismi cosiddetti «culturali» che essa controlla negli altri paesi, si è stesa su tutto il mondo una fitta oscurità che impedisce l’emergere di qualsiasi specie di valore spirituale. Oscurità di fango e di sangue nella quale, travestiti da intellettuali e da artisti, sono immersi certi uomini che hanno fatto del servilismo una forza, del rinnegamento del loro principio un gioco perverso, della falsa testimonianza prezzolata un’abitudine e dell’apologia del delitto un piacere. Nell’arte ufficiale dell’epoca staliniana si riflettono, con una crudeltà che non ha esempi nella storia, i ridicoli tentativi di darla a bere e di mascherare il loro vero ruolo mercenario.
La sorda riprovazione che suscita nel mondo artistico questa sfrontata negazione dei principi ai quali l’arte ha sempre obbedito e che gli stessi stati che si sostengono sulla schiavitù si sono ben guardati dal contestare in maniera così totale deve fare posto a una condanna implacabile. L’opposizione artistica è oggi una delle forze che possono utilmente contribuire al discredito e alla rovina dei regimi sotto i quali, insieme con il diritto per la classe sfruttata di aspirare a un mondo migliore, si perde ogni senso della grandezza e persino della dignità umana.
La rivoluzione comunista non ha timore dell’arte. Essa sa che al termine delle ricerche che si può far condurre sulla formazione della vocazione artistica nella società capitalista in via di sfacelo, il determinarsi di tale vocazione può essere considerato solo come il risultato di un urto tra l’uomo e un certo numero di forme sociali che gli sono avverse. È solo questa congiuntura, a parte il grado di coscienza che resta da acquisire, a fare dell’artista un suo alleato per inclinazione. Il meccanismo di sublimazione che interviene in questo caso e che la psicanalisi ha messo in evidenza, ha lo scopo di ristabilire l’equilibrio rotto tra l’«io» coerente e gli elementi rimossi. Tale ristabilimento avviene a vantaggio dell’«ideale dell’io» che fa insorgere contro l’insopportabile realtà presente le potenze del mondo interiore, del «sé», comuni a tutti gli uomini e sempre in via di compimento nel divenire. Il bisogno di emancipazione dello spirito deve solo seguire il suo corso naturale per essere condotto a fondersi e a rinforzarsi in questa necessità fondamentale: il bisogno di emancipazione dell’uomo.
Ne deriva che l’arte non può acconsentire senza decadere a piegarsi alle direttive esterne e ad andare a riempire i posti che alcuni credono di poterle assegnare per scopi pragmatici a scadenza estremamente breve. Meglio rimettersi alla capacità prefigurativa che è appannaggio di ogni artista autentico, che implica un inizio di soluzione (virtuale) delle più gravi contraddizioni della sua epoca e che indirizza il pensiero dei suoi contemporanei verso l’urgente necessità di costituire un ordine nuovo.
Ai giorni nostri c’è bisogno di un energico ritorno all’idea che il giovane Marx si è fatta del ruolo dello scrittore. È chiaro che tale idea deve essere estesa, sul piano artistico e scientifico, a tutte le categorie di creatori e ricercatori. «Lo scrittore deve, com’è naturale, guadagnare del denaro per potere vivere e scrivere, ma non deve in nessun caso vivere e scrivere per guadagnare del denaro… Lo scrittore non deve assolutamente considerare i suoi lavori come un mezzo. Essi sono degli scopi in sé, sono tanto poco un mezzo per l’artista e per gli altri che egli sacrifica, se occorre, un po’ della sua esistenza alla loro esistenza… La prima condizione della libertà di stampa consiste nel non essere un mestiere». È più che mai attuale brandire questa dichiarazione contro coloro che pretendono di assoggettare l’attività intellettuale a scopi che le sono esterni e dettare legge nell’ambito delle tematiche dell’arte, in funzione di supposte ragioni di stato, senza preoccuparsi di nessuna delle determinazioni storiche che ad essa sono proprie. La libera scelta di queste tematiche e l’assoluta non-limitazione per quanto concerne la scelta del suo campo d’indagine rappresentano per l’artista un bene che egli ha il diritto di rivendicare come qualcosa di inalienabile. In materia di creazione artistica, è di fondamentale importanza il fatto che la fantasia sia libera da ogni costrizione, non si lasci con un qualche pretesto imbrigliare. A coloro che ci incitassero, o oggi o un altro giorno, ad acconsentire che l’arte sia soggetta a una disciplina che riteniamo radicalmente incompatibile con i suoi modi, noi opponiamo un rifiuto inappellabile e il nostro deliberato proposito di obbedire allo slogan: ogni licenza in arte.
Riconosciamo, ben s’intende, allo stato rivoluzionario il diritto di difendersi contro l’aggressività della borghesia reazionaria, anche quando questa si ponga sotto la bandiera della scienza e dell’arte. Ma tra queste temporanee misure di autodifesa rivoluzionaria imposte dalle circostanze e la pretesa di comandare sulla creazione intellettuale della società c’è un abisso. Se per lo sviluppo della produttività materiale la rivoluzione è costretta a mettere in piedi un sistema socialista su base centralizzata, per quanto riguarda la creazione intellettuale, essa deve, fin dagli inizi, costituire e garantire un regime anarchico di libertà individuale. Nessuna autorità, nessuna costrizione, nessun ordine, neanche minimo! Numerose associazioni di scienziati nonché numerose collettività artistiche possono sorgere e impegnarsi in un lavoro fecondo basato unicamente su una libera amicizia, amicizia creatrice perché non soggetta ad alcuna costrizione esterna, lavorando così a risolvere problemi che non sono mai stati tanto grandiosi.
Da quanto si è appena detto deriva chiaramente che, difendendo la libertà della creazione, noi non intendiamo assolutamente giustificare l’indifferentismo politico e che è lungi dal nostro pensiero volere risuscitare una sedicente arte «pura» che di solito serve gli scopi più che impuri della reazione. No, noi abbiamo un’idea troppo alta della funzione dell’arte per negarle un’influenza sul destino della società. Riteniamo che il compito supremo dell’arte dei nostri tempi è di partecipare coscientemente e attivamente alla preparazione della rivoluzione. Tuttavia l’artista può servire la lotta di emancipazione solo se, in quanto soggetto, è posseduto dal suo contenuto sociale e individuale, solo se ne trasferisce il significato e il dramma nel suo sangue e solo se cerca liberamente di dare una rappresentazione al suo universo interiore.
Nel periodo attuale, caratterizzato dall’agonia del capitalismo sia democratico sia fascista, l’artista si vede minacciato, senza neppure avere bisogno di dare al suo dissenso sociale una forma manifesta, dalla privazione del diritto di vivere e di continuare la sua opera che subisce il torto di essere esclusa da tutti i mezzi di diffusione. È naturale che egli si volga allora verso le organizzazioni staliniste in quanto queste gli offrono la possibilità di sfuggire al suo isolamento. La sua rinuncia a tutto quanto può concorrere a rappresentare il suo messaggio particolare e le compiacenze terribilmente degradanti che queste organizzazioni esigono da lui in cambio di qualche vantaggio materiale gli impediscono di rimanere in esse se la corruzione è impotente ad avere ragione del suo carattere. Occorre, fin da questo momento, che capisca che il suo posto è altrove, non tra coloro che tradiscono la causa della rivoluzione e nello stesso tempo, necessariamente, la causa dell’uomo, ma tra coloro che danno prova della loro incrollabile fedeltà ai principi di questa rivoluzione, tra coloro che, per questa ragione, restano i soli uomini qualificati ad aiutarne la realizzazione e ad assicurare, grazie ad essa, l’eventuale libera espressione di tutte le manifestazioni del genio umano.
Lo scopo del presente appello è di trovare un terreno comune a tutti i sostenitori rivoluzionari dell’arte, un terreno in cui si possa servire la rivoluzione attraverso i sistemi dell’arte e difendere la libertà dell’arte stessa contro gli usurpatori della rivoluzione. Noi siamo convinti che un incontro su questo terreno è possibile per i rappresentanti di tutte le tendenze estetiche, filosofiche e politiche anche le più contrastanti. I marxisti possono qui andare a braccetto con gli anarchici purché rompano senza riserve i ponti con lo spirito reazionario e poliziesco sia di Giuseppe Stalin sia del suo vassallo Garcia Oliver.
Migliaia e migliaia di pensatori e artisti isolati, la cui voce è coperta dall’infame tumultuare di un esercito di falsificatori, si trovano attualmente disseminati per il mondo. Numerosi giornaletti di provincia tentano di raggruppare attorno a sé le giovani forze, cercano vie nuove e non sovvenzioni. Qualsiasi tendenza progressista in campo artistico viene condannata dal fascismo come una degenerazione. Qualsiasi libera creazione viene dichiarata fascista dagli stalinisti. L’arte rivoluzionaria indipendente deve essere unita in vista della lotta contro le persecuzioni reazionarie e proclamare apertamente il suo diritto all’esistenza. Una tale unione è lo scopo della Federazione internazionale dell’arte rivoluzionaria indipendente (FIARI) che abbiamo giudicato necessario fondare.
Non abbiamo nessuna intenzione di imporre le idee contenute in questo appello, che noi stessi consideriamo solo come un primo passo su una nuova via. A tutti i rappresentanti, a tutti gli amici e difensori dell’arte, a coloro cioè che non possono non capire la necessità del presente appello, chiediamo di far immediatamente sentire la loro voce. Rivolgiamo lo stesso invito a tutti i giornali indipendenti di sinistra che siano disposti a partecipare alla creazione della federazione internazionale e a un’analisi dei suoi compiti e metodi d’azione.
Una volta arrivati a un primo contatto internazionale mediante la stampa e la corrispondenza, procederemo all’organizzazione di piccoli congressi locali e nazionali. Nella fase successiva ci si dovrà riunire in un congresso mondiale che darà una consacrazione ufficiale alla fondazione della federazione internazionale.
Noi vogliamo:
L’indipendenza dell’arte – per la rivoluzione.
La rivoluzione – per la liberazione definitiva dell’arte.
André Breton, Diego Rivera*
Messico, 25 luglio 1938
Indirizzare le adesioni a:
André Breton, 42, rue Fontaine, Parigi, Francia.
Note
* André Breton e Diego Rivera erano i nomi che apparivano in calce al manifesto/appello, per esigenze “tattiche”, ma in realtà il testo fu redatto da André Breton e Lev Trockij.
Inserito il 27/12/2023.
Diego Rivera (1886-1957), Lev Trockij (1879-1940) e André Breton (1896-1966) in Messico nel 1938.
Fonte della foto: https://www.rivistascomposizioni.eu/arte-e-politica-manifesto-per-unarte-rivoluzionaria-indipendente/
Intellettuali e PCI
Il caso Calvino
1956. La rivolta ungherese e la rottura col PCI
1956. La rivolta ungherese e la rottura col PCI
La storia e i documenti dell’abbandono del PCI da parte dello scrittore Italo Calvino in seguito ai drammatici eventi del 1956 in Ungheria e alla presa di posizione del partito in sostegno all’intervento nel Paese dei carri armati sovietici.
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1956. Italo Calvino, la rivolta ungherese e la rottura col PCI
Parlare del rapporto tra Italo Calvino e il Partito Comunista Italiano partendo dal momento della rottura probabilmente non rende un bel servizio alla storia. Eppure possiamo scommettere che, in occasione del centenario della nascita dello scrittore ligure (egli nacque a Cuba il 15 ottobre 1923 ma all’età di due anni la sua famiglia si stabilì a Sanremo, città d’origine del padre, agronomo – la madre invece era originaria di Sassari, prima donna in Italia a ricoprire una cattedra di Botanica), quando si parlerà del PCI nella sua biografia, ciò verrà fatto mettendo l’accento sul suo abbandono del partito in polemica con le posizioni assunte dal gruppo dirigente in sostegno all’intervento sovietico in Ungheria nell’ottobre 1956.
Anche noi, è vero, commettiamo qui e ora questo errore di prospettiva, ma promettiamo di non limitarci al ricordo di quel momento specifico, cioè la fine del rapporto; nelle prossime settimane andremo oltre, pubblicando materiali di e su Calvino militante, collaboratore de «l’Unità» e di «Rinascita», e poi sugli sviluppi successivi al 1956, in cui mai è mancata l’adesione a un campo ben preciso, dalla parte del movimento operaio e delle sue istanze.
Luciano Canfora ha definito il 1956 l’«anno spartiacque». Alcuni importanti eventi di portata internazionale giustificano questa definizione dello storico. Innanzi tutto, il XX Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, durante il quale il segretario generale Nikita Chruščëv lesse un rapporto “segreto” in cui si demoliva la figura di Stalin che fino allora era stato visto come il “padre dei popoli” e l’uomo che più di tutti aveva avuto il merito di aver condotto il proprio popolo alla vittoria sul nazifascismo. Tale evento destabilizzò non poco il potere dei partiti comunisti e operai al governo negli Stati del campo socialista, e rivolte operaie e popolari si ebbero in Polonia, a Poznán, e in seguito in Ungheria, dove venne messo in discussione il potere del Partito Ungherese dei Lavoratori; il governo guidato dai rappresentanti della vecchia guardia Gerö e Hegedüs venne sciolto e fu formato un nuovo governo presieduto da Imre Nagy, già negli anni precedenti in contrasto con la linea del presidente stalinista Mátyás Rákosi. La mossa del partito non impedì alla rivolta di prendere ancora più slancio nella capitale e nelle altre città; per placarla Nagy accettò le richieste dei rivoltosi sull’abolizione del monopartitismo e sull’avvio del ritiro delle truppe sovietiche dalle basi del Paese e sull’uscita dal Patto di Varsavia. A quel punto l’Unione Sovietica decise di passare all’azione e in seguito all’intervento nel Paese delle truppe dell’Armata Rossa, che ufficialmente avevano lo scopo di ristabilire il sistema di legalità socialista, il primo ministro Nagy venne arrestato e destituito d’autorità insieme agli altri membri del governo. Due anni Nagy dopo venne condannato e giustiziato.
La repressione della rivolta nel sangue sconvolse il mondo, e in special modo gli ambienti culturali che ruotavano intorno ai partiti comunisti dell’Europa occidentale. In Francia e in Italia i comunisti si divisero tra chi, pur sostenendo la destalinizzazione uscita dal XX Congresso del PCUS, appoggiò incondizionatamente l’intervento sovietico in Ungheria perché il capitalismo non avanzasse nelle giovani democrazie popolari, e chi (in genere una minoranza) considerò invece che proprio tale intervento dimostrasse la mancata destalinizzazione delle classi dirigenti dei partiti comunisti orientali e occidentali.
In Italia, la repressione nel sangue delle rivolte popolari ungheresi provocò l’immediata reazione della CGIL con alla testa Giuseppe Di Vittorio. Questo lo storico comunicato della CGIL del 27 ottobre 1956:
La segreteria della Cgil, di fronte alla tragica situazione determinatasi in Ungheria, sicura di interpretare il sentimento comune dei lavoratori italiani, esprime il suo profondo cordoglio per i caduti nei conflitti che hanno insanguinato il paese. La segreteria confederale ravvisa in questi luttuosi avvenimenti la condanna storica e definitiva di metodi di governo e di direzione politica ed economica antidemocratici, che determinano il distacco fra dirigenti e masse popolari. Il progresso sociale e la costruzione di una società nella quale il lavoro sia liberato dallo sfruttamento capitalistico, sono possibili soltanto con il consenso e con la partecipazione attiva della classe operaia e delle masse popolari, garanzia della più ampia affermazione dei diritti di libertà, di democrazia e di indipendenza nazionale. L’evolversi positivo della situazione in Polonia ha dimostrato che soltanto sulla via dello sviluppo democratico si realizza un legame effettivo, vivente e creatore fra le masse lavoratrici e lo Stato popolare.
La Cgil si augura che cessi al più presto in Ungheria lo spargimento di sangue e che la nazione ungherese trovi, in una rinnovata concordia, la forza di superare la drammatica crisi attuale, isolando così gli elementi reazionari che in questa crisi si sono inseriti col proposito di restaurare un regime di sfruttamento e di oppressione. In pari tempo la Cgil, fedele al principio del non intervento di uno Stato negli affari interni di un altro Stato, deplora che sia stato chiesto e si sia verificato in Ungheria l’intervento di truppe straniere.
Di fronte ai tragici fatti di Ungheria e alla giustificata commozione che hanno suscitato nel popolo italiano, forze reazionarie tentano di inscenare speculazioni miranti a perpetuare la divisione tra i lavoratori; a creare disorientamento nelle loro file, a ingenerare sfiducia verso le loro organizzazioni per indebolirne la capacità di azione a difesa dei loro interessi economici e sociali. La Cgil chiama i lavoratori italiani a respingere decisamente questa speculazione e a portare avanti il processo unitario in corso nel Paese, per il trionfo dei comuni ideali di progresso sociale, di libertà e di pace.
La presa di posizione della CGIL e del suo segretario Di Vittorio suscitò apprensione e sconcerto nelle sezioni del Partito Comunista, e non poche polemiche a livello di gruppi dirigenti. Si percepiva il pericolo di una grave scissione fra il partito e il sindacato di riferimento, che rischiava di allinearsi alle posizioni antisovietiche del PSI di Pietro Nenni e del PSDI di Giuseppe Saragat.
Molti degli intellettuali vicini al Partito Comunista cominciarono a prenderne le distanze. Lo scrittore Italo Calvino, membro del partito sin dall’esperienza partigiana sui monti dell’Imperiese, dove aveva preso ad apprezzare lo spirito e le capacità organizzative dei comunisti, inviò il 28 ottobre 1956 un telegramma a Di Vittorio in cui era scritto:
Commosso condivido tua posizione indispensabile per salvare nostro partito et causa socialismo
Italo Calvino
Calvino andò anche oltre: alla cellula del PCI della casa editrice Einaudi – il suo luogo di lavoro in quegli anni – egli approvò un ordine del giorno in cui si chiedeva la rimozione di Palmiro Togliatti da segretario del partito a favore di dirigenti rinnovatori. Corsero voci sulla stampa borghese che proprio Di Vittorio fosse il candidato dei rinnovatori a sostituire Togliatti alla guida del partito. L’interessato smentì pubblicamente.
Il 29 ottobre la presa di distanza dal PCI fu formalizzata in un documento firmato da intellettuali iscritti o vicini al PCI. Il documento è passato alla storia col nome di Manifesto dei 101, dal numero dei firmatari, tra cui giornalisti, scrittori, docenti universitari: in esso si esprimeva una severa condanna della posizione ufficiale del Partito Comunista Italiano sui moti d’Ungheria.
All’VIII Congresso del partito, svoltosi a Roma dall’8 al 14 dicembre 1956, rientrato almeno formalmente il dissenso di Di Vittorio dalla linea del partito, toccò al delegato della Federazione di Cuneo, il deputato Antonio Giolitti, portare avanti una posizione di critica verso la politica del gruppo dirigente del partito. Egli affermò che non si poteva considerare legittimo il governo ungherese di János Kádár, portato al potere dall’intervento dei carri armati sovietici contro il popolo insorto, e criticò anche il mancato cambiamento in senso democratico del partito, nonostante le speranze poste dalla destalinizzazione seguita al XX Congresso del Partito Comunista dell’URSS.
Per tutta la primavera del 1957 l’azione di contrasto alla politica del gruppo dirigente condotta da Giolitti in seno al partito portò a scontri e discussioni, fino a quando il dirigente piemontese non decise di gettare la spugna, inviando alla propria Federazione cuneese una lettera di dimissioni che lui stesso chiese che fosse pubblicata su «l’Unità» il 24 luglio 1957.
Italo Calvino ne seguì l’esempio, dando le dimissioni una settimana dopo, il 1° agosto, e inviando una lettera allo stesso organo del partito che venne pubblicata il 7 dello stesso mese con una replica del Comitato direttivo della Federazione torinese del PCI alla quale egli era iscritto. Lo scrittore, nel ripercorrere la storia della propria militanza e nell’illustrare le ragione del suo distacco, volle addolcire la pillola dichiarando comunque il proprio scritto come una «lettera d’amore».
Pubblichiamo quindi la lettera di dimissioni dal PCI di Italo Calvino e la risposta della Federazione torinese del partito. È evidente che i due scritti non possono essere sullo stesso piano: il primo rappresenta un documento appassionato che rivela la drammaticità e il tormento di un intellettuale che ha militato per decenni in partito che alla fine non sente più suo; il secondo è poco più che una difesa burocratica d’ufficio della linea ufficiale del partito. Ma riportiamo entrambi per completezza e per inquadrare meglio il contesto di quegli anni, dei modi di pensare ed esprimersi di allora, dei meccanismi che caratterizzavano allora la vita dei partiti.
L.C.
Inserito il 01/10/2023.
Italo Calvino (1923-1985).
Fonte della foto: https://opac.provincia.brescia.it/sites/brescia/assets/DESENZANO-D-G/calvino-italo.jpg
Da «l’Unità» – 7 agosto 1957
La lettera di dimissioni di Italo Calvino dal PCI
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Le dimissioni di Calvino dal PCI condannate dal C.D. di Torino
Lo scrittore torinese Italo Calvino ha inviato la seguente lettera alla Segreteria della Cellula «G. Pintor» e della seconda sezione «A. Gramsci», Torino; alla Segreteria della Federazione torinese; alla Segreteria del Partito comunista italiano e alla direzione dell’Unità:
Cari compagni,
devo comunicarvi la mia decisione ponderata e dolorosa di dimettermi dal partito.
Ho rinnovato la tessera del ’57 manifestando un dissenso: questo dissenso non si è affatto attenuato col passare dei mesi, tanto che mi sono astenuto da ogni attività di Partito e dalla collaborazione alla sua stampa, perché ogni mio atto politico non avrebbe potuto non portare traccia del mio dissenso, e cioè costituire una nuova infrazione disciplinare dopo quelle già rimproveratemi.
Insieme a molti compagni, avevo auspicato che il Partito comunista italiano si mettesse alla testa del rinnovamento internazionale del comunismo, condannando metodi di esercizio del potere rivelatisi fallimentari e antipopolari, dando slancio all’iniziativa dal basso in tutti i campi, gettando le basi per una nuova unità di tutti i lavoratori, e in questo fervore creativo ritrovasse il vigore rivoluzionario e il mordente sulle masse. Sono stato tra chi sosteneva che solo uno slancio morale impetuoso e univoco potesse fare del 1956 veramente l’anno del rinnovamento e rafforzamento del Partito, in un momento in cui dalle più diverse parti del mondo comunista ci venivano appelli al coraggio e alla chiarezza. Invece, la via seguita dal PCI nella preparazione e in seguito all’VIII Congresso, attenuando i propositi rinnovatori in un sostanziale conservatorismo, ponendo l’accento sulla lotta contro i cosiddetti «revisionisti» anziché su quella contro i dogmatici, m’è apparsa (soprattutto da parte dei nostri dirigenti più giovani e nei quali ponevamo più speranze) come la rinuncia ad una grande occasione storica.
In seguito ho sperato che il tradizionale centrismo della nostra Segreteria garantisse il diritto di cittadinanza nel Partito alle posizioni dei rinnovatori come lo garantiva di fatto ai più radicali dogmatici. La linea seguita in questi mesi fino all’ultima riunione del Comitato Centrale è particolarmente grave perché il momento poteva essere particolarmente propizio a un passo in avanti e nulla si è mosso e la drastica e sprezzante stroncatura del lavoro di ricerca di Giovanni Giolitti (cui mi lega una profonda stima e una fraterna solidarietà) mi ha tolto ogni residua speranza di poter svolgere una funzione utile pur ai margini del Partito.
Ho fiducia nel movimento storico che porterà il socialismo, da una forma di organizzazione accentrata e autoritaria, a forme di democrazia diretta e di partecipazione funzionale della classe lavoratrice e degli intellettuali alla direzione politica ed economica della società. È su questa via che il movimento comunista mondiale è spinto a risolvere i suoi problemi, con o senza soluzione di continuità a seconda della capacità di rinnovamento dei Partiti comunisti dei vari paesi. È in questo senso che intendo continuare a volgere i miei orientamenti politici.
Le passioni del nostro dibattito interno e le prospettive dell’avvenire non mi hanno fatto dimenticare la gravità dell’attuale situazione politica italiana. La mia decisione di abbandonare la qualifica di membro del Partito è maturata soltanto quando ho compreso che il mio dissenso col Partito era diventato un ostacolo ad ogni mia partecipazione politica. Come scrittore indipendente potrò in determinate circostanze prendere posizione al vostro fianco senza riserve interiori, come potrò lealmente (e sempre conscio dei limiti di un punto di vista individuale) rivolgervi delle critiche ed entrare in discussione. So benissimo che l’«indipendenza» è termine che può essere illusorio ed equivoco, e che le lotte politiche immediate sono decise dalla forza organizzata delle masse e non dalle sole idee degli intellettuali; non intendo affatto abbandonare la mia posizione di intellettuale militante, né rinnegare nulla del mio passato. Ma credo che nel momento presente quel particolare tipo di partecipazione alla vita democratica che può dare uno scrittore e un uomo d’opinione non direttamente impegnato nell’attività politica, sia più efficace fuori dal Partito che dentro.
Sono consapevole di quanto il Partito ha contato nella mia vita; vi sono entrato a vent’anni, nel cuore della lotta armata di liberazione; ho vissuto come comunista gran parte della mia formazione culturale e letteraria; sono diventato scrittore sulle colonne della stampa di Partito; ho avuto modo di conoscere la vita di Partito a tutti i livelli, dalla base al vertice, sia pure con una partecipazione discontinua e talora con riserve e polemiche, ma sempre traendone preziose esperienze morali e umane; ho vissuto sempre (e non solo dal XX Congresso) la pena di chi soffre gli errori del proprio tempo, ma avendo costantemente fiducia nella storia; non ho mai creduto (neanche nel primo zelo del neofita) che la letteratura fosse quella triste cosa che molti nel Partito predicavano, e proprio la povertà della letteratura ufficiale del comunismo mi è stata di sprone a cercare di dare al mio lavoro di scrittore il segno della felicità creativa: credo di essere sempre riuscito ad essere, dentro il Partito, un uomo libero. Che questo mio atteggiamento non subirà mutamenti fuori dal Partito, può essere garantito dai compagni che meglio mi conoscono, e sanno quanto io tenga a esser fedele a me stesso, e privo di animosità e di rancori.
Vorrei che, considerata la ponderatezza di queste mie dimissioni, mi si evitassero i colloqui previsti dallo statuto, che non farebbero che incrinare la serenità di questo commiato.
Vi chiedo di pubblicare questa lettera sull’Unità perché il mio atteggiamento sia chiaro ai compagni, agli amici, agli avversari.
Vorrei rivolgere un saluto ai compagni che nei loro settori di lavoro lottano per affermare giusti principi, e anche a quelli più lontani dalle mie posizioni che rispetto come combattenti anziani e valorosi e al cui rispetto, nonostante le opinioni diverse, tengo immensamente; e a tutti i compagni lavoratori, alla parte migliore del popolo italiano, dei quali continuerò a considerarmi il compagno
ITALO CALVINO
(Tratto da «l’Unità», 7 agosto 1957).
Inserito il 01/10/2023.
Da «l’Unità» – 7 agosto 1957
La risposta della Federazione torinese del PCI a Calvino
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Il comunicato della Federazione
Il Comitato direttivo della federazione torinese del P.C.I. ha preso conoscenza della lettera di dimissioni dal Partito di Italo Calvino. Mentre spetta alla cellula «G. Pintor» la decisione sul merito, il Comitato direttivo ritiene necessario esprimere il proprio giudizio sugli argomenti con i quali Italo Calvino appoggia la sua decisione. Tali argomenti si sviluppano attorno alla affermazione secondo cui il nostro Partito non avrebbe nella realtà adempiuto ai compiti di rinnovamento che si era esso stesso preposto.
Nessuno contesta a Calvino il diritto di avere una sua opinione sul modo con cui il rinnovamento si va compiendo nel Partito, ma ciò che è da respingere è che egli pretenda di fare del proprio giudizio l’unica misura obiettiva di valutazione e che da ciò tragga la grave conclusione di lasciare il Partito.
Vi è qui un evidente allontanamento dal metodo di valutazione marxista, per il quale dovrebbe essere chiaro che le posizioni e le esperienze dei singoli confluiscono nel dibattito a formare insieme quella superiore realtà politica e storica che è rappresentata dalle posizioni collettive del Partito, ma non possono pretendere di sostituirsi ad esse, senza negare la funzione del Partito medesimo nella società moderna e di fronte agli odierni compiti del proletariato.
Era conoscendo questa funzione insostituibile che Italo Calvino aveva ad esso aderito, e questa posizione che egli confusamente ammette quando riconosce che «l’indipendenza è termine che può essere illusorio ed equivoco, e che le lotte politiche immediate (e non soltanto queste, diciamo noi) sono decise dalla forza organizzata delle masse e non dalle sole idee degli intellettuali».
Sicché le sue dimissioni rappresentano un arretramento rispetto a quelle posizioni che Calvino stesso aveva raggiunto e risultano in significativa contraddizione con talune affermazioni stesse contenute nella sua lettera. Di fatto, nel gesto di Calvino e nella sua lettera si esprime l’abbandono di una conquista fondamentale del pensiero marxista e del movimento operaio in generale: la necessità del Partito politico della classe operaia come forma suprema di organizzazione e unità delle masse sfruttate nella loro lotta per l’emancipazione e per costruire una società socialista. A tale conquista storica della Classe operaia Calvino sostituisce oggi formule confuse ed ambigue sul terreno ideologico e politico, là dove parla di una sua azione come «scrittore indipendente» (indipendente da chi? e da cosa?) e di «un tipo particolare di partecipazione alla vita democratica che può dare uno scrittore»: formule che propongono una inaccettabile rinuncia – e proprio nel momento attuale – alla piena partecipazione dell’intellettuale al momento più alto della lotta rivoluzionaria, un cedimento rispetto alle sue responsabilità verso la classe operaia, un abbandono delle posizioni marxiste.
È da respingersi con fermezza l’opinione che il P.C.I. sia andato attenuando i propostiti rinnovatori in un sostanziale conservatorismo.
Il nostro Partito è stato tra le forza più avanzate del movimento operaio internazionale nel raccogliere gli insegnamenti del XX Congresso e ciò non per caso ma in quanto per la sua precedente politica, per il modo con cui esso aveva già individuato le caratteristiche sostanziali della via italiana al socialismo, era tra i più preparati ad accoglierli, sicché l’VIII Congresso ha veramente rappresentato l’opera conseguente per portare avanti l’elaborazione della nostra via al socialismo, nella lotta contro ogni riserva ed ogni impaccio massimalista, settario e dogmatico. Nessuno può scordare che molto resta ancora da compiere sulla via indicata dall’VIII Congresso, affinché tutto il Partito ne assimili e ne arricchisca ulteriormente gli insegnamenti; ma si tratta di un’opera che esige il contributo fattivo e combattivo di tutti. Così è da respingere l’affermazione che il Partito abbia posto l’accento sulla lotta contro i «revisionisti», anziché su quella contro i dogmatici, poiché il Partito lotta con eguale fermezza contro le posizioni degli uni e degli altri, a seconda di come si manifestano, e l’VIII Congresso è stato in realtà una grande battaglia contro il dogmatismo e il massimalismo, condotta senza nulla concedere a chi chiedeva un allontanamento dai principi conquistati dall’avanguardia operaia attraverso decenni di elaborazione teorica e di azione politica.
Italo Calvino può anche non essere d’accordo con questi giudizi, ma non deve avere l’assurda pretesa che la sua opinione debba necessariamente prevalere, perché la sua presenza nel Partito continui ad essere possibile, poiché, in questo caso è proprio nella sua posizione che si manifesta quella intolleranza per l’opinione altrui che è incompatibile con il rinnovamento e il rafforzamento del Partito che impedisce lo svilupparsi della democrazia del Partito nel modo più ampio possibile.
[…]
I lunghi anni di fraterno lavoro e di lotte condotte in comune con Italo Calvino esigevano queste franche parole e anche la loro serenità, tanto più i quanto Calvino si propone di essere ancora al fianco dei comunisti in molte battaglie.
Condannando il suo gesto di dimissioni e criticando i suoi errori, noi non solo rimaniamo fedeli ai principi e alla linea del nostro Partito, ma intendiamo dare ancora un aiuto a Italo Calvino perché egli riesca a ritrovare la giusta posizione di lotta, propria di un intellettuale militante quale Calvino dichiara ancora di voler essere.
Il Comitato direttivo della Federazione torinese del P.C.I.
(Tratto da «l’Unità», 7 agosto 1957).
Inserito il 01/10/2023.
Dal sito «Le parole e le cose»
Il testamento politico di Italo Calvino
Un’analisi delle sue Lezioni americane
Un’analisi delle sue Lezioni americane
di Gabriele Pedullà
«Italo Calvino è stato per tutta la vita un militante comunista». Questo è il punto di partenza del saggio di Gabriele Pedullà che riportiamo qui: un’affermazione che ovviamente va spiegata, provata e documentata, visto che generalmente si considera che, dalla fine degli anni Sessanta in poi, egli sia andato sempre più allontanandosi dalla letteratura impegnata.
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Il testamento politico di Italo Calvino
Un’analisi delle sue Lezioni americane
di Gabriele Pedullà
Può essere una buona idea cominciare con due affermazioni semplici semplici:
Italo Calvino è uno scrittore italiano, nato a Cuba il 15 ottobre 1923 e morto a Siena il 19 settembre 1985.
Italo Calvino è stato per tutta la vita un militante comunista.
Tutte e due queste frasi sono altrettanto vere, addirittura ovvie; eppure, se usciamo d’Italia, e soprattutto nel circuito delle università anglosassoni, la seconda rischia di apparire persino sorprendente. Calvino? Italo Calvino? Lo scrittore della narrativa combinatoria? L’emulo di Jorge Louis Borges? L’amico di George Perec? Il teorico della «Leggerezza»? Lo stesso Calvino? Comunista? Proprio lui?
Almeno in Italia, che Calvino sia stato comunista non suona ancora come una novità, ma con il passare degli anni anche qui la sua attività politica e ancora più la carica politica di tutta la sua opera vengono messe sempre più tra parentesi. In parte, certo, è quello che succede sempre con i classici. Ma in questo caso si avverte pure una gran voglia di dimenticare un intero pezzo della nostra recente storia. Tanto più per questo conviene passare in rassegna velocemente alcuni semplici fatti.
Calvino era un militante comunista quando ha fatto la Resistenza in Liguria. Era un militante comunista quando lavorava per l’edizione torinese de «l’Unità» (allora quotidiano ufficiale del PCI), tra il 1948 e il 1949. Era un militante comunista nel 1957, quando difendeva La caduta di Berlino, il film di propaganda stalinista diretto da Michail Ciaureli sulle imprese dell’Armata Rossa durante la seconda guerra mondiale. Era un militante comunista in quello stesso 1957, quando è uscito dal Partito Comunista Italiano assieme ad alcune centinaia di altri intellettuali, in polemica contro l’appoggio all’invasione dell’Ungheria. Era un militante comunista quando si è trasferito a Parigi nel 1968, e si è subito dovuto confrontare con il “Joli Mai”, in aperta polemica con i Partiti marxisti ufficiali (ce ne ha lasciato una lettera magnifica e troppo poco nota, dalla quale vale la pena di citare qualche frase: «Viviamo le ultime giornate della straordinaria città senza macchine né metro, con code ai negozi, poi il discorso di De Gaulle, le macchine dei gollisti clacsonanti che cercano di penetrare nel Quartiere e sono scacciate, la Sorbona che sembra una fortezza assediata, con katanghesi appostati e i giovani che s’aspettano il peggio e maledicono i comunisti. Nottate in cui non si fa che girare a piedi tra continui allarmi in un clima di eccitazione continua. (…) Mi pare che qualcosa stia davvero cambiando in Europa. Certo si andrà verso l’organizzazione d’una nuova forza rivoluzionaria anche operaia, mentre ormai la via dei partiti comunisti è irreversibile come quella della socialdemocrazia alla vigilia della prima guerra mondiale. L’interrogativo su fino a che punto la reazione potrà spingersi sulla via del fascismo sembra non preoccupare i giovani rivoluzionari: e chissà, forse è giusto, perché viviamo tempi talmente diversi da quelli del nostro passato e le cose saltano fuori sempre diverse da come si possono prevedere»). Era un militante comunista quando nel 1974, sul «Corriere della Sera», ha ricordato il proprio stalinismo degli anni Cinquanta con parole serene e tutto sommato niente affatto apologetiche. Ed era un militante comunista, quando tre anni dopo, sulle stesse pagine ha elogiato quella che chiamava «la disciplina militare» del PCI, da lui definita «la sua più preziosa eredità storica, che speriamo riesca a salvare dagli assalti ideologici» (sottinteso: della nuova sinistra movimentista e genericamente libertaria). Ma gli esempi, spero si intuisca, si potrebbero moltiplicare a piacimento.
Come suggeriscono anche solo questi frammenti, la storia di Calvino militante comunista si lascia raccontare da molte prospettive diverse, interne o esterne ai suoi testi. Può essere interessante però farlo da quella più difficile, cioè partendo dalla sua opera saggistica più nota nel mondo, sino a diventare una sorta di manifesto del postmodernismo internazionale: i Six Memos for the Next Millennium, scritti nel 1985 e apparsi postumi nel 1988. Anche qui infatti, nel punto apparentemente più distante dall’impegno che lo ha accompagnato tutta la vita, la passione politica di Calvino emerge in maniera prepotente, nonostante gli studiosi abbiamo preferito interpretarlo come il testo di un formalista ormai lontano dalle lotte degli anni precedenti. A rileggere queste pagine con attenzione ci si rende conto che le cose stanno in maniera non poco diversa.
* * *
I Six Memos furono originariamente concepiti come serie di lezioni da tenere a Harvard nel quadro del prestigioso ciclo delle Norton Lectures, proprio nell’anno in cui Calvino morì. Come è noto, si tratta di una riflessione su sei virtù letterarie che Calvino, approssimandosi la fine del XX secolo, si riproponeva di consegnare ai lettori, soprattutto più giovani, del secolo che si sarebbe aperto di lì a poco. Un evento accidentale quanto irreparabile – la morte dell’autore, quando il manoscritto non era ancora compiuto – ha determinato la struttura delle così dette Lezioni americane quali le conosciamo oggi. A conclusione del suo percorso, Calvino aveva infatti previsto una sesta conferenza dedicata alla «Consistency» (coerenza), conferenza che progettava di scrivere una volta arrivato in America e i cui materiali preparatori, se in possesso della famiglia, non sono mai stati pubblicati.
Questa perdita è un peccato, perché sarebbe bello sapere qualcosa di più sulle idee di Calvino in merito alla «Consistency» (mi viene da dire: specialmente in merito alla «Consistency»), ma è anche un ottimo punto di partenza per parlare dei Six Memos nel loro complesso. Naturalmente, infatti, non è impossibile provare a immaginare almeno in parte che cosa Calvino avrebbe scritto in questo ultimo capitolo. La raccolta standard dei saggi di Calvino occupa circa quattromila pagine e include non più di due terzi dei testi da lui pubblicati in vita, forse anche meno. E qualche volta in questi scritti il valore letterario della coerenza fa capolino.
Può essere interessante rilevare che almeno in una occasione, in uno dei suoi saggi peraltro più famosi, vale a dire nella riflessione compiuta “vent’anni dopo” sul suo romanzo d’esordio, Il sentiero dei nidi di ragno, Calvino prende espressamente posizione contro la coerenza. Tutti gli amici che avevano letto il libro prima della pubblicazione – racconta Calvino – gli avevano rimproverato lo stesso presunto errore. Mentre il resto del romanzo era narrato dalla prospettiva di un bambino che non comprende davvero gli eventi grandi e terribili nei quali è stato coinvolto (la Resistenza italiana), verso la fine del libro Calvino aveva inserito un improvviso cambio di registro per dare la parola a un più maturo commissario politico comunista, in modo da spiegare ai lettori quale era il senso di quella lotta dalla prospettiva più matura dell’autore. In nome della «omogeneità» gli amici gli suggerirono unanimemente di tagliare quel capitolo; come scrive Calvino «a quel tempo, l’unità stilistica era uno dei pochi criteri estetici sicuri». Ma Calvino tenne duro lo stesso, sino a rivendicare a distanza di tanto tempo la decisione di allora.
Il lettore delle Lezioni americane non si sorprenderà di questa presa di posizione, ma non dovrà neanche ricorrere a concetti cari agli storici della letteratura come quelli di evoluzione, oscillazione o ripensamento per spiegare il presunto contrasto tra il giudizio del 1964 e il giudizio del 1985. E il lettore delle Lezioni americane non si sorprenderà perché è lo stesso Calvino, all’inizio della prima delle sue riflessioni, a spiegare con grande chiarezza che ai sei valori da lui scelti non corrispondono sei difetti, ma altri sei valori forse altrettanto preziosi. Come scrive Calvino: «Dedicherò la prima conferenza all’opposizione leggerezza/peso, e sosterrò le ragioni della leggerezza. Questo non vuol dire che io consideri le ragioni del peso meno valide, ma solo che sulla leggerezza penso d’avere più cose da dire».
Anche se questa notazione a proposito della coppia Leggerezza/Peso non viene ripetuta in termini altrettanto espliciti a proposito delle altre quattro virtù, non c’è motivo di pensare che le cose siano molto diverse per la Rapidità, l’Esattezza, la Visibilità e la Molteplicità. Se in questo caso Calvino lo esplicita è solo perché di tutte le qualità prescelte la più scandalosa era senza dubbio proprio la Leggerezza, che, nella cultura italiana degli anni Ottanta, ancora molto politicizzata, veniva fatta coincidere con il disimpegno. Nelle quattro lezioni successive Calvino si limita infatti a mostrare come attraverso il valore da lui lodato possa essere conseguito anche il valore opposto, come nel caso della suprema virtù della Vaghezza (frutto di una precisione assoluta), o come nel caso della Molteplicità, che viene interpretata come dominio su caos e sul caso e capacità di produrre varietà a partire da alcuni principi ordinatori. Niente sarebbe dunque più sbagliato che scambiare le Lezioni americane per un ricettario molto sofisticato per scrivere buoni racconti, seguendo determinate virtù ed evitando determinati vizi.
In questo modo di procedere c’è anche un altro aspetto che merita di essere considerato attentamente. Nell’ordine in cui Calvino dispone le sue sei virtù letterarie, prima che lui chiarisca in quale accezione le adoperano, alcune sembrerebbero contraddire la virtù che le precede. Se la Rapidità si sposa bene con la Leggerezza, nella percezione comune l’Esattezza non sembra andare molto d’accordo con la Rapidità. Allo stesso modo, mentre la Visibilità e l’Esattezza sono chiaramente imparentate, la Molteplicità e la Coerenza si direbbero più difficilmente conciliabili. Definendo con precisione questi valori, i diversi capitoli mostrano che tali potenziali contraddizioni dell’indice sono solo apparenti, ma volutamente non sciolgono la tensione. Per questo, quando provo a fare delle ipotesi sulla sesta lezione mai scritta, mi piace immaginare Calvino impegnato in un ipotetico corpo a corpo con il famoso saggio di Leo Spitzer sulla accumulazione caotica nella tradizione poetica occidentale.
* * *
La morte di Calvino ha contribuito a fissare il suo lascito intellettuale a quel 1985 come in un fermo immagine, ridimensionando il cammino tortuoso che lo avevano condotto a quella sua ultima proposta di poetica. Ma per chi conosce il suo percorso artistico e politico è impossibile non pensare che per tutta la sua vita Calvino è stato senza dubbio uno scrittore del Peso: un intellettuale formatosi negli anni più freddi della Guerra fredda culturale e che soprattutto non ha mai rinnegato quella stagione, ma ha piuttosto cercato incessantemente di allargare il proprio sguardo senza mettere in discussione gli assunti di partenza. Da questo punto di vista la Leggerezza delle Lezioni americane è una Leggerezza che si aggiunge al Peso e che lo completa. Ed è la virtù più desiderata perché anche quella più difficile da conseguire per chi in Italia muoveva da premesse come quelle di un intellettuale-militante quale Calvino.
Se questa intuizione è giusta e se dunque Calvino ha pensato sin dall’inizio il suo libro per coppie, le sei virtù letterarie delle Lezioni americane dialogano costantemente con i loro opposti. Vale a dire, per l’appunto: Peso – Lentezza – Vaghezza – Invisibilità (o magari Acusticità) – Singolarità – Arbitrarietà. Enunciato così, potrebbe essere l’indice di un libro assai promettente ancora tutto da scrivere. E se, a distanza di quasi trent’anni dal volume di Calvino, dovessi indicare in cosa consiste il suo lascito più duraturo, piuttosto che a questo o a quel capitolo, mi riferirei a questo pensare per coppie.
Mentre buttavo giù l’ultimo paragrafo ho scritto e poi cancellato un avverbio: dialetticamente. Si tratta di un punto importante, perché per Calvino quel modo di ragionare per coppie era una novità e in qualche modo una conquista. Per una generazione di militanti politici cresciuti a pane e dialettica, il numero magico non era il due, ma il tre, come i tre momenti della Tesi, dell’Antitesi e della Sintesi. La storia era fatta di contrapposizioni frontali, ma queste contrapposizioni acquistavano un senso solo alla luce del loro superamento in una conciliazione degli opposti.
In una cultura imbevuta di Hegel e di Marx attraverso Benedetto Croce e Antonio Gramsci si trattava di nozioni imprescindibili: solo il numero tre assicurava l’uscita da quella che altrimenti sarebbe stata una paralisi della storia e del pensiero. Proprio la generazione di Calvino, però, si era trovata sempre più a disagio con questo auspicato momento sintetico. Calvino era un lettore infaticabile di filosofia per la casa editrice Einaudi e si era presto familiarizzato con la riflessione di Theodor Adorno, a cominciare proprio dal suo rifiuto di ogni esito consolante. La grande arte aveva direttamente a che fare con l’esperienza della negatività e della negazione, ma nessuna restaurazione dell’ordine perduto era visibile all’orizzonte, forse nemmeno auspicabile.
In quegli anni la sfiducia nei confronti della sintesi andò spesso di pari passo con la crescente disillusione verso il realismo socialista e verso la stessa Unione Sovietica da parte dei marxisti italiani. Per molti intellettuali coetanei di Calvino, il rifiuto della dialettica si tradusse a poco a poco nel progressivo allontanamento da qualsiasi attività politica o al contrario con quella che si potrebbe definire una sorta di “critica della critica”. È in particolare il caso di uno scrittore come Leonardo Sciascia. Sciascia giunse a fare definitivamente i conti con le radici hegeliane della cultura comunista soprattutto attraverso la lezione di Foucault e la sua riflessione sui sistemi di controllo, approdando per questa strada a prendere posizioni ampiamente paradossali in qualità di intellettuale pubblico, come nella sua dura polemica contro i giudici impegnati in prima linea nella lotta contro la criminalità organizzata nel Meridione d’Italia. Una sorta di conferma di come ogni antitesi dell’antitesi rischi troppo spesso di assomigliare pericolosamente alla tesi che all’inizio si voleva combattere.
Anche Calvino evidentemente cercava una via d’uscita, ma non era disposto a rinunciare alla sua scelta di campo. È in questo clima che occorre collocare l’implicita struttura a coppie delle Lezioni americane, e in particolare nel contesto del progetto di una delle tante riviste immaginate (e non realizzate) da Calvino a partire dagli anni Sessanta. Tra il 1974 e il 1976 Calvino lavorò intensamente al progetto di una rivista assieme a Claudio Rugafiori e a Giorgio Agamben. Nei loro piani ogni numero avrebbe dovuto ruotare attorno a coppie concettuali come Commedia/Tragedia, Architettura/Vaghezza, Lingua materna/Lingua morta, Biografia/Favola, Stile/Materia, Legge/Creatura o Filologia/Diritto. Calvino, allora, scelse di lavorare attorno ai due concetti di Leggerezza e di Velocità: e ci sono pochi dubbi sul fatto che dieci anni dopo le Lezioni americane conservino una traccia di quel modo di procedere binario per coppie complementari che non implicano nessuna contrapposizione tra virtù e vizi. Il modello, chiaramente, è quello delle grandi categorie della linguistica e dello strutturalismo allora di moda: langue/parole, paradigma/sintagma, diacronia/sincronia. Anche se ad Agamben, Calvino e Rugafiori si può riconoscere maggiore fantasia nella scelta delle loro coppie, si può ancora riconoscere l’influenza di Barthes, Greimas e Benveniste in quel progetto abortito.
L’ultimo libro di Calvino deve sicuramente moltissimo a quella riflessione. E tuttavia, proprio perché non procedono per coppie (almeno non in maniera esplicita), le Lezioni americane testimoniano di un nuovo stadio della riflessione di Calvino, chiaramente insoddisfatto della dialettica, ma non del tutto a suo agio con lo strutturalismo e la sua pretesa di abolire il tempo e la storia (come narratore strutturalista, in effetti, Calvino farà esattamente il contrario, usando per esempio la griglia dei tarocchi per mettere in moto un racconto o per far viaggiare con l’immaginazione l’immobile Kublai Khan).
Le Lezioni americane non sono prescrittive (come succederebbe se fossero un ricettario per scrivere buona letteratura), ma non sono nemmeno ecumeniche, perché Calvino non rinuncia a prendere posizione, cosa che – nel caso delle coppie strutturaliste – evidentemente non è possibile, perché non avrebbe nessun senso parteggiare per la langue contro la parole o per la sincronia contro la diacronia. Nel caso delle conferenze per Harvard chiaramente non è così. Non tutto si equivale, e l’autore dichiara immediatamente da che parte ha scelto di collocarsi offrendoci la sua lista di sei virtù. Ma della lunga familiarità con la dialettica a Calvino rimane anche nell’ultima opera una particolare passione per il verso che può sempre contestare il recto e per il valore della negazione.
* * *
Ogni volta che ho riletto le Lezioni americane – cosa che è successa più o meno ogni dieci anni, dalla mia adolescenza in poi – non ho potuto trattenermi dal pensare che il fascino di questo libro avesse a che fare con la loro capacità di tenere assieme un punto di vista molto tagliato e personale con una speciale disponibilità a rimettersi in dubbio a ogni passo e a provare a immaginare le ragioni dell’altro, piegandole a poco a poco alla propria prospettiva, secondo un meccanismo che ricorda la teoria gramsciana dell’egemonia, con il suo costante inglobare le verità dell’avversario e sfruttare a proprio vantaggio le sue vittorie. Anche questa sarebbe una prova della fedeltà, consapevole o inconsapevole, alle proprie letture di gioventù. Di certo possiamo dire che in Calvino l’attenzione al rovescio della medaglia deriva in maniera eguale dal suo particolare gusto di narratore per tutte le forme di straniamento letterario (via Bertolt Brecht e Victor Sklovskij) e dalla sua passione politica per una Storia osservata dalla prospettiva degli oppressi.
Per una curiosa coincidenza, le Lezioni americane condividono questa attenzione per il lato invisibile con l’altro grande libro di teoria della letteratura scritto da un narratore italiano nel Novecento, vale a dire L’umorismo di Luigi Pirandello. Come è noto, secondo Pirandello ciò che rende l’umorismo così prezioso e che lo differenzia dalla pura e semplice comicità è la sua tendenza a soffermarsi sull’ombra dei personaggi piuttosto che sulla loro figura; attraverso questo procedimento (che implica una profonda solidarietà dell’autore con colui che viene preso in giro) chi legge è portato ad andare oltre la propria stessa risata e a scoprire il dolore che si annida dietro quei tratti che in un primo momento hanno innescato la sua ilarità. Le Lezioni americane funzionano un poco allo stesso modo, perché i valori di Calvino solo tali solo a patto di guardare alla loro ombra sino al momento in cui siamo pronti a riconoscere la piena legittimità dei valori opposti.
Tutto questo mi sembra particolarmente importante per noi – trenta anni dopo il trionfo planetario del neo-liberalismo. Una vulgata storiografica pretende che le Lezioni americane siano quasi un atto di abiura rispetto alla produzione precedente di Calvino o comunque l’esito estremo di un processo di allontanamento dalla letteratura impegnata cominciato alla fine degli anni Sessanta. Questo è però un modo di travisare completamente il senso del testamento intellettuale di Calvino. Nessuna euforia postmodernista attraversa infatti queste pagine (l’euforia: uno dei sentimenti dominanti del tempo). Per un marxista italiano rimasto sempre fedele ai propri ideali di gioventù come Calvino, la modernizzazione degli anni Ottanta stava portando l’Italia e in generale il mondo occidentale nella direzione sbagliata. Una tremenda sconfitta si era consumata o si stava consumando: ed è per questo che le Lezioni americane hanno come humus non l’euforia postmoderna ma il senso di disfatta che, per gli uomini della sua generazione e delle sue idee politiche, in quel giro di anni si faceva sentire con particolare forza in Italia dopo le straordinarie attese del decennio precedente. Si scrive un testo rivolto al nuovo millennio perché si pensa di non avere abbastanza interlocutori presso i propri contemporanei e si cerca di affidare un messaggio nella bottiglia agli uomini che verranno – esattamente come un secolo prima avevano fatto Giacomo Leopardi e Stendhal cercando la comprensione postuma dei lettori del futuro.
La posizione delle Lezioni americane è tuttavia preziosa oggi perché in Calvino la lucida consapevolezza della sconfitta si accompagna sempre con la speranza in una futura riscossa. Anche questo va considerato probabilmente un lascito della lunga familiarità con le categorie di quella dialettica da cui pure, in tutta la seconda parte della sua vita, Calvino non aveva fatto che cercare di affrancarsi. Che i segnali siano tutti così cattivi, non significa insomma necessariamente che non esistano spazi per l’azione.
Abbiamo molto da imparare dallo spirito combattivo di Calvino. E qui, per quanto scontata, una citazione appare obbligatoria. Per dirla con le parole di Marco Polo, alla fine de Le città invisibili: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
«Farlo durare, e dargli spazio». Ancora oggi non ci sono molte altre ricette verosimili. E questo naturalmente non vale solo per la letteratura.
19 settembre 2015
Gabriele Pedullà
(Tratto da: Gabriele Pedullà, The dark side of the “Memos”. Il testamento politico di Italo Calvino, in: https://www.leparoleelecose.it/?p=20316).
Inserito il 01/10/2023.
Dal sito «Marx. Dialectical Studies»
Calvino è stato marxista. In memoriam
di Roberto Fineschi
Italo Calvino è stato un grande intellettuale comunista e marxista. Se nella seconda fase della sua vita si allontanò da quelle posizioni, permanevano tuttavia importanti linee di continuità che permettono di ricondurlo nell’alveo di quella tradizione filosofica, politica, civile e morale.
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Calvino è stato marxista. In memoriam
di Roberto Fineschi
Presento qui, in occasione della ricorrenza del centenario della nascita e in forma estremamente schematica, alcune idee che sto sviluppando in uno studio di carattere organico sulla “filosofia” di Italo Calvino che uscirà l’anno prossimo.
1. Italo Calvino, sanremese cui “capitò” di nascere a Cuba, è stata una figura di intellettuale tra le più grandi della storia italiana recente, tra i pochi con un ampio respiro internazionale e universalmente apprezzato per originalità e profondità. Viaggiatore del mondo, parigino di adozione, ebbe notoriamente forti legami con il territorio toscano: oltre a morire infaustamente proprio a Siena nel 1985, amò profondamente il litorale prossimo a Castiglion della Pescaia, scenario di alcune delle sue opere; vi passò per molti anni l’estate nella sua residenza immersa nella pineta di Roccamare e scelse la cittadina toscana come luogo per la propria sepoltura.
Al di là della memorialistica locale, mero pretesto per avviare il discorso, è altro il ricordo che vorrei rievocare. Se sempre viene a ragione ricordato il periodo della sua militanza politica diretta come membro del Partito Comunista Italiano – interrotta con le dimissioni del 1957 in seguito ai fatti ungheresi e alla timidezza con cui il PCI procedeva con la destalinizzazione –, meno frequentemente tale esperienza viene collegata a ragioni teoriche e filosofiche – oltre che, ovviamente, pratiche – che lo spinsero a questa adesione e che restarono vive ben al di là del fatidico ‘56. Queste ragioni spingono a sostenere – questa la tesi – non solo che Calvino sia stato e rimasto comunista nell’arco della sua vita, ma che le sue posizioni possano essere identificate come “marxiste”, ovviamente intendendo con questo termine una adesione in senso ampio ad alcune linee di ragionamento derivate da Marx, sulle quali, pur mutando accenti e priorità, non ha mai cambiato idea. Ancora più arditamente credo si possa sostenere che, dieci anni prima della “crisi del marxismo” degli anni Settanta, Calvino ne avesse anticipato i tratti di fondo oggettivi e soggettivi e pure i vicoli ciechi di alcuni dei suoi esiti; ne trasse conseguenze pratiche coerenti dal suo punto di vista, con una sospensione di giudizio che non significò affatto fine della ricerca o assenza di posizionamento critico-intellettuale; si trattò piuttosto di una epochè attiva, inquirente, pungolo costante volto a stimolare la realtà per rendere visibile l’invisibile, dire il non detto. Credo si possa affermare che, in questo senso, non ci fosse intento più realistico del suo interesse per l’utopia e il mondo fantastico-invisibile.
In questa ricerca, che inizialmente pare prendere vie completamente diverse, si riannodano linee di continuità che paiono a me evidenti: il paradigma teorico su cui si era basato fino a quel momento non era ritenuto completamente sbagliato, ma insufficiente a pensare l’accresciuta complessità del reale. Se certi aspetti andavano ridimensionati, per altri versi si trattava di ampliarlo, ma a partire da basi non rinnegate. L’esplorazione del complesso reale, anche nella prospettiva di tale ampliamento, è quanto farà nel resto della sua vita. Se da una parte è evidente che nella seconda metà degli anni Sessanta, successivamente alla pubblicazione del saggio L’antitesi operaia[1] e agli sviluppi esposti in Cibernetica e fantasmi (Appunti sulla narrativa come processo combinatorio)[2], Calvino ripensò profondamente le proprie posizioni “filosofiche”, pare però a me, dall’altra, che definire che cosa fosse lo “storicismo dialettico” con il quale fece i conti nel primo dei saggi menzionati sia parte integrante del problema; questa espressione è infatti quanto mai imprecisa e irrisolta ed è difficile stabilire, alla luce dello stato corrente degli studi, in che misura si possa avvicinare a spunti interamente hegeliani o marxiani. Rispetto alle determinanti fondamentali di quelle impostazioni, non ritengo che le linee generali del suo ragionamento deviassero così drasticamente.
2. Questo “marxismo” di fondo, il legame contraddittorio di esso con il “comunismo” e con lo “stalinismo” e la progressiva distinzione di queste tre categorie è stato il retroterra di molte delle sue riflessioni, anche tarde, che più volte nella maturità lo hanno portato a riflettere sull’esperienza giovanile, sui suoi limiti ma anche sul suo valore. In questa nota, tra i molti, vorrei fare brevemente cenno a un articolo in cui riflette sullo “stalinismo” di quella generazione e dove riprende i termini del discorso dando almeno in parte il senso storico-culturale della continuità/discontinuità del Calvino fine anni Settanta. L’articolo si intitola significativamente con una domanda: Sono stato stalinista anch’io?[3]; a essa Calvino risponde coraggiosamente: «Sì, sono stato stalinista» (2836). Spiega:
«Per molti comunisti di “base” rimasti in attesa dell’ora X della rivoluzione, Stalin era la garanzia vivente che questa rivoluzione ci sarebbe stata. […] C’era poi lo Stalin che diceva che il proletariato doveva raccogliere la bandiera delle libertà democratiche lasciata cadere dalla borghesia, e questo era lo Stalin la cui strategia serviva d’appoggio alla linea del partito di Togliatti, e sembrava corrispondere a una prospettiva di continuità storica tra la rivoluzione borghese e quella proletaria» (2836).
Calvino non si nasconde quanto “già” si sapesse su Stalin e confessa la sua reticenza del tempo a darne conto o ad ammetterlo; tutto ciò rientrava nel “pacchetto” Stalin: le possibili linee di divergenza e di criticità rispetto alle purghe e all’autoritarismo vivevano accanto ai principi suddetti senza soluzione di continuità. Nella propria autocomprensione Calvino può dunque affermare: «Tanto il mio stalinismo quanto il mio antistalinismo hanno avuto origine dallo stesso nucleo di valori» (2837). In sostanza:
«Lo stalinismo aveva la forza e i limiti delle grandi semplificazioni. La visione del mondo che veniva presa in considerazione era molto ridotta e schematica, ma all’interno di essa si riproponevano scelte e lotte per far prevalere le proprie scelte, attraverso le quali molti valori che si presumevano esclusi tornavano in gioco» (2839). Insomma: «lo stalinismo si presentava come il punto d’arrivo del progetto illuminista di sottomettere l’intero meccanismo della società al dominio dell’intelletto. Era invece la sconfitta più assoluta (e forse ineluttabile) di questo progetto» (2840).
Questo – oramai consapevole – rapporto contraddittorio emerge anche nell’apprezzamento e nella sostanziale condivisione da parte di Calvino del pragmatismo anti-ideologico staliniano, che però adesso Calvino capisce non essere stato autentico in Stalin, non trattandosi altro che di concessione di monarca, rispetto a una vera concretezza metodologica e pratica.
Pur con le sue criticità, l’idea di fondo era che l’URSS avesse raggiunto una saggezza suffragata dal travaglio storico della sua realizzazione:
«Proiettavo sulla realtà la semplificazione rudimentale della mia concezione politica, per la quale lo scopo finale era di ritrovare, dopo aver attraversato tutte le storture e le ingiustizie e i massacri, un equilibrio naturale al di là della storia, al di là della lotta di classe, al di là dell’ideologia, al di là del socialismo e del comunismo» (2841).
Ma fuori dal moralismo o dalla semplificazione storica, Calvino ammette che il suo stalinismo, nel bene e nel male, fu un momento di un processo storico complesso con i suoi tratti di necessità e i suoi ristretti margini di consapevolezza e autodecisione. Da ciò conclude il suo intervento con queste affermazioni:
«Se sono stato (pur a modo mio) stalinista, non è stato per caso. Ci sono componenti caratteriali di quell’epoca, che fanno parte di me stesso: non credo a niente che sia facile, rapido, spontaneo, improvvisato o approssimativo. Credo alla forza di ciò che è lento, calmo, ostinato, senza fanatismi né entusiasmi. Non credo a nessuna liberazione né individuale né collettiva che si ottenga senza il costo di un’autodisciplina, di un’autocostruzione, d’uno sforzo. Se a qualcuno questo mio modo di pensare potrà sembrare stalinista, ebbene, allora non avrò difficoltà ad ammettere che in questo senso un po’ stalinista lo sono ancora» (2842).
Il senso profondo di questa riflessione pare a me la consapevolezza non tanto dell’inconsistenza del retroterra filosofico-culturale del comunismo storico, ma quella delle sue insufficienze, dei suoi limiti e del suo necessario ripensamento, ma a partire da capisaldi che sono propri di quel pensiero e che neppure lo spauracchio dello stalinismo riesce a scalfire nel suo profondo. Non solo la legittimità di quella lotta storica comunista è rivendicata, ma anche un approccio metodologico individuale e collettivo e alcuni principi di fondo (razionalismo, storicità determinata, libertà possibile solo nella necessità, contraddizioni storiche, temi che qui posso evidentemente solo rievocare); tutti hanno una matrice marxiana che cercherò di mostrare a suo tempo nello studio annunciato.
Nella disfatta culturale postmodernista, nel cieco individualismo metodologico e morale dell’ideologia contemporanea, la voce di Calvino risuona come chiaro richiamo a una ben precisa tradizione storica, politica, culturale. Concludo ricordandolo con le sue stesse parole:
«Detto questo, rimango molto legato a certe caratteristiche che sono state l’immagine positiva del comunista, per me, e che mi hanno spinto a identificarmi con quel modello di vita… Lo spendersi per il bene comune, la disciplina interiore, l’affrontare le situazioni difficili, il senso della storia. Anche se oggi mi sarebbe impossibile darmi delle etichette politiche se non molto generiche, mi situo pur sempre in una storia che ha come spina dorsale il movimento operaio»[4].
Roberto Fineschi
(Tratto da: https://marxdialecticalstudies.blogspot.com/2023/10/calvino-e-stato-marxista-in-memoriam-di.html).
Note
[1] Originariamente apparso in «II menabò 7 - Una rivista internazionale», Einaudi, Torino, 1964. Ripubblicato in Una pietra sopra, Torino, Einaudi, 1980; ora in Italo Calvino, Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, pp. 127 ss.
[2] Originariamente apparso col titolo Cibernetica e fantasmi in «Le conferenze dell’Associazione Culturale Italiana», fasc. XXI, 1967-68, pp. 9-23; successivamente, in un testo ridotto, col titolo Appunti sulla narrativa come processo combinatorio, in «Nuova Corrente», n. 46-47, 1968. Raccolto infine in Una pietra sopra, Torino, Einaudi, 1980; ora in Italo Calvino, Saggi, cit., pp. 205 ss.
[3] Originariamente apparso su «La repubblica» del 16-17 dicembre 1979 come contributo di un inserto dedicato al centenario della nascita di Stalin. Ora raccolto in Italo Calvino, Saggi, cit., pp. 2835 ss. (si cita da questa edizione).
[4] Calvino, Il futuro che vorrei vedere, in «Nuova Gazzetta del popolo», 23 luglio 1978, p. 2.
Inserito il 29/10/2023.
Intellettuali e PCI
Il caso Sciascia
Sciascia tra letteratura e impegno civile e politico
Uno scrittore che non si occupò solo della propria terra e della mafia, ma che prese parte anche alle grandi questioni della politica nazionale del suo tempo
di Angelo Marco De Iorio
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Compagni di strada: il caso Sciascia
Sacrifici sull’altare della Storia. Moro e Majorana
“Ci sono dei regimi dalle cui lusinghe e propiziazioni gli intelligenti e gli onesti (meglio: gli intelligenti onesti) debbano sentirsi offesi più che dalle minacce e persecuzioni. Lo storico siciliano Isidoro La Lumia, alle offerte del regime borbonico di un incarico non privo di remunerazioni e prestigio, reagiva dicendo che la finissero di blandirlo o si vedeva costretto a prendere la via dell’esilio. Episodio che oggi prende un che di comico: e, paradossalmente, dai tragici riverberi di persecuzioni ed epurazioni che in tanta parte del mondo si consumano. C’è stato un tempo in cui un intellettuale poteva dire: “Se mi accarezzate me ne vado, se mi maltrattate resto”; e il maltrattamento si riduceva poi a impedirgli di pubblicare a Palermo dei libri che, senza conseguenze, poteva pubblicare a Firenze o a Torino. Una grave limitazione, d’accordo: ma noi abbiamo visto ben altro, in Italia e fuori.”
(L. Sciascia, Nero su nero)
Gli anni Settanta del Novecento sono per la produzione di Leonardo Sciascia anni fondamentali; si è parlato spesso di letteratura della crisi, forse sarebbe meglio polemica della letteratura. Polemos è il saggio introduttivo di Claude Ambroise al secondo volume 1971-1983 delle opere sciasciane. Lo scrittore sembra entrare in polemica innanzitutto con sé stesso, per rivedere le sue convinzioni e reindirizzare quella vena contestataria verso le istituzioni e la situazione politico – sociale italiana. Il contesto italiano in quegli anni è annebbiato da una corruzione dilagante, dalla crisi economica, dopo il boom dei Sessanta, e dall’espandersi del fenomeno terroristico. Egli sembra entrare in rapporto dialettico con la sua letteratura precedente: più debole si fa quella fiducia nella forza anche civile della ragione e meno certa l’etichetta di scrittore neo – illuminista. Si inseriscono tendenze più astratte e metafisiche, come abbiamo visto in Todo Modo del 1974, l’attenzione viene spostata dal lume della ragione alla letteratura con conseguente stimolo verso la riscrittura, anche di avvenimenti d’attualità. Insomma, il suo razionalismo e il suo famoso illuminismo si fanno drammatici perché, pur partendo dal Settecento e avendo a lungo frequentato quei filosofi, “è anche uno scrittore tenacemente legato al retroterra siciliano, da Verga, De Roberto, Pirandello in poi, una regione cioè dove più evidente è la sconfitta storica di ogni utopia filosofica”. In lui la ragione è una questione di metodo, “ma non per questo nutre o insinua alcuna illusione sulla razionalità del reale – e questo è il motivo per cui la sua attenzione allo sviluppo della società, siciliana e/o italiana, mai si fa piatto storicismo e reazionaria fede progressista.”1
Il decennio si apre con Atti relativi alla morte di Raymond Roussel (Edizioni Esse), e il contemporaneo Il contesto (Einaudi 1971), che è, come recita il sottotitolo, una parodia. Parodia di un paese non meglio identificato, dato che l’ambientazione è sospesa e priva di riferimenti topografici o onomastici, che potrebbe essere l’Italia; tuttavia ciò che è parodicamente preso in esame è il concetto di rivoluzione, parola frequente in quegli anni, che svuotata da ogni essenza ideologica rimane utile, come altre forme di mistificazione del reale espresse da un linguaggio sempre meno coerente, utile, dicevamo, a difendere quella grande macchina che è il Potere. Con questo romanzo Sciascia torna ad utilizzare lo schema del poliziesco, dopo A ciascuno il suo del 1966, anticipando quello che poi sarà Todo Modo tre anni dopo; esso rappresenta anche una svolta nel senso di perdita di quei “moduli realistici per attuare strategie compositive e retorico – stilistiche di deformazione dei dati della realtà in senso allegorico, grottesco, fantastico, fantapolitico e metafisico”2. A proposito dello stile espressivo di Sciascia ricordiamo l’articolo di Pasolini3 che nel 1973 spiega come quel suo realismo si componga, in realtà, di due influenze: personaggi presi dalla “tradizione realistica italiana, implicante un’oggettività non esplicitamente critica, raggiunta attraverso la mimesi” mentre sullo sfondo, sempre presente è “una tradizione diversa, europea, anch’essa peraltro realistica: quella che raggiunge l’oggettività, direi esistenziale, non attraverso la mimesi, ma attraverso la sua stessa chiarezza, discrezione, parsimonia espressiva”. Per Pasolini questi due realismi sono utilizzati insieme, indebolendosi a vicenda, e finiscono per essere dei “pretesti per parlare, dei meccanismi, delle apparenze”. Egli sostiene che essendo in Sciascia i meccanismi della mafia, e di conseguenza quelli del potere, condizioni quasi antropologiche non esprimibili fino in fondo, egli vivesse il doloroso atteggiamento di scrittore realistico che “non può che essere razionale” di contro ad una materia non razionalizzabile. Il tratto messo in evidenza da Pasolini sembra diventare sempre più evidente nelle opere degli anni Settanta.
Nel Contesto, la sanguinaria vendetta privata del farmacista Cres contro i giudici che lo avevano condannato ingiustamente viene utilizzata dai partiti, non importa il colore politico, al potere e all’opposizione e persino dai poteri extraparlamentari per preservare loro stessi e salvaguardarsi. L’ultima pagina è quella che più evidentemente scatena la polemica: il segretario del partito rivoluzionario internazionale che risponde allo scrittore Cusan dicendo: “Non potevamo correre il rischio che scoppiasse una rivoluzione, non in questo momento”. Siamo lontani dai tempi dell’avvocato Di Blasi che solo porta avanti l’esperimento di un moto rivoluzionario, seppur consapevole della difficile attuazione di quello se non nel campo dell’impostura, accettando così di sacrificarsi. La ricezione della critica fu controversa e non indifferente al fatto che dal Partito Rivoluzionario Internazionale trasparisse il Partito Comunista Italiano e che si immaginasse così una comunione d’intenti, per non dire collusione, tra democristiani e comunisti. La polemica divampò alimentata dai critici vicini al Pci dalle pagine de “L’Unità”, “Rinascita” e “L’Avanti”: il libro viene definito da Pedullà “chiacchiera qualunquista camuffata da riflessione superiore e distante di grande moralista”4, aspre critiche arrivano anche da Emanuele Macaluso, allora segretario regionale del Pci in Sicilia, Lombardo Radice, Giovanni Raboni5 mentre l’amico Renato Guttuso, membro del Partito Comunista e in disaccordo con il significato profondamente polemico e con la posizione ideologica di Sciascia, invita i compagni a considerare le motivazioni che hanno spinto un uomo dalla “qualità morale” di Sciascia a rintanarsi in quel disincanto che già egli intuiva nel Consiglio d’Egitto e nella dedica a Dubček della Controversia liparitana. Polemica che avrà sicuramente divertito Sciascia il quale, ogni volta che fosse stato possibile, non perdeva occasione per manifestare il suo voler essere contro, il volersi defilare in una posizione sempre opposta a quella costituita6; c’è anche, però, nello Sciascia che si affaccia agli anni Settanta un riavvicinarsi alla “residenza isolana”, un nuovo incontro con il padre Pirandello7; una realtà sempre meno univoca e conoscibile, il desiderio di dare quindi forma al conosciuto che si esprime in serrate “dialettiche discorsive” in cui la dualità intellettiva del personaggio è specchio delle contraddizioni della realtà e della storia8.
Si insinua pian piano, al di là dei giochi di potere e delle verità appositamente celate dai potenti, un mistero che va oltre, che prescinde da contingenze politico – sociali; “le maschere del teatro della memoria diventano così personaggi del dramma del presente, che solo la passione dello scrittore da finzioni traduce in immagini di verità”9.
“Nel Vangelo di Giovanni, quando Gesù dice di essere venuto al mondo per rendere testimonianza alla verità, Pilato domanda: «Che cosa è la verità?»
È l’eterna domanda che può trovare risposta soltanto nella verità, non in una spiegazione o definizione della verità. La verità è «Io sono colui che sono». E così la verità è colei che è. Il potere ne vuole spiegazione allo stesso modo che della menzogna in cui si inscrive può darne. Pilato domanda. Gesù non risponde.
Ma la domanda che oggi occupa me, nel rileggere il passo di Giovanni e nel cercarne inutilmente riscontro nei Vangeli di Matteo, Marco e Luca, è questa: perché soltanto Giovanni registra queste due battute che mi sembrano attingere al momento più alto del dramma della Passione?
La riposta può essere questa: perché sono vere, perché Giovanni c’era. Non so molto di esegesi e critica evangelica, ma nel Vangelo di Giovanni sento la verità della cosa vista, della cosa sentita. E attraverso un piccolo particolare topografico: lo spostarsi di Pilato dal pretorio alla corte detta «il lastricato». Anche se questa corte non fosse stata scoperta dagli archeologi nel 1932, il particolare è di quelli che si appartengono a una resa della verità che direi stendhaliana. Giovanni, il più letterato degli evangelisti, forse sapeva che quel particolare sarebbe valso a dar verità a tutto l’insieme.
E in conclusione: alla domanda di Pilato – «Che cosa è la verità?» – si sarebbe tentati di rispondere che è la letteratura.” (Op. S. II, pp. 814 – 815)
Così appunta Sciascia, in Nero su nero, e allo stesso modo al quesito – “Che fine ha fatto Ettore Majorana?”, lo scrittore risponde riscrivendone la storia, non per farne un saggio storico, come era avvenuto per fra’ Diego La Matina, ma morale, per dare un esempio emblematico di scienziato che rifiuta l’assenza di limiti nella scienza e per questo si oscura. La scomparsa di Majorana non ha pretese di ricostruire la reale fine dello scienziato siciliano ma di trovare quantomeno la verità letteraria attraverso un romanzo che è difficilmente circoscrivibile in un genere preciso. Fa la sua comparsa a puntate sul giornale “La Stampa” tra l’agosto e il settembre 1975, accompagnato dal significativo sottotitolo Giallo filosofico; verrà pubblicato per Einaudi a fine anno10.
Qualche breve cenno biografico: Ettore Majorana era nato a Catania nel 1906 e aveva compiuto i suoi precoci studi tra il capoluogo siciliano e Roma. Prima iscritto alla facoltà di ingegneria, fu convinto da un suo collega, Emilio Segrè, a condividere il passaggio di corso di studi a fisica, importanti anche i confronti con Fermi. Laureato nel 1929, relatore Enrico Fermi, con una tesi sulla meccanica dei nuclei radioattivi, iniziò a frequentare a Roma l’Istituto di via Panisperna. Collaborò con università straniere; nel 1933 ebbe l’opportunità di conoscere e collaborare con Heisenberg, a Lipsia, e con Niels Bohr a Copenaghen. Nel 1937 gli era stata assegnata la cattedra di fisica all’Università di Napoli. Dal 25 marzo 1938 le tracce del grande scienziato siciliano si perdono per sempre. “Oggetto: Scomparsa (con proposito di suicidio) del Prof. Ettore Majorana.” (Op. S. II, p. 211)
Il motivo, o quantomeno il pretesto, per cui Sciascia decide di occuparsi della misteriosa scomparsa del fisico è chiarito da lui stesso nell’articolo Majorana e Segrè 11 nel quale contesta le supposte simpatie di Majorana nei confronti di Hitler, partendo da una lettera ritrovata e del relativo articolo La sorprendente lettera rivelata dal Nobel Segrè – A Majorana piacque Hitler comparso sul “La Stampa” del 4 marzo 1975, firmato da Paolo Mieli. Ciò che Sciascia soprattutto critica è il titolo di quell’articolo che non spiega il contenuto della lettera, “ma ormai è chiaro che sui giornali i titoli vanno per conto loro e a testa per aria”; egli sottolinea che a quella data, 1933, “non si prospettava una soluzione finale del problema ebraico in Germania con campi di annientamento e camere a gas”. Dal contenuto della lettera non si evincerebbe un consenso al nazismo ma solo un voler spiegare perché in Germania le cose andassero nel senso dell’antisemitismo, dice Sciascia.
La narrazione è portata avanti utilizzando lettere, scarni documenti d’archivio e la Nota biografica scritta da Amaldi nel 1966 per l’Accademia Nazionale dei Lincei ma ciò che lega il tutto è la riscrittura di Sciascia che ricompone una storia difforme dalle verità ufficiali attraverso intuizioni e deduzioni, così che finita la lettura, pur non potendo avere prove certe si finisce per voler credere a ciò che l’autore immagina. Insomma copre di letteratura lo squarcio nell’esistenza dello scienziato. Letteratura è verità.
Gli ultimi segni di vita dello scienziato erano state un paio di lettere all’amico professore Antonio Carrelli ed una alla famiglia che facevano intendere propositi autodistruttivi. Questa o l’ipotesi di un’aggravarsi della sua nevrosi, spiegazioni passate per verosimili e probabili, entrambe confermate secondo i più da quel carattere scontroso, taciturno e “strano” che i conoscenti gli riconoscevano. Quel carattere che come racconta Laura Fermi lo portò a calcolare e pensare la teoria del nucleo fatto di protoni e neutroni prima che fosse pubblicata da Heisenberg, ma rifiutandosi sempre di renderla nota. Il ritratto che ne viene fuori è quello di un genio che, quasi suo malgrado, porta con sé la scienza e i suoi segreti e a quella sembra volersi negare; una capacità intuitiva sulle possibilità della realtà scientifica precoce e dolorosa che non fa che isolarlo dal mondo. È interessante notare come in questo gioco di possibilità, di se, ancora una volta Sciascia utilizzi, come nel caso del “se Napoleone fosse nato venti anni dopo”, un paragone letterario, anzi il suo paragone letterario: Stendhal. La natura geniale di Majorana e di Henry Beyle è la stessa, la stessa voglia di eclissarsi, di negarsi ritardando il più possibile la dimostrazione della propria natura. “Appena toccata, nell’opera, una compiutezza, una perfezione, appena data perfetta forma, e cioè rivelazione, a un mistero – nell’ordine della conoscenza o, per dirla approssimativamente, della bellezza: nella scienza o nella letteratura o nell’arte – appena dopo è la morte. E poiché è un tutt’uno con la natura, un tutt’uno con la vita e natura e vita un tutt’uno con la mente, questo il genio precoce lo sa senza saperlo. Il fare è per lui intriso di questa premonizione, di questa paura. Gioca col tempo, col suo tempo, coi suoi anni, in inganni e ritardi. Tenta di dilatare la misura, di spostare il confine. Tenta di sottrarsi all’opera, all’opera che conclusa conclude. Che conclude la sua vita.” (Op. S. II, pp. 224-225). Per Sciascia, Stendhal gioca così con la sua vita, si maschera e si eclissa con pseudonimi fin a quando dopo “alcuni anni di resistenza è costretto a scrivere tutto”. Arrivato a quel punto lo scrittore non può più rifiutare se stesso e, arrivato al limite, si fa letteratura; Majorana, invece, arrivato al limite della sua scienza, cioè venuto a conoscenza della fissione nucleare e presago delle sue devastanti conseguenze in anticipo su tutti, non può che negare e rifiutare la sua identità che è tutt’uno con la scienza.
Per Sciascia, quindi, orientato da Vittorio Nisticò, direttore del giornale “L’Ora”, Majorana si sarebbe rinchiuso nel convento certosino di Serra san Bruno in Calabria. La teoria scatenò aspre polemiche perché il libro venne letto come una aprioristica condanna della scienza, uno sterile pregiudizio e non come l’emblematica capacità di uno scienziato che più della sua scienza ha ben presente e a cuore il limite che quella non può oltrepassare. La polemica che si innescò sulle pagine de “L’Espresso”, successivamente al romanzo, vide come protagonista Edoardo Amaldi, uno dei “ragazzi di via Panisperna”; egli partendo dal fatto concreto, per lui indiscutibile, dell’impossibilità per Majorana, nel 1937, di intuire la possibilità delle armi atomiche si scaglia contro Sciascia contestandone la teoria, portando come prove precisazioni storico – scientifiche12. Come scrive Olivia Barbella, “le ragioni profonde dell’incomprensione tra il fisico e lo scrittore si devono al fatto che essi parlano linguaggi che nascono da due logiche diverse: realistica e scientifica l’una; etica e assoluta l’altra.”13
Nel suo bel saggio Uno strappo nel cielo di carta, Lea Ritter Santini, ricordando la frase di Edoardo Amaldi messa ad epigrafe da Sciascia, “prediligeva Shakespeare e Pirandello”, aggancia la condizione dello scienziato che intuisce l’assurdo a quella dei personaggi di Pirandello e quindi al “problema della perdita della propria identità, dell’alienante estraneità dell’individuo in un mondo che gli appare fittizio e minaccioso”. Pirandello e il suo stile vengono dunque ripresi da Sciascia: Majorana come Mattia Pascal si accorge dello “strappo nel cielo di carta”, in quel cielo di carta che è una prigione fatta dal dover conformarsi a ciò che il proprio ruolo impone. “Tempo, spazio, necessità”, dice la Santini, sono trappole per i personaggi pirandelliani. Per Majorana la sua scienza diventa trappola quando gli fa intuire di cosa è capace. Dopo il Galileo di Brecht e I fisici di Dürrenmatt, “siamo giunti, nella nostra scienza, ai confini dello scibile … Abbiamo raggiunto il traguardo del nostro cammino. Ma l’umanità non c’è ancora arrivata … La nostra scienza è diventata tremenda, la nostra ricerca pericolosa, la nostra conoscenza mortale. Non resta per noi fisici che la capitolazione di fronte alla realtà … Dobbiamo rinnegare la scienza, e io l’ho rinnegata.”14 Il Majorana di Sciascia rinnega oltre la scienza sé stesso, perché il rapporto tra essa e i meccanismi del potere, egli intuisce, è catastrofico. Il silenzio dello scienziato è più frastornante di qualsiasi dichiarazione e pubblicazione scientifica, è un silenzio che trova però forma nella libertà della letteratura. Non la scienza è messa sul banco degli imputati in quanto tale, ma la mancanza di misura. In un articolo pubblicato sulla “Stampa” del 24 dicembre 1975, subito dopo l’uscita del romanzo, Sciascia pensa a Camus per spiegare il suo interesse per il caso Majorana: “«Vivere contro un muro, è vita da cani. Ebbene, gli uomini della mia generazione e di quella che entra oggi nelle fabbriche e nelle facoltà, hanno vissuto e vivono sempre più come cani»15. Grazie anche alla scienza, grazie soprattutto alla scienza.”16
Per Ian Thomson, che scrive su “The Independent”, 26 marzo 1987, La scomparsa di Majorana e L’affaire Moro possono costituire “una stupenda introduzione a uno scrittore la cui opera, per dirla con Gore Vidal, «non assomiglia a nessun’altra opera di un autore europeo».”17 Il suo articolo si chiama significativamente Il potere come insulto contro Dio e mette in relazione i destini di due uomini, vittime della storia e dell’inasprirsi smisurato del culto della scienza e del culto, fondamentalmente afono, della rivoluzione.
È il 1978 e nel giorno di presentazione del quarto governo Andreotti, l’on. Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, viene sequestrato e, dopo una prigionia di 55 giorni, ucciso da un commando delle Brigate Rosse. Del destino della Dc e della sua autodistruzione, Sciascia aveva già parlato quattro anni prima in Todo Modo e nei giorni successivi al rapimento; ad un intervistatore che lo stuzzica sul suo insolito silenzio egli risponde:
“Quando mi sono presentato candidato al consiglio comunale nella lista del Pci ho detto che non mi sarei mangiato una virgola del Contesto. Oggi posso dire che non mi rimangio nemmeno una virgola di Todo Modo. Come uomo, come cittadino, di fronte al caso di Moro sento lo stesso sgomento e la pena di una persona che abbia sentimento e ragione. Ma come autore di Todo Modo, rivedo nella realtà come una specie di proiezione delle cose immaginate. Per questo mi ha fatto da remora, nell’intervenire, come scrittore, anche per un senso di preoccupazione e di smarrimento nel vedere le cose immaginate verificarsi”18.
Nei giorni del sequestro si scatenò un accesso dibattito tra chi non voleva per nessuna ragione trattare con le Br e chi pensava che sarebbe stata l’unica cosa da fare per salvare Moro. Sciascia era nel secondo gruppo e la tesi estrema e destabilizzante che porta avanti nel suo pamphlet, scritto e pubblicato quasi in contemporanea coi fatti d’attualità, Sellerio 1978, è che Aldo Moro si sarebbe facilmente salvato se si fosse dato ascolto a quello che diceva, se la vita di un uomo fosse stata messa al di sopra di ragion di Stato e logiche di potere. Le Br volevano trattare, Moro voleva la trattativa; in conclusione, le Brigate rosse hanno sparato ma a condannarlo sono stati gli “amici” del partito spalleggiati dai comunisti, uniti sotto l’idolo dello “Stato forte”. Sciascia considera la tragedia di Moro, ovviamente, sotto una luce letteraria; è un dramma di identità, si direbbe pirandelliano, in quando il mondo fuori dalla sua “prigione rivoluzionaria” lo piange, ma non si attiva concretamente per salvare la sua vita in quanto non lo considera più per quello che è.
“Moro comincia, pirandellianamente, a sciogliersi dalla forma, poiché tragicamente è entrato nella vita. Da personaggio ad uomo solo, da uomo solo a creatura: i passaggi che Pirandello assegna all’unica possibile salvezza.” (Op. II, p. 513)
Sciascia mette in luce che il problema dell’affaire sono le lettere di Moro che, essendo, secondo lui, ad un esame stilistico, autentiche, andavano lette senza il pregiudizio che a scrivere fosse un altro Moro o, quanto meno, un Moro fuori di sé. Insomma si arrivò a sostenere che le lettere di Moro fossero false o scritte sotto costrizione e quindi del tutto irrilevanti ai fini di un contatto reale col prigioniero.
Probabilmente è questo libro e la polemica successiva, il punto più critico in tutta la produzione di Sciascia; si percepisce lo sconvolgimento di uno scrittore che è profondamente turbato dal destino di una vittima della storia, e delle sue falsificazioni. La letteratura che precedentemente era l’isola privilegiata sulla quale rifugiarsi a dare un senso di verità ai fatti resta con l’Affaire Moro definitivamente invischiata nella confusione e nelle mistificazioni che tra reale e immaginario difficilmente si chiariscono.
“Perché l’impressione che l’affaire Moro sia già stato scritto, che viva in una sfera di intoccabile perfezione letteraria, che non si possa che fedelmente riscriverlo e però, riscrivendolo, mutar tutto senza nulla mutare? Le ragioni sono tante; e non tutte decifrabili. È da dire, intanto, che come il Don Chisciotte, l’affaire Moro si svolge irrealmente in una realissima temperie storica e ambientale. Allo stesso modo che don Chiosciotte dai libri della cavalleria errante, Moro e la sua vicenda sembrano generati da una certa letteratura.” (Op. S. II, p. 479)
Questa storia produce in Sciascia un turbamento nato dall’impressione che tutto accada in letteratura per quel venire meno, “quella specie di fuga dei fatti, da quell’astrarsi dei fatti – nel momento stesso in cui accadono e ancora di più contemplandoli poi nel loro insieme – in una dimensione di consequenzialità immaginativa o fantastica indefettibile e da cui ridonda una costante, tenace ambiguità”. Un dibattito feroce si scatenò ancora una volta; la tesi di Sciascia non convinceva, non piacevano quel “rifiuto dello Stato e delle forze sociali e politiche che maggiormente lo rappresentano, il rifiuto della ideologia e degli interessi dei quali esse sono portatrici”, come scrive Eugenio Scalfari su “la Repubblica”, ed è il concetto sostenuto dai detrattori del libro che, convinti dell’inautenticità di quelle lettere, considerano il pensiero dello scrittore destabilizzante19.
Ma gli attacchi di Sciascia sono rivolti proprio a coloro che considerano lo Stato un idolo, una parola vuota e caricata appositamente di sensazioni svariate per suscitare sentimenti di positività, con lo scopo di avviare “processi di adesione cieca e unanime, amore, a uno Stato ideale e inesistente; ma che giustifica la passione di Aldo Moro. Del resto, con lo slogan Portare l’attacco al cuore dello Stato, anche le Brigate rosse trasformano la parola Stato in un feticcio. Contro le Brigate rosse e contro questo Stato è la formula che riassume il pensiero di Sciascia per il quale Moro è stato la vittima di una unanimistica statolatria. È un buon motivo per identificarsi con lui, con angoscia; e scrivere L’affaire Moro”20.
Quindi nell’inaridimento linguistico di parole come Stato e rivoluzione, l’unica essenza di verità intuibile è nell’ispezione di alcune storie paradigmatiche che attraverso il rapporto tra i protagonisti e le loro carte (le lettere di Moro), facciano luce, se non proprio sulla verità in senso positivo, su quello che la verità di certo non è, come a sottrarre imposture al reale; è un procedere apofatico. Il modello del libro rimane comunque la Storia della colonna infame21 che, pur portando un sostrato cattolico del Manzoni estraneo a Sciascia, insegue lo scopo di mostrare come la verità sia accessibile a spiriti non accecati da passioni ideologiche irrazionali né da “credenze legate alle conoscenze del tempo”22.
Il setaccio del reale è, quindi, sì la letteratura ma nel suo aspetto particolare della riscrittura:
“[…] dicevo del mio stato d’animo nell’aver finito di scrivere un pamphlet sull’affaire Moro e facevo delle considerazioni – appunto – sulla letteratura (che per me, e ne ho avuto piena coscienza da quando ho finito di scrivere sulla scomparsa di Majorana, è la più assoluta forma che la verità possa assumere).” (Op. S. II., p. 834)
L’impegno politico e il disimpegno della riscrittura
“Il fatto di cercare di dire la verità rinvia, più che a una tradizione umanistica, a una tradizione del secolo dei lumi. Voltaire è stato davvero il padre di questo atteggiamento, ripreso più tardi da Zola … Il pericolo è stato di ricondurre abusivamente quest’atteggiamento a una posizione partigiana e politica. Voltaire e Zola, dunque, ma non Sartre. Come Voltaire e Zola, dunque, è un mio dovere parlare, dire ciò di cui sono convinto. In nessun caso sono però uno scrittore impegnato, partigiano, in nessun caso sono un maestro di pensiero.”23
In questi anni cruciali, tra nuove esperienze letterarie, impegno civile e crisi personale, colorati da varie sfumature di polemica, si colloca, nel 1977, il più esplicito esempio di riscrittura. Il Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia rappresenta la perfetta riscrittura di un celebre romanzo ed è, al tempo stesso, una letteraria biografia dell’autore; Sciascia riscrive sé stesso attraverso il Candide voltairiano, uno dei libri che più ama.
Dichiarazione d’intenti che era già leggibile nel 1974 all’interno di Todo Modo, per bocca di don Gaetano: “E forse si possono oggi riscrivere tutti i libri che sono stati scritti; e altro anzi non si fa […] Tutti. Tranne Candido”. È impossibile avvicinarsi al testo senza parlare anche dell’impegno concreto, civile, politico ma sempre in “direzione ostinata e contraria”, di Sciascia negli anni Settanta. Per le due chiese di cui parla nel libro, la cattolica e la “rossa”, egli sembra aver nutrito sempre un interesse da laico contestatore, mai però indifferente; ne è attratto e forse per questo così lucidamente critico. Così, dopo le battaglie a suon di articoli scatenate dal Contesto, già nel 1973 si riallacciano i rapporti tra Sciascia e Pci che era rimasto profondamente scosso dalle allusioni del romanzo del 1971. Come scrive Camilleri, “cominciò una sorta di cauto avvicinamento alle posizioni che il partito, allora, aveva assunto nell’Isola. D’altra parte, il liberale Vitaliano Brancati, ed è proprio Sciascia a ricordarlo, aveva una volta paradossalmente dichiarato che in Sicilia, per essere veramente liberali, bisogna almeno essere comunisti”24.
Emanuele Macaluso25, compaesano di Sciascia, e come lui da ragazzo vicino agli ambienti antifascisti, ricorda un discorso dello scrittore pronunciato nel 1975 al Teatro Politeama di Palermo che spiega abbastanza del suo rapporto col comunismo e della sua decisione di candidarsi nella lista Pci per l’elezione del Consiglio comunale:
“Il fatto che io abbia avuto spesso degli attacchi più da sinistra che da destra, da certi luoghi del Pci, più che da altri partiti, dimostra che io sono più vicino al Pci che a qualsiasi altro partito. I dissidi ideali sono sempre più duri tra i vicini che tra i lontani; gli eretici sono sempre più colpiti che gli infedeli …”
Già un anno prima, nel 1974, Sciascia si era impegnato in prima persona nella realtà politica e civile, cogliendo l’occasione del referendum abrogativo della legge sul divorzio, entrata in vigore quattro anni prima. Dal giornale “L’Ora” e attraverso comizi, conferenze e interviste sulla stampa, fa campagna per il no al fianco di Achille Occhetto26 ma coglie, ancora una volta, l’occasione per entrare in polemica, questa volta con le femministe; in un intervista a “L’Espresso” dice: “Credendo nella famiglia come cellula prima della società, sono necessariamente un po’ conservatore”.
I risultati del referendum segneranno una pesante sconfitta per Democrazia Cristiana e Msi, cosa che convinse Sciascia ad impegnarsi anche nella battaglia per il Consiglio comunale di Palermo: nel giugno 1975 è candidato come indipendente nelle liste del Partito Comunista, insieme all’amico Renato Guttuso. Verrà eletto con un numero di voti secondo solo ad Occhetto, presentando un programma molto semplice espresso anche nelle pagine de “L’Espresso”: “stare all’opposizione, contro il compromesso storico”.27 Nel frattempo a Roma Aldo Moro dava inizio alla politica di avvicinamento al Pci, con l’aiuto di Ugo La Malfa (del Pri); politica che fu assecondata anche in Sicilia dai dirigenti Dc, Mattarella, Nicoletti, Reina.
Dal canto suo il Pci, con Armando Cossutta, indicava che la nuova linea da seguire era proprio quella delle larghe intese non solo a livello nazionale ma anche locale, regionale.28
In una condizione di confusione, dove gli schieramenti non sono ben delineati, è impossibile per il polemico moralista Sciascia trovare ancora posto, per uno che voleva “fare parte di una pattuglia di guastatori”, e nel 1977 si dimette. Nel frattempo quel compromesso aveva portato al terzo governo Andreotti appoggiato dall’esterno dal Pci. A Marcelle Padovani dichiara:
“I miei rapporti col Pci sono stati assai complessi, quasi quanto quelli che intrattengo con la Sicilia. Di amore e odio, per semplificare. Nel 1974-75, mi sono avvicinato o, più esattamente, il Pci si è avvicinato a me; e questo accostamento mi ha indotto a credere che fosse diverso. Sono assai sensibile ai rapporti umani, ai contatti personali: certi giovani funzionari del Pci mi hanno dato l’impressione che il partito fosse mutato, o che era sul punto di farlo. L’esperienza del Consiglio comunale è stata una totale delusione. Il partito non cambiava. E anzi, in un certo senso, peggiorava. Ho quindi commesso un errore di valutazione, ma si è trattato anche di un’esperienza liberatrice. Non nutro più, nei confronti del Pci, rispetto di sorta. Sono ancora affezionato a coloro che vi militano, ma ritengo che quel partito sia il più vecchio che ci sia: più vecchio ancora del Partito liberale.”29
Alle elezioni del 10 giugno 1979, tuttavia, probabilmente perché ancora scosso dall’affaire Moro e alla ricerca di una concezione di Stato che fosse difendibile, Sciascia si candida alle politiche e alle europee con il Partito radicale di Marco Pannella: viene eletto come indipendente sia al Parlamento europeo che alla Camera ma si dimetterà nel settembre di quell’anno dalla carica europea per dedicarsi pienamente al parlamento italiano. Il suo impegno maggiore nella commissione degli Affari esteri e quella d’inchiesta sul caso Moro30, fino al giugno 1983 con lo scioglimento anticipato del Parlamento. Durante il suo impegno parlamentare si occuperà soprattutto del rapimento del presidente della Dc e il suo nome comparirà in 19 tra interpellanze, interrogazioni e risoluzioni. I suoi rapporti coi comunisti diventano ancora più tormentati e burrascosi: lo scrittore fa riferimento, all’interno di una riunione della Commissione parlamentare sull’affare Moro, ad una frase che avrebbe sentito da Berlinguer sull’interferenza dei servizi cecoslovacchi nella vicenda Moro. Conseguenti, una querela per diffamazione e una controquerela. A quel colloquio era presente anche l’amico pittore Renato Guttuso che, chiamato in causa, si trovava nella spiacevole posizione di dover smentire o un amico o il segretario del suo partito. Per Sciascia non c’era alternativa: “c’è soltanto da dire la verità”. Guttuso decide di smentire l’amico, ulteriore motivo di delusione per Sciascia.
La sua esperienza politica era partita quasi con entusiasmi utopistici, ma lo scontro con la realtà, più complicata degli stessi giochi politici che aveva descritto nei suoi libri, è stato duro e deludente. Il passaggio chiave, lo abbiamo detto, era stato il caso di Moro e nel 1982, egli ribadisce: “Se dieci anni prima mi avessero detto che Moro avrebbe cambiato la mia vita, avrei riso: invece è stato così: dopo la morte di Moro, io non mi sento più libero di immaginare. Anche per questo preferisco ricostruire cose già avvenute: ho paura di dire cose che possono avvenire.”31
Nel 1977, infatti, era stato dato alle stampe per Einaudi il Candido che seguendo le avventure del suo protagonista, il suo rapporto con la realtà reso straniante dalla sua potente purezza, sembra diventare una sintesi sciasciana, un voler tirare le somme. La semplicità con la quale Candido si approccia alla politica, al comunismo, ricorda la semplicità, qualcuno direbbe l’ingenuità, di Sciascia che si impegna in politica, gli stessi sono la disillusione finale e il definitivo ripensamento. Candido Munafò ripercorre col suo precettore don Antonio Lepando/ Pangloss, le tappe letterarie e umane del suo autore; nasce dalla macerie del fascismo, è attratto dal mondo contadino, fa esperienza del partito comunista e ne esce delusissimo, mentre sempre presente rimane il cattolicesimo. La madre lo abbandona per trasferirsi negli USA con un ex ufficiale americano, il padre si suicida, e in questo Candido ha responsabilità indiretta, egli vive quindi col nonno, deputato democristiano col quale ha un rapporto di assoluta incomprensione reciproca. Col suo precettore don Antonio, compie un simultaneo percorso formativo, anzi di “disformazione”, da arciprete egli diviene prete e poi ex prete quando “consegnando al teologo il foglio delle dimissioni, l’arciprete con tono parodiante, quasi cantando, disse: “Io sono la via; la verità e la vita; ma a volte sono il vicolo cieco, la menzogna e la morte.” (Op. S. II, p. 391)
Al di là dei trasformismi, delle menzogne della politica, ciò che traspare, attraverso una scrittura tenue, leggera e però continuamente contaminata dall’arte della citazione, è una voglia di liberazione da parte di Sciascia, una catarsi, dalle scorie della storia, per approdare a pura letteratura, una meta mitica come lo è, per Candido, Parigi. Per Marina Paino è “piuttosto la letterarietà a venire inquinata dagli accenni al reale e alla storia”.32
È una liberazione che sembra assoluta; a partire dalla famiglia, dalla figura materna lontanissima, dall’immaginaria madre siciliana. Sono lontani i tempi del capitano Bellodi che capiva come “la famiglia è l’unico istituto veramente vivo nella coscienza del siciliano: ma vivo più come drammatico nodo contrattuale, giuridico, che come aggregato naturale e sentimentale. La famiglia è lo Stato del siciliano”, per Candido la madre, la famiglia non rappresentano neanche quello stato di cose. Il padre si uccide ed è un po’ come se lo uccidesse lui. Il particolare più significativo è che la mancanza di un retroterra familiare ancorato alla patria Sicilia, appare in tutta la sua indifferenza; il che fa pensare all’assenza di legami e memoria familiare del Meursault camusiano.
Tutto ciò coincide con un superamento degli idoli, degli ideali, e di tutto ciò che si presenti con la presunzione di verità rivelate: il fatto che essi siano rappresentati in prima istanza da comunismo e cattolicesimo è solo una questione contingente. A differenza del Candide, Sciascia/Candido non trova la felicità nel “coltivare il suo giardino”, anche se ci prova ma in vano, ma nel “coltivare la sua mente” ed approda ad una felicità “che è fatta innanzitutto di accordo fra corpo e anima, di valorizzazione dei sensi e dell’eros, di soddisfazione per il proprio lavoro e per le nuove conoscenze ed esperienze che la vita apporta”33. La vera ricerca di Candido è, infatti, quella sull’amore sensuale, è una filosofia della quantità che, partendo dalla bellezza del mondo, si basa sull’importanza dell’atto vissuto e sull’accumulo di esperienze (Camus34). Il testo esprime una sorta di gioia del vivere, per accenni, per sguardi si percepisce, grazie anche all’ironia e ad una scrittura “superficiale”, un attaccamento sincero al mondo, al lavoro umile e alla passione amorosa. Ciò che complica le cose è però che il tutto avviene nella dimensione dell’intertestualità, nella letteratura che si nutre, cannibale, non di realtà ma di altra letteratura. In ogni caso le ansie della politica sono annullate, la vera libertà è raggiunta, potere, chiesa e stato, non rappresentano un problema ma delle curiosità. La formazione di Candido, d'altronde, è tutta mentale, già da piccolo il suo sguardo è significativamente rivolto verso un oltre, verso l’alto: “Candido seguiva il volo di putti e di rose dipinto sul soffitto. Quel soffitto era il suo universo.” E ancora, dopo qualche pagina: “esplorava le pitture del soffitto; e qualche volta gli avveniva, fissando ora una ora un’altra delle donne nude che lo trasvolavano, di sentire su di sé il sonno scendere come uno di quei veli azzurrini che le donne agitavano o il vento, e insomma di deliziosamente addormentarsi. I soffitti delle camere erano i suoi libri di testo”. Questa contemplazione sembra il vero filo conduttore del romanzo, e prende sfumature erotiche man mano che Candido cresce: “A Candido quella donna, e cioè sua madre, piaceva. Gli pareva somigliasse a quella delle nude del soffitto che lui preferiva. E gli sarebbe piaciuto (Stendhal!) che tra lei e lui, quando se lo tirava in braccio e lo stringeva, i vestiti non ci fossero”. Come la letteratura è lo scudo di Sciascia contro il reale, la pittura, gli affreschi del soffitto sono le protezioni di Candido; attraverso l’arte comunque si può arrivare a conoscere la verità. “Non sentiva alcuna devozione per le immagini della Madonna e dei Santi che non fossero ben dipinte o scolpite – e nemmeno si trattava di devozione, ma di ammirazione e di piacere”.
Questo il filo che porta all’amore, prima per Paola, splendido finché il corpo di questa non cede all’anima. “All’anima immortale, all’anima sentimentale, all’anima bella: ed ecco che la gioiosa verità del corpo le si era appannata, le si era stravolta; era diventata un bene inferiore. La tentazione, la menzogna: come nel libro del Genesi. Solo che la tentazione era stata l’anima: l’immortale o la sentimentale o la bella. È l’anima che mente, non il corpo. Il nostro corpo è il buon cane che guida il cieco”. Poi l’amore per Francesca, con la quale Candido può progettare di rifugiarsi nella mitica Parigi.
Dopo tre anni dalle inquietanti intuizioni di Todo Modo e poco prima che il caso Moro gettasse Sciascia in un profondo turbamento e ripensamento sulla letteratura e il suo ruolo di scrittore, Candido rappresenta un felice momento di vacanza dalla storia, per certi versi definitiva, di quiete e sintesi sensuale del pensiero di Sciascia, riassumibile nelle parole di Traina:
“È quasi una forma di conoscenza, sovrarazionale ma non irrazionale, che trova nei sensi il necessario completamento dell’intelletto. Candido, grazie anche alle presenze di Paola e Francesca (e forse anche della madre), segna l’ingresso nella narrativa sciasciana dell’eros come valore, del gioioso abbandonarsi ai sensi che non emergono più nella straziante dimensione della tortura (Il consiglio d’Egitto) o nell’ingenua morbosità dell’amore platonico (A ciascuno il suo), ma diventano completamento della conoscenza (Sciascia era lettore attento dei saggi di Michel Foucault).”35
Parigi36 è l’isola felice in cui rifugiarsi, come la Sicilia è l’isola – sogno di Stendhal37; imboccata rue de Seine, arrivati davanti alla statua di Voltaire, don Antonio si inginocchia e pare pregare: “questo è il nostro padre, questo è il nostro vero padre”. Ma Candido lo aiuta ad alzarsi e quasi supplicando lo corregge: “non ricominciamo coi padri, disse. Si sentiva figlio della fortuna; e felice”.
Angelo Marco De Iorio
Note
1 C.A. Madrignani, Il gioco degli enigmi, in A. Motta (a cura di), Leonardo Sciascia: la verità, l’aspra verità, pp. 139-146.
2 O. Barbella, Sciascia, Palermo, Palumbo Editore, 1999, p. 49.
3 Pier Paolo Pasolini, Mafia ambienti personaggi di Leonardo Sciascia, “Il Tempo”, 29 luglio 1973; poi in O. Barbella, Sciascia, cit., p. 280.
4 Cfr. O. Barbella, Sciascia, cit., p. 53.
5 Ivi, pp. 144-145.
6 Cfr. Vittorio Spinazzola, L’uomo di lettere, in “L’Unità”, 21 novembre 1989; poi in O. Barbella, Sciascia, cit., p. 309.
7 Cfr. Natale Tedesco, Un sorvegliato spazio di moralità e ironia. Appunti per Sciascia, siciliano ed europeo, in N. Tedesco, L’occhio e la memoria, Interventi sulla letteratura contemporanea, Marina di Patti, Pungitopo, 1988, (pp. 67 – 76); poi in O. Barbella, Sciascia, cit., p. 305: “Se non ce l’avesse ricordato lo stesso Sciascia, nel suo ultimo intervento pirandelliano su «Tuttolibri» del 4 gennaio 1986, Per me è come un rapporto con il padre, certo dovremmo già esser stati avvertiti da molti e diversi segni del rapporto naturale girgentano, dei due grandi scrittori che vedendo gli spiriti dell’area agrigentina, hanno visto i fantasmi propri e quelli del mondo”.
8 Ibidem.
9 Ivi p. 67.
10 Cfr. O. Barbella, Sciascia, cit., p. 161.
11 L. Sciascia, Majorana e Segrè, in Fatti diversi di storia letteraria e civile, cit., p. 190: “Nel 1975, proprio su questo giornale, usciva in sei o sette puntate un mio racconto misto di storia e d’invenzione sulla scomparsa, nel 1938, del fisico Ettore Majorana. L’avevo scritto, nella memoria che avevo della scomparsa e su documenti che per tramite del professore Recami ero riuscito ad avere, dopo aver casualmente sentito un fisico parlare con soddisfazione, ed entusiasmo persino, della sua partecipazione alla costruzione delle bombe che avevano distrutto Hiroshima e Nagasaki”.
12 “Il libro è stato accolto in Italia con accese polemiche. Il fisico Edoardo Amaldi ha preso posizione nei suoi confronti nell’«Espresso» del 5 ottobre 1975. Egli ha designato l’ipotesi di Sciascia, che Majorana avesse aver presagito la forza distruttrice dell’energia atomica – cioè la bomba –, come fantasia «priva di fondamento». A suo parere la scienza non sarebbe stata in grado in quegli anni di concepire gli anelli della catena che ancora mancavano per arrivare all’energia nucleare. In Germania la tesi di Sciascia ha incontrato l’attenzione dei protagonisti del dibattito che seguì la scoperta dell’elemento n. 93, Ida Noddack e Fritz Strassmann. Alle loro lettere e reazioni mi riservo di dedicare prossimamente un breve studio” (Lea Ritter Santini, Uno strappo nel cielo di carta, in L. Sciascia, La scomparsa di Majorana, Adelphi, Milano, 2009, p. 102).
13 O. Barbella, Sciascia, cit., p. 161.
14 Parole del fisico Möbius nel dramma di Dürrenmatt, I fisici; cfr. Lea Ritter Santini, Uno strappo nel cielo di carta, cit., p. 108.
15 A. Camus, Mi rivolto, dunque siamo, Scritti politici a cura di Vittorio Giacopini, Elèuthera, Milano, 2009, p. 17.
16 Cfr. L. Sciascia, La scomparsa di Majorana, Adelphi, Milano, 2009, p. 1.
17 Ian Thomson, Il potere come insulto contro Dio, “The Independent”, 26 marzo 1987; poi in M. Collura (a cura di), Panta Sciascia, cit., p. 222.
18 Cfr. Andrea Camilleri, Un onorevole siciliano, Bompiani, Milano, 2009, p. 14.
19 Cfr. O. Barbella, Sciascia, cit., p. 168.
20 C. Ambroise, Polemos, in Opere, vol. II, cit., p. XX.
21 Interessante a questo proposito il saggio Storia della Colonna Infame, in Cruciverba, cit., p. 1066.
22 C. Ambroise, Verità e scrittura, in Opere, vol. I, cit., p. XXXVI.
23 Dall’intervista rilasciata allo studioso francese James Dauphiné nel 1987. Cfr. L. Sciascia, Todo Modo, Adelphi, Milano, 2009, p. I.
24 Andrea Camilleri, Un onorevole siciliano, cit., p. 9.
25 Cfr. Emanuele Macaluso, Sciascia e i comunisti, Feltrinelli, Milano, 2010, pp. 10-11.
26 “L’Ora”, 25 maggio 1975; “Ho fatto questa campagna assieme a Occhetto con molta libertà, sempre tra noi in sottile polemica. Ma polemiche di me, laico, che non avevo paura del referendum e di Occhetto, rappresentante del Partito Comunista, che una certa paura del referendum l’aveva”.
27 C. Ambroise, Cronologia, in Opere, vol. II, cit., p. XLII.
28 Cfr. Emanuele Macaluso, Sciascia e i comunisti, cit., pp. 49-54.
29 Ibidem.
30 Cfr. A. Camillleri, Un onorevole siciliano, cit., p. 13.
31 Cfr. C. Ambroise, Cronologia, cit., p. XLVI.
32 Marina Paino, La leggerezza di Sciascia e le ripetizioni di Candido, “Siculorum Gymnasium”, gen.-dic. 2005, p. 1.
33 Giuseppe Traina, Leonardo Sciascia, cit., p. 61.
34 È lo stesso ideale di vita perseguito da Meursault ne Lo straniero; egli non sembra voler approfondire un aspetto del reale per ricavarne “qualità” ma trovare piacere nel succedersi lento di ogni singola, semplice azione. Jean-Paul Sartre, in riferimento allo stile fratto della scrittura in quel romanzo, sottolinea come “tutte le frasi del suo libro sono equivalenti, come equivalenti sono tutte le esperienze dell’uomo assurdo; ciascuna si pone di per sé e respinge le altre nel nulla”. Nel paragone tra Meursault a Candido torna utile ricordare come Sartre, in quella recensione a Lo straniero, noti quanto questo sia vicino simile ad un “breve romanzo moralistico” di Voltaire: “Camus lo chiama romanzo. Tuttavia il romanzo esige una durata continua, un divenire, la presenza manifesta dell’irreversibilità del tempo. Ho molte esitazioni a dare questo nome a una simile successione di presenti inerti, la quale lascia intravedere al di sotto l’economia meccanica di un pezzo montato. A meno che non sia, alla maniera di Zadig e di Candide, un breve romanzo moralistico, con una punta di satira discreta e qualche ritratto ironico, e che, nonostante l’apporto degli esistenzialisti tedeschi e dei romanzieri americani, rimane assai vicino, in sostanza, a un racconto di Voltaire” (J.-P. Sartre, Spiegazione dell’“Étranger” di Camus, febbraio 1943, in J.-P. Sartre, Che cos’è la letteratura?, Saggi di arte e letteratura, Il Saggiatore, pp. 222-223).
35 Giuseppe Traina, Leonardo Sciascia, cit., p. 60.
36 Sul fascino suscitato da Parigi nello scrittore si veda il saggio Parigi in Cruciverba: “Arrivato di sera, ero andato dritto in un albergo del boulevard Montmartre. L’indomani – una di quelle giornate che solo Parigi sa dare e in cui sembra di stare dentro un quadro di Utrillo o, a piacer vostro, di Dufy – prendendo un autobus per andare credo al Louvre (allora, di una città correvo subito a vedere i musei: ora credo avesse ragione Gide, che bisogna cominciare dai mercati, dai giardini pubblici, dai cimiteri e dai palazzi di giustizia), ad un certo punto vidi nella vetrina di una libreria antiquaria una carta della Sicilia splendida di colori. Scesi alla prima fermata e tornai indietro. Costava novecento franchi, poco più delle nostre mille lire di allora. Non ne avevo molti, di franchi: ma la comprai. Mi parve un segno. Ed era. Un segno che continuo a decifrare nel passato della Sicilia, nella cultura siciliana dall’età barocca a quella del verismo; e fino a me”. Si veda anche Ottavio Rossani, Il mito di Parigi, in Leonardo Sciascia, Nuovi profili, Luisè Editore, Rimini, 1990.
37 Cfr. Marina Paino, La leggerezza di Sciascia e le ripetizioni di Candido, cit., p. 17.
Inserito il 06/03/2023.
Sciascia, i lavoratori, la mafia e il complesso rapporto con il PCI
Adriano Infantino intervista Angelo Lauricella (ANPI)
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Sciascia, i lavoratori, la mafia e il complesso rapporto con il PCI
Un ritratto dello “scrittore scomodo” nell’intervista ad Angelo Lauricella, presidente del comitato provinciale Anpi di Agrigento, profondo conoscitore dello scrittore siciliano e anche lui di Racalmuto, il paese del “maestro di Regalpetra”
Molti li ricordano, altri più giovani non li hanno mai conosciuti né hanno potuto apprezzare il loro contributo alla cultura, all’arte, alla scienza, in altre parole alla crescita del pensiero umano. Celebrare i centenari o altre ricorrenze di scrittori, pittori, registi, studiosi, ricercatori, e altre importanti personalità serve forse a trasportali dal loro al nostro tempo per rispondere a domande urgenti della contemporaneità.
Poco più di un anno fa prendevano il via in Italia e in moltissimi altri Paesi del mondo tantissime iniziative dedicate ai 100 anni dalla nascita di Leonardo Sciascia. Un ritratto del “maestro di Regalpetra” con Angelo Lauricella, presidente del comitato provinciale Anpi di Agrigento, profondo conoscitore dell’intellettuale siciliano, e anche lui di Racalmuto, il paese dove l’8 gennaio 1921 venne alla luce il “maestro di Regalpetra”, scomparso a Palermo il 20 novembre 1989.
L’8 gennaio 2022, nel giorno della nascita, si sono chiuse le celebrazioni del centenario di Leonardo Sciascia che ha scandito tutto il 2021. Qual è il bilancio delle attività promosse?
L’anno appena trascorso così come il 2019, trentesimo anniversario dalla scomparsa, sono stati l’occasione di ripresa di attenzione su una grande personalità della cultura. A Racalmuto, suo paese natale, in particolare, ma anche in Italia e in molti Paesi europei e del mondo. A Racalmuto naturalmente si sono messi in luce la Fondazione Sciascia e Casa Sciascia, nata in questi anni grazie all’iniziativa e all’impegno di Pippo Di Falco, sindacalista e politico. Sarebbe difficile enumerare le tantissime iniziative tenute nei locali della fondazione dedicata o durante “L’estate di Casa Sciascia” nel Circolo Unione immortalato ne Le parrocchie di Regalpetra. In entrambe, per esempio, sono stati presentati libri che scrittori, critici letterari, docenti universitari hanno dedicato alla ricorrenza: una quantità di opere che rilanciano le idee dello scrittore, il messaggio e l’impegno civile in Italia e nel mondo.
Un rapporto recuperato o mai interrotto con Racalmuto?
Non avremmo lo Sciascia che conosciamo senza Racalmuto, senza le miniere di zolfo, i problemi della popolazione, che erano quelli della Sicilia e del Paese intero. Sciascia ha mantenuto un legame fortissimo con il suo luogo di origine. A Racalmuto si chiudeva in campagna a scrivere, in contrada Noci, prima in una dimora rustica, poi in una bella casa che fece costruire, dove riceveva il mondo della cultura: tanti chiedevano di incontrarlo e lui riceveva tutti. Sei mesi era a Palermo e sei a Racalmuto, fatti salvi i continui viaggi. Nei sei mesi che abitava a Racalmuto scriveva e comunicava con il mondo, la stampa e gli editori attraverso una cabina telefonica che si era fatto installare in campagna, vicino casa: non ha mai voluto avere un telefono privato perché non voleva disturbare la famiglia, quindi andava in una cabina telefonica con i gettoni e da lì comunicava. Sciascia ha avuto un rapporto importante con Racalmuto, ne è rimasto legato, ne parla ovunque si trova – in Spagna, in Francia o in giro per l’Italia. Noi ragazzi lo guardavamo passeggiare con gli amici, e quando lo si incontrava da solo nessuno, per rispetto, osava avvicinarsi.
Dopo le Favole della dittatura, nel 1956 scrive Le parrocchie di Regalpetra, il primo libro e una delle opere più belle che ha scritto. È una sorta di elegia di Racalmuto perché Regalpetra è Racalmuto ed è dedicata ai minatori. Una sensibilità dovuta anche alla storia familiare, perché i suoi lavoravano nel settore dello zolfo, e questa esperienza gli rimarrà addosso per tutta la vita come il suo amore per i lavoratori. Assieme alla descrizione dei personaggi del paese e del Circolo Unione c’è una specie di grido di amore nei confronti dei lavoratori delle zolfatare e della loro difesa. Sciascia racconta del deputato Dc che va a visitare il circolo dei minatori e di fronte alla situazione di indigenza dà un pugno al tavolo e rompe il lume a petrolio che illuminava la sala, assicura che risarcirà il circolo e poi se ne va. E ai minatori non resta che comprare un nuovo lume.
Riceveva anche voi ragazzi?
Allora ero un giovanissimo dirigente del partito comunista e insieme a un altro mio compagno e amico del paese, Federico Martorana, con cui abbiamo fatto una carriera parallela, andavamo a trovarlo per parlare di politica, ma affrontavamo molte difficoltà a parlare con lui de quell’argomento: concentrava la discussione sui fatti e sulle persone del paese e ripeteva in continuazione a ognuno di noi “tu sei figlio di… tuo fratello è… tua zia…”. Insomma: si informava sul paese e andavamo via dopo avergli raccontato tutto e senza aver saputo nulla. Un giorno ci riferì di aver scritto – credo fosse ne Il contesto – che il Pci mandava ancora dei giovani a studiare a Mosca, ma ormai solo i più scemi, “i meno intelligenti” e avendo saputo che un giovane racalmutese era uno di loro ci chiese di presentarglielo. Si chiamava Di Falco ed era pure figlio di un suo amico. Quando lo ricevette lo salutò con “Ecco il cretino!”. Ovviamente non era così.
Era una critica al Pci.
Ne Gli zii di Sicilia del 1963 c’è un episodio stupendo che racconta della destalinizzazione con il sogno di un contadino comunista: il poveraccio si vede spuntare il fantasma di Stalin, che lo richiama e deve affrontare non solo la perdita di un forte riferimento politico e umano, ma anche la negazione di tutte quelle verità che il partito gli aveva dato.
Profondamente antifascista però.
L’incontro con esponenti antifascisti avvenne quando la famiglia, intorno al 1935 si trasferì a Caltanissetta, lì entrò in contatto con la cellula comunista diretta da Calogero Boccadutri, un giovane operaio favarese che aveva avuto problemi con la giustizia perché, coinvolto da uno zio, aveva partecipato a un abigeato, era stato condannato, in carcere aveva conosciuto Umberto Terracini ed era diventato comunista. Tornato a Favara, Boccadutri aveva cercato Salvatore Di Benedetto, il capo dei comunisti agrigentini e il punto di riferimento degli antifascisti (sarà uno poi dei personaggi più importanti della Resistenza nel Nord Italia). Boccadutri chiede a Di Benedetto di inviarlo a combattere in Spagna per la Repubblica, ma Di Benedetto lo dissuade e lo convince a rimanere in Sicilia, e in particolare a Caltanissetta, per organizzare l’antifascismo. Boccadutri obbedisce e costituisce la cellula che diventerà famosa, iscrive Gino Cortese – poi partigiano e capogruppo comunista del parlamento siciliano – Sciascia, Emanuele Macaluso, Gaetano Costa, il futuro procuratore di Palermo che verrà ucciso dalla mafia, e sua moglie, e tanti altri. Un operaio che riesce a mettere insieme una squadra straordinaria e a tenere i contatti con intellettuali di alto profilo, come sarà con Vittorini in seguito e con l’antifascismo cattolico tramite Giuseppe Alessi, anni dopo fondatore e capo della Dc e successivamente presidente della Regione siciliana e alla fine senatore, che vivrà fino a 104 anni. Era stato Cortese il contatto tra Sciascia e Boccadutri: ciò è testimoniato anche da una lettera in cui Vittorini chiede a Sciascia di Boccadutri, e dal libro che il figlio Franco ha scritto in memoria del padre. Anche l’amore per la Spagna nasce in quel periodo e l’attenzione costante è testimoniata nel racconti L’antimonio del 1958, Ore di Spagna del 1988 e La Spagna nel cuore.
Sciascia durante la guerra di Spagna era un adolescente.
Aveva una mente acutissima, pur così giovane. La guerra in Spagna è per lui la bufera che sconvolge con la Repubblica spagnola anche la democrazia, nel disinteresse delle grandi democrazie europee. Questo disinteresse darà la vittoria a Franco e rafforzerà il nazismo e il fascismo e porterà alla Seconda guerra mondiale. Sciascia ha un’immediata sensazione di tutto questo e si schiera con l’antifascismo mentre cresce in lui una grande sensibilità sociale che ne fa un osservatore attento, capace di una lettura radiografata della realtà. Comprende pure che in Italia il fascismo aveva arruolato un vero esercito mercenario per schiacciare la Repubblica spagnola e Sciascia segue queste persone disposte a morire per il soldo, senza altra motivazione, e a uccidere compatrioti che volevano difendere la Repubblica, Luigi Longo e gli altri che creano le Brigate Internazionali. Sciascia stava dalla parte dei combattenti per la Repubblica. Lui stesso diceva che il suo antifascismo era radicato nella guerra di Spagna. Ha sempre rivendicato l’adesione in clandestinità alla cellula di Boccadutri, ma non si iscriverà più al Pci.
In seguito anche con intellettuali comunisti avrà rapporti difficili.
Sciascia ha sempre promosso i giovani e meno giovani scrittori siciliani come Gesualdo Bufalino e Vincenzo Consolo, li ha scoperti e fatti conoscere al mondo. Russello di Favara viene ripreso e rilanciato come Rosso di San Secondo, Di Giovanna, Navarro della Miraglia. Ma oltre la regione era in stretto contatto con Calvino e Pasolini. Per tornare ai siciliani: fu grande amico di Vittorini e proprio per lui di frantumò il rapporto con suo altro grande amico, Renato Guttuso.
Sciascia non aveva avuto la stessa visione del Pci sul terrorismo e sulla lotta alla mafia.
Sciascia non firma nessuno degli appelli degli intellettuali contro il terrorismo e perciò è criticato dai suoi migliori amici, grandi scrittori come Pasolini e Calvino. Non volle schierarsi, sosteneva che tra lo Stato e le Brigate Rosse, era allo Stato che pagava le tasse. Sappiamo ormai storicamente che ci state collusioni da parte di alcune forze interne allo Stato. Sciascia, antidemocristiano, nel 1974 aveva ha scritto Todo modo, inserendo lo statista Dc nel contesto del partito dello scudo crociato. Dopo l’uccisione di Moro affermerà era il meno peggiore dei democristiani, ma quando era uscito il film omonimo di Elio Petri ne aveva rifiutato la paternità definendolo “pasoliniano”. Però, contestualmente, voleva uno Stato che non nascondesse la verità, come invece aveva fatto in passato con Portella della Ginestra, quando la sentenza di Cassazione aveva stabilito che non era stata una strage politica. Accusava lo Stato di aver mentito sui rapporti intessuti tra l’ispettore Messana e il bandito Giuliano e la sua banda: uno Stato che ometteva le responsabilità sugli attentati terroristici. La polemica era divenuta molto aspra ed era intervenuto Giorgio Amendola, opponendo le ragioni dello Stato e la difesa della democrazia. Io credo che Amendola avesse ragione, che avessero ragione un po’ tutti, il Pci, la Dc, Zaccagnini… E che allora il dovere di tutti fosse arginare il terrorismo, farlo diventare un elemento prioritario e individuarlo come il vero nemico. Anche Sciascia aveva delle buone ragioni, la sua è stata comunque una voce autorevole in difesa dello Stato democratico e delle garanzie costituzionali.
Non è stata la sola polemica fra Sciascia e il Pci.
La prima risale a poco dopo la Liberazione e avrà strascichi a distanza di decenni. Vittorini aveva avviato per Einaudi la pubblicazione di scrittori americani, mettendoli in rilievo, soprattutto Hemingway. Ciò aveva irritato Mario Alicata, responsabile cultura del Pci di quel tempo, che aveva aspramente criticato Il vecchio e il mare. Alicata aveva addirittura chiesto l’allontanamento di Vittorini dal partito, che cercò di evitare fino all’ultimo la rottura, rivendicando però la legittima autonomia di intellettuale, scrittore e direttore della casa editrice Einaudi. Alla fine venne allontanato dal Pci e quella vicenda influirà per sempre sul rapporto tra Sciascia e il partito. Sciascia manterrà un rapporto di simpatia e qualche volta di adesione alle lotte e alla politica di opposizione del Pci e confermerà sempre il suo amore per il popolo comunista, ma rimarrà fortemente critico verso i dirigenti nazionali. L’altro forte contrasto con il Pci si accende quando Berlinguer lancerà il compromesso storico e l’apertura verso la Dc. Sciascia dirà senza mezzi termini. “Io non seguo, se ci devo andare, ci vado da solo”. Il momento più duro arriva però quando il Pci convoca una conferenza nazionale sulla cultura, promossa da Giorgio Napolitano, al tempo responsabile culturale del partito. Sciascia rifiuta di partecipare alla conferenza, credo per quanto accaduto con Vittorini, nonostante fosse ormai scomparso. Berlinguer prova di chiudere la questione chiedendo a Guttuso di convocare Sciascia per una discussione informale. Sciascia accetta con piacere, il confronto si svolge in un clima amichevole, si parla anche del terrorismo e Berlinguer si lascia sfuggire – almeno, così si dice, gli atti processuali dicono cose diverse – che i servizi segreti cecoslovacchi avevano aiutato il terrorismo rosso italiano. Berlinguer chiede riserbo sull’argomento, ma Sciascia rende pubbliche le dichiarazioni e Berlinguer lo querela. Si arriva in tribunale e Sciascia chiama a testimoniare Guttuso, che però dà ragione a Berlinguer. Sciascia si sente tradito dall’amico siciliano e quando, è il 1987, Guttuso in punto di morte cercherà Sciascia, forse per chiedere perdono, lui pur addolorato, non telefona, non gli perdona il tradimento della verità.
Voi giovani del Pci avete polemizzato qualche volta con lui?
Quando nel ’79 si candidò con i Radicali, stava passeggiando nel solito posto da solo e io mi sono avvicinato, gli offrii un caffè e lui accettò con un sorriso, per poi dirmi “Ma lo sapete che sono candidato?”. Io risposi prontamente “Certo, Professore, in paese non si parla d’altro, ma io sono iscritto al Pci”. A Racalmuto prese quasi 700 voti, un vero successo per un candidato non politicizzato.
Sciascia fu tra quanti denunciavano la mafia quando ancora se ne negava l’esistenza. Il giorno della civetta è del 1960.
E ne fece una coraggiosa trasposizione cinematografica nel ’68 Damiano Damiani. Però non piacque a Sciascia. Ne parlava con un certo sconforto, arrivando a dire che avrebbe preferito non scrivere quel libro perché nel film era stata mitizzata la figura di Don Mariano, il mafioso che divideva l’umanità fra “uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i pigliainculo e i quaquaraquà”. Il suo forte spirito antimafioso rivive nel capitano Bellodi ispirato al colonnello dei carabinieri Candida, che aveva pubblicato un libro sulla mafia agrigentina, cominciando a fare chiarezza sulla mafia e i rapporti con il potere. Sciascia si era occupato presto delle infiltrazioni mafiose nello Stato. Quando era andato a presentare a Villalba Gli zii di Sicilia gli si era avvicinato Gianco Russo, il numero uno di Cosa nostra. Sorridendo, gli aveva chiesto “Che fa, me lo autografa questo libro?” e Sciascia scrisse “Dedico questa copia allo zio di Sicilia in un libro che è contro gli zii di Sicilia”. Sciascia ha riservato grande attenzione alla formazione del pool antimafia con Rocco Chinnici e poi con Caponnetto, e in seguito con l’arrivo di Falcone e Borsellino. Anche in quel caso però espresse critiche, arrivando a parlare di “professionisti dell’antimafia” quando Borsellino venne cooptato nel pool prima di Falcone. I due giudici martiri si chiariranno tra loro in un convegno sulla giustizia tenuto proprio a Racalmuto. Sciascia ha grande ammirazione per gli esponenti dell’antimafia, lo dirà in tutte le manifestazioni sulla giustizia a cui partecipa. La questione invece aprirà un vulnus con i comitati antimafia, in particolare con quello di Palermo, che lo accusarono di essere un quaquaraquà e di essere passato dalla parte della mafia.
A 100 anni dalla nascita e a 32 dalla scomparsa, qual è la sua eredità secondo Lauricella?
Prima di tutto l’amore per la Costituzione italiana. Sciascia sostiene che ogni cittadino, intellettuale o no, deve rispettare la legge e la Costituzione antifascista. Ma prima di tutto devono farlo o Stato e gli uomini della politica o che hanno cariche pubbliche. L’adesione di Sciascia alla Carta era totale. La difese in tutto, lo conferma la sua opera, direttamente e indirettamente. Sciascia amava visceralmente la Sicilia, mai la lasciò e ne tutelò il patrimonio artistico. Si deve a lui, per esempio, la conservazione dei graffiti di palazzo Steri a Palermo, che era prigione del Santo Uffizio: condannati che gridano, scrivendo con le unghie sui muri, la loro condizione. Dello Sciascia scrittore ci resta una produzione letteraria dalla capacità di spaziare in più ambiti, conservando sempre uno sguardo acuto e a tratti profetico e il suo impegno civile e democratico. Di Sciascia rimane immutata la forza dello spirito critico, contrario a tutte le verità imposte, come dimostra anche la strenua difesa di Tortora. Era un vero eretico, uno che aveva scelto la ragione come guida. Infine – ma non perché meno importante – resta la sua grande umanità, quella che seppe riconoscere Moro come vittima, in egual misura, delle Brigate Rosse e del suo partito. Ha saputo talmente leggere e interpretare la realtà e l’umanità da far diventare Racalmuto, un piccolo paese della Sicilia, la metafora del mondo.
Adriano Infantino
(Tratto da «Patria Indipendente», periodico dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, 16 marzo 2022: https://www.patriaindipendente.it/primo-piano/sciascia-i-lavoratori-la-mafia-e-il-complesso-rapporto-con-il-pci/).
Inserito il 30/04/2023.
Leonardo Sciascia.
Fonte della foto: ilriformista.it
Pier Paolo Pasolini.
Fonte della foto: https://www.huffingtonpost.it/cultura/2022/12/16/news/antimafia_ipotesi_omicidio_pasolini_legato_a_furto_film_salo_120_giornate-10912402/
Intellettuali e PCI
Il caso Pasolini
«Malgrado voi, resto e resterò comunista, nel senso più autentico di questa parola»
Pier Paolo Pasolini e i suoi rapporti con il Partito comunista italiano
a cura di Angela Molteni
(dal sito pasolinipuntonet.blogspot.com)
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Pier Paolo Pasolini e i suoi rapporti con il Partito comunista italiano
Pier Paolo Pasolini in Poeta delle ceneri:
Come sono diventato marxista?
Ebbene… andavo tra fiorellini candidi e azzurrini di primavera,
quelli che nascono subito dopo le primule,
– e poco prima che le acacie si carichino di fiori,
odorosi come carne umana, che si decompone al calore sublime
della più bella stagione –
e scrivevo sulle rive di piccoli stagni
che laggiù, nel paese di mia madre, con uno di quei nomi
intraducibili si dicono “fonde”,
coi ragazzi figli dei contadini
che facevano il loro bagno innocente
(perché erano impassibili di fronte alla loro vita
mentre io li credevo consapevoli di ciò che erano)
scrivevo le poesie dell’Usignolo della Chiesa Cattolica;
questo avveniva nel ’43:
nel ’45 “fu tutt’un’altra cosa”.
Quei figli di contadini, divenuto un poco più grandi,
si erano messi un giorno un fazzoletto rosso al collo
ed erano marciati
verso il centro mandamentale, con le sue porte
e i suoi palazzetti veneziani.
Fu così che io seppi ch’erano braccianti,
e che dunque c’erano i padroni.
Fui dalla parte dei braccianti, e lessi Marx.
[…]
(Pier Paolo Pasolini, Poeta delle Ceneri, in Bestemmia - Poesie disperse II, Garzanti, Milano 1993)
1942. La collaborazione al “Setaccio”
Già quando aveva vent’anni, nel 1942, Pasolini collaborò alla redazione della rivista “Il Setaccio”, nata nell’ambito della GIL dell’Università di Bologna (durante il regime fascista, la Gioventù Italiana del Littorio era l’associazione studentesca istituita nelle università); vi sono i primi segni di un antifascismo sia pure naïf e volto per il momento solamente agli aspetti culturali di una opposizione al potere costituito (se i “moderni” sostenitori di un’assurda appartenenza del poeta a una ideologia di destra non confidassero, per le loro asserzioni, fondamentalmente su una diffusa “ignoranza” dei più – com’è d’altronde costume di chi fa dell’inganno e dello stravolgimento della storia la propria bandiera –, probabilmente non avremmo mai letto certe loro dichiarazioni tanto lontane dalla verità).
I primi scritti di Pasolini che apparvero sul “Setaccio” furono una poesia in dialetto friulano e un articolo, I giovani, l’attesa, nel quale, partendo dalle proprie esperienze, Pasolini rivendicava quale diritto dei giovani poeti, uno dei quali lui era, la massima libertà di espressione. Vi era poi un ulteriore motivo di “trasgressione”, costituito dall’uso di un dialetto, nei confronti di un regime che osteggiava proprio l’uso delle “lingue barbare” esclusivamente in favore di una “lingua nazionale”: fin dal primo numero, infatti, Pasolini pubblicò poesie in friulano; la prima era intitolata Fantasie di mia madre:
Fì, cumò l’è domènie,
l’è dut un susurâ:
ma il mè vis ’a l’è còme
silènsi tal sigâ. Par lis fràs-cis lontànis
’i sint Cenci ciantâ:
quànt che ic ’a era vif
– in tal dì dai afàns.
Ah, nini, tal mè vis,
’a s’ingrùmin i agns.
(Figlio, oggi è domenica, / è tutto un sussurrare: / ma, il mio viso, è come / il silenzio nelle grida. Per le frasche lontane, / sento Cenci cantare: / quando egli era vivo / – nel giorno degli affanni. Ah, fanciullo, nel mio viso / si raggrumano gli anni.)
(P.P. Pasolini, Bestemmia, Poesie disperse I, Garzanti, Milano 1993)
Il suo amico casarsese Cesare Bortotto, anch’egli collaboratore al “Setaccio”, ha scritto di Pasolini: «Il suo antifascismo viscerale e culturale era una nota ricorrente nei suoi discorsi; a volte era il tono caricaturale e grottesco (riferito agli aspetti esteriori del gerarchismo fascista) comune a molta gioventù studentesca».
Dopo la deposizione di Mussolini e la caduta del fascismo, Pasolini scrive all’amico-poeta Luciano Serra: «L’Italia ha bisogno di rifarsi completamente, ab imo, e per questo ha bisogno, ma estremo, di noi, che nella spaventosa ineducazione di tutta la gioventù ex-fascista, siamo una minoranza discretamente preparata. E io, in questo, ti accuso […] perché, nella tua lettera, non un accenno di sapore politico, non un commento di dolore o di gioia per l’avvento della libertà. E pensare che per me, invece, anche per la mia singolare ed intimissima esperienza poetica, questi giorni sono di una portata immensa. La libertà è un nuovo orizzonte, che fantasticavo, desideravo sì, ma che ora, nella sua acerbissima attuazione, rivela aspetti così impensati e commoventi, che io mi sento come ridivenuto fanciullo. Ho sentito in me qualcosa di nuovo sorgere e affermarsi, con un’imprevista importanza: l’uomo politico che il fascismo aveva abusivamente soffocato, senza che io ne avessi la coscienza».
L’adesione al Partito comunista italiano
Al Nord Italia, dopo l’8 settembre 1943, vi erano ancora i tedeschi e proseguiva la lotta di Resistenza. Guido Pasolini, fratello di Pier Paolo, si era unito ai partigiani, nella zona del Friuli al confine con la Slovenia, e aveva aderito al Partito d’Azione.
Guido morirà il 12 febbraio 1945, ucciso da partigiani garibaldini passati sotto il comando di partigiani sloveni, che intendevano annettersi i territori friulani. La notizia della sua morte arriverà a Pier Paolo Pasolini solo nel maggio del ’45.
In Pasolini – nella sua situazione di intellettuale che si sta formando su Gramsci, e soprattutto per la sua “vicinanza” al mondo contadino che conosceva così bene – matura l’idea di aderire al Partito comunista italiano. Non costituisce per lui motivo di ripensamento il ricordo della morte del fratello poiché è convinto che tale morte sia stata un evento eccezionale: e d’altronde il comunismo gli appare l’unico «in grado di fornire una nuova cultura ‘vera’, una cultura che sia moralità e interpretazione intera dell’esistenza».
Si iscriverà al Pci nel 1948; diventerà segretario della sezione comunista di San Giovanni. E in quello stesso anno sarà anche insegnante alla scuola media di Valvasone.
L’estate del 1949 trascorre «tra una bruttezza estrema (padre paranoico, madre straziante, vita stenta in una scuola, vita di gente stupida e perfida, odio politico e congiura del silenzio) e un’estrema felicità», come lo stesso Pasolini scrive.
È un periodo nel quale il poeta riceve, pur senza dargli alcun peso, vaghe minacce e ricatti provenienti dall’ambiente politico della Democrazia cristiana. Narra tra l’altro il cugino, Nico Naldini, nel suo Pasolini, una vita: «Nota bene che già tre mesi prima dell’accaduto, un prelato molto importante di Udine aveva fatto dire a Pier Paolo che se non avesse smesso la sua attività politica, avrebbe fatto di tutto per rovinarlo, intenzioni poi confermateci da un deputato democristiano mio amico. […] Non potete immaginare la propaganda che si è fatta in Friuli e il dolore di tutti noi».
L’“accaduto”, in breve, è questo: nell’ottobre di quell’anno, Pasolini viene denunciato per corruzione di minorenni e atti osceni in luogo pubblico (nel dicembre del 1950 verrà assolto). Il 28 ottobre i giornali pubblicano la notizia (su indicazioni della Dc di Udine) e il giorno dopo “l’Unità” esce con un trafiletto inviato dalla Federazione del Pci di Udine, che nel frattempo ha decretato l’espulsione di Pasolini dal partito: «Prendiamo spunto dai fatti che hanno determinato un grave provvedimento disciplinare a carico del poeta Pasolini per denunciare ancora una volta le deleterie influenze di certe correnti ideologiche e filosofiche dei vari Gide, Sartre, di altrettanto decadenti poeti e letterati, che si vogliono atteggiare a progressisti, ma che in realtà raccolgono i più deleteri aspetti della degenerazione borghese».
Pasolini scrive tra l’altro alla Federazione di Udine: «Malgrado voi, resto e resterò comunista, nel senso più autentico di questa parola».
Nel gennaio successivo Pasolini partirà con la madre per Roma e nella capitale, dapprima con fatica e sacrificio, riuscirà a lavorare, iniziando con un modesto incarico di insegnante in una scuola privata, e man mano ad affermarsi come scrittore e regista.
Nel 1956 vi è una forte crisi ideologica e politica che coinvolge tutto il movimento comunista, determinata dal “rapporto Kruscev” al XX Congresso del Partito comunista sovietico. Le critiche a Stalin e al suo sistema di potere che sono espresse dal “rapporto” avranno effetti psicologici enormi e imporranno nuove prospettive e strategie ai comunisti in tutto il mondo. Per contrasto, fecero inoltre seguito, quasi subito, i fatti di Ungheria e di Polonia.
Pasolini, ragionando in particolare sulla sua attività letteraria dopo tali avvenimenti, scriverà: «Era un’epoca della mia vita in cui io, come scrittore, non potevo non tenere costantemente presente quella prospettiva e quindi questa non poteva non far parte immanente e continua della mia ispirazione. Non c’è dubbio che dopo il XX Congresso del Pcus io mi sono sentito sempre meno dubbioso, sempre più sicuro, sereno e deciso sul piano ideologico».
In Una polemica in versi, uno dei poemetti che compongono Le ceneri di Gramsci, Pasolini rivolge un duro attacco al Pci e al suo crescente burocratismo:
“L’ora è confusa, e noi come perduti
la viviamo…”, mi mormoravi, amaro,
disilluso di ciò che hai avuto per dieci anni dentro, così chiaro
che tra mondo e mente quasi era un idillio:
e ha la tua stanchezza – un po’ volgare –
una smorfia di vecchio figlio
di immigrati meridionali
affamati e vili dietro il cipiglio
di poveri arrivati, d’ingenui dottrinari.
Hai voluto che la tua vita fosse
una lotta. Ed eccola ora sui binari
morti, ecco cascare le rosse
bandiere, senza vento.
[…]
Poi il canto, che s’era levato
gioioso, disperato, cessa, e il vecchio
lascia cadere la bandiera, e lento,
con le lacrime agli occhi,
si ricalca in capo il suo berretto.
Su questa baraonda della Villa, il buio
che sommerge la disperata allegria,
è, forse, più l’ombra del dubbio
che la precoce notte. È la nostalgia
dei vecchi tempi, la paura, pur bandita,
dell’errore, che spira tanta malinconia
– non l’aria d’autunno, o una sopita
pioggia – sulla sfiorita festa.
Ma in questa malinconia è la vita.
(P.P. Pasolini, Una polemica in versi, da Le ceneri di Gramsci, Einaudi, Torino 1981)
Le polemiche continuano
Italo Calvino, scrivendo a “Il contemporaneo”, si dichiara «contro Ragazzi di vita per ragioni di poetica» che ritiene «sbagliata e senza sviluppi» e definisce comunque Pasolini «poeta e critico: uno dei più forti della nuova generazione e del campo della sinistra».
Altrettante polemiche vi saranno su Una vita violenta, del quale Pasolini aveva detto: «La mia intenzione era di scrivere un romanzo socialista».
Sulla rivista del Pci “Rinascita” il senatore Mario Montagnana, cognato di Togliatti, indirizzerà una lettera al direttore: «Pasolini riserva le volgarità e le oscenità, le parolacce al mondo della povera gente. […] Si ha la sensazione che Pasolini non ami la povera gente, disprezzi in genere gli abitanti delle borgate romane e, ancor più, disprezzi (non trovo altra parola) il nostro partito. […] Non è forse abbastanza per farti indignare?».
Nel numero successivo di “Rinascita” la risposta giunse da un altro esponente comunista, Edoardo D’Onofrio: «Io credo che uno dei motivi che spinge alcuni nostri compagni a non valutare giustamente il romanzo Una vita violenta di Pasolini dipenda in gran parte dal fatto che essi non conoscono l’importanza politica e sociale della presenza a Roma di un numeroso sottoproletariato. […] Pasolini non nasconde la verità per carità di partito; dice le cose così come furono; né pretende che un momento dello sviluppo del partito nelle borgate sia lo sviluppo stesso o il risultato dello sviluppo».
Pasolini fu poi nuovamente attaccato da parte comunista quando, nel dicembre 1961, pubblicò sull’“Avanti!” la poesia Nenni:
[…]
Dal quarantotto siamo all’opposizione:
dodici anni di una vita: da Lei
tutta dedicata a questa lotta – da me,
in gran parte, seppure in privato
[…]
Se non possiamo realizzare tutto, non sarà
giusto accontentarsi a realizzare poco?
La lotta senza vittoria inaridisce. (Una lettera, di solito, ha uno scopo.
Questa che io Le scrivo non ne ha.
Chiude con tre interrogativi ed una clausola.
Ma se fosse qui confermata la necessità
di qualche ambiguità della Sua lotta,
la sua complicazione ed il suo rischio,
sarei contento di avergliela scritta.
Senza ombre la vittoria non dà luce.)
1960
(P.P. Pasolini, Bestemmia, Poesie disperse, Garzanti, Milano 1993)
La poesia venne inviata all’“Avanti!” con una “lettera” accompagnatoria in cui il poeta diceva tra l’altro:
«[…] ho scritto questi versi proprio un anno fa in questi giorni. Li ho sempre tenuti, come si dice, nel cassetto, perché me ne vergognavo […] Avevo paura che questa ‘lettera a Nenni’ suonasse come una rinuncia a certe mie posizioni estreme, le uniche in cui posso vivere. E infatti, alla base dell’ispirazione di quei versi, c’era un profondo scoraggiamento […] L’importante è che lo scoraggiamento duri lo spazio di una poesia…».
1960. I morti di Reggio Emilia
Il periodo giugno-luglio 1960 è segnato da una grave crisi politica che scuote l’Italia: Fernando Tambroni, democristiano, forma un governo monocolore sostenuto dal Msi. È l’“anticamera” di un colpo di stato di destra nel nostro paese.
Il 28 giugno ’60 si tiene a Genova una imponente manifestazione popolare antifascista; il 30 un nuovo corteo cittadino viene affrontato dalla polizia, e negli incidenti rimangono feriti 83 manifestanti. La proposta antifascista si diffonde in altre città e il governo Tambroni sceglie la linea dura per fronteggiare e reprimere il dilagare delle manifestazioni di piazza.
Il 6 luglio 1960 a Roma, a Porta San Paolo, la polizia reprime un corteo antifascista, ferendo alcuni deputati socialisti e comunisti; ma i fatti più gravi accadono a Reggio Emilia: nel corso di una delle manifestazioni seguite ai fatti di Roma la polizia uccide cinque manifestanti comunisti: Ovidio Franchi, Lauro Farioli, Emilio Reverberi, Marino Serri, Afro Tondelli.
La Cgil proclama, da sola, uno sciopero generale. La tensione socio-politica nata a Genova e dilagata nel paese porterà alle dimissioni di Tambroni il 19 luglio 1960.
Le vicende private e giudiziarie di Pasolini si intrecciano in questi anni inscindibilmente con quelle politiche. Seppure non iscritto al Pci Pasolini, quale simpatizzante e dichiaratamente elettore di quel partito, è un letterato scomodo per il Pci a causa della sua omosessualità. Così scive una nota dell’agenzia Fert il 14 luglio 1960: «La Fert apprende che l’on. Togliatti ha rivolto ai dirigenti dei settori culturali e stampa del partito l’invito ad andare cauti con il considerare Pasolini un fiancheggiatore del partito e nel prenderne le difese. L’iniziativa di Togliatti che riscontra molte contrarietà, parte da due considerazioni. Togliatti non ritiene, a suo giudizio personale, Pasolini un grande scrittore, ed anzi il suo giudizio in proposito è piuttosto duro. Infine, egli giudica una cattiva propaganda per il Pci, specialmente per la base, il considerare Pasolini un comunista, dopo che l’attenzione del pubblico, più che sui romanzi dello scrittore, è polarizzata su talune scabrose situazioni in cui egli si è venuto a trovare fino a provocare l’intervento del magistrato. [...] I difensori del reprobo in seno al Pci sono tuttavia parecchi, e sembra che i deputati Alicata e Ingrao siano del parere di conservare Pasolini al Pci».
La croce uncinata
Da molte notti, ogni notte,
passo sotto questo tempio, tardi,
nel silenzio dell’aria
del Tevere, tra rovine scomposte.
Non c’è più intorno nessuno, allo scirocco
che spira e cade, fioco tra le pietre:
forse ancora una donna, laggiù, e dietro
il bar di Ponte Garibaldi, due tre poveri
ladri, in cerca di dormire, chissà dove.
Ma qui, nessuno: passo veloce,
rotto da una notte tutta ansia e amore:
non ho più niente nel cuore
e non ho più sguardo negli occhi.
Eppure, quest’immagine, col passare delle notti,
si fa sempre più grande, più vicina:
ecco lo spigolo, liberty, contro la turchina
distesa del Tevere: ed ecco i poliziotti
che piantonano il tempio, tozzi e assorti.
Li vedo appena, coi loro cappotti
grigiastri, contro un albero secco,
contro i bui scorci del ghetto:
e colgo una breve luce, negli occhi
umiliati dal loro goffo sonno di giovinotti:
una accecata stanchezza che vede nemici
in ognuno, un veleno di dolori antichi,
un odio di servi: restano indietro,
soli come lo scirocco che vortica tra le pietre.
Una vergogna, triste come la notte
che regna su Roma, regna sul mondo.
Il cuore non vi resiste: risponde
con una lacrima, che subito ringhiotte.
Troppe lacrime, ancora non piante, lottano,
oltre questi umilianti quindici anni,
dentro le nostre dimentiche anime:
il dolore è ormai troppo simile al rancore,
neanche la sua purezza ci consola.
Troppe lacrime: a coloro che verranno
al mondo, per molto tempo ancora
questa vergogna farà arido il cuore.
[Aprile 1960]
«LE RADICI DEL LUGLIO. Sotto questa poesia, ho voluto apporre, ben chiara e circostanziata, la data – aprile 1960 –: cosa che di solito non faccio mai: anche perché le mie poesie restano in laboratorio tanto tempo, che in realtà finiscono con l’essere scritte e riscritte varie volte, e la loro data di solito abbraccia un’annata o due di lavoro. […] In questo caso la data l’ho messa bene in vista solo per dare alla poesia una giustificazione politica: volevo cioè ricordare al lettore che aprile non è luglio, che la formazione del governo Tambroni non è la cacciata del governo Tambroni, e che la spocchia dei neofascisti non è la sconfitta dei neofascisti. L’indignazione politica contenuta in questi versi può sembrare un poco pessimista e dolorosa: ma lo credo! Niente, in quel momento in cui li ho scritti – lo scorso aprile – autorizzava ad avere una specifica: la speranza di un sollievo immediato almeno dalla vergogna del "revival" fascista. Se riscrivessi ora sullo stesso argomento non potrei non tenere conto, certamente, del significato di questa estate politica: del fatto cioè che quella mia indignazione, che io credevo ristretta a pochi memori, è invece condivisa da una grande maggioranza di italiani, tra cui soprattutto, i giovani: quelli di Genova, quelli di Reggio, quelli di Roma, quelli di Palermo. Ciò non significa che mi abbandonerei a un facile ottimismo: questo mai. Né credo potrei mai cancellare in me l’impressione che quello che hanno fatto i fascisti e i nazisti nel mondo è stato così disumano, da presentarsi come una piaga di non facile guarigione nel corpo dell’intera umanità. […]».
(P.P. Pasolini in “Vie Nuove”, Roma, 29 ottobre 1960)
La collaborazione con “Vie Nuove”
Maria Antonietta Macciocchi, direttrice di “Vie Nuove”, propose a Pasolini una collaborazione con la rivista, cosa che avvenne a partire dal maggio 1960; dice del poeta: «Pasolini era l’intellettuale più dolce, più delicato, più disponibile che avessi conosciuto. Era più facile ‘dirigere’ lui che il redattore più qualificato con la tessera del Pci. Oltre la rubrica personale, scriveva gli articoli che gli chiedevo sui soggetti più disparati […]».
La Macciocchi scrive a Pasolini il 4 agosto: «Le invio il disco di “Vie Nuove” sui fatti di Reggio Emilia, e la lettera di un lettore che si riferisce ad esso […] Io ebbi a Reggio Emilia questo nastro da un commesso di un negozio di tessuti, che si era portato là il registratore per registrare il comizio; e, invece, finì con il registrare l’agghiacciante sparatoria che lei udrà, non una guerra, ma una fredda carneficina». Pasolini rispose al lettore, nella rubrica su “Vie Nuove”:
«I critici stilistici dicono che ogni opera ha la sua “integrazione figurale”: ossia ogni opera, nell’atto di essere scritta o letta, brano per brano, pagina per pagina, parola per parola, si integra in una sua totalità immanente ad essa, in una sua ideale conclusione che le dà continuamente senso e unità. Così – per questo disco – è atroce dirlo – la integrazione figurale, che gli dà quasi una dignità estetica, è la morte dei giovani lavoratori di Reggio, è la calcolata brutalità della polizia. […] Quello che colpisce soprattutto […] è la freddezza organizzata e quasi meccanica con cui la polizia ha sparato: i colpi si succedono ai colpi, le raffiche alle raffiche, senza che niente le possa arrestare, come un gioco, quasi con la voluttà distratta di un divertimento […]».
Pasolini instaura con i lettori di “Vie Nuove”, per lo più comunisti, un discorso molto ampio che abbraccia tutte le problematiche dei primi anni Sessanta. Sulle pagine di “Vie Nuove” si inserisce la polemica con Salinari, considerato la voce ufficiale del Pci in ambito letterario. Con estrema semplicità Pasolini svolge sulle pagine del giornale il proprio marxismo, e quella “contraddizione” tra l’essere con Gramsci o nelle “buie viscere” che segna un momento fondamentale della sua poetica. Così Pasolini in un articolo del 3 maggio 1962 intitolato Cultura contro nevrosi:
«Essere marxisti, oggi, in un paese borghese, significa essere ancora in parte borghesi. Fin che i marxisti non si renderanno conto di questo, non potranno mai essere del tutto sinceri con se stessi. La loro infanzia, la loro formazione, le loro condizioni di vita, il loro rapporti con la società, sono ancora oggettivamente borghesi. La loro “esistenza” è borghese, anche se la loro “coscienza” è marxista».
L’accettazione del marxismo va di pari passo alla puntuale indicazione dei fattori di crisi del movimento marxista, che è soprattutto crisi dei partiti di ispirazione marxista (da un articolo su “Vie Nuove” del 15 luglio 1965 intitolato Due crisi):
«Quello del capitalismo è un violento sviluppo, che, come dicevo in altre lettere precedenti, si presenta addirittura, al limite, come “rivoluzione interna”, che viene a modificare addirittura certe strutture del capitalismo classico: c’è per esempio nei paesi capitalistici molto evoluti un superamento delle strutture familiari e confessionali.. La crisi del marxismo è proprio dovuta a questo sviluppo in qualche modo rivoluzionario del neo-capitalismo. [....]
Il bersaglio contro cui il marxismo ha sparato, metaforicamente e realmente, in tutti questi decenni, sta cambiando, pone delle alternative in certo modo impreviste. Di qui la crisi dei partiti marxisti. Di qui la necessità di prenderne coscienza, fin che il marxismo resta la vera grande alternativa dell’umanità».
Il marxismo di Pasolini non è, come del resto l’intera sua produzione, esente da critiche, che Alberto Asor Rosa così articola nel suo saggio Scrittori e popolo edito da Einaudi:
«Il marxismo di Pasolini è, ad esempio, quanto di più curioso ed artefatto si sia potuto incontrare in questo campo, negli anni ancora molto a noi vicini del progressismo letterario. D’altra parte non c’è dubbio che lo scrittore abbia preteso ad una qualificazione ideologica di questo genere, se, concludendo le risposte ad una intervista del 1959 – lo stesso anno di Una vita violenta – lo scrittore quasi divertito afferma: “[...] io credo soltanto nel romanzo ‘storico’ e ‘nazionale’, nel senso di ‘oggettivo’ e ‘tipico’. Non vedo come possano esisterne d’altro genere, dato che ‘destini e vicende puramente individuali e fuori dal tempo storico’ per me non esistono: che marxista sarei?”: dove terminologia di tipo gramsciano e riferimenti di tipo lukacsiano si confondono insieme in un facile e sorprendentemente futile coacervo. La stessa disinvoltura è reperibile del resto in quei luoghi in cui Pasolini passa a delineare il contenuto di un esperimento letterario collegato a questa sua recente ma appassionata fede socialista. Si constata allora che il marxismo è per lui tutto ciò che non è possibile definire come irrazionale o decadente: “[...] del ‘realismo socialista’ come formula ancora ideale, da precisarsi nella teoria, da realizzarsi – penso che sia l’unica possibile ipotesi di lavoro. Per una ragione molto semplice: il socialismo è l’unico metodo di sonoscenza [sic] che consenta di porsi in un rapporto oggettivo e razionale col mondo”. La verità è che, di tutte le possibili varianti marxiste, Pasolini ha colto, magari attraverso la mediazione degli interpreti ufficiali comunisti, unicamente il tema gramsciano del nazional-popolare, che è infatti il solo a contare qualcosa nella sua opera narrativa».
(A. Asor Rosa, Scrittori e popolo. Il populismo nella letteratura italiana contemporanea, Einaudi, Torino 1965)
«Tradizione e marxismo. Sì, insisto: solo il marxismo salva la tradizione. Oh, ma capiscimi bene! Per tradizione intendo la grande tradizione: la storia degli stili. Per amare questa tradizione occorre un grande amore per la vita. La borghesia non ama la vita: la possiede. E’ ciò implica cinismo, volgarità, mancanza reale di rispetto per una tradizione intesa come tradizione di privilegio e come blasone. Il marxismo, nel fatto stesso di essere critico e rivoluzionario, implica amore per la vita, e, con questo, la revisione rigenerante, energica, amorosa della storia dell’uomo, del suo passato».
(P.P. Pasolini, Risposta ad un insoddisfatto, in “Vie Nuove”, 22 novembre 1962)
L’idea di una nuova preistoria
Nel 1963, quasi contemporaneamente alla lavorazione de La ricotta gli viene proposto l’allestimento di un film-montaggio sugli avvenimenti dell’ultimo decennio, La rabbia, tratto da sequenze di cinegiornali. Parlando di quest’ultimo film, Pasolini afferma che con esso intendeva dire «una cosa un po’ confusa in me, un’idea irrazionale ancora, non ben definita, non determinata […] È l’idea di una nuova preistoria. E cioè i miei sottoproletari vivono ancora nell’antica preistoria, mentre il mondo borghese, il mondo della tecnologia, il mondo neocapitalistico va verso una nuova preistoria. […] Quando il mondo classico sarà esaurito, quando saranno morti tutti i contadini e tutti gli artigiani, quando l’industria avrà reso inarrestabile il ciclo della produzione, allora la nostra storia sarà finita».
Con i suoi ultimi lavori, e in particolare con le poesie che formeranno la raccolta Trasumanar e organizzar Pasolini compie il «primo goffo tentativo individualistico e in parte anarcoide» di lottare contro quella che continua a definire «la nuova preistoria». Commenta il cugino Nico Naldini: «Di fronte all’accelerazione artificiale della nuova società industriale che vuol distruggere il passato per instaurare solo il presente, oppone la nostalgia del sacro, degli antichi valori, il rimpianto del passato, accettato anche come sentimento conservatore».
È in questa chiave che va anche letto il crescente interesse di Pasolini per il Terzo Mondo, nel quale ritrova ritmi di vita “umani”, e un rispetto delle tradizioni “ripetute indefinitamente”.
Adesione/opposizione al Pci
I rapporti di Pasolini con il Partito comunista italiano sono sempre stati “incerti”, ostili in alcuni momenti.
«Io mi sono sempre opposto al PCI con dedizione, aspettandomi una risposta alle mie obiezioni. Così da procedere dialetticamente! Questa risposta non è mai venuta: una polemica fraterna è stata scambiata per una polemica blasfema».
In un’intervista a Enzo Biagi, che gli chiedeva quali fossero le obiezioni da rivolgere ai comunisti, Pasolini rispose:
«Le ho sempre fatte: un eccesso di burocrazia, e l’avere permesso, all’interno del partito, atteggiamenti che sono borghesi: un certo perbenismo, un certo moralismo. Però continuo a votare per loro».
Oppure di incondizionato appoggio, soprattutto nei momenti in cui le sue dichiarazioni si incrociavano con imminenti elezioni. In uno dei suoi ultimi “messaggi” in questo senso Pasolini dice:
«Il mio atteggiamento è di adesione al Pci, perché voto comunista da quando ero ragazzo, dal tempo dei partigiani, sono stato dalla loro parte, benché non iscritto, sono un indipendente di sinistra e la mia posizione adesso è una posizione abbastanza personale, devo dire, perché non sono decisamente nel Partito comunista, benché lo appoggi nei momenti, insomma, di lotta, di emergenza sia sempre con loro. Non sono nemmeno con gli estremisti, benché invece con alcuni estremisti vada molto d’accordo, ma non potrei dirmi un estremista, non sono un extraparlamentare, per me il parlamento, insomma, è sacrosanto […]».
L’ultima intervista
Il 1° novembre 1975, alle quattro del pomeriggio, a casa sua, Pasolini rilasciò a Furio Colombo quella che sarebbe stata la sua ultima intervista, in cui, rispondendo alle domande del giornalista, riassumeva le sue argomentazioni su una serie di temi che l’avevano coinvolto e appassionato per tutta la vita:
«Prima tragedia: una educazione comune, obbligatoria e sbagliata che ci spinge tutti dentro l’arena dell’avere a tutti i costi […] L’educazione ricevuta è stata: avere, possedere, distruggere».
«Ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere il padrone senza diventare quel padrone. Poiché erano esclusi da tutto, nessuno li aveva colonizzati».
«Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori. Ma attento. Uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti, giù fino ai poveri. Ecco perché tutti vogliono le stesse cose e si comportano nello stesso modo. Se ho tra le mani un consiglio di amministrazione o una manovra in Borsa uso quella. Altrimenti una spranga».
«Non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra. E noi, gli intellettuali, prendiamo l’orario ferroviario dell’anno scorso, o di dieci anni prima e poi diciamo: ma strano, ma questi due treni non passano lì, e come mai sono andati a fracassarsi in quel modo? O il macchinista è impazzito o è un criminale isolato o c’è un complotto. Soprattutto il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità».
a cura di Angela Molteni
(Articolo tratto dal sito: http://pasolinipuntonet.blogspot.com/2012/10/pier-paolo-pasolini-e-i-suoi-rapporti.html?m=1).
Inserito il 01/04/2023.
Un’intervista a «l’Unità» – 1963
Pasolini: voto PCI per contribuire a salvare il futuro
In un’intervista rilasciata a Paolo Spriano per la campagna elettorale della primavera 1963 l’intellettuale parla a ruota libera di politica, dei danni della cultura borghese, dei rischi per l’umanità, delle sue opinioni sui dibattiti letterari nell’Unione Sovietica…
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Gli uomini di cultura e le elezioni del 1963
Pasolini: voto PCI per contribuire a salvare il futuro
Umanesimo e rivoluzione della struttura – Le delusioni del centro-sinistra e i limiti del «miracolo economico» – La pace e l’irrazionalismo borghese – Il dibattito culturale
Sono note le passioni e la sincerità con cui Pier Paolo Pasolini esprime le sue opinioni sui problemi politici, non meno che su quelli sociali, estetici, culturali. Per questo la nostra conversazione comincia e si sviluppa con domande e risposte in cui l’accento personale è particolarmente presente.
D. — Tu esprimesti, pubblicamente, in prosa e in versi la tua simpatia per l’esperimento di centro-sinistra quando esso si attuò. Oggi a più di un anno di distanza, il tuo parere è mutato?
R. — Io sono stato uno di quelli che hanno accolto con un certo favore il centro-sinistra. Ricordo che due anni fa ho pubblicato sull’Avanti! una poesia a Nenni, con gli auguri di buon lavoro. Ho dovuto molto ricredermi. Intendiamoci, continuo a seguire Nenni con la simpatia e anche la trepidazione con cui si segue un uomo che si è messo in una situazione difficile, contraddittoria e «scandalizzante». D’altra parte, il problema non rigorosamente politico, ma, direi, sentimentale, che il centro-sinistra suscita è uno di quei problemi che si risolvono in sede di buon senso, e quindi non si risolvono. Cioè: è preferibile un governo di centro, o di centro-destra, oppure un governo di centro-sinistra? Il buon senso è lì, inappuntabile, a dire che il secondo corno è da preferirsi. Bene. Ma il meno peggio ha fatto capire, come sempre, quanto il meglio sia diverso. Per quel che mi riguarda personalmente – la mia vita, il mio lavoro – questi del centro-sinistra sono stati gli anni più brutti. Ma la situazione di capro espiatorio non è certo la migliore per giudicare serenamente le cose. Me l’ha spiegato l’altro giorno un ragazzo di sedici anni in una riunione all’associazione «Nuova Resistenza»: la destra, imbestialita da una prospettiva più democratica di governo, si accanisce con più rabbia, là dove può, coi suoi avversari classici: per esempio gli intellettuali. Prendiamo atto di quello che anche un ragazzo di sedici anni capisce. (Ma intanto questo può restare anche il lato buono della cosa; la scissione aperta, scoperta, messa a nudo tra governo e stato. È la prima volta che questo succede in Italia. La burocrazia, la magistratura, il Corriere della Sera, la televisione, non la pensano come gli uomini al governo: sono rimasti nelle tenebre e nell’odio delle destre. Benissimo. Non è una chiarificazione? E non è una fenditura che serpeggia anche nel gran corpo della Democrazia Cristiana?).
D. — Deduci da queste considerazioni una scelta elettorale precisa?
R. — Anche quest’anno, come sempre, voto comunista. Lo sai bene, il voto è un fatto estremamente privato, delicatamente privato, addirittura patologicamente privato. Bene, la mia vita privata è tormentata dal suo contrario: dall’ufficialità, che, letteralmente, non vuole ammettere la mia esistenza. E mi destina a uno stato – che rischia di diventare ridicolo – di perseguitato. Perciò devo confessarti che anche quel tanto di «ufficiale» che c’è nel Partito Comunista, non mi piace. Fatti miei, certo. Un Partito che si considera, a diritto, maturo per prendere il potere e governare, non può non essere, in qualche modo «ufficiale». Per me, ufficialità è esattamente il contrario della razionalità. Ciononostante voto per il PCI senza il minimo dubbio, o la minima incertezza interiore. Perché so che la razionalità del marxismo è più forte di qualsiasi contingenza anche sgradevole, di qualsiasi situazione particolare che regoli i rapporti tra i comunisti di estrazione o formazione borghese.
D. — Si fa un gran discutere del miracolo economico, del «benessere», di quanto siano mutate le condizioni di vita delle masse popolari in questi ultimi anni. Qual è il tuo parere in proposito?
R. — È vero, come dice Moravia, in una società c’è quello che si pensa che ci sia. Ma il primo dovere di uno scrittore è quello di non temere l’impopolarità. Io rischio di rimanere un romanziere degli anni Cinquanta se insisto a dire che nella nostra società c’è quello che c’è: ossia che c’è quello che c’era dieci anni fa. Il benessere è una faccenda privata della borghesia milanese e torinese. Io so che a livello popolare nulla è mutato. Anzi, come le disperate Cassandre vanno da tempo ripetendo, le cose sono peggiorate. Il Meridione ha l’aria spaventata di una colonia, coi suoi coprifuochi, i suoi deserti e i suoi silenzi. A Roma tuguri, disoccupazione, caos, bruttezza, centinaia di migliaia di persone che vivono con cinquantamila lire al mese. Io, coi miei occhi, verifico ogni giorno che il Tiburtino, il Quarticciolo, Primavalle e mille altri quartieri sono gli stessi di dieci anni fa, la gente vive allo stesso modo di dieci anni fa. Anzi, se il mio diritto di cittadino che protesta include anche la suscettibilità estetica, tutto è peggio che dieci anni fa, perché almeno, dieci anni fa, intorno alle borgate e ai villaggi di tuguri c’erano i prati: oggi c’è qualcosa di indicibile, il puro orrore edilizio, qualcosa che condanna chi vi abita alla contemplazione dell’inferno. Perciò rischio tranquillamente l’impopolarità; e affermo in piena coscienza che non c’è ciò che tutti pensano che ci sia, e con ciò lo fanno essere: potrei scrivere altri dieci romanzi, o girare altri dieci film su un mondo che il razzismo borghese non vuole conoscere e che è in realtà espressivamente inesauribile, perché non sono i quattro soldi del «boom» nordico che potranno mutarlo. Mai come in questo momento in cui il fascino del qualunquismo neo capitalistico – efficienza, illuminismo culturale, gioia di vivere, astrattismo e motels – agisce soprattutto negli animi dei semplici, che si illudono di cambiare la propria vita imitando come possono la vita volgarizzata dai privilegiati, o addirittura accontentandosi di averne coscienza, la rivoluzione della struttura appare necessaria. Io credo che non solo sia la salvezza della società: ma addirittura dell’Uomo. Una orrenda «Nuova Preistoria» sarà la condizione del neocapitalismo alla fine dell’antropologia classica, ora agonizzante. L’industralizzazione sulla linea neocapitalistica disseccherà il germe della Storia… Ma mi interrompo, perché questi, così, sono discorsi da dilettante, e si giustificherebbero solo… se in versi…
D. — Non ne hai forse parlato nelle tue poesie più recenti?
R. — Sì, i miei versi di questi due anni parlano di questi problemi. L’addio dell’uomo alle campagne… alla civiltà classica… alla religione. Si intitolano – dato l’ingorgo irrazionalistico – Poesie in forma di rosa, ma potrebbero logicamente intitolarsi La Nuova Preistoria. La lotta operaia mi appare non solo come una lotta ideale per il futuro dell’uomo, ma anche come una lotta necessaria e terribilmente urgente per salvare il suo passato…
D. — L’umanità è soprattutto preoccupata per il pericolo di una guerra catastrofica. Ti pare che l’orizzonte permanga sempre così oscuro da giustificare appieno queste ansie?
R. — Ho una grande tenerezza per Giovanni XXIII, una grande ammirazione per Krusciov, e una certa simpatia per Kennedy. Mentre ho un profondo disprezzo per la borghesia: un disprezzo pratico e ideologico, che mi fa vedere il nostro avvenire molto oscuro. Casi da museo teratologico come quello di Hitler, le nostre borghesie sono capaci in ogni momento, in ogni circostanza, di produrne; perché sono mostruose esse stesse, per aridità, cinismo, ignoranza, qualunquismo, ferocia, miopia. Al vertice, l’orizzonte è abbastanza sereno. Ma al livello medio del capitalismo – o del neocapitalismo – la guerra è un fatto che può sempre accadere. È per questo, che, inconsciamente – malgrado la sua assurdità – continuiamo a temerla. Il sentimento dei privilegi di classe, che, sul piano pratico è terribilmente razionale, sul piano ideologico è sotto il dominio dell’irrazionalità. Perciò non vedo che garanzie possano dare le nostre classi dominanti per la pace. Esse, comunque, tendono a modellare l’uomo secondo la loro forma interna: la mostruosità, come meccanicità, assenza dell’umano. Facciano scoppiare le atomiche o giungano alla completa industrializzazione del mondo, il risultato sarà lo stesso: una guerra in cui l’uomo sarà sconfitto e forse perduto per sempre.
D. — I riferimenti ai dibattiti culturali in URSS e alle posizioni che ivi sono prevalse – e su cui noi abbiamo espresso il nostro parere e precisato i nostri punti di dissenso – sono ormai diventati un tema obbligato, spesso per cavarne della propaganda anticomunista, in questa campagna elettorale. Ci dici che ne pensi, e su quelle questioni e sull’eco che se n’è avuto qua?
R. — Sì, disapprovo il discorso di Krusciov sulle questioni letterarie e artistiche. Chi non lo disapprova? Ne deduco che, come critico o ideologo letterario, Krusciov, che è un grandissimo uomo politico, non vale molto. Del resto, invidio Evtuscenko. Te l’immagini un’Italia in cui il capo del governo facesse un discorso di cinquanta pagine su un poeta o su una questione di ideologia letteraria? Te l’immagini un’Italia in cui l’immenso pubblico che si interessa delle sciocchezze della televisione, si interessasse invece dei problemi della poesia? La dura realtà è invece che in Italia i leaders dei partiti al governo perderebbero migliaia o centinaia di migliaia di voti, se parlassero di letteratura; la dura realtà è che in Italia i capi del governo, se si interessano di problemi estetici, è per inaugurare le iniziative culturalmente di quart’ordine o le onoranze a valori giubilati o accademici; la dura realtà è che in Italia la classe dirigente si difende contro gli intellettuali e i poeti mettendoli brutalmente al bando o mandandoli in prigione.
Certo che, malgrado il discorso di Krusciov, voto comunista! Perché so che Stalin è ormai un’ombra: e il capo di un governo che discute, anche a torto, di poesia, mi è estremamente simpatico.
Paolo Spriano
(L’intervista di Pier Paolo Pasolini rilasciata a Paolo Spriano è tratta da «L’Unità» di sabato 20 aprile 1963).
Inserito il 22/04/2023.
Caro Pasolini… Cara Anna…
Il settimanale «Vie Nuove» era edito dal Partito Comunista, ma non si trattava della classica rivista di partito. Non era una pubblicazione eminentemente politica, tanto meno di dibattito culturale e ideologico, come poteva essere «Rinascita». Con «Vie Nuove» l’obiettivo era il largo pubblico, con un occhio di riguardo alla parte femminile, cercando di intercettarne gli interessi sulla vita quotidiana e sul mondo dell’arte, della cultura e dello spettacolo.
L’allora direttrice del settimanale, Maria Antonietta Macciocchi, chiamò a collaborare due scrittori assolutamente non conformisti: Pier Paolo Pasolini e Curzio Malaparte, quest’ultimo osteggiato per il suo passato fascista, mai esplicitamente rinnegato, da scrittori “organici” al PCI quali Italo Calvino e Alberto Moravia (quello su Curzio Malaparte e il suo comunismo post-fascista è un capitolo interessante a cui in futuro dedicheremo altri materiali su questo sito).
Dunque, su richiesta della Macciocchi, dal 1960 al 1965 Pier Paolo Pasolini tenne sul settimanale una rubrica di corrispondenza con i lettori intitolata Dialoghi con Pasolini. Ed è da questa rubrica che è tratto Coraggio collettivo, lo scambio tra una diciottenne di Certaldo e lo scrittore a proposito della volontà e della possibilità di studiare, di formarsi, di crescere culturalmente non solo per sé, ma nel quadro di un fine sociale e collettivo, la lotta per un mondo migliore.
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Coraggio collettivo
Caro Pasolini,
sei la 3ª persona «che scrive sui giornali» a cui scrivo. Sai, sono una ragazza di 18 anni; a 14 anni scrissi a Liala, a 16 a Candida, adesso scrivo a te. Buffo vero?
Tranquillizzati, non è per il consiglio amoroso, come nei due casi precedenti, credo proprio che a 18 anni l’amore non possa essere consigliato. Non lo so perché ti scrivo: forse perché sono un’incosciente, pensa che fra 10 giorni avrò gli esami di Stato ed io perdo le serate a scriverti. Stasera era destinata a filosofia, ma ho cominciato a leggere «Vie nuove» ed addio studio.
Come ti ho detto studio, non so come andranno gli esami, ma sono stata ammessa con 8, e quindi non ho un gran che di paura. Faccio la IV magistrale; gli altri mi giudicano una ragazza strana, io credo di esserlo perché non ho le cose che ha la gente normale. Ma questo non c’entra.
Io voglio solo dirti che i miei genitori hanno sudato sangue per questo diploma, anch’io ho faticato e li resi felici passando tutti gli anni. Adesso sono alla fine. Alla fine di che?
Dopo il diploma, insegnerò, sarò una maestra senza vocazione e senza scampo.
Eppure ho tanto sognato di fare l’Università, di vivere una vita diversa, di poter dire anch’io una mia parola, ma adesso?
Tutto qui: semplice, chiaro, ma per me è tremendo.
Vedi, io ho studiato, e sono riuscita bene, perché ho studiato volentieri, perché per me studiare è stata la mia più grande soddisfazione.
Ieri, il mio professore di lettere, mi ha detto che non devo smettere, «sarebbe un peccato interrompere così la tua cultura».
Già, ed io cosa dovevo dirgli, che quando spiega Dante mi sento morire dentro, che quando legge Leopardi vorrei annullarmi, che vorrei conoscere, conoscere anch’io, che vorrei «fare», che vorrei gridarglielo a mia madre che per me è come morire restare in questo paese… ma forse lui lo sa tutto questo; ma non sa che a casa ho due vecchi che aspettano le mie prime mille lire per potersi riposare un po’, che mi vergogno ad andare alle feste dei miei amici sempre con lo stesso vestito, che vorrei offrire al mio ragazzo capelli sempre profumati, ma andare dal parrucchiere costa caro!
Mio padre è comunista, è logico che lo sia, di quei comunisti caparbi che vedono solo da quel punto di vista: eppure non è arido, io lo ammiro; lui era come me, giorno per giorno i suoi ideali sono crollati ed ora, a volte, lo giudico gretto e meschino, ma lo ammiro.
A 30 anni si è ritrovato senza lavoro, con 2 figli, ma ci ha fatto studiare; ed è commovente quando cerca di spiegarmi Marx dicendo che «sui libri di scuola, non è il vero Marx». Io gli voglio bene capisci: basterebbe che gli dicessi: – Babbo, fammi fare l’Università, perché io voglio studiare e perché mi sento come uno che ha saputo un poco e vuol sapere tutto – e lui lo farebbe, venderebbe anche la camicia. Ma posso permetterlo, dimmi, ho il diritto di farlo?…
C’è chi mi dice che con le borse di studio si può fare benissimo l’Università: già, ma devo anche aiutare mio fratello a finire di studiare: i soldi chi me li dà?
Ma non voglio fare i soldi, voglio solo studiare, ma è una pretesa assurda, nella società di oggi.
Se, per poter studiare, bisogna appoggiarsi ad un’ideologia sociale e se questa è il comunismo, io, da oggi, sono comunista.
Anna – Certaldo (Firenze)
Cara Anna,
mi chiedi di entrare nel delicato intrico che è questo momento della tua vita. Vi entro da estraneo. Come un turista che va a visitare una città colpita da una epidemia, sicuro di non ammalarsi perché preventivamente vaccinato. O come un giornalista che va a fare un’inchiesta in qualche quartiere abbandonato a sé stesso, senza strade. Sia il turista pietoso che il giornalista curioso quando riprenderanno la loro strada, avranno soddisfatto alla loro pietà e alla loro curiosità. Ma avranno compiuto un dovere tutto sommato vano. Così vano mi sento io nel rispondere alla tua lettera tanto «necessaria». Cerca di considerare come fatale una certa fatuità delle mie parole: io non ti conosco se non per quel tanto che posso capire dalla tua lettera. È poco, se si pensa poi, che nella vita, si arrivano a conoscere davvero solo due o tre persone. E forse neanche!
Il consiglio di prima istanza che ti darei (non valevole, e questo è male, per te, in quanto te, in quanto irripetibile caso, ma valevole in generale) è questo:
Pretendi da tuo padre e da te stessa di continuare gli studi. Tuo padre sarà felice di questa tua pretesa. L’ho detto tante volte, in questa rubrica: il sacrificio, l’angoscia non sono mai aprioristici, e ogni volta che si affrontano è come se fosse la prima volta, e non c’è esperienza né nostra né altrui che valga qualcosa. Perciò il sacrificio e l’angoscia economica che chiedi a tuo padre saranno reali, non ci sarà modo di addolcirli, di eluderli. Questo farà sì che probabilmente tuo padre non avrà chiara coscienza, subito, «di essere felice della tua richiesta». Se ne accorgerà alla fine. Perciò tutto il peso è sulle tue spalle. Ma se tu desideri veramente studiare, e lo studiare per te rappresenta una ribellione alla necessità idiota e crudele che ti impedisce di farlo, ci riuscirai.
Può darsi tuttavia che la tua volontà a studiare non sia così vera e sincera. Può darsi che sia un alibi per mascherare il tuo avvilimento e la tua umiliazione a non poter continuare a studiare normalmente e agevolmente. E allora devi inventare davanti a te stessa la scusa del sacrificio dei tuoi. Non ti faccio assolutamente un rimprovero: voglio semplicemente aiutarti a chiarire la tua reale posizione. E allora devo usare una certa crudeltà (come quella dei medici). Se dunque la volontà a studiare è un alibi, e si tratta invece semplicemente del dispiacere passivo di non poter studiare, allora devi affrontare la situazione in un altro modo. Accettando cioè il fatto di essere socialmente abilitata a fare la maestra: questo ti apre una strada, e non te ne preclude un’altra.
La strada che ti apre è quella di insegnare. Ora, nello stato di abbandono, di miseria, di conformismo, di confessionalismo, in cui si trova la scuola italiana, essere una brava maestra è moltissimo. Alla fine della tua carriera potrai dire di avere messo sulla strada giusta, o almeno di avere tentato di metterli, centinaia e centinaia di ragazzi. Posso riferirmi a un’esperienza personale? Anch’io per due o tre anni ho insegnato alle medie: posso dire che, come effetto minimo, nessuno dei miei scolari è oggi un anticomunista (e molti, per famiglia e educazione, avrebbero potuto esserlo): e molti hanno capito certe verità essenziali e elementari che si porteranno dietro per sempre.
La strada che il fare la maestra non ti preclude, è quella di continuare a studiare per conto tuo. L’Università serve soltanto a prendere una laurea, non certo a dare una cultura. Tu puoi fare da sola, con la tua passione, molto meglio della grande percentuale dei pigri e svogliati iscritti a Lettere. Puoi leggere, leggere, leggere, che è la cosa più bella che si possa fare in gioventù: e piano piano ti sentirai arricchire dentro, sentirai formarsi dentro di te quell’esperienza speciale che è la cultura.
Io spero però che la prima eventualità che ho prospettato sia quella reale. Lo spero, perché la mia indole mi fa provare antipatia per le rassegnazioni e le rinunce.
Quanto al resto devi affrontare i problemi spinosi della tua vita di ragazza non ricca, coraggiosamente. Ora, il coraggio che si alimenta di sé stesso, inaridisce. Il tuo coraggio deve far parte di quell’atto di coraggio collettivo che è, per dei piccoli-borghesi (come tu e io siamo) il partecipare alla lotta di classe, il porsi una prospettiva, non dico rivoluzionaria, per non intimidirti, ma aspramente e strenuamente critica (non moralistica). Ti faccio affettuosamente l’augurio di avere e di voler avere questo coraggio.
Pier Paolo Pasolini
(Tratto da «Vie nuove», n. 27, 8 luglio 1965, riprodotto in: https://pasolinilepaginecorsare.blogspot.com/2021/08/pier-paolo-pasolini-puoi-leggere.html).
Inserito il 08/06/2024.
Dossier
Il Politecnico
diretto da ELIO VITTORINI
Dossier Il Politecnico
Che cosa fu «Il Politecnico»
🔴 di Leandro Casini 🔴
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Che cosa fu «Il Politecnico»
Edito da Giulio Einaudi e diretto da Elio Vittorini, «Il Politecnico» ebbe sede a Milano e vide la luce il 29 settembre 1945. Nacque come «settimanale di cultura contemporanea», e con questa periodicità venne pubblicato per 28 numeri, fino al 6 aprile 1946, quando diventò un mensile. Cessò le pubblicazioni nel dicembre 1947, dopo poco più di due anni di vita.
Perché, nonostante un buon successo nella diffusione, non scontato per un giornale prettamente culturale, giunse al termine così presto? È ciò che vogliamo indagare in questo “dossier”, nel quale cercheremo di pubblicare i testi significativi di un dibattito che ebbe come vittima, forse predestinata, proprio la rivista.
Citiamo dalla Scheda bibliografica che l’editore Einaudi allega alla ristampa anastatica dell’intera serie della rivista diretta da Vittorini:
Con la sua testata, «Il Politecnico» si richiamava esplicitamente al periodico di «studi applicati alla cultura e alla prosperità sociale» che Carlo Cattaneo aveva creato nel 1839: si rifaceva dunque a un’idea di progresso civile e culturale che chiamava a raccolta le più varie discipline, cercando di saldare la secolare frattura fra sapere umanistico e sapere scientifico, avendo a modello un’immagine globale, non frammentata, dell’uomo. Quello che «Il Politecnico» annunciava, nella sua veste empirica e sperimentale, era un progetto di nuovo umanesimo.
Il clima in cui la rivista nasceva era di un fervore pari alle speranze. Si trattava, per Vittorini e i suoi amici, di uscire dal tunnel del fascismo e della guerra per ricuperare il tempo perduto, e reinserire la cultura italiana in quel contesto europeo e mondiale da cui era stata esclusa. Con un entusiasmo pionieristico, con una fede quasi religiosa nel potere rigenerante di una cultura nuova, i redattori del «Politecnico» si diedero a proporre quei «materiali» che potessero rispondere a esigenze di rinnovamento largamente diffuse.
I criteri che ispirarono le loro scelte furono interdisciplinari, enciclopedici, pedagogici; l’obiettivo, quello di creare una dialettica fra esigenze inizialmente distanti, come politica e cultura, scienza e letteratura, marxismo e cristianesimo. L’intento divulgativo, di informazione offerta con spregiudicata immediatezza, non intendeva rinunciare alla problematicità delle aperture e del «taglio»: in questo atteggiamento si rifletteva buona parte dell’eclettismo, ma sarebbe meglio dire della «curiosità» di Vittorini, che si spingeva in ogni direzione.
Nel programma della rivista che Vittorini aveva proposto a discussione degli amici si potevano leggere argomenti di politica e di economia (il problema della ricostruzione in Italia e all’estero), questioni di storia contemporanea (la guerra civile in Spagna, lo stachanovismo in URSS, la resistenza jugoslava), di storia della cultura (l’idealismo italiano) e della scienza, proposte per un’analisi critico-storica del pensiero scientifico, problemi di teatro, arti figurative, architettura, cinema, musica. […]
Accanto ai temi storico-politici, o a certe sintesi informative […], godono di larga ospitalità i testi letterari, stranieri e non: Hemingway, Whitman, Saba, García Lorca, Blok, Éluard. Accanto a loro si segnalano i giovani narratori italiani: Calvino, Del Buono, Natalia Ginzburg. Parte integrante del discorso del «Politecnico» era la grafica che, dovuta ad Albe Steiner, mirava a proporre in modo nuovo e originale il rapporto fra testo e immagine. L’alternanza dei «rossi» e dei «neri», il richiamo a certe soluzioni delle avanguardie russe post-rivoluzionarie, l’uso di fotografie per raccontare delle storie, l’apertura ai fumetti, si basavano su una feconda intuizione delle possibilità di impiego offerte dai materiali figurativi. […]
Sin dall’editoriale del primo numero il giornale dimostrò la sua capacità di innescare il dibattito. Per Vittorini, di fronte al disastro della guerra appena conclusa, la sconfitta più grave l’aveva patita la cultura, tutta la cultura occidentale, dal pensiero greco a Cristo e al liberalismo ottocentesco, perché si era dimostrata incapace di fermare il fascismo e di tradurre in pratica la sua potenzialità liberatoria: «Essa ha predicato, ha insegnato, ha elaborato principi e valori, ha scoperto continenti e costruito macchine, ma non si è identificata con la società». Il tema «politica e cultura», che doveva restare il più caratteristico del «Politecnico» settimanale, provocò fra gli altri gli interventi di Carlo Bo, Cesare Luporini, Felice Balbo, Massimo Mila e Franco Fortini.
Con la trasformazione in mensile nell’aprile 1946, dovuta in buona parte a ragioni economiche, «Il Politecnico» divenne una rivista ancor più influente nel dibattito culturale della sinistra italiana. E questo in parte ne determinò la fine. L’allargamento delle collaborazioni, l’ampliamento della visione mondiale, il lancio in Italia di novità editoriali (tra cui alcune Lettere dal carcere di Antonio Gramsci), l’approccio sempre più eclettico ai vari aspetti dell’arte e della letteratura, l’approfondimento che una periodicità mensile e una maggiore foliazione permetteva, fecero sì che la linea editoriale del «Politecnico» suscitasse più di un’attenzione negli ambienti culturali vicini al Partito Comunista Italiano, cui Vittorini era iscritto. Inoltre, va ricordato che dalle sezioni del PCI, dalle case del popolo, dalle case della cultura patrocinate dal partito veniva una parte importante degli abbonamenti: quindi, si trattava di una rivista considerata “di area comunista”, ritenuta perfettamente in grado di orientare gusti e idee dei militanti e dei lettori più interessati al dibattito culturale e teorico e, dopo il Ventennio oscurantista, pronti ad accogliere proposte letterarie e artistiche provenienti da ogni parte del mondo.
Le polemiche e la fine
Già all’inizio del 1946 il filosofo Cesare Luporini, in un articolo intitolato Rigore della cultura pubblicato sulla fiorentina «Società», altra rivista “di area”, aveva criticato la scelta di Vittorini di presentare le tesi di Jean-Paul Sartre come una «nuova cultura» da cui partire per sostituire la vecchia, fallimentare cultura europea. Luporini criticò come decadenti l’esistenzialismo e l’individualismo che emergevano dalle pagine di Sartre e, di conseguenza, del «Politecnico», ribadendo una sorta di continuità all’interno del filone culturale europeo, da cui ripartire per un effettivo rinnovamento, ritrovando in Marx – invece che in Nietzsche e in Kierkegaard – una critica efficace ed effettiva alla cultura borghese.
Poco più tardi, nel maggio 1946, arrivò il vero scontro, quello con esponenti ufficiali del PCI, che, pur restando su un piano culturale e teorico, aveva tutte le caratteristiche di una sconfessione politica, mostrando tra le parti un’incomprensione di fondo nel campo della politica culturale.
Un rimprovero di Mario Alicata dalle colonne di «Rinascita», rivista ufficiale del partito, innescò la battaglia colpo su colpo, con Vittorini a ribattere, Togliatti a rincarare, altri ad intervenire.
In parallelo, un discussione simile, ma direi a parti invertite, si svolgeva in Francia: Roger Garaudy, membro della direzione del PCF, che rivendicava agli artisti un regime di libero arbitrio, negando l’esigenza di imporre un’estetica comunista o di partito; lo richiamò alla disciplina di partito il poeta Louis Aragon, già surrealista ma ormai aderente al realismo socialista, che attaccò l’eclettismo e l’abbandono da parte di molti artisti del punto di vista della lotta di classe.
Anche questa polemica d’Oltralpe non mancò di riversarsi sulle pagine delle riviste nostrane, con «Il Politecnico» che diede grande rilievo all’intervento di Garaudy senza prendere in considerazione la replica di Aragon e la successiva marcia indietro del primo; «Rinascita» non mancò anche in questa occasione di criticarne le scelte sottolineando l’unilateralismo della rivista di Vittorini sulle discussioni politico-culturali dei compagni francesi.
Fu così che nel dicembre 1947 «Il Politecnico» cessò di esistere. E fu così che Elio Vittorini, dopo qualche tempo, non rinnovò la tessera del partito, provocando lo “sberleffo” del titolo di un articolo su «Rinascita» di Palmiro Togliatti, firmato con l’abituale pseudonimo di Roderigo di Castiglia: “Vittorini se n’è ghiuto, e soli ci ha lasciato!…”.
Ecco, questo sopra delineato è pressappoco il quadro d’insieme della storia di una rivista di area comunista che visse poco più di due anni. Forse con un altro approccio alle cose da parte di entrambe le parti in causa la strada che avrebbero potuto percorrere insieme sarebbe stata molto più lunga. O forse no. Le rigidità di stampo ždanoviano che pervadevano buona parte della dirigenza culturale del PCI, e soprattutto quella che veniva dall’esilio sovietico, non permettevano allora di andare a braccetto con chi si prendeva il lusso di deviare dai solchi della politica culturale che il partito tracciava.
Oggi però il compito che ci siamo dati non è di giudicare, ma di riproporre all’attenzione di chi vuole leggerli i testi di questa vera e propria guerra in campo di politica culturale (e in campo estetico, in fin dei conti) nell’area dei “compagni di strada” del Partito Comunista Italiano nell’immediato dopoguerra, periodo duro di per sé, in cui le contrapposizioni erano frontali (pensiamo a cosa fu la campagna elettorale del 1948) e non ci si permetteva il lusso della gentilezza.
Leandro Casini
Inserito il 03/03/2023.
Elio Vittorini.
Dossier Il Politecnico
L’editoriale del primo numero – 29 settembre 1945
Una nuova cultura
di Elio Vittorini
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Una nuova cultura
Non più una cultura che consoli nelle sofferenze ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini
Per un pezzo sarà difficile dire se qualcuno o qualcosa abbia vinto in questa guerra. Ma certo vi è tanto che ha perduto, e che si vede come abbia perduto. I morti, se li contiamo, sono più di bambini che di soldati; le macerie sono di città che avevano venticinque secoli di vita; di case e di biblioteche, di monumenti, di cattedrali, di tutte le forme per le quali è passato il progresso civile dell’uomo; e i campi su cui si è sparso più sangue si chiamano Mauthausen, Maidanek, Buchenwald, Dakau.
Di chi è la sconfitta più grave in tutto questo che è accaduto? Vi era bene qualcosa che, attraverso i secoli, ci aveva insegnato a considerare sacra l’esistenza dei bambini. Anche di ogni conquista civile dell’uomo ci aveva insegnato ch’era sacra; lo stesso del pane; lo stesso del lavoro. E se ora milioni di bambini sono stati uccisi, se tanto che era sacro è stato lo stesso colpito e distrutto, la sconfitta è anzitutto di questa «cosa» che c’insegnava la inviolabilità loro. Non è anzitutto di questa «cosa» che c’insegnava l’inviolabilità loro?
Questa «cosa», voglio subito dirlo, non è altro che la cultura; lei che è stata pensiero greco, ellenismo, romanesimo, cristianesimo latino, cristianesimo medioevale, umanesimo, riforma, illuminismo, liberalismo, ecc., e che oggi fa massa intorno ai nomi di Thomas Mann e Benedetto Croce, Benda, Huitzinga, Dewey, Maritain, Bernanos e Unamuno, Un Yutang e Santayana, Valéry, Gide e Berdiaev.
Non vi è delitto commesso dal fascismo che questa cultura non avesse insegnato ad esecrare già da tempo. E se il fascismo ha avuto modo di commettere tutti i delitti che questa cultura aveva insegnato ad esecrare già da tempo, non dobbiamo chiedere proprio a questa cultura come e perché il fascismo ha potuto commetterli?
Dubito che un paladino di questa cultura, alla quale anche noi apparteniamo, possa darci una risposta diversa da quella che possiamo darci noi stessi: e non riconoscere con noi che l’insegnamento di questa cultura non ha avuto che scarsa, forse nessuna, influenza civile sugli uomini.
Pure, ripetiamo, c’è Platone in questa cultura. E c’è Cristo. Dico: c’è Cristo. Non ha avuto che scarsa influenza Gesù Cristo? Tutt’altro. Egli molta ne ha avuta. Ma è stata influenza, la sua, e di tutta la cultura fino ad oggi, che ha generato mutamenti quasi solo nell’intelletto degli uomini, che ha generato e rigenerato dunque se stessa, e mai, o quasi mai, rigenerato, dentro alle possibilità di fare, anche l’uomo. Pensiero greco, pensiero latino, pensiero cristiano di ogni tempo, sembra non abbiano dato agli uomini che il modo di travestire e giustificare, o addirittura di render tecnica, la barbarie dei fatti loro. È qualità naturale della cultura di non poter influire sui fatti degli uomini?
lo lo nego. Se quasi mai (salvo in periodi isolati e oggi nell’U.R.S.S.) la cultura ha potuto influire sui fatti degli uomini dipende solo dal modo in cui la cultura si è manifestata. Essa ha predicato, ha insegnato, ha elaborato princìpi e valori, ha scoperto continenti e costruito macchine, ma non si è identificata con la società, non ha governato con la società, non ha condotto eserciti per la società. Da che cosa la cultura trae motivo per elaborare i suoi princìpi e i suoi valori? Dallo spettacolo di ciò che l’uomo soffre nella società. L’uomo ha sofferto nella società, l’uomo soffre. E che cosa fa la cultura per l’uomo che soffre? Cerca di consolarlo.
Per questo suo modo di consolatrice in cui si è manifestata fino ad oggi, la cultura non ha potuto impedire gli orrori del fascismo. Nessuna forza sociale era «sua» in Italia o in Germania per impedire l’avvento al potere del fascismo, né erano «suoi» i cannoni, gli aeroplani, i carri armati che avrebbero potuto impedire l’avventura d’Etiopia, l’intervento fascista in Spagna, l’«Anschluss» o il patto di Monaco. Ma di chi se non di lei stessa è la colpa che le forze sociali non siano forze della cultura, e i cannoni, gli aeroplani, i carri armati non siano «suoi»?
La società non è cultura perché la cultura non è società. E la cultura non è società perché ha in sé l’eterna rinuncia del «dare a Cesare» e perché i suoi princìpi sono soltanto consolatori, perché non sono tempestivamente rinnovatori ed efficacemente attuali, viventi con la società stessa come la società stessa vive. Potremo mai avere una cultura che sappia proteggere l’uomo dalle sofferenze invece di limitarsi a consolarlo? Una cultura che le impedisca, che le scongiuri, che aiuti a eliminare lo sfruttamento e la schiavitù, e a vincere il bisogno, questa è la cultura in cui occorre che si trasformi tutta la vecchia cultura.
La cultura italiana è stata particolarmente provata nelle sue illusioni. Non vi è forse nessuno in Italia che ignori che cosa significhi la mortificazione dell’impotenza o un astratto furore. Continueremo, ciò malgrado, a seguire la strada che ancora oggi ci indicano i Thomas Mann e i Benedetto Croce? lo mi rivolgo a tutti gli intellettuali italiani che hanno conosciuto il fascismo. Non ai marxisti soltanto, ma anche agli idealisti, anche ai cattolici, anche ai mistici. Vi sono ragioni dell’idealismo o del cattolicesimo che si oppongono alla trasformazione della cultura in una cultura capace di lottare contro la fame e le sofferenze?
Occuparsi del pane e del lavoro è ancora occuparsi dell’«anima». Mentre non volere occuparsi che dell’«anima» lasciando a «Cesare» di occuparsi come gli fa comodo del pane e del lavoro, è limitarsi ad avere una funzione intellettuale e dar modo a «Cesare» (o a Donegani, a Pirelli, a Valletta) di avere una funzione di dominio «sull’anima» dell’uomo. Può il tentativo di far sorgere una nuova cultura che sia di difesa e non più di consolazione dell’uomo, interessare gli idealisti e i cattolici, meno di quanto interessi noi?
Elio Vittorini
(Editoriale de «Il Politecnico», n. 1, 29 settembre 1945).
Inserito il 4/03/2023.
Dossier Il Politecnico
Da «Il Politecnico» – N. 16, 12 gennaio 1946
Una nuova cultura come “Cultura sintetica”
di Jean-Paul Sartre
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Una nuova cultura come “Cultura sintetica”
È comparsa, a Parigi, una nuova rivista diretta dal pensatore e scrittore Jean Paul Sartre, del quale i lettori del «Politecnico» conoscono già un frammento narrativo, pubblicato nel n. 4. La rivista si intitola «I Tempi Moderni» ed è preceduta, nel suo primo numero, da una presentazione, nella quale Sartre analizza la crisi della cultura moderna, l’attitudine dello scrittore di fronte alla società borghese e suggerisce una direzione costruttiva ch’egli deriva da una concezione filosofica – l’esistenzialismo – della quale parliamo in altra parte di questo numero.
Vi sono in queste parole di Sartre delle risposte molto prossime a quelle che noi stessi potremmo dare. In questo senso, e pur senza aderire a tutte le affermazioni di Sartre, il rapporto fra noi e quei giovani francesi, per la somiglianza dell’impegno, non può essere che di collaborazione. Lo conferma praticamente anche il fatto che, mentre quest’articolo di Sartre esce in Italia, l’articolo di Vittorini su Una nuova cultura, pubblicato nel primo numero del «Politecnico», esce in Francia.
Tutti gli scrittori di origine borghese hanno conosciuto la tentazione dell’irresponsabilità; da un secolo essa è tradizionale nella carriera letteraria. Raramente l’autore stabilisce un legame tra le opere sue e la loro rimunerazione in moneta. Da una parte egli scrive, canta, sospira, dall’altra gli viene dato del denaro. Ecco due fatti senza rapporto apparente fra di loro; il meglio che si possa fare è dire che lo han pensionato perché sospiri. Cosicché lo si considera piuttosto come il titolare di una borsa di studio che come un lavoratore il quale riceva il salario della sua fatica.
Il letterato, quando per gli altri è l’ora della battaglia, scrive; un giorno ne è fiero, si sente sacerdote e custode di valori ideali; il giorno dopo ne ha vergogna, e scopre che la letteratura somiglia molto a un tipo speciale di falsità…
Ma noi non dobbiamo aver vergogna di scrivere, e non abbiamo voglia di parlare per non dir nulla. Anche se lo volessimo, del resto, non potremmo arrivarci; nessuno può arrivarci. Ogni scrittura possiede un senso, anche se questo senso è molto lontano da quello che l’autore aveva pensato di mettervi. Per noi, effettivamente, lo scrittore non è né una vestale né uno spirito aereo; qualunque cosa faccia, è segnato, è compromesso fin nel suo ritiro più nascosto. Se in epoca determinata egli impieghi la sua arte a fabbricare gingilli di vanità sonora, anche questo è un segno; vuol dire che c’è una crisi della letteratura e, senza dubbio, della società; oppure vuol dire che le classi dirigenti l’hanno indirizzato, senza che egli lo sospetti, verso una attività di lusso, per paura che egli vada ad unirsi alle schiere rivoluzionarie…
Lo scrittore non ha nessun mezzo di evadere dalla sua epoca, noi vogliamo perciò che egli l’abbracci strettamente; perché essa è la sua unica possibilità: essa è fatta per lui, ed egli è fatto per essa. Ci spiace l’indifferenza di Balzac di fronte alle giornate del ’48, l’incomprensione spaventata di Flaubert di fronte alla Comune; ci spiace per loro; c’era qualcosa che essi hanno mancato per sempre. Noi non vogliamo mancare nulla del nostro tempo; forse ve ne sono di più belli, di tempi: ma questo è il nostro; non abbiamo da vivere che questa vita in mezzo a questa guerra, forse, a questa rivoluzione… Anche se noi fossimo muti e queti come sassi, la nostra stessa passività sarebbe un’azione… Ogni parola ha delle risonanze.
La classe borghese ci sembra possa definirsi intellettualmente per l’uso che essa fa dello spirito d’analisi, il cui postulato iniziale si è che ogni composto debba necessariamente ridursi ad un’unione di elementi semplici. Fra le sue mani questo postulato fu una volta l’arma offensiva che le servì a smantellare i bastioni del Regime feudale. Tutto fu analizzato; si ridusse con uno stesso moto del pensiero l’aria e l’acqua ai loro elementi (inizio della chimica moderna), lo spirito alla somma delle impressioni che lo compongono (sensismo; Condillac), la società alla somma degli individui che la formano (Rousseau). I composti si disfecero: essi non erano che somme astratte dovute a combinazioni casuali. La realtà si rifugiò negli ultimi termini della decomposizione. Questi, in effetti – e questo è il secondo postulato dell’analisi – conservano inalterabilmente le loro proprietà essenziali, sia che entrino in un composto, sia che esistano allo stato libero. Vi fu quindi una natura immutabile dell’ossigeno, dell’idrogeno e dell’azoto, e delle impressioni elementari che compongono il nostro spirito; vi fu una natura immutabile dell’uomo. L’uomo era l’uomo come il cerchio era il cerchio: una volta per tutte; l’individuo, elevato al trono o sprofondato nella miseria, rimaneva essenzialmente identico a se stesso, perché era concepito sul modello dell’atomo d’ossigeno che può combinarsi con l’idrogeno per fare dell’acqua e con l’azoto per fare dell’aria senza che ne sia mutata la sua struttura interna. Questi principi hanno presieduto alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Nella società che concepisce lo spirito di analisi, l’individuo, particella solida e indecomponibile, veicolo della natura umana, sta come un pisello in una scatola di piselli; è sferico, chiuso su se stesso, incomunicabile. Tutti gli uomini, fu detto, sono uguali: cioè partecipano tutti egualmente all’essenza dell’uomo. Tutti gli uomini sono fratelli: cioè la fraternità fa da legame passivo tra molecole distinte, e prende il posto di una solidarietà di azione di classe che lo spirito d’analisi non può neppure concepire. È una relazione affatto esterna e puramente sentimentale, che maschera la semplice giustapposizione degli individui nella società analitica. Tutti gli uomini sono liberi: liberi di essere uomini, naturalmente. Vale a dire l’azione politica dovrebbe essere del tutto negativa: essa non deve fare la natura umana; basta che scarti gli ostacoli che potrebbero impedirle di svilupparsi. Così, desiderosa di rovinare il diritto divino, il diritto di nascita e di sangue e il diritto di primogenitura, tutti questi diritti che si fondavano sull’idea che vi fossero differenze di natura fra gli uomini, la borghesia ha confuso la sua causa con quella dell’analisi e ha costruito a suo uso il mito dell’universale. All’inverso dei rivoluzionari contemporanei, essa non ha potuto realizzare le sue rivendicazioni se non abdicando alla sua coscienza di classe. I membri del Terzo Stato dell’Assemblea Costituente in tanto erano borghesi in quanto si consideravano semplicemente uomini…
La leggenda dell’irresponsabilità del poeta, che noi più sopra denunciavamo, trae la sua origine dallo spirito di analisi. Gli autori borghesi considerano se stessi come piselli in una scatola, perciò la solidarietà che li unisce agli altri uomini sembra loro strettamente meccanica, vale a dire di semplice giustapposizione. Anche se essi hanno un elevato senso della loro missione letteraria, pensano d’aver fatto abbastanza quando hanno descritto la loro propria natura o quella dei loro amici: poiché tutti gli uomini sono fatti nello stesso modo, essi avranno reso servizio a tutti, illuminando ciascuno su se stesso. E siccome il postulato da cui partono è quello dell’analisi, pare loro ovvio utilizzare, per conoscersi, il metodo analitico… Così l’atomismo sociale, posizione di ripiego della borghesia contemporanea, porta con sé l’atomismo psicologico.
Ma noi siamo persuasi che lo spirito di analisi ha finito di vivere e che il suo unico ufficio è oggi di turbare la coscienza rivoluzionaria e di isolare gli uomini in profitto delle classi privilegiate… Noi neghiamo che l’origine, la classe, l’ambiente e la nazione siano semplicemente concomitanti con la vita sentimentale dell’individuo. Noi, al contrario, riteniamo che ogni sentimento, come ogni altra forma della sua vita psichica manifesta la sua situazione sociale. Un operaio che riscuote un salario, che non possiede gli strumenti del suo mestiere, che si trova isolato di fronte alla materia per via del proprio lavoro, e che si difende contro l’oppressione prendendo coscienza della propria classe, non saprebbe in alcuna circostanza sentire come un borghese di spirito analitico. Così noi ricorriamo, contro lo spirito d’analisi, a una concezione sintetica della realtà, il cui principio si è che un tutto, qualunque esso sia, differisce, come natura, dalla somma delle sue parti. Per noi quello che gli uomini hanno in comune non è una natura, è una condizione metafisica; e con ciò noi intendiamo l’insieme degli obblighi che limitano gli uomini a priori, la necessità di nascere e di morire, quella di essere finiti e di esistere nel mondo in mezzo ad altri uomini…
Lo scopo finale che ci fissiamo è una liberazione. Poiché l’uomo è una totalità, non è sufficiente, in realtà, accordargli il diritto di voto senza toccare gli altri fattori che lo costituiscono; bisogna che egli si liberi totalmente, vale a dire che si faccia altro, agendo tanto sulla sua costituzione biologica quanto sul suo condizionamento economico, tanto sui suoi complessi sessuali quanto sui dati politici della sua situazione.
Tuttavia questo punto di vista sintetico presenta gravi pericoli. Se l’individuo è una selezione arbitraria operata dallo spirito d’analisi, non si rischia di sostituire, rinunciando alle concezioni analitiche, il regno della coscienza collettiva al regno della persona? L’uomo-totalità, appena intravisto, ecco che sta per scomparire ingiottito dalla classe; allora esisterebbe solo la classe, ed essa sola bisognerebbe liberare. Ma, si dirà, liberando la classe, non si liberano forse gli uomini che essa contiene? Non necessariamente… la grande seduzione che il nazismo ha esercitato su certi spiriti di sinistra viene, senza dubbio, dal fatto che sso ha portato all’assoluto la concezione totalitaria. I suoi teorici denunciavano anch’essi le malefatte dell’analisi, il carattere astratto delle verità democratiche; anche la sua propaganda prometteva di forgiare un uomo nuovo, e conservava le parole di Liberazione, e di Rivoluzione: con questa differenza, che al proletariato di classe si sostituiva un proletariato di nazioni. Si riducevano gli individui a non essere altro che funzioni dipendenti dalla classe, le classi a non essere altro che funzioni della nazione, le nazioni a non essere altro che funzioni del continente europeo. Se nei paesi occupati la classe operaia intera si è levata contro l’invasore, ciò fu indubbiamente perché essa si sentiva ferita nelle sue aspirazioni rivoluzionarie, ma anche perché essa aveva una invincibile ripugnanza a lasciar disciogliere la persona nella collettività.
Così, la coscienza contemporanea sembra lacerata. Quelli che tengono sovra ogni altra cosa alla dignità della persona umana, alla sua libertà, ai suoi imperscrittibili diritti, inclinano per questo fatto stesso a pensare secondo lo spirito di analisi, che concepisce gli individui al di fuori delle loro reali condizioni di esistenza, li dota di una immutabile e astratta natura, e li isola, li accieca sulla loro solidarietà. Quelli invece che hanno fortemente compreso che l’uomo è radicato nella collettività e vogliono affermare l’importanza dei fattori economici, tecnici e storici, si rivolgono verso lo spirito di sintesi che, cieco per le persone, non ha occhi che per i gruppi…
Ma non possiamo rifiutarci di lasciarci lacerare fra queste due posizioni opposte. Noi non abbiamo difficoltà a concepire che un uomo, benché la sua situazione lo condizioni totalmente, possa non lasciarsi determinare. Questo settore di imprevedibilità è quello che noi chiamiamo libertà e la persona non è nient’altro che la sua libertà… Non si fa quello che si vuole e tuttavia si è responsabili di quello che si è: ecco il fatto; l’uomo che simultaneamente è spiegabile con tante cause, è, non di meno, il solo a portare il peso di se stesso. In questo senso la libertà potrebbe sembrare una maledizione. Ma è anche l’unica scaturigine della grandezza umana… Certo, un operaio non può vivere da borghese; è necessario nell’organizzazione sociale di oggi che egli subisca fino in fondo la sua condizione di salariato; nessuna evasione è possibile, non vi è contro ciò alcun ricorso. Ma un uomo non esiste al modo di un albero o di un ciottolo; bisogna che si faccia operaio. Totalmente condizionato dalla sua classe, dal suo salario, dalla natura del suo lavoro, condizionato fino nei suoi sentimenti, fino nei suoi pensieri, è lui tuttavia a decidere il senso della sua condizione e di quella dei suoi compagni, è lui che, liberamente, dà al proletariato un avvenire, di umiliazione senza tregua o di conquista e di vittoria, a seconda che egli si scelga rassegnato o rivoluzionario. Ed è di questa scelta che egli è responsabile. Non libero di non scegliere: è impegnato, bisogna scommettere; l’astensione è già una scelta. Ma libero di scegliere, d’un sol moto, il suo destino, il destino di tutti gli uomini e il valore che bisogna attribuire all’umanità. Così egli si elegge al tempo stesso operaio e uomo, pur conferendo un significato al proletariato. Tale è l’uomo che noi concepiamo: uomo totale. Totalmente impegnato e totalmente libero. E tuttavia è questo uomo libero che ci occorre liberare allargando le sue possibilità di scelta. In certe situazioni non vi è posto che per un’alternativa della quale l’un dei termini è la morte. Bisogna fare in modo che l’uomo possa, in ogni circostanza, scegliere la vita.
Jean-Paul Sartre
(Tratto da «Il Politecnico», n. 16, 12 gennaio 1946).
Inserito il 20/03/2023.
Dossier Il Politecnico
Da «Il Politecnico» – N. 17, 19 gennaio 1946
Chiusura di una polemica
Cultura come scelta necessaria
di Franco Fortini
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Cultura come scelta necessaria
Riassumendo
La giusta fine di una disputa si ha quando le parti hanno compreso i termini delle istanze avverse; è utile allora una pausa di silenzio, dove il dialogo si continui in monologo. Questo, probabilmente, è il momento della polemica sulla cultura che iniziò Vittorini sul primo numero del «Politecnico» e che è stata dibattuta da molti nomi delle lettere e del giornalismo (Bo, Titta Rosa, Anceschi, Vigorelli, Amanuelli, Usellini, Paladini, Balbo, ecc.) in numerosi periodici. Vittorini aveva affermato l’esigenza di una cultura non solo consolatrice, ma socialmente attiva («occuparsi del pane e del lavoro è ancora occuparsi dell’anima»). La novità di quell’afermazione era nella sua violenza: per passione, Vittorini chiamava eterna debolezza della passata cultura quella che è solo delle civiltà o dei corpi sociali e delle classi in decadenza. Quella violenza scandalizzò molti professori, ossia quel tanto di professore che è in ciascuno di noi, e che prese a soffiare e a ringhiare. Manca, in generale, ai contendenti, una comune idea di cultura; e la discussione si è disciolta in questioni di dettaglio. Da una parte gli idealisti o i semi-idealisti rifiutarono ogni mediazione fra vita e cultura, fra politica e arte, difendendo – contro quella che essi chiamano la barbarie di sinistra – la libertà dello spirito, a quel modo medesimo col quale Croce persuase d’averla difesa dalla barbarie fascista. (E, fra costoro, ve ne sono anche di militanti in partiti di estrema, i quali, predicanti le coazioni dell’economico nel comizio o nel sindacato, si credono liberi di culturale libertà metafisica davanti a una pagina da leggere o da scrivere). D’altra parte, i cattolici: che han denunciato, nel discorso di Vittorini, l’dentificazione, per loro parziale ed erronea, dello spirito con l’anima, la riduzione di Cristo a elemento di storia, e l’eresia di un regno terreno e definitivo del bene: «Anche noi siamo per una cultura interessata; ma sappiamo che non può essere definitiva» (Bo).
Particolari
Vigorelli replica, su «Costume». Colto nell’ineleganza del sogghigno, compone ora il volto a decorosa discrezione e nobile mestizia. Quando Vittorini aveva scritto – con un di più di gesto, che anche a me era spiaciuto – quella sua frase sui caduti, aveva davvero voluto dire la medesima cosa che vigorelli dice solo ora: cioè che i morti non chiedono se non di dare noi, alla nostra vita, la compiutezza mancata alla loro. In quei caduti non erano compresi solo gli amici morti; non da questi soltanto, non soltanto da una certo assurda codificazione postuma delle loro volontà, viene a Vittorini e a noi il coraggio di ripeterci «che i caduti ci dettano». Sono invece proprio i milioni di morti, e proprio anche quelli caduti per l’«errore». Anche noi ci siamo chiesti il nome di quell’anonimo volontario di spagna che agonizza nella nostra fotografia.
Ma come chiedere al Vigorelli di riconoscerci il diritto al pensiero? Per quelli come lui la buona volontà è marxismo, e il marxismo è candore, è semplificazione e formula mitologica; il suo virtuismo abbisogna, per dispiegarsi, di un gentile invilimento dell’avversario. E i suoi discorsi hanno il lucido delle parole più belle delle più belle anime di quella cultura grande e «borghese» in cui siamo vissuti, della quale noi vogliamo portare in salvo alle generazioni avvenire la parte tuttavia vitale, come non potrebbero i Vigorelli con la sufficienza di una livrea letteraria che conosce secoli di mance, di inchini e di bastonate. Noi, figli, e perciò anche nemici dell’immagine paterna in noi.
Rispondergli è rispondere dunque a tutti quelli che chiameremo gli idealisti. Thomas Mann si chiede: «Da questa festa della morte si leverà un giorno l’amore?». Vigorelli dice che Marx ha tolto, a questa frase, il suo interrogativo. Dice che vuol lasciarglielo, per onestà. Per rispettar la parte di Dio. Cioè, secondo lui, Marx si identificherebbe col materialismo ancora metafisico, col determinismo assoluto dei più stanchi teorici marxisti o di quelli la cui pratica azione smentì le semplificazioni teoriche. Vecchio giuoco. Accusa tanto storicamente quanto psicologicamente falsa, scaduta a formula di propaganda. È proprio perché la realtà ci si presenta come problematica e proprio perché sappiamo che il nostro intervento può essere decisivo – ed è decisivo – che noi parliamo di nuova cultura, a quel modo legittimo – se pur diversamente – da quello che vollero i cristiani quando dissero come quello che importava fosse diventare un uomo nuovo. «L’uomo non è mai l’uomo nuovo», dice Vigorelli. Già: perché l’uomo è eguale a se stesso solo nella storia sacra. E di storia sacra noi preferiamo parlare con Bo.
Ma il dialogo di Vigorelli e di Bo è, nel migliore dei significati, un dialogo privato. La cultura consolatrice del primo è, per il secondo, cultura che addormenta. Quando Vittorini ha detto che la via più breve non è quella che va dentro di noi, ma quella che combattendo i tiranni pubblici combatte anche i draghi intimi, obbediva forse ad un estremo pudore, quello di non nominare Dio invano, in questo mondo che ha fatto scempio di quanto in quel nome era stato costruito. Restano i contrasti, aperti, per le vie, fra chiese e partiti, fra opposti dogmi che paiono consentire alibi di facili salvezze ai cattolici e di scientifiche evasioni ai non cattolici. Resta la lotta, quaggiù, che non può sospendersi per una aereata conversazione, tanto essa gronda di viltà, di sopraffazioni e di sangue. Ma se Bo sa, come sa, queste cose, perché non ci è «compagno di strada»? Lo spaventa tanto l’incarnazione della verità, questa nostra eresia di imperfetti, di gente che, finalmente, non ne può più e si stufa? La sua vegli è anche la nostra, se pur la nostra non è tutta la sua.
Conclusioni
Nel parla di cultura si è visto quasi soltanto il suo aspetto di riflessione critica e di vita intellettuale, secondo vuole l’idealismo; impallidito è il significato più antico di educazione, di qualità morale sottintesa alle qualità intellettuali; scomparsa, la diffamata parola «civiltà». Eppure la questione è proprio questa: è inutile ed impossibile parlar di cultura nuova finché con ciò intendiamo il corpo tradizionale delle «scienze morali e storiche». Per noi, cultura è sinonimo di civiltà, la disputa guadagna ad allargarsi, e civiltà è, per noi, l’insieme dei modi nei quali, in un tempo e in un luogo, gli uomini producono. Anche a non voler parlare di sovrastrutture, bisogna esser ciechi per non veder un rapporto, o un divorzio, tra i modi nei quali si organizza l’attuale industria americana e quelli nei quali dipinge il pittore o scrive il poeta. La rivoluzione industriale disarmò accuratamente i filosofi ispiratori di illuminati sovrani, privò il pensiero (come scrisse De Rougement) delle sue mani, asservì i presbiti intellettuali lasciandoli liberi di amare o di suicidarsi nei loro orti, e scatenò la miopia dei tecnici nelle fabbriche della barbarie. Così oggi, l’artista e l’uomo di lettere ignorano il proprio pubblico. Qualsiasi nozione umana è scomparsa; e queste parole che Huitzinga poteva dirci con l’accorato moralismo del predicatore, sono oggi – oggi, dopo quel che è successo – una vergogna così profonda, che all’umanità stravolta come noi siamo non possiamo accostare redenzioni; ma solo annunciare crisi, cioè giudizi. Credano gli imbecilli che la cultura di cui noi parliamo sia una cultura senza dubbi e senza interrogativi, candida e ottimistica! Lo credano coloro i quali amano imbarazzarsi di problemi-alibi, e dire ai propri vicini di non avere altro amore che il cielo, secondo il profondo verso di Baudelaire. Noi possiamo, certo, sbagliare; ma la nausea di un mondo nel quale è impossibile esser puri e la pena per l’improntitudine o l’imbecillità dei tanti che la pensano come te, e di quella parte di te che la pensa come il volgo non è mai tanto forte da farci dimenticare quanto grande sia la differenza fra le squisite solitudini bugiarde in cui fummo allevati, e i deserti dove crebbero, per gli uomini, Gesù o Zaratustra. Il nostro non è che un invito a tutti a sentire che l’onore dell’uomo è nel riconoscimento e nella assunzione delle proprie catene, secondo una formula che prima d’essere esistenzialista è marxista. Diciamo a quelli che voglion salvare non si sa quale astratta libertà dell’artista o del pensatore dai Lèviatan politici, od economici, che dalle capitali in fiamme si salvano solo gli dèi Penati, gli idoli; il vero Dio le ha abbandonate da tempo quelle città; e ci aspetta alle svolte della campagna.
Potenza della cultura non vuol dire né la poesia ai congressi (benché sia, anche, quello) né la lotta contro l’analfabetismo (benché sia, anche, quello): vuole dire che i mezzi di fare dell’uomo una persona invece che uno schiavo o un tiranno siano nelle mani e nel cervello di coloro che non sono né schiavi né tiranni, ma persone; vuol dire dare a questi gli strumenti per riconoscersi e a tutti gli strumenti per riconoscerli.
Franco Fortini
(Tratto da «Il Politecnico», n. 17, 19 gennaio 1946).
Inserito il 29/03/2023.
Dossier Il Politecnico
Da «Il Politecnico» – N. 30, giugno 1946
Dove si parla di noi, di cultura e di un amico di «Società»
di Giansiro Ferrata
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Per introdurre un quadro della polemica tra le riviste «Società», attraverso la penna di Cesare Luporini, e «Il Politecnico», riviste entrambe di orientamento marxista e di area PCI, riprendiamo un passo tratto dal capitolo Ricostruire e rinnovare: marxismo e storiografia nel secondo dopoguerra della Tesi di perfezionamento alla Scuola Normale Superiore di Pisa di Sebastiano Taccola Categorie marxiste e storiografia del mondo antico. “Critica” e “storia” in un dibattito italiano degli anni Settanta (https://ricerca.sns.it/bitstream/11384/94222/1/TACCOLA_Tesidefinitiva.pdf).
Laddove «Il Politecnico» richiamava all’impegno per una nuova cultura provando a segnare una cesura netta con il fascismo e guardando agli aspetti apparentemente piu progressivi dei nuovi approcci filosofici, «Società» […] rivendicava la necessità dell’analisi paziente, del lavoro filologico, della diagnosi storica. I termini di questo contrasto polemico tra le due riviste si erano fatti particolarmente aspri dopo la pubblicazione sulla rivista di Vittorini dell’articolo di Jean-Paul Sartre Una nuova cultura come “cultura sintetica” e l’immediata risposta di Luporini su «Società» con un contributo intitolato Il rigore della cultura. Qui Luporini, pur valutando come positiva l’apertura del «Politecnico» a un dialogo sulla cultura, accusava esplicitamente Vittorini e i suoi di abbracciare posizioni astratte e intellettualistiche, moralistiche e velleitarie, sostanzialmente personali, retoriche e non scientifiche. Secondo Luporini, invece, era necessario lavorare sul rapporto tra cultura e politica nella congiuntura specifica del tempo, così da definire la storicità della cultura e il suo intreccio con la storicità dell’uomo in quanto essere sociale. Era questa la rete concettuale adatta per condurre un esame critico della cultura del tempo; una cultura che non era così facilmente rinnovabile, come credeva Vittorini. Se quest’ultimo, infatti, aveva ragione nel riconoscere lo stato di crisi della cultura dominante, altrettanto vero era, agli occhi di Luporini, che da questa crisi non si sarebbe usciti con mosse facili e immediatamente sintetiche. La crisi della cultura dominante, scriveva Luporini, era un dato di fatto, ma per impedire che la nuova cultura sorgesse come una riarticolazione o ripresentificazione delle spoglie della vecchia era necessaria una riflessione critica molto approfondita in grado di mettere bene in evidenza la situazione di fatto (il “dentro dove”), caratterizzata tanto dalla crisi della cultura dominante, quanto dall’assenza di una nuova cultura. In questa prospettiva, l’apertura eclettica di Vittorini alle mode filosofiche più recenti come l’esistenzialismo era spiegabile proprio in ragione di una mancata analisi critica della genealogia storico-filosofica di cui l’esistenzialismo rappresentava l’esito ultimo:
«L’esistenzialismo e stata l’ultima filosofia dell’occidente borghese. Ma esso non è soltanto l’ultima filosofia, esso è il pieno sfaldamento, la frattura interna e l’urto dei suoi valori. L’esistenzialismo non sta all’inizio di un processo di squilibrio o di dissoluzione, ma piuttosto al suo esito (e di qui anche la sua particolare importanza e autenticità): all’esito di un processo che è cominciato col decomporsi della cultura positivistica» (C. Luporini, Il rigore della cultura, in «Società», II, 5, 1946, pp. 3-17, p. 13).
Riprendendo le posizioni gia espresse da Arturo Massolo in un breve articolo pubblicato su «Società» (Esistenzialismo e borghesismo, in «Società», I, 3, 1945, pp. 115-118), Luporini sosteneva con nettezza che l’esistenzialismo, malgrado le torsioni progressiste di un Sartre, rimaneva il punto estremo della crisi della cultura borghese della decadenza, di cui, tra le altre cose, riproduceva anche gli aspetti peggiori, come ad esempio l’individualismo, «le oscillazione e le esasperazioni della coscienza piccolo-borghese europea». Ricostruire il nuovo a partire dalle rovine ultime del vecchio era, in questa prospettiva, semplicemente un’illusione frutto di posizioni acritiche e prive di raziocinio. Su questo terreno si perdeva la possibilità reale della costruzione di un nesso virtuoso tra la teoria, «che presenta un volto analitico», e la prassi, «che presenta un volto sintetico». Era stato questo l’insegnamento che Luporini ritrovava in Marx, il quale, a differenza di un Kierkegaard o di un Nietzsche, aveva colto il punto centrale di una critica «effettivamente operante» della cultura borghese, di cui aveva riconosciuto l’origine materiale collocata sul piano della sua stessa costituzione reale, la società. Luporini, dunque, riproponeva l’attualità della critica marxiana e della sua analisi in grado di identificare «le leggi di sviluppo della odierna società
capitalistica» al di là di ogni teleologismo e battendo strade alternative alle posizioni moralistiche e velleitarie caratterizzanti i contorni tragici (esteticamente affascinanti, ma politicamente innocui) della cultura decadente borghese.
L’orizzonte di senso della “cultura analitica” di cui furono promotori gli intellettuali di «Società» era dunque scandito dallo studio delle tendenze storiche operanti nel presente; un lavoro da condurre superando l’antica contrapposizione (cosi forte tanto nell’idealismo quanto nel positivismo) tra interpretazione filosofica e attenzione filologica ai testi. E se, in questo senso, Hegel e Marx rappresentavano i pensatori che più di altri erano stati in grado di individuare le categorie teoriche per riflettere criticamente sulla storicità del nesso storia-società, non c’è alcun dubbio, d’altro canto, che il campo privilegiato dell’esperienza di «Società» non era la filosofia, ma la storiografia.
Nel Fondo “Cesare Luporini” presente presso il Centro Archivistico della Scuola Normale Superiore di Pisa [CASNS] si può leggere un documento (inedito) intitolato Vittorini e «Il Politecnico» risalente (molto probabilmente) al 1976. Sembra trattarsi di una sorta di trascrizione di una tavola rotonda, cui parteciparono, tra gli altri, anche Franco Fortini e lo stesso Vittorini. Nel suo breve intervento, Luporini tendeva a mettere in evidenza che le ragioni di fondo delle critiche mosse da «Società» a «Il Politecnico» erano molto diverse rispetto a quelle che maturarono nello scontro tra Togliatti e Vittorini. È utile riportare qui il discorso di Luporini nella sua interezza; un discorso, che ci permette di comprendere la complessità di quella congiuntura e il grado di autonomia con cui gli intellettuali raccolti attorno a «Società» tentavano di muoversi al suo interno:
«Io vorrei cercare di guardare il fondo della questione e si è parlato di «Politecnico», di empirismo e eclettismo. È vero, ma io penso che non sia stata una debolezza, anzi che qui sia stato un punto di forza di «Politecnico» da cui veniva la sua vivacità e anche la sua capacità di impatto in quel momento nella situazione della cultura e della società italiana; credo che la debolezza sia stata altrove, che sia stata una debolezza fondamentalmente teorica e c’è nella contrapposizione che in qualche modo era una contrapposizione retorica tra la vecchia cultura intesa come tutto l’insieme della cultura del passato presa massicciamente in certo modo fuori dalla storia colpevolizzata perché… per essere secondo Vittorini una cultura soltanto consolatrice in mano dell’umanità, e invece questa presunta nuova cultura da costruire che avrebbe dovuto appunto salvare l’umanità dai suoi mali, dalle sue sofferenze, dai suoi dolori, e che quindi poneva una questione di potere, e penso che in questo modo veniva falsata la questione stessa del rapporto politica-cultura. E credo che Vittorini così si costruì con le sue mani, da se medesimo si costruì una trappola e certo io penso che nella polemica di Alicata e di Togliatti – ispirata fondamentalmente da Togliatti – con «Politecnico», con la corrente Politecnico come la chiamò Alicata, fondamentalmente Togliatti rifiutò, anche se era molto facile fare la lezione a Vittorini; avesse torto perché nel fondo in Togliatti c’era un continuazionismo che vedeva come il punto principale di riferimento della cultura italiana ancora il pensiero di Benedetto Croce, nel fondo c’era questo. Io mi sono trovato coinvolto in questa… in questo dibattito, anzi ero partito prima, diciamo, perché avevo aperto la polemica con Vittorini dalle colonne di «Società» (ho qui un vecchio estratto che ho ritrovato e ho riletto adesso dopo trent’anni); ma noi del gruppo di «Società» partivamo da una posizione completamente diversa, in certo modo opposta da quella di Alicata e Togliatti, perché anche noi eravamo per un continuazionismo e quindi questa strada della nuova cultura poco ci piaceva, però era il continuazionismo con il lavorio che si era cominciato a fare modestamente, ma da tanto tardi, negli ultimi anni del fascismo, in certo modo nell’ultimo decennio del fascismo e in cui noi sentivamo già una rottura con la cultura non solo fascista ma anche prefascista, e di qui noi pensavamo che dovevamo andare avanti e anzi cercare il punto di saldatura con quelli venuti di fuori, cioè con i dirigenti politici che venivano dalla emigrazione, dal fuoriuscitismo, e questo punto non fu compreso e su questo punto… e per questo io penso che sia pagato un prezzo assai grave anche con ripercussioni venute adesso. In sostanza credo che ci furono errori da una parte e dall’altra; in Vittorini errori di ingenuità o anche di insufficienza in preparazioni, ma da parte di Togliatti fu, penso, un errore politico le cui conseguenze si sono prolungate nel tempo. Oggi possiamo guardare queste cose con molta serenità, però richiedono ancora di essere analizzate con precisione nel contesto storico in cui avvennero e in cui si svolsero» (CASNS, Fondo “Cesare Luporini”, faldone “CL_II”, busta Vittorini e «Il Politecnico», datt., pp. 38-40).
Passiamo ora alla risposta del «Politecnico» affidata alla penna di Giansiro Ferrata.
Dove si parla di noi, di cultura e di un amico di «Società»
È difficile rispondere obiettivamente a un discorso polemico. Come rimedio alle eventuali ingiustizie diciamo subito che l’articolo di Cesare Luporini nell’ultimo numero di «Società», Rigore della cultura, ci è parso intelligente, sincero e concreto anche se rivolto, in parte, contro un’immagine sfocata del «Politecnico». Sopra questa polemica Luporini porta ragioni che non vorremmo mai contraddire.
Il lettore scrupoloso cerchi «Società». Vedrà che Luporini parla ancora della «nuova cultura», e non ne gradisce il richiamo: la considera soprattutto una velleità romantica, un’illusione moralistica e un abbraccio di generosi malintesi. Contro questo pone l’opportunità di metodi altrettanto spontanei che rigorosi, ispirati alla realtà in cui ci troviamo.
Luporini vede l’errore di giudicare il cosiddetto spirito d’analisi come un fatto chiuso nel pensiero borghese. Sottolinea che Marx fu innanzitutto uno spirito analitico (portato, si può dire, a consumare le possibilità di negazione del proprio pensiero nell’atto d’affermare tale pensiero). Accenna a qualche aspetto della crisi della verità propria all’esistenzialismo, suggerisce di tener lontano ogni mito di natura «volontaria» sviluppando invece i propri elementi di coscienza e d’intelletto: provvederà lo svolgimento storico a costruirne il sistema più necessario e più libero.
È una posizione, questa di Luporini, che ha somiglianze con quella di scrittori e scienziati francesi che collaborano alla «Pensée», e dei quali il «Politecnico» si è occupato con simpatia. In quegli scrittori – da Langevin a Wollon a Prenant eccetera – un metodo razionalistico che ha movimenti addirittura illuministici tende a una storicità comprensiva anche dell’irrazionale. In Luporini, italiano di un’epoca che sacrificò a sacrifica molto all’irrazionale, si spiega una direzione apparentemente opposta (dall’irrazionale al razionale) e in realtà convergente, con un risultato analogo: l’impegno alla ragione completa che è completa storicità.
Sia o no sufficiente questo cenno per determinare la posizione di Luporini, resta che non ci persuadono la maggior parte dei suoi rimproveri aperti o velati al «Politecnico». Siamo ingenui nel dirlo? È naturale che non ci persuadano, già che siamo in ballo? Non è detto. Molte volte si è avvertito nel «Politecnico» di considerare il proprio lavoro soprattutto come uno strumento di ricerca e d’educazione sperimentale, facilmente portato a errori. Ma non ci sembra che Luporini veda i nostri errori.
Quando, per esempio, egli crede di notare un’opposizione tra lo spirito d’analisi storica e quel motivo di «cultura sintetica» che avremmo caldeggiato «per bocca di Sartre», sbaglia doppiamente. Lo scritto di Sartre sulla «cultura sintetica», pubblicato nel n. 16 di «Politecnico», non si oppone affatto a uno spirito d’analisi storica. Esso si oppone a quello spirito d’analisi «borghese» – naturale alla grande curva del pensiero propriamente borghese – che tende a considerare gli individui come atomi da rispettare nella loro irreducibilità. C’è qualcosa di meno storico che un simile falso spirito d’analisi? Scriveva Sartre: «[secondo tale concezione] la fraternità fa da legame passivo tra molecole distinte, e prende il posto d’una solidarietà di azione di classe che lo spirito d’analisi non può concepire…». È evidente che Sartre si riferisce a uno spirito d’analisi particolare, che non somiglia affatto a quello posto da Luporini: è lo spirito d’una classe non più sollecitatrice di libertà intellettuale come quando lottava per il proprio sviluppo, d’una classe che fattasi dirigente vorrebbe chiudere in un criterio di casta il suo stesso principio dinamico, l’individualismo. Contro questa «analisi» sembra giusto di sostenere un «sintesi»: sarebbe un altro discorso vedere quali elementi d’analisi più viva le diano corpo in Sartre.
«Esistenzialista», Sartre per suo conto insiste su queste funzioni di scelta, di partecipazione volontaria e insomma di responsabilità morale che spettano all’individuo perché la storia non diventi un puro rapporto di quantità. Vorrà negargli ogni giustificazione un marxista che ha veduto fallire tanto marxismo meccanicistico e vede vivere molto bene il marxismo di Lenin, di Stalin, di Gramsci? I guai di Sartre sono altri: dipendono da quel suo linguaggio spesso vago e sbrigativo pur nei suoi giri teologici, che risponde a un’insufficienza critica. Ma perché Luporini non dovrebbe credere che il «Politecnico» alludeva a questo, limitando nella presentazione la sua solidarietà con Sartre? Il secondo grado del suo errore sta, per ora, nell’averci fatti parlare «per bocca di Sartre».
Non dovevamo pubblicare Sartre ma invece un sunto delle pagine di Massolo sull’esistenzialismo, uscite in «Società» n. 3? Luporini dice proprio questo. E in verità è difficile dargli ragione. Quelle quattro pagine di Massolo sono tra l’altro unilaterali, insufficienti, non dicono che l’esistenzialismo è anche diverso da una «difesa del singolo» (fin dalla grandezza di Kierkegaard e fino alle peggiori contaminazioni moderne), non dicono che esso mostra troppi elementi d’una coscienza di crisi per ridursi nel giro del pensiero «borghese». Infine, preferiremo sempre dare ai nostri lettori documenti diretti del nostro tempo che non ripetergli giudizi altrui di limitato se pur notevole interesse.
Così abbiamo qualche cosa da opporre a Luporini sull’aspetto generale del «Politecnico». Quella che pare a lui una specie di scommessa moralistico-sentimentale sull’avvenire, forse ha giustificazioni diverse. Luporini si appiglia ancora al primo scritto di Vittorini per una cultura di liberazione e di redenzione, dice che la cultura non può essere questo, sul piano di Vittorini che egli porta a una «innocente» somiglianza con Sartre. C’è ingegno ma anche confusione nella sua critica. Ciò che importa nello scritto di Vittorini ne resta fuori, non è veduta quella vivace (meglio che «innocente») immediatezza e perciò concretezza della ribellione alla cultura come autosufficienza; immediatezza non «esistenzialistica» ma naturalistica semmai, o razionalistica in funzione di una storia come natura. Ponendo anche Cristo nella cultura Vittorini non faceva altro che avvertire, in pratica, la partecipazione dell’esperienza cristiana alla realtà culturale della storia e segnalare come anch’essa fosse responsabile dei limiti tollerati dalla cultura verso l’azione. Si spiegò perfettamente Vittorini? Disse che il suo quadro non riguardava proprio il passato della cultura (dove essa ha dato tante prove d’azione) quanto un aggregato che è naturale alla nostra crisi, che agisce sulla nostra crisi? Anche noi o alcuni di noi possiamo pensare che Vittorini non si era perfettamente spiegato. Ed è stato detto nel «Politecnico». Ma il movimento offerto da quello scritto rimane. Non ha sottintesi di grande complessità, è una parola semplice che viene dall’esperienza d’uno scrittore risoluto a non sentirsi autosufficiente; e si distacca per esempio da Sartre subito per questo, che Sartre lascia l’impressione d’essere anche soddisfatto della sua situazione drammatica mentre nella voce di Vittorini rimane intatto il dolore, e l’invocazione è presenza di realtà nel dolore. Ogni scritto di Vittorini sull’argomento si rivolge davver al di là della trincea scavata intorno a sé da molta cultura di crisi; non è analisi del proprio atomo di verità culturale ma rapporto con ciò che merita e avrà aiuto dalla cultura. Di qui la simpatia suscitata da Vittorini fra gente assai «semplice» (nella quale ci illudiamo di poter venire compresi) e invece l’atteggiamento ironico di qualche persona di cultura. È innocenza questa? Siamo nel regno del candido principe Muichkine*? Sarebbe interessante. Ma in realtà è una prima prova di star affrontando cose di cui già viviamo. Forse è atteggiamento più concreto di quello che consiste nell’esaminarsi come il soggetto privilegiato di una profonda avversione al privilegio. È opportuno che obbedisca a sé stesso chi si sente soprattutto uomo tra uomini, chi nella propria verità naturale dà maggior importanza alla distruzione di Milano nell’agosto ’43 che all’incendio della biblioteca di Alessandria; pensino gli altri a trovarsi l’esempio che vogliono.
Quanto al «Politecnico», che non è solo Vittorini, esso vive e vuol vivere d’un analogo rapporto al di là della trincea. Al di là dello sviluppo sottile o qualche volta impalpabile da un’idolatria culturale a una nuova fecondità possibile. Il «Politecnico» conferma di guardare anche i lettori, insomma ad uomini diversi da quelli che frequentano con mente magistrale simili sviluppi. Non per questo crede di rivolgersi a lettori dell’avvenire. Né ricusa quei lavori d’analisi ai quali passando da settimanale a mensile ha detto e mostrato di voler dedicare un impegno migliore. Ma l’analisi non avrebbe senso per noi fuori da quel rapporto immediato con persone e cose che sono vita non analizzabile quanto, oggi, sensibile.
Giansiro Ferrata
(Tratto da «Il Politecnico», n. 30, giugno 1946).
Note
* Il principe Myškin, l’ingenuo protagonista de L’idiota di Fëdor Dostoevskij [ndr].
Inserito il 14/03/2023.
Dossier Il Politecnico
Da «Rinascita» – N. 5/6, maggio-giugno 1946
La corrente «Politecnico»
di Mario Alicata
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La corrente «Politecnico»
Credo che bisognerà tornare ancora, in modo più impegnativo che non consentano queste noterelle, su questo argomento. E perché la corrente «Politecnico» (intendo il complesso dell’attività giornalistica ed editoriale di Elio Vittorini e dei suoi amici) rappresenta l’unico tentativo organizzato di «novità» affiorato in Italia come riflesso culturale della lotta contro il fascismo condotta da taluni gruppi di intellettuali, e perché il nucleo d’attrazione del movimento è costituito da intellettuali comunisti o simpatizzanti col comunismo.
Ciò avrebbe dovuto significare, in prospettiva, due cose: in primo luogo, l’impegno di ristabilire un contatto «produttivo» fra la nostra cultura e gli interessi e i problemi concreti delle grandi masse popolari italiane, con il loro profondo desiderio di rinnovamento, con le loro esigenze storiche di libertà e di progresso economico, sociale, politico, in secondo luogo, la possibilità di creare un vasto movimento di interessi morali e pratici fra i ceti medi e intellettuali, per gettare anche da questa parte un ponte al di sopra della frattura che ha sempre separato questi ceti, nel loro complesso, dal movimento democratico delle masse lavoratrici, e li ha spesso respinti a rimorchio dei gruppi reazionari detentori dal potere economico e politico.
È riuscita, la corrente «Politecnico», in questi due obiettivi? Io, personalmente, ritengo di no; e, ritengo che non ci sia riuscita perché non ha saputo porre chiaramente, in prospettiva, questi due obiettivi di fronte a sé.
Bisognava lavorare ad una cultura «nuova»; e lavorare per una cultura «nuova», significa riuscire a creare e a diffondere un «linguaggio» nuovo, attribuendo al termine «linguaggio» (come è chiaro) non un valore puramente formale, ma di intima espressione, di «atteggiamento», di «gusto», di «mentalità».
Orbene, mi perdonino Vittorini e gli altri amici della corrente «Politecnico», il «linguaggio» col quale essi vogliono parlare agli altri uomini, ha sì una presunzione di maggiore «umanità», ma, in pratica, è risultato quanto mai «astratto» ed «esteriore»: intellettualistico, insomma.
Mi si chiederà che cosa intendo per intellettualismo. Ecco, per esempio, secondo me è intellettualismo giudicare «rivoluzionario» e «utile» uno scrittore come Hemingway, le cui doti non vanno al di là d’una sensibilità da «frammento», da «elzeviro», e «rivoluzionario» e «utile» un romanzo come Per chi suona la campana che rappresenta la riprova estrema dell’incapacità di Hemingway a comprendere e a giudicare (cioè, poi, a narrare) qualcosa che vada al di là d’un suo quadro di sensazioni elementari e immediate: egoistiche. Ed è, per esempio, intellettualismo giudicare «rivoluzionario», «utile», un vecchio e superficiale reportage giornalistico sulla rivoluzione di Ottobre qual è Dieci giorni che sconvolsero il mondo di Reed.
Insomma, Vittorini e i suoi amici sono partiti dal presupposto illuministico di dover «informare» il lettore italiano di tutto un complesso di «fenomeni» letterari o scientifici o storici, da cui vent’anni d’oppressione e d’oscurantismo avevano tagliato fuori la grande massa degli italiani; e hanno ritenuto che «informare» valesse automaticamente «educare», cercando – piuttosto che di favorire un processo cosciente di critica e di autocritica, – di smuovere e di entusiasmare la fantasia.
Per questa via, l’unico contributo poteva essere portato ad un arricchimento del gusto, svezzandolo da certe prospettive provinciali, dandogli un senso dell’arte, dell’espressione, più vivo e moderno. Ma a questo punto, si pone una domanda: in che misura è viva e moderna, cioè «nuova» e «utile», per noi, una letteratura che ha, fra gli altri come portabandiera, uno Hemingway? Ci può essere un’arte «umana», che non abbia come obiettivo una conquista di verità? E che bisogno abbiamo noi, oggi, d’un’arte che non sia «umana», cioè non aiuti gli uomini in una lotta conseguente per la giustizia e per la libertà?
Mario Alicata
(Tratto da «Rinascita», n. 5-6, maggio-giugno 1946).
Inserito il 5/03/2023.
Dossier Il Politecnico
Da «Il Politecnico» – N. 31-32, luglio-agosto 1946
Risposte ai lettori
Politica e cultura
di Elio Vittorini
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Questo intervento di Elio Vittorini nacque come risposta ai lettori del giornale, che avevano scritto al direttore per commentare l’intervento critico contro la rivista scritto da Mario Alicata un mese prima su «Rinascita», il settimanale del PCI.
Le considerazioni che Vittorini fa in questo intervento sono molto importanti, perché affrontano i nodi del problematico rapporto tra cultura e politica, che sarà poi al centro, qualche mese più tardi, dello scontro con Palmiro Togliatti, segretario del PCI (dal futuro scontro Vittorini capirà che Togliatti era stato il vero ispiratore delle critiche di Alicata).
In particolare per Vittorini la politica resta limitata entro i confini della cronaca, al contrario della cultura, che invece fa storia. Quindi la politica ha il diritto di subordinare a se stessa la cultura solo quando opera cambiamenti qualitativi all’interno della società, cioè solo nei momenti rivoluzionari.
Vittorini rivendica l’autonomia della cultura dalla politica tradizionalmente intesa, sostenendo che l’intellettuale si deve battere per obiettivi più generali e meno contingenti di quelli della politica di un partito, secondo le finalità esplicitate già nell’editoriale Una nuova cultura pubblicato sul primo numero del «Politecnico».
Infine, nel presentare questo intervento, ci si permetta una notazione che riguarda il presente sito, cioè il nostro «Spazio collettivo». Non crediamo sia sbagliato far nostre, nel nostro piccolo, le seguenti parole con cui Vittorini definisce il senso del suo «Politecnico»:
L’errore principale è di ritenere «Il Politecnico» comunista per il fatto di essere diretto da un comunista. […] Col nostro invito a rinnovare la cultura italiana noi non abbiamo espresso una esigenza di comunisti che fa politicamente comodo al Partito Comunista; ma abbiamo espresso un’esigenza storica della cultura italiana stessa che non importa se fa o non fa politicamente comodo a un partito o a un altro. Il nostro lavoro non può certo ignorare il marxismo, perché nessun lavoro culturale può ignorarlo. Ma è lavoro di marxisti e non marxisti insieme.
In queste parole c’è in buona parte anche il senso dell’attività culturale e politica del nostro piccolo sito.
Risposte ai lettori
Politica e cultura
Cari amici, vi rispondo a tutti insieme, perché tutti toccate lo stesso argomento, sebbene da punti di vista così diversi: qualcuno da amico del «Politecnico» e amico anche del P.C.I. o iscritto al P.C.I.; altri invece da semplici amici del «Politecnico» indifferenti verso il P.C.I. ; e altri infine da amici del «Politecnico» che, senza simpatia verso il P.C.I., vorrebbero dirmi in sostanza: «vedi? ce lo aspettavamo, ecc…». Ma tutti i nostri lettori sono interessati e la mia «risposta» va a tutti: compresi coloro che non sanno ancora nulla dell’accaduto. La questione è importante: riguarda i rapporti tra una linea politica e un atteggiamento culturale, tra azione politica e azione culturale; e implica la distinzione tra doveri politici e doveri culturali.
Che cosa è accaduto? Il mio amico e compagno Mario Alicata, scrittore che può considerarsi esponente ufficiale del Partito Comunista Italiano, ha scritto del nostro «Politecnico» sul numero 5/6 di «Rinascita», rivista che può pure considerarsi ufficiale del Partito Comunista Italiano, e ne ha scritto giudicandolo sfavorevolmente. Egli ha detto che cosa «Il Politecnico» «avrebbe dovuto essere» e trova che non lo è stato; ha detto quale funzione avrebbe dovuto svolgere e trova che non l’ha svolta. Invece di giudicarci, cioè, per quello che siamo ci ha giudicati per quello che non siamo, senza peraltro tener conto che nei sei mesi di vita del settimanale e nelle condizioni d’isolamento in cui il settimanale è vissuto, mai avremmo potuto svolgere un compito nel senso da lui presunto.
Il giudizio di Alicata è dunque erroneo… Ma ogni giudizio può essere erroneo come può essere giusto, e non vi è nulla di strano che Alicata abbia sbagliato. La cosa in sé non ha importanza. Dell’importanza acquista per il significato che le si vuole attribuire. Tutti voi che mi avete scritto lo dimostrate. E un settimanale romano, «La Fiera Letteraria», ha persino parlato di «sconfessione» del «Politecnico»… Sconfessione da parte di chi? E perché? Qui si incorre in una serie di errori. Si vede in Alicata il Partito Comunista stesso. Si vede in «Politecnico» un organo del Partito Comunista. Si esclude che un comunista (Alicata) possa avere su una certa questione un parere personale. Si esclude che un comunista (me stesso) possa svolgere un’attività culturale che non sia soggetta al controllo politico del suo partito. E così si presume che il Partito Comunista abbia inteso sconfessare, col giudizio di Alicata, «Il Politecnico».
L’errore principale, naturalmente, è di ritenere «Il Politecnico» comunista per il fatto di essere diretto da un comunista. Già varie volte noi abbiamo messo in guardia i nostri lettori contro questo errore. Col nostro invito a rinnovare la cultura italiana (nel quale è tutto il contenuto del «Politecnico») noi non abbiamo espresso una esigenza di comunisti che fa politicamente comodo al Partito Comunista; ma abbiamo espresso un’esigenza storica della cultura italiana stessa che non importa se fa o non fa politicamente comodo a un partito o a un altro. Il nostro lavoro non può certo ignorare il marxismo, perché nessun lavoro culturale può ignorarlo. Ma è lavoro di marxisti e non marxisti insieme, e il piano su cui si svolge non può, perciò, essere marxista, o può essere marxista solo nella misura e nel modo in cui il marxismo è positivo anche per i non marxisti, come accade che il Cristianesimo sia positivo anche per chi non crede in Cristo. O i marxisti dovrebbero uniformarsi alla linea di condotta dei preti cattolici che rifiutano tutto quanto può esservi di cristiano fuori dalla pratica del culto? Far passare «Il Politecnico» per una rivista di comunisti significa presentare la nostra esigenza culturale come un sottoprodotto dell’esigenza politica del P.C.I. e questo non serve che ai nostri avversari in quanto dà loro la possibilità di tenerci «politicamente» fuori dal campo della cultura italiana, o non serve che agli avversari del P.C.I. in quanto dà loro la possibilità di rendere il Partito Comunista Italiano responsabile di tutto quello che «Il Politecnico» può dire di diverso dal P.C.I. È al Partito Comunista Italiano che Mario Alicata fa il torto più grave giudicando «Il Politecnico» nel modo stesso in cui gli avversari del «Politecnico» e gli avversari del P.C.I., per ragioni distinte, amano giudicarlo.
Ma io qui non vi rispondo, amici comunisti e amici non comunisti del «Politecnico», solo per chiarire l’equivoco. La questione che voi ponete, scrivendomi, va molto al di là dell’equivoco e non basta che l’equivoco sia chiarito per considerarla risolta. Voi, i comunisti e filocomunisti, siete rimasti perplessi all’idea che il nostro partito possa sconfessare, per sua comodità politica, un movimento culturale. E voi, gli amici non comunisti del «Politecnico», vi rallegrate dell’idea che io abbia avuto finalmente la prova dell’impossibilità di essere «vivi», così mi dite, quando «si aderisce a un partito come il comunista». «Allora», vi chiedete, i primi, «non avremmo un “Politecnico” o altro del genere in regime comunista?». «Vedi?» esclamano i secondi, «se l’Italia diventasse comunista la cultura anche non ostile al regime sarebbe soggetta all’Agitprop, alla polizia, alla violenza…». E tanto i primi che i secondi sembrate aspettarvi da me un gesto di «indipendenza».
Ma non è questo che occorre. Da un pezzo io ho in mente di chiarire a me stesso, in un articolo, il significato del mio Partito, e il significato della sua tendenza ad essere un partito nuovo, il significato della mia necessità di militarvi, e via di seguito. Io so come oggi non esista nel mondo una serietà rivoluzionaria fuori dal mio Partito e da un pezzo ho in mente di scriverne per chiarirlo a me stesso. Ora voglio dire soltanto, agli amici comunisti e non comunisti del «Politecnico», che il mio Partito è tale da consentire la più ampia indipendenza in fatto di cultura. Non è per porre termine all’attività del «Politecnico» che il mio Partito ha ospitato, nella sua rivista «Rinascita», lo scritto di Alicata contro «Il Politecnico». Se così fosse io dovrei smettere di dirigere «II Politecnico» o essere espulso dal mio Partito. Poiché invece io continuo a dirigere «Il Politecnico» e non sono espulso dal mio Partito la pubblicazione dello scritto di Alicata è una conferma che in seno al mio Partito si possono avere opinioni culturali anche contrastanti: quelle di Alicata che io chiamo codine, e le mie che Alicata chiama intellettualistiche.
La libertà culturale è cosa implicita nelle attuali ragioni del mio Partito. Certo la politica è parte della cultura. E certo la cultura ha sempre un valore anche politico. L’una, certo, è cultura diventata azione. L’altra ha un valore anche politico nella misura in cui inclina a diventare azione. Ma l’una, la politica, agisce in genere sul piano della cronaca. La cultura, invece, non può non svolgersi all’infuori da ogni legge di tattica e di strategia, sul piano diretto della storia. Essa cerca la verità e la politica, se volesse dirigerla, non farebbe che tentare di chiuderla nella parte già trovata della verità. Soprattutto non vorrebbe lasciarla sbagliare, e l’errore è necessario pungolo alla cultura perché si rinnovi.
Pure, Lenin ha parlato altrimenti in proposito. Egli vedeva nelle arti, o nella filosofia, solo quanto di esse era di ausilio all’azione politica e cioè quanto in esse era azione, quanto in esse era politica. Ma Lenin parlava in un momento in cui l’azione politica era molto di più che azione politica, e anche se egli non intendeva parlare per il momento, il momento era in lui, anzi era lui stesso, in gran parte, che lo generava, e sarebbe fariseismo il leninismo che volesse applicare a tutti i momenti le raccomandazioni leniniste di quel momento. Infatti l’azione modificatrice della politica ha un suo corso ordinario in cui modifica solo quantitativamente, e momenti straordinari in cui modifica, invece, qualitativamente. È allora, è all’atto in cui modifica qualitativamente che essa (l’azione politica) ha il diritto sostenuto da Lenin di considerare come una forza ausiliaria il resto della cultura. Essa allora, in effetti, è sintesi di tutta la cultura, è molto di più che politica, è filosofia, è religione, è arte, e agisce qualitativamente appunto perché non è soltanto politica, ma è tutta la cultura, né altro si deve vedere nelle parole di Lenin che la pretesa di far riconoscere questa possibilità della politica d’essere, a un certo punto, tutta la cultura e azione di tutta la cultura. Ma quando la politica è sul piano ordinario della cronaca e produce modificazioni semplicemente quantitative, essa è di nuovo una parte, anche se applicatrice, anche se realizzatrice, non è un tutto, e non può pretendere di guidare, giudicare, controllare, frenare o limitare il resto della cultura. Allora, anzi, il resto della cultura assume il carattere, di fronte alla politica, di cultura in assoluto; e allora è questa cultura differenziata dalla politica che produce delle modificazioni qualitative o le prepara, le elabora; e allora i doveri culturali si differenziano dai doveri politici, Hemingway ha diritto di commettere errori su errori, John Reed ha il diritto di essere ripubblicato, «Il Politecnico» ha il diritto di indicare un fascismo nella Chiesa Cattolica. La grandezza dell’uomo politico in queste fasi di politica ordinaria, è di saper rinunciare alle sue possibilità straordinarie. È la grandezza che abbiamo avuto, per esempio, in Cavour. Saper non essere che un modificatore quantitativo, anche se ha tutte le qualità per essere un modificatore qualitativo. Saper non essere che politico anche se ha tutto per essere un Lenin, e cioè un uomo di cultura che porta la cultura al potere.
È quello che oggi vediamo in Togliatti. Egli è forse il migliore tra tutti i capi dei Partiti Comunisti europei perché meglio di tutti sa limitare la propria azione al quantitativo senza mettere ipoteche sul qualitativo e senza infliggere in nessun campo, e meno che mai nel campo della cultura, discipline da qualitativo o da pseudo qualitativo. Ma anche con un capo dalla mente aperta come Togliatti, un Partito Comunista (cioè rivoluzionario) resta un fatto serio, e resta un fatto molto serio militarvi, non facile certo per uomini di indole leggera. Perciò mi riesce doloroso che taluni di voi amici comunisti del «Politecnico» vi troviate così d’accordo con gli amici non comunisti del «Politecnico» nell’aspettarvi da me, dinanzi al malinteso dell’episodio Alicata, un gesto d’orgoglio intellettuale che sarebbe in pratica, di leggerezza. Non voglio negare che nei Partiti Comunisti (dico di tutto il mondo) vi sia alle volte del meccanicismo per cui l’uomo di cultura si trova in difficoltà o anche posto a dura prova. Ma questi sono difetti d’ogni consorzio umano e d’ogni tipo di associazione. L’uomo di cultura è posto a dura prova in ogni ambiente. Egli tollera l’incredibile nella società borghese. O combatte. La sua funzione è, ovunque, di combattere per migliorare la società ed eliminarne i difetti. Lo stesso può fare in seno al Partito Comunista. Nel Partito Comunista non c’è nulla che stia al di fuori o al di sopra dei suoi aderenti. Tutto è nei suoi aderenti. E dipende da essi migliorarlo ed eliminarne i difetti. Pur di sapere essere responsabili, si capisce, e di saper anche accettare i rischi della propria condotta. Qui è il dovere politico che ritorna. Cioè: il dovere culturale non ci libera dal dovere politico. Noi dobbiamo adempiere il primo, a costo di andare contro il secondo. Ma dobbiamo poi portare la responsabilità anche del secondo. È la nostra condizione di uomini di cultura che lo esige. E quei tanti uomini di cultura che sono usciti strillando da un Partito Comunista o da un altro non hanno ragione: hanno torto. Essi hanno chiamato la società borghese a giudicare il nostro Partito per dei difetti del nostro Partito che sono molto più gravi proprio nella società borghese. Che cosa hanno fatto così facendo? Parlo di un Koestler, ad esempio. Essi hanno tradito non solo il Partito e la classe operaia. Hanno tradito anche la loro condizione di uomini di cultura.
Qui vorrei prevenire un’obbiezione. È a proposito di quando la politica apporta modificazioni qualitative e quando apporta modificazioni solo quantitative. Quando? Quando la politica è tutta la cultura? Quando invece è solo una parte della cultura? E come è dato a noi di distinguere?
L’uomo politico è portato in genere a pretendere che siamo sempre in fase qualitativa. L’uomo di cultura è portato al contrario a pretendere che siamo sempre in fase quantitativa. E, si capisce, c’è sempre qualcuno che si sbaglia. O si sbaglia il primo. O si sbaglia il secondo. Ma è nella natura della condizione di entrambi di sbagliarsi o aver ragione, come di pagare per aver sbagliato credendo d’aver ragione. Il guaio sarebbe di arrivare ad un tempo in cui non fosse più possibile che uno dei due si sbagliasse. Allora addio: la storia sarebbe prevedibile, si svolgerebbe tutta preveduta, e il suo corso non sarebbe più un corso vivo. D’altra parte, l’inclinazione dell’uomo politico a pretendere che siamo sempre in fase qualitativa è non meno antistorica di quella dell’uomo di cultura a pretendere che siamo sempre in fase quantitativa. L’uomo di cultura è un «pacifista» nell’inclinare a una pretesa simile. Vuole essere tranquillo, vuole essere pigro, non vuole vivere tra le correnti d’aria della dialettica e rischiare raffreddori. Che cosa diavolo vuole? Farsi del suo diritto «guerriero» un privilegio da godere «in pace» come una sinecura d’abbazia. Ma lo stesso vuole l’uomo politico dove inclina alla pretesa che è specifica in lui. Inclina, cioè, a facilitarsi il compito: uscire dalla dialettica, non aver più da scegliere tra varie strade, poter procedere in un’unica direzione… È per questo, perché anche lui si addormenta, se sostiene che la politica è «sempre» tutta la cultura.
Ma le obbiezioni che mi si possono muovere sono innumerevoli, e io non posso mettermi a prevenirle tutte. Io vedo, rileggendo, che non sono sicuro di quanto pure vi ho detto con sicurezza. La questione è molto importante, voi ed altri che me ne hanno scritto con altre motivazioni (M. R. ‑ Milano, S. T. ‑ Patema, G. R. ‑ Pescara, V. S. - Forlì, ecc.) l’avete sollevata, e valeva la pena che venisse posta in pubblico. Prego perciò di non considerare questa mia risposta se non come un modo di porla, appunto, in pubblico. Certo io mi sono sforzato, scrivendone, di chiarirla a me stesso. Ma veramente me la sono chiarita? Non avrò usato la parola «cultura» nel suo significato più ampio, e la parola «politica» nel suo significato più angusto? Non avrò attribuito ai miei termini un senso che si può allargare o restringere, o addirittura capovolgere? E non sarò stato arbitrario nella mia distinzione tra «uomo politico» e «uomo di cultura»? Non sarà stata astrazione dire «uomo di cultura»? E non è astrazione parlare dell’azione politica come di un’attività speciale dell’«uomo politico»? Non è astrazione parlare della cultura come di un’attività speciale dell’«uomo di cultura»? Questi sono dubbi fondamentali per la questione, e rendono incerto tutto quanto vi ho detto. Io potrei anche tirarmi indietro, rimandare di rispondervi, pensarci su meglio. Ma riuscirei a chiarirmi qualcosa da solo? Preferisco buttarmi allo sbaraglio, con tutto quello che ho di mio sullo stomaco, e vedere se una chiarezza salti fuori da una discussione.
E. V.
(Tratto da «Il Politecnico», n. 31-32, luglio-agosto 1946).
Inserito l’11/03/2023.
Dossier Il Politecnico
Da «Il Politecnico» – N. 33-34, settembre-dicembre 1946
Risposte ai lettori
Rivoluzione è dialettica
di Giansiro Ferrata
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Risposte ai lettori
Rivoluzione è dialettica
Tra le più interessanti lettere ricevute sulla questione che fu, lo scorso numero, argomento della nostra rubrica di dialogo coi lettori, è questa di Giansiro Ferrata. Io la pubblico a preferenza di altro, nel far posto alla lettera di Togliatti, non tanto, però, a motivo della sua importanza, quanto perché, rimandata d’un numero, e cioè fatta conoscere un pezzo dopo la pubblicazione della lettera di Togliatti, perderebbe almeno una parte di questa sua importanza, o acquisterebbe un’importanza di diverso genere. La lettera di Ferrata è però indiretta riguardo al nocciolo della questione stessa; è diretta invece riguardo a taluni argomenti dei quali io mi ero servito in via complementare, a scopo di «dimostrazione». Praticamente Ferrata pone questioni nuove, e «Politecnico», passando il suo scritto, lo considera, più che come lettera, come un articolo che può anche, almeno in parte, fare proprio.
Caro Elio,
credo che non sia il caso per me di tentare una «risposta» al tuo articolo – seguendo i termini della discussione con Alicata – ma che possa esser giusto parlare di certi punti che tocchi, e che appartengono a una sensibilità abbastanza diffusa. Mi pare utile guardare alla tua distinzione fra i momenti in cui l’azione politica modifica solo «quantitativamente» le condizioni della società, e quelli in cui le modifica «qualitativamente»; i momenti insomma di politica «ordinaria» come la chiami, e quelli propriamente rivoluzionari. Credo che un errore nella tua distinzione sia bene chiarirlo: forse lascia in luce ambigua la stessa posizione del «Politecnico». Ma credo anche che un errore tuo non è mai separato da un’intuizione di verità.
Secondo te, dunque, ci sono momenti d’azione politica «quantitativa», in cui la cultura deve sentirsi e porsi su un piano più vasto, senza paura di sbagliare in rapporto al puro fine politico; altri, invece, in cui l’azione politica «è sintesi di tutta la cultura, è molto più che politica, è filosofia, è religione, è arte…», e ha diritto pertanto a «considerare come una forza ausiliaria il resto della cultura». Esempio di questi secondi momenti: il periodo che per la Russia sta intorno alla Rivoluzione d’Ottobre. Esempio di quei primi momenti: il periodo attuale in Italia. Però, dici, l’«uomo politico è portato in genere a pretendere che siamo sempre in fase qualitativa, l’uomo di cultura è portato al contrario a pretendere che siamo sempre in fase quantitativa» – e uno dei due, naturalmente, si sbaglia, aggiungi, qualche volta l’uno qualche volta l’altro. Questa volta secondo te ha sbagliato Alicata. Ma ho detto che non scrivo di questo. Voglio soltanto chiedermi se esistono quei due momenti. E, se non esistono, non resterà però un senso nel tuo discorso?
A me pare che non esistono quei due momenti di cui tu parli, o almeno che è impossibile, in pratica, distinguerli nei rapporti fra politica e cultura; il momento apparentemente più quantitativo può essere il più qualitativo e viceversa; e se ci sono uomini di cultura come uomini politici che vogliono modificazioni qualitative ossia rivoluzionarie, ci sono uomini politici come uomini di cultura che intendono la politica solo come modificazione quantitativa. È facile a questi mettere la cultura su un piano «superiore» a quello dell’azione politica. La loro azione politica non si risolve essa stessa come cultura, non propone all’uomo nulla di nuovo, è amministrativa, tecnica e conservatrice; lascia rispettosamente o grossolanamente che la cultura cerchi da sé, all’infinito, dei temi. Una politica «rivoluzionaria» è, al contrario (e in quanto essa stessa è cultura), sempre lottatrice e affermatrice d’autorità sul terreno della cultura; ha un sistema di preferenze, stabilisce dei valori; e tanto più profondamente a volte sta in lei questo compito, quanto più il momento sembra rallentare l’azione. Forse gli anni della Rivoluzione d’Ottobre non sono stati, da parte della politica verso la cultura della Russia, anni di laboriosa trasformazione in un senso strutturale; dopo il 1905, la cultura russa si era già determinata in breve come cultura rivoluzionaria, coi bolscevichi all’avanguardia; Lenin ha potuto dire che rivoluzione e cultura coincidevano perché alla politica spettava realizzare ciò che la cultura affermava intimamente. È in anni come i nostri, è nell’Italia d’oggi, che una politica rivoluzionaria e perciò presente su tutto il piano della cultura ha da svolgere il più profondo lavoro di modificazione. Con «programmi» applicati alla cultura? È l’ipotesi più assurda. Sembrano soltanto due, i modi nei quali dalla politica si opera una profonda trasformazione della cultura: con le condizioni nuove che essa riesce a stabilire nella vita d’un paese, e con l’esempio, con l’attività di uomini di cultura partecipi di quell’azione politica, incamminati nel suo cammino. Il primo modo equivale a fare della «buona politica» in senso rivoluzionario. Il secondo modo richiede che si produca e si generi davvero cultura, non una apparenza o una volontà di cultura; importa che si risponda, a tutta la cultura presente, con espressioni convincenti e in grado, nel loro intimo assieme, di risultare le più avanzate; e non penso a un organizzato esercito di libri e articoli e teatro e pittura, ma a quel movimento della coscienza e del linguaggio che, senza coscrizioni, forma dalla sua libertà una disciplina.
Siamo ritornati al termine di libertà. Aveva ben diritto di usarlo Lenin, quando parlava d’un unico organismo fra azione politica e cultura. Perché da buon comunista e bolscevico egli non ha mai posto dogmi all’origine dell’azione politica e neppure volontà di potenza, miti di vittoria da realizzare perché vittoria; egli è un uomo libero in un partito di libertà; dietro a lui e in lui sta un esame storico che non evita mai la verità, la sua politica è un risultato di cultura che ha per scopo la vittoria della cultura. Questo è rimasto (sorprendentemente, stavo per dire, pensando ai costumi umani) il comunismo fra tutte le vicende che ha accettato per dominarle. Non si richiede altrettanto agli uomini di cultura che operano oggi in Italia «per la rivoluzione»? È necessario che siano liberi, soprattutto in se stessi; che non lascino possibilità di contrasto fra cultura ed azione politica; che, voglio dire, facciano della cultura rivoluzionaria senza restare al disotto della cultura e reciprocamente. Ma questo è difficile. Soprattutto in un paese come l’Italia, dove la sensibilità estetica ha tanta risonanza e tanto abuso; e del resto in ogni luogo, , perché non restare al disotto della cultura significa un dialogo completo fra le attività supremamente interessate e le attività disinteressate, un dialogo anche le cui parti di silenzio devono comprendere in sé la Parola. Per esempio, ogni posizione critica sul terreno delle arti, della letteratura, deve riuscire motivata. E il linguaggio dev’essere linguaggio, rispondendo a una storia della cultura italiana e del mondo che non si è interrotta negli ultimi anni fascisti. Modificazioni «qualitative» al 1943 non si portano restando fuori dal 1946. Ma ci vuole molto di più che il 1946. Una onestà profonda, l’eternità dell’uomo in noi; e una assoluta determinazione a vincere per essa.
La posizione del Partito di fronte alla cultura è realmente questa. Quando si è detto, come si è detto, che «fare della cultura comunista significa, per un comunista, fare ottimi libri e ottimi quadri e insomma dell’ottima arte, dell’ottima cultura», non si voleva affermare un’eclettica tolleranza; si voleva ricordare che la via della rivoluzione non si può mai separare dall’attività disinteressata. Non c’è rinuncia, ma rapporto dialettico. Così Lenin fu uomo di libertà e uomo d’autorità. Ma come è sempre delicato il rapporto fra libertà e autorità, è sempre delicato per un partito rivoluzionario il dialogo col disinteresse, è pieno d’insidia per entrambe il rapporto tra politica rivoluzionaria ed autonomia della cultura. C’è perfino il dilettantismo in agguato. Com’è in agguato la ributtante e infine grottesca figura del lupo, quando si finge la nonna di Cappuccetto Rosso. Sono operazioni dove l’arte è tutto – l’arte che è verità, creazione, progresso.
Ho detto che non volevo parlare proprio della questione «Politecnico». In ogni modo, avrò finito col parlarne? Col dire nuovamente che «Il Politecnico» ha i suoi grossi torti e le sue buone ragioni? Se fosse, vorrei aggiungere che mi sembra giusta la tua tesi della necessità, per la cultura, e quindi per una rivista di cultura, anche di «sbagliare»; purché rimanga intatta la volontà di non sbagliare, e quella di ricavare infine la verità dall’errore involontario. Non è buona dialettica quella di chi lo biasima senz’altro, mentre il suo posto è di vicino, interamente di compagno, forse di collaboratore anche nel senso che si usa per giornali e riviste. Ma io credo che gli errori nostri e altrui finiranno a buon fine. E con questo finisce il tuo affezionato
Ferrata
Ma non tutto quello che d’implicito o esplicito lo scritto di Ferrata contiene come «risposta» ai miei interrogativi dello scorso numero di «Politecnico» può qui passare senza qualche mio nuovo interrogativo o qualche mia precisazione. Dove, ad esempio, nel chiudere, Ferrata dice che gli sembra giusta la mia tesi «della necessità, per la cultura, anche di sbagliare, purché rimanga intatta la volontà di non sbagliare, ecc.» può far nascere l’impressione che io abbia sostenuto un diritto della cultura a una «volontà di sbagliare» o a un «rassegnarsi nell’errore», cioè a una commedia, mentre io ho sostenuto, molto esplicitamente, un diritto della cultura al «rischio di sbagliare», che significa a un dramma. Certo è utile ripetere le parole che Ferrata dice su questo diritto all’«errore». Io posso ripeterle a una a una anche con lui. Ma debbo osservare che Ferrata (in tutti i punti che implicano risposta all’uno o all’altro dei miei interrogativi) si rifugia in un’immagine di rapporti ideali tra cultura e politica (quali dovrebbero essere) che riesce certo eloquente alla fantasia nostra di comunisti che già crediamo, e tuttavia non spiega nulla ai numerosi intellettuali giovani e non giovani (non escluso, per esempio, il nostro collaboratore France Fortini) che appunto aspettano, anche su questo punto, spiegazioni, chiarificazioni, per sentirsi impegnati nei riguardi del comunismo se non proprio per pensare all’eventualità di militare nel nostro Partito. termino pregando Ferrata di scusarmi se, per ragioni di spazio, ho dovuto sopprimere l’inizio della sua lettera.
E. V.
(Tratto da «Il Politecnico», n. 33-34, settembre-dicembre 1946).
Inserito il 7/04/2023.
Dossier Il Politecnico
Da «Il Politecnico» – N. 33-34, settembre-dicembre 1946
Politica e cultura
Una lettera di Palmiro Togliatti
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Politica e cultura
Una lettera di Palmiro Togliatti
«Politecnico» era già pronto ad andare in macchina quando è arrivata, col n. 10 di «Rinascita», la lettera che mi scrive Palmiro Togliatti sull’argomento dei rapporti tra «politica» e «cultura» come fu posto lo scorso numero qui nella rubrica delle «Risposte ai lettori». Il fatto che il capo di un grande partito di governo abbia scritto ad un intellettuale intervenendo in una discussione di carattere culturale (e non per giudicarla dal di fuori ma per penetrarvi con tutta la propria esperienza e portarla molto più a fondo di quanto non fosse stata portata) è troppo importante e nuovo nella storia della cultura italiana perché «Il Politecnico» potesse pubblicarsi senza metterlo subito in rilievo. Ecco la lettera:
Caro Vittorini,
ho letto il tuo scritto Politica e cultura nel n. 31-32 del «Politecnico» e vedo che a questo scritto ha dato occasione una breve nota di Alicata, pubblicata nel n. 5-6 di «Rinascita» di quest’anno e in cui si fanno alcune critiche alla rivista che tu dirigi. Debbo subito dirti, perché non ne scapiti la verità, che come non condivisi le critiche in altra occasione fatte su un nostro giornale a uno dei tuoi libri, e volli anzi fartelo sapere subito e per iscritto, così questa volta il fondo delle osservazioni di Alicata mi trova consenziente. Potrei anzi aggiungere: adsum qui feci, riferendomi alla conversazione avuta con Alicata prima ch’egli scrivesse. Posso ammettere, anzi ammetto senz’altro, che il critico dell’opera tua non abbia approfondito l’indagine, limitandosi a un colpo di fioretto; ritengo però che la direzione fosse giusta, e se avessi avuto io stesso l’agio di occuparmi criticamente del «Politecnico», in quella direzione mi sarei mosso anch’io.
Ma quello che non capisco è la reazione tua, o per dir meglio quella dei tuoi lettori a cui tu a tua volta reagisci, a quel nostro superficiale accenno critico. Ma davvero l’influenza indiretta sopra di noi dei nostri avversari e dei nostri nemici, del loro calunnioso argomentare, può arrivare a un punto tale per cui una rivista comunista non potrà più esprimersi criticamente a proposito di una pubblicazione culturale fatta da comunisti, senza che s’apra la ridicolissima campagna sulla nostra intolleranza, sul soffocante controllo che noi pretenderemmo esercitare sopra le attività intellettuali, sulla sconfessione che attende inesorabile quei comunisti i quali si occupino di questioni culturali, e via dicendo? Oh quando la finiranno, questi tuoi benedetti lettori, di credere alla storia del lupo? E se un comunista scriverà un libro di versi, e io gli dirò che li trovo brutti, oppure, come dissi una volta a un compagno ed amico, gli dirò che saran bellissimi, ma solo non capisco perché egli vada a capo proprio dopo quella parola e non dopo un’altra qualsiasi di quelle che allinea in ciò che chiama un verso e che se non ci fosse quell’inconveniente del cervellotico andare a capo mi parrebbe una passabile prosa, anche allora gridereste o avreste paura che si gridi alla tirannide oppressiva della libertà, diciamo, del poetare? In questo caso permetterete però a me, a mia volta, di protestare in nome della libertà del mio gusto e del mio giudizio.
Ma tu allarghi la questione, trattando in generale dei rapporti tra ciò che chiami la politica e ciò che chiami la cultura. Accetto l’allargamento del dibattito e la discussione, ma non accetto la soluzione che tu dài. La politica, tu dici, è cronaca; la cultura è storia. Falsa generalizzazione! Vi sono atti politici compiuti da uomini politici – certi discorsi di De Gasperi, per esempio, – che sono al di sotto anche della cronaca. In questo sono d’accordo con te. Ma vi sono atti compiuti da uomini di cultura e che si mantengono nell’ambito culturale, i quali sono anch’essi al di sotto della cronaca, e cattivo uomo politico e peggiore uomo di cultura finirebbe per diventare chi accettasse per buona questa tua distinzione. Da essa tu ricavi infatti, e ricavi logicamente, che è l’uomo di cultura che deve dirigere, salvo i periodi rivoluzionari, in cui anche il politico opera trasformazioni qualitative, cioè tali che investono tutte le manifestazioni e tutte le forme della nostra civiltà. Cosicché, quando don Benedetto Croce, nell’anno di grazia 1908 (salvo errore), scrisse quella sua famosa intervista al «Giornale d’Italia» in cui diceva che il marxismo è morto, e la scrisse, rivolgendosi ai politici, come uomo di cultura, noi avremmo dovuto dargli retta? E bada, non si trattava soltanto di una intervista, che l’intervista non era altro, in sostanza, che il prodotto secondario di un sistema il quale si presentava con tutto il fasto delle grandi costruzioni culturali, e guai al movimento operaio e al partito della classe operaia se i politici, cioè i capi nostri più illuminati, non avessero reagito con energia e intransigenza assoluta, per impedire che partendo da quella posizione si spezzasse tutta l’ossatura ideologica del movimento e questo crollasse miseramente su se stesso. Che il marxismo sia morto, oggi non lo crede più nessuna persona seria. Chi ha fatto storia, sono stati i politici marxisti intransigenti; e l’intervista può ancora essere considerata, con curiosità, come un episodio di cronaca della cultura, diciamo, «napoletana» dell’inizio di questo secolo.
Troppo sommario, quindi, il tuo giudizio, ché tra politica e cultura passano legami strettissimi di dipendenza reciproca, e tutte e due si muovono nella storia, quando si adeguino, s’intende, ai loro obiettivi.
Altrettanto sommaria, però, e quindi non accettabile, mi sembra la tua distinzione tra i momenti in cui il politico opera o tende a operare trasformazioni solamente quantitative, e il momento in cui la sua azione incide sulla qualità. Comprendo che tu avessi bisogno di questa distinzione per non essere costretto a respingere o condannare i sovvertimenti e rinnovamenti culturali operati dalle rivoluzioni; ma perché lasciar cadere la dottrina del buon vecchio Hegel, che ci insegnò a non separare con una barriera la quantità dalla qualità, ma a comprendere il passaggio dalla prima alla seconda, anzi la trasformazione del cambiamento quantitativo in cambiamento qualitativo?
Tu parli di Lenin, cioè di un titano del pensiero e dell’azione, e perciò ti metti in una botte di ferro: perché come si fa a confrontare con la sua l’azione nostra modesta? Credo però che non ti sarà difficile vedere come anche la più radicale e profonda delle azioni rivoluzionarie rinnovatrici è stata preparata e ha il suo germe in un lavoro lungo, lento, tenace, che ha aspetti politici e aspetti culturali ad un tempo. E qui ritorniamo, finalmente, al «Politecnico» e alla critica da noi fatta al suo indirizzo e al suo contenuto. Questa critica, infatti, è stata da noi concepita su di un piano sul quale credo non vorrai negare che l’uomo politico, anzi, la corrente politica che noi siamo, ha tutto il diritto di collocarsi e muoversi con piena libertà, cioè sul piano dell’esame critico dei differenti indirizzi di cultura che si manifestano nel Paese. Sarebbe bella che dovessimo, poiché siamo uomini politici e corrente politica, disinteressarci di queste cose! Come se l’affermarsi o lo svilupparsi in un modo piuttosto che nell’altro di un determinato indirizzo di cultura non possa avere le più profonde ripercussioni sullo sviluppo più o meno rapido e persino sul successo di una corrente politica come la nostra!
Quando «Il Politecnico» è sorto, l’abbiamo tutti salutato con gioia. Il suo programma ci sembrava adeguato a quella necessità di rinnovamento della cultura italiana che sentiamo in modo così vivo. Naturalmente, noi non pensiamo che spetti a noi, partito politico, il compito immediato e diretto di rinnovare la cultura italiana. Pensiamo che spetti agli uomini stessi della cultura: scrittori, letterati, storici, artisti. Per questo ci sembrava dovesse essere utile un’azione come quella intrapresa dal «Politecnico», alla quale tu chiamavi a collaborare, secondo un indirizzo che ci sembrava giusto, una parte del mondo culturale italiano. Ma a un certo punto ci è parso che le promesse non venissero mantenute. L’indirizzo annunciato non veniva seguito con coerenza, veniva anzi sostituito, a poco a poco, da qualcosa di diverso, da una strana tendenza a una specie di «cultura» enciclopedica, dove una ricerca astratta del nuovo, del diverso, del sorprendente, prendeva il posto della scelta e dell’indagine coerenti con un obiettivo, e la notizia, l’informazione (volevo dire, con brutto termine giornalistico, la «varietà») sopraffaceva il pensiero. Ed è questo, e solo questo, che abbiamo detto, richiamandoci puramente al vostro programma primitivo. Seguendo la strada per la quale «Il Politecnico» tendeva a mettersi, ci sembrava infatti si potesse arrivare, non solo alla superficialità, ma anche a compiere o avallare sbagli fondamentali di indirizzo ideologico, e in questo modo temevamo che la tua iniziativa avesse ad esaurirsi, come molte altre già si esaurirono, in un conato infruttuoso, se non proprio nel contrario di quelle che sono le tue intenzioni.
Ricordi i vari movimenti culturali italiani del primo decennio di questo secolo? Quante promesse, e quante speranze legate a ciascuno di essi. Ma tu, se osservi con attenzione, constati che a un certo punto essi si esauriscono e finiscono tutti o quasi tutti allo stesso modo. Manca la costanza nel perseguire il fine proposto; affiora presto una generica irrequietezza, una superficiale ricerca del nuovo; la forza d’attrazione si perde; rimane, nel migliore dei casi, qualche personalità che riesce ad affermarsi per qualità sue, e tutto finisce lì, mentre guadagna terreno e finisce per trionfare, senza che nessuno gli sbarri la strada, l’analfabetismo fascista, e la nostra cultura subisce un’azione devastatrice.
Negli ultimi tempi del fascismo, ci furono tentativi di reazione al cretinismo ufficiale; ma anch’essi scarsamente efficaci, perché mancanti di unità e anche di serietà, tanto che si esaurirono nell’attività intermittente, come un fenomeno di fuggevole fosforescenza sopra un corpo in decomposizione, di piccoli gruppi slegati l’uno dall’altro, con le loro piccole iniziative, le loro rivistine, i loro libricciuoli, e nessuna traccia permanente, profonda.
A noi rincrescerebbe che «Il Politecnico», o se non esso qualche altra rivista di natura culturale, non riuscisse a rompere una buona volta questa tradizione, e a fare finalmente opera seria, profonda, duratura, di rinnovamento. Il nostro voleva quindi essere, più che altro, un richiamo alla serietà del compito che sta davanti a voi, uomini della cultura, e un appello a lavorare, secondo le linee che voi stessi avete tracciato, in modo adeguato a questa serietà. E a parte il fatto che qualcuno di noi possa anche come uomo di cultura essere interessato alla cosa, tu non vorrai negare che proprio come uomini politici essa può e deve starci a cuore.
Palmiro Togliatti
Questo numero del «Politecnico», però, doveva lo stesso uscire in tempo per fare la campagna degli abbonamenti nel momento favorevole delle feste di Natale. Io ho potuto dunque trovare il posto alla lettera di Togliatti, rimandando al prossimo numero molte comunicazioni di lettori (che prego di scusarmi) con i commenti che le riguardano. Ma non ho potuto trovare il posto anche per analizzare la lettera stessa, come va analizzata, in rapporto al mio scritto dello scorso numero, e alle tesi in esso accennate, ai dubbi e agli interrogativi in esso contenuti. Inoltre, dopo questa lettera io non vorrò scrivere, sulla questione, troppe parole di cui sia incerto come lo ero, e avvertii di essere, d’ogni parola del mio scritto precedente. Bisogna dunque che abbia il tempo di riflettere, e non una volta ma due, su ogni singolo punto. Posso già avvertire, tuttavia, che so di non aver nulla da sostenere in senso propriamente contrario a quello che Togliatti sostiene, anche se ho alcune cose da dire in senso diverso, e che si tratterà, in sostanza, di cogliere una buona occasione per chiarire di fronte ai sospettosi lettori non comunisti del «Politecnico» quale sia stata la posizione mia e del «Politecnico» (dal principio alla fine del settimanale) e quale essa tenda ad essere da quando «Il Politecnico» è una rivista trimestrale. Chiudo per ora facendo notare come l’impossibilità di un mio dissenso con quello che dice Togliatti sia già implicita nella coincidenza della critica di Togliatti al «Politecnico» con la mia stessa autocritica pubblicata nell’ultimo numero del settimanale (6 aprile 1946, n. 28), e di cui penso che Alicata avrebbe dovuto tener conto invece di insistere tanto su elementi non sostanziali del «Politecnico» quali i nostri incontri «di gusto» con Reed e con Hemingway. Scrivevo: «Noi non nascondiamo di essere in qualche modo lieti che la necessità della trasformazione (da settimanale in mensile) ci richieda uno sforzo nuovo. Per noi è una buona occasione che deve aiutarci a correggere i difetti nei quali, col settimanale, eravamo caduti. Noi non abbiamo avuto, col settimanale, una funzione propriamente creativa, o, comunque, formativa. L’altra funzione, la divulgativa, ci ha preso, a poco a poco, e sempre di più, la mano. Ci siamo lasciati andare ad essa. Abbiamo compilato, abbiamo tradotto, abbiamo esposto, abbiamo informato, abbiamo anche polemizzato, ma abbiamo detto ben poco di nuovo. In quasi tutte le posizioni che abbiamo prese… ci siamo limitati a gridare mentre avremmo dovuto dimostrare. E troppo spesso abbiamo dato sotto forma di manifesto quello che avremmo dovuto dare sotto forma di studio. Troppo spesso abbiamo affidato alla grezza testimonianza dei lettori quello che avrebbe avuto bisogno della rielaborazione di scrittori». Resti ora inteso, per i giovani cui mi rivolgevo, che la lettera di Togliatti non significa «problema chiuso». Significa solo che il problema (quello dei rapporti tra politica e cultura) è meglio impostato. «Politecnico» continua dunque ad aspettare ch’essi si pronuncino.
E. V.
(Tratto da «Il Politecnico», n. 33-34, settembre-dicembre 1946).
Inserito l’11/03/2023.
Dossier Il Politecnico
Da «Il Politecnico» – N. 35, gennaio-marzo 1947
Politica e cultura
Lettera a Togliatti
di Elio Vittorini
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Politica e cultura
Lettera a Togliatti
Caro Togliatti,
in luogo di tenermi all’argomento della tua lettera con una risposta semplicemente logica o polemica, io mi permetto di approfittare dell’occasione per parlare con te (pur senza volerti distrarre a lungo dal tuo lavoro) di alcuni problemi nati dal nostro Partito o intorno al nostro Partito che mi sembrano aperti tuttora alle soluzioni più diverse e perciò tuttora sentiti, intorno al nostro Partito, con incertezza, o con disagio, o addirittura con diffidenza, con ipocrisia, con avversione, con timore.
Ma non potrei nemmeno cominciare senza parlarti del modo un po’ speciale in cui sono comunista, il quale, in Italia, è un modo un po’ speciale di numerosi militanti. Io non mi sono iscritto al Partito Comunista Italiano per motivi ideologici. Quando mi sono iscritto non avevo ancora avuto l’opportunità di leggere una sola opera di Marx, o di Lenin, o di Stalin. Debbo dirti a questo proposito, perché tutto sia il più possibile chiaro anche sul conto di «Politecnico» e sulla sua posizione culturale, che io sono esattamente l’opposto di quello che in Italia s’intende per «uomo di cultura». Io non ho studi universitari. Non ho nemmeno studi liceali. Potrei quasi dire che non ho affatto studi. Non so il greco. Non so il latino. Entrambi i miei nonni erano operai; e mio padre, ferroviere, ebbe i mezzi per farmi appena frequentare le scuole che un tempo si chiamavano tecniche. Quello che io so o credo di sapere l’ho imparato da solo nel modo vizioso in cui si impara da solo. Le lingue straniere, per esempio, le so come un sordomuto: posso leggere o scrivere in esse, tradurre da esse, ma non posso parlarle né capire chi le parla. Io rido di chi riduce il problema della cultura popolare a un problema unicamente di semplificazione se penso a come l’ho visto risolvere, avendo tredici, quindici, sedici anni, dal gruppo di giovani operai siracusani con i quali mi scambiavo libri e gusti. Noi non esitavamo dinanzi a nessuna difficoltà di lettura. Prendevamo, ad esempio, La Scienza Nuova del Vico e se alla prima lettura non comprendevamo nulla, leggevamo una seconda volta e comprendevamo qualche cosa, leggevamo una terza e comprendevamo di più… E quei miei compagni di studi trovavano tempo di far questo dopo otto ore ogni giorno di lavoro manuale. Né erano dei geni. Ora sono semplicemente degli operai che possono affrontare qualunque lettura e dare del filo da torcere a qualunque professore crociano. Ma il metodo dell’autodidatta è vizioso, si lascia dietro cattive abitudini, lacune, imperfezioni irrimediabili. Io so tutto questo, di me stesso, e, pur non rifiutando di appartenere alla cultura, e di militare ormai nella cultura, di avere dei doveri culturali, non è proprio come professionista di «cultura» che scrivo in «Politecnico», e non è come professionista di «cultura» che mi sono iscritto al nostro Partito.
Non avevo letto una sola opera di Marx, ripeto, quando mi sono iscritto… Ai tempi della mia euforia di autodidatta i testi di Marx non si trovavano già più nel mondo dei libri, almeno a Siracusa. I testi che vi si trovavano erano della Biblioteca Universale Sonzogno, erano di Laterza, erano di Bocca, erano di Carabba. Marx, purtroppo, non era mai uscito, in Italia, dalla cultura politica di partito, non era mai entrato nella Cultura con la C maiuscola, e tutti coloro che nel ’22 avevano dieci o dodici anni, dovevano scontarlo tra i ceppi dell’idealismo crociano e non crociano. Dunque io non aderii ad una filosofia iscrivendomi al nostro Partito. Aderii a una lotta e a degli uomini. Io seppi che cosa fosse il nostro Partito da come vidi che erano i comunisti (a cominciare da Mario Alicata, che fu il primo comunista da me conosciuto). Erano i migliori tra tutti coloro che avessi mai conosciuto, e migliori anche nella vita di ogni giorno, i più onesti, i più seri, i più sensibili, i più decisi e nello stesso tempo i più allegri e i più vivi. Per questo ho voluto essere nel Partito Comunista: per essere con i soli che fossero buoni e insieme coraggiosi, e insieme non disperati, non avviliti, non aridi, non vuoti; per essere con i soli che già allora (nel ’41, nel ’42) lottassero e credessero nella lotta loro; per essere con i soli che, quando ragionavano, ragionassero da rivoluzionari. Non fu perché fossi culturalmente marxista. Dopo il 25 aprile io ho cominciato a studiare i testi marxisti; ma mi guarderei bene dal chiamarmi per questo un marxista. Io ora trovo nel marxismo una fonte di ricchezza culturale, che mi arricchisce. Vi trovo vita per il mio cervello: propriamente dell’acqua viva nel senso che è scritto sull’Evangelo di Giovanni; qualche volta, qua e là, anche dell’acqua morta; ma penso che per chiamarmi marxista non basterebbe ch’io completassi i miei studi del marxismo e aderissi in ogni punto al marxismo e lo accettassi in ogni sua conseguenza; questo per me sarebbe un modo passivo e inutile, non produttivo, di essere marxista; e penso che per chiamarmi marxista dovrei essere in grado di apportare io qualche cosa al marxismo, e di arricchire io il marxismo, di essere io stesso acqua viva che affluisce nell’acqua viva del marxismo.
Conosco più di un compagno, tra gli ultimi conosciuti, che sarebbe capace a questo punto, di obbiettarmi: «Perché, se non sei un marxista, fai "Il Politecnico"? Perché parli; e parli anche a noi? Perché scrivi? Perché non ti limiti a imparare?». Egli pensa, cioè, che non essendo (o non chiamandomi) marxista, io non possegga la verità, e dovrei fare a meno di parlare, per coerenza di comunista. Ma una simile mentalità io so che tu sei il primo a volerla combattere nei nostri stessi compagni. Il diritto di parlare non deriva agli uomini dal fatto di «possedere la verità» . Deriva piuttosto dal fatto che «si cerca la verità». E guai se non fosse così soltanto! Guai se si volesse legarlo ad una sicurezza di «possesso della verità»! Lo si legherebbe alla presunzione del possedere la verità, e non parlerebbero che i predicatori, i retori, gli arcadi, tutti coloro che non cercano. La cultura ridiventerebbe clericale come era prima del Protestantesimo, o darebbe di nuovo lo spettacolo filisteo che tanto sconcertava Carlo Marx nella Germania del suo tempo. Se Marx pensava che attraverso il suo metodo si dovesse farla finita per sempre con ogni forma di filisteismo era perché appunto pensava che il suo metodo fosse di ricerca e non di possesso, e perché appunto pensava che tutto il parlare degli uomini dovesse ormai avvenire in funzione di ricerca e non di possesso. Io credo, perciò, di poter militare tranquillamente nel nostro Partito anche senza chiamarmi marxista; e di potervi militare non solo imparando ed ascoltando, ma anche parlando, anche scrivendo, anche facendo la rivista che è «Il Politecnico».
È la natura del marxismo a rassicurarmi in proposito; e che il Partito abbia dichiarato, in occasione del suo V Congresso Nazionale, di non porre ai militanti degli obblighi ideologici ha avuto per me un significato molto più importante di quello d’un semplice riconoscimento della realtà nella quale io avevo la mia parte tra centomila e centomila. II Partito si è certo reso conto che la sua azione politica può corrispondere a quello che vogliono in Italia un numero di persone dieci e venti volte più grande di quante non siano ideologicamente convinte di volerlo. E si è certo reso conto che può soddisfare, con la sua azione politica, anche ad esigenze umane manifestate attraverso ideologie diverse dalla marxista o attraverso crisi, naufragi, e brancolamenti di ideologie diverse dalla marxista. Ma il passo del Partito non può essere stato semplicemente politico, e meno che mai semplicemente tattico. Sarebbe inconcepibile che un partito di uomini si aprisse ad accogliere tutti noi con i nostri problemi di crisi o di ricerca della verità, e volesse, nello stesso tempo, restare insensibile ai nostri problemi di ricerca o di crisi, e volesse conservare, nello stesso tempo, una freddezza di possidente della verità. A che sarebbe servito? Una solidarietà politica muore molto presto se trova un terreno repulsivo. Né sarebbe sfuggito a nessuno che l’occhio del Partito era vitreo, se così fosse stato. II passo fatto dal Partito Comunista Italiano al suo V Congresso assume dunque un significato che va oltre i limiti della necessità politica italiana. Non significa che, per necessità politica, il Partito accantona momentaneamente la sua ideologia, e la pone tra le quinte. Non significa che il Partito rinuncia, in questo particolare momento italiano, ad essere filosofia e cultura. Centomila e centomila come me possono aver voluto aderire soltanto ad una politica, nell’aderire al Partito. Ma con il suo passo del V Congresso il Partito ci ha offerto la possibilità di aderire anche ad una filosofia, anche ad una cultura, e di avere di nuovo una filosofia, senza dover niente rinnegare di quello che in noi era già, diciamo, filosofico. Poiché il Partito si è fatto più praticamente di quanto non sia mai stato filosofia e cultura.
Questo è il senso profondo della sua decisione al V Congresso. Ha rimosso dal proprio cuore le diffidenze che minacciavano di non lasciargli più intendere il linguaggio contemporaneo degli uomini; ha riconosciuto di aver molto imparato anche in senso ideologico attraverso la propria esperienza umana del periodo clandestino; e ha riportato il marxismo italiano sulla strada più propria del marxismo, che è la grande strada aperta della filosofia come ricerca e non il vicolo cieco della filosofia come sistema. Venite a me, ci ha detto il Partito, anche se siete kantiani, anche se siete hegeliani, anche se siete esistenzialisti cattolici o esistenzialisti atei. Ma con questo non ci ha detto che gli importa solo della nostra adesione politica e che non gli importa niente di quello che siamo. Tutt’altro. Il Partito, a mio giudizio, ha detto anzi che gli importa moltissimo di quello che siamo, e ha detto inoltre che gli importa moltissimo di quello che esso è e può essere. Il Partito si è preoccupato, in altri termini, di riaprire ad ogni sorta di stimoli la propria ideologia, e riaprirla ad ogni sorta di contatti, risospingerla al centro della corrente della vita dove possa ricevere e non dare soltanto, arricchirsi e non spendere soltanto, e riprendere a cercare, a svilupparsi, ad evolversi. Si è preoccupato di porre la propria ideologia in condizioni d’essere di nuovo estremamente sensibile; capace di avvertire, nel contatto con altre ideologie, i problemi che oggi si manifestano all’uomo attraverso le più varie ideologie e combinazioni di ideologie; e capace di farli propri, capace di impostarli in termini propri. Ma riconoscendoci per comunisti anche se kantiani, anche se hegeliani, e via di seguito, il Partito ha riconosciuto al nostro kantismo, o al nostro hegelismo, la possibilità di non essere un sistema chiuso, e anzi di essere una filosofia vera e propria, di essere una forza rivolta a trasformare il mondo. Noi saremo dunque comunisti nella misura in cui il nostro kantismo o hegelismo o esistenzialismo, ecc., è rivolto a trasformare il mondo. Saremo comunisti nella misura in cui il nostro kantismo o hegelismo, ecc., non ci terrà immobilizzati in un sistema, e non sarà più un sistema. Saremo comunisti nella misura in cui il nostro kantismo o hegelismo, ecc., sarà filosofia nel senso originario della parola, e ricerca della verità, anziché possesso della medesima.
Doppio fronte della cultura
Qui potrei mettermi a parlare del «Politecnico» e raccontarti come, con «Il Politecnico» settimanale, noi si tendesse semplicemente a trasportare sul campo generale della cultura italiana l’esigenza che ogni comunista non marxista si trovava in grado di avvertire sul piano del nostro Partito; come si tendesse a rendere sensibile quell’esigenza anche tra coloro ch’erano estranei o neutrali o addirittura ostili verso il nostro Partito, e come si volesse non già tentare di iniziare una «nuova cultura» ma (sapendo benissimo che la possibilità di una «nuova cultura» dipende da «tutta» una cultura) dare l’allarme sul pericolo che tutta la cultura corre in Italia. Potrei analizzare in senso autocritico i motivi per cui «Politecnico» settimanale suscitò invece diffidenza e irritazione nella cultura italiana anche di sinistra, anche marxista. Ma la conversazione in cui siamo entrati va oltre i limiti di un’autocritica della mia rivista (del resto già accennata più volte) o di una sua difesa. Ormai il nostro argomento è quello dei rapporti, in genere, tra politica e cultura, e io non posso richiamarmi alla mia esperienza di «Politecnico» settimanale che nella misura in cui ci giova a trattare il nostro argomento.
Ora io non voglio dire che politica e cultura siano perfettamente distinte e che il terreno dell’una sia da considerarsi chiuso all’attività dell’altra, e viceversa. Cercherò più avanti di mostrare come invece le due attività mi sembrino strettamente legate. Ma certo sono due attività, non un’attività sola; e quando l’una di esse è ridotta (per ragioni interne o esterne) a non avere il dinamismo suo proprio, e a svolgersi, a divenire, nel senso dell’altra, sul terreno dell’altra, come sussidiaria o componente dell’altra, non si può non dire che lascia un vuoto nella storia.
La cultura che perda la possibilità di svilupparsi in quel senso di ricerca che è il senso proprio della cultura, e si mantenga viva attraverso la possibilità di svilupparsi in «senso di influenza», cioè in un senso politico, lascia inadempiuto un compito per aiutare ad adempierne un altro. Né si deve credere che alla politica serva (anche se a volte lo sollecita o addirittura lo esige) un aiuto simile. L’influenza che la cultura può esercitare agendo da mezzo della politica sarà sempre molto esigua. E accade inoltre che sia inadeguata, che sia imperfetta. Tanto di più serve invece, obiettivamente, alla storia (e alla politica in quanto storia) che la cultura adempia il proprio compito, e continui a porsi nuovi problemi, continui a scoprire nuove mete da cui la politica tragga incentivo (malgrado il fastidio avutone sul momento) per nuovi sviluppi nella propria azione. Nel corso ordinario della storia, è solo la cultura autonoma (ma, si capisce, non sradicata, non aliena) che arricchisce la politica e, quindi, giova obiettivamente alla sua azione; mentre la cultura politicizzata, ridotta a strumento di influenza, o, comunque, privata della problematicità sua propria, non ha nessun apporto qualitativo da dare, e non giova all’azione che come un impiegato d’ordine può giovare in un’azienda.
È indispensabile, senza dubbio, che la cultura abbia una comprensione anche politica della realtà storica nella quale si trova radicata; non meno di quanto è indispensabile per la politica di sentire i problemi sentiti dalla cultura e di essere pronta a farli propri via via che maturano; né io chiamerei mai cultura le manifestazioni formalmente culturali che si lasciano sorpassare dal dinamismo delle cose invece di scontarlo in sé, e di tendere, scontandolo, a informarlo di sé, a guidarlo; ma questo non significa che la cultura debba identificarsi con la politica.
Allo stesso modo è indispensabile che la cultura non perda il contatto con il livello culturale delle masse, e possa sempre avvertire le esigenze culturali di esse, oltre che rendersi conto delle esigenze umane che, salendo da esse, l’hanno prodotta. Nelle masse si ha la esatta misura storica della proporzione in cui stanno l’una all’altra, e procedono, l’una traducendosi nell’altra, o l’una traducendo l’altra, cultura e vita, civiltà e vita. E se il livello culturale delle masse costituisce una forza propriamente politica di cui è compito politico servirsi; se anche l’elevazione di tale livello è compito che non può, allo stato attuale delle cose, non rientrare nell’azione politica; se bisogna rifiutare la pretesa avanzata a volte da parte politica che la cultura si realizzi, persino a costo di non essere più ricerca, come educatrice immediata o diretta; se bisogna rivendicare la grande importanza che una novità culturale inaccessibile alle masse (Dante o Cézanne, Machiavelli o Marx) può sempre avere, in più della sua importanza di ricerca o di espressione, proprio come educatrice, ma indiretta, attraverso strati inferiori della cultura o attraverso la politica stessa; bisogna pure che alla cultura non manchi, in quanto stimolo a cercare nelle direzioni storicamente giuste, il contatto col livello culturale delle masse oltre l’esperienza dei loro problemi umani.
La cultura, cioè, deve svolgere il suo lavoro su un doppio fronte. Da una parte svolgerlo in modo che le masse le restino agganciate e non si fermino, anzi ne ricevano incentivo ad accelerare la propria andatura, e a lasciar cadere sempre più in fretta quelle sopravvivenze di cultura sorpassata che inceppano il loro dinamismo storico. Da un’altra parte svolgerlo (e allo stesso tempo) in modo che non si verifichino arresti nel suo sviluppo e alterazioni nella sua natura, per via dell’arretratezza culturale in cui le masse, o parte di esse, si trovano. La politica può adeguare la propria azione al livello di maturità raggiunto dalle masse, e persino segnare il passo, persino fermarsi, appunto in ragione del fatto che qualche altra cosa, la cultura, continua ad andare avanti. Anzi è in questo, direi, che si effettua in pratica la distinzione tra cultura e politica; o almeno è solo in questo che si riesce a veder scorrere separatamente le acque loro attraverso la storia. Politica si chiamerà la cultura che, per agire (e qui lascio intendere «agire» tanto nel senso dello storicismo idealistico quanto in quello del materialismo storico), si adegua di continuo al livello di maturità delle masse, e segna anche il passo con esse, si ferma con esse, come accade che con esse esploda. Continuerà invece a chiamarsi cultura la cultura che, non impegnandosi in nessuna forma di azione diretta, saprà andare avanti sulla strada della ricerca. Ma se tutta la cultura diventa politica, e si ferma su tutta la linea, e non vi è più ricerca da nessuna parte, addio. Da che cosa riceverà la politica l’avvio alla ripresa se la cultura è ferma? Lo riceverà direttamente dalla «vita»? In effetti sarà la vita a rimettere in moto la cultura e la cultura rimetterà in moto la politica, ossia tornerà a tradurre parte di se stessa in azione. Ma intanto avremo avuto un medioevo di automatismo così come abbiamo avuto un Medioevo di sfruttamento. E perché lo avremmo avuto? Perché dovremmo averlo? Il marxismo non è solo un metodo per vincere lo sfruttamento. È anche la premessa di un metodo contro l’automatismo. E a me sembra che nessuna dottrina politica come nessuna forma di cultura potrebbe oggi rifiutare di avere in comune col marxismo almeno questa premessa di un metodo contro l’automatismo, entro il quale si regolassero i rapporti tra politica e cultura assicurando alla cultura la possibilità di svolgere il proprio lavoro su entrambi i suoi fronti: di avanguardia da una parte, in senso di ricerca; e di contatto con le masse da un’altra parte, a mezzo di ufficiali di collegamento e in senso magari di divulgazione, ma di una divulgazione che conservi in sé l’interrogativo critico, che non si estranei dall’ambito del clima della ricerca, che non produca presunzione di possedere una verità assoluta, e che, insomma, non assuma il carattere catechistico del quale, purtroppo, s’investe di solito l’attività divulgativa ricoprendo la terra col peso morto dei catechizzati.
Ora sono a un punto in cui rientra l’osservazione che costituisce un argomento cardinale della tua lettera. Tu mi accusi di aver sostenuto una «falsa generalizzazione». Invece è una bestialità, e ti confesso di aver arrossito all’idea d’essermi espresso in modo tale da far intendere le mie parole come tu le hai intese. Io ho scritto: «la politica agisce, in genere, sul piano della cronaca. La cultura, invece, non può non svolgersi, all’infuori da ogni legge di tattica e di strategia, sul piano diretto della storia». E tu mi attribuisci di aver scritto semplicemente che «la politica è cronaca, la cultura è storia» .
Può diventare questo che tu riassumi il senso delle mie parole? Credo che, nell’interesse della discussione, sia più utile da parte mia passare a spiegarmi meglio, o a cercare di spiegarmi meglio. Io intendevo e intendo dire, non altro che quanto ora ho detto più sopra: che la politica agisce tenendo conto della realtà anche sotto il suo aspetto più contingente e adeguandosi anche al suo aspetto più contingente, mentre la cultura si svolge tenendo conto della realtà sotto il suo aspetto più largamente storico senza bisogno di commisurarsi alla contingenza. La politica (o cultura che si fa azione) deve compenetrarsi di tutta la necessità per potersi fare azione. La cultura (o cultura che resta ricerca) deve limitarsi a scontare in sé il significato della necessità per poter essere (sia essa scienza o sia essa poesia) ancora ricerca. La politica, dunque, è storia non meno della cultura. Solo che la cultura è storia che si svolge in funzione di storia e la politica è storia che passa attraverso tutto il piano di necessità anche spicciola della cronaca.
Questo ho voluto e voglio dire; né, per altro, penso che la distinzione tra politica e cultura possa tradursi in distinzione esatta tra uomini politici e uomini di cultura. Che cos’è un uomo politico? È l’uomo di cultura che si estranea dalla ricerca per applicarsi all’azione. E che cos’è un uomo di cultura? È l’uomo di cultura che si tiene al di fuori dell’azione per continuare la ricerca. Ma nella realtà è difficile che un uomo politico sia tutto politico e tutto immerso nell’azione, o che un uomo di cultura sia tutto di cultura e tutto immerso nella ricerca. A volte si ha, anzi, nello stesso uomo, un misto di attività culturale e di attività politica, per cui un atto politico è insieme ricerca o addirittura scoperta, e un atto di ricerca o di scoperta è insieme atto politico. Non possiamo mai dire dove l’uomo politico finisca, entro un uomo, e ceda il posto all’uomo di ricerca. Né possiamo sempre dire se sia meschinità culturale o meschinità politica, errore culturale o errore politico, la meschinità e l’errore in cui avviene che cada un uomo politico a un uomo di cultura.
Per gli uomini della rivoluzione americana, ad esempio, possiamo dire con sicurezza che la pur grandiosa azione politica di Washington e dei «federalisti» risulta tanto limitata in capacità di sviluppo a causa della loro indifferenza culturale; ma non possiamo dire con eguale sicurezza se la capacità di sviluppo dell’azione politica di Jefferson sia dovuta a grandezza culturale o a una maggiore grandezza politica. L’esempio invece di Benedetto Croce che giunge a dichiarare superato il marxismo è un esempio non solo di cultura che si traduce in meschinità politica, ma anche di cultura che decade in pseudo-cultura, anzi in anti-cultura. Egli immobilizzò la cultura italiana con quella sua svolta, e ne aprì il terreno alla sopraffazione politica del fascismo, vi seminò l’equivoco dal quale sono nate tutte le bugie culturali che hanno giustificato in Italia la sopraffazione politica e il fascismo. E che Croce abbia, pur in questo, conservato il fasto delle grandi costruzioni culturali indica solo che un fasto culturale può, a un certo punto, non essere più cultura. Non è soltanto attraverso la politica (e attraverso una totale trasformazione della cultura in politica) che la cultura può essere fermata. Può fermarsi anche per tendenza propria. Si volge in possesso di verità; in sistema, ed è ferma. Si volge in San Tommaso, e fino ai calci negli stinchi di quando la società produce un Protestantesimo o un altro, è finita. Ma occorre che io riverisca per cultura l’immobilità di un sistema? Io riverirò piuttosto per cultura e chiamerò (al confronto del filisteismo di Croce) cultura la resistenza opposta a Croce dai capi più illuminati del movimento operaio che tu ti limiti a chiamare politici.
Ma non è detto con questo che l’intransigenza politica debba sempre produrre risultati ottimi e soltanto ottimi, in politica e cultura insieme, quando scaturisce da una sensibilità storica più acuta di quella implicita nella posizione culturale alla quale si è opposta. Vi sono esempi di atti politici in sé necessari e di grande importanza politica che danno luogo a inconvenienti culturali nocivi presto o tardi per la politica stessa; né più né meno come vi sono esempi di giuste posizioni culturali che danno luogo a inconvenienti politici nocivi presto o tardi per la cultura stessa. Prendi il libro di Lenin contro il cosiddetto «empiriocriticismo». Lenin è figura tipica di uomo grandissimo nell’azione e insieme grandissimo nel pensiero. Pure il suo libro contro l’empiriocriticismo (che fu politicamente necessario, ed ebbe un’enorme importanza politica contro il pericolo politico che la posizione degli empiriocriticisti rappresentava in quel tempo) ha dato luogo a un inconveniente culturale di cui si giova ancora oggi il marxismo volgare (e il trotskismo, e il bucharinismo) con qualche danno politico, ancora oggi, per quello che oggi è il nostro Partito. Tutte le diffidenze e le riserve verso il Partito Comunista di molti tra gli uomini di cultura più vivi del nostro tempo nascono da quel libro di Lenin che, considerato in senso culturale, sembra tradurre il marxismo da metodo in sistema, legarlo alla scienza del tempo, e chiuderlo, di conseguenza, alla possibilità, ormai diventata necessità, di assimilare i risultati dell’epistemologia contemporanea che, sviluppatasi proprio dall’empiriocriticismo, si chiama anche fisica dei quanta, fisica atomica, biofisica, ecc. Perciò io trovo, a volte, più grande del leninismo la dottrina di Stalin che tanta saggezza ha saputo contrapporre al rigorismo della logica rivoluzionaria, insegnandoci, contro le impazienze del razionalismo scientista, che non si possono fare dei passi razionali uno subito dietro l’altro ma che ogni nuovo passo razionale va fatto dopo che il precedente è penetrato, almeno in parte, nelle abitudini, nella psiche umana ed è, insomma, diventato “irrazionale”, natura.
Antonio Gramsci, in Italia, è grande sotto questo stesso aspetto. Egli ci dà, nelle sue opere, ogni possibile premessa per una posizione culturale del marxismo corrispondente a quella che oggi è in Italia la politica così libera e viva del Partito Nuovo.
Rivoluzione e “cultura al potere”
Ma veniamo al punto della mia distinzione tra un corso ordinario della storia, in cui la politica modificherebbe solo quantitativamente, e i momenti straordinari in cui modificherebbe, invece, qualitativamente. Qui io non mi sono espresso male. Mi sono sbagliato, e tu hai in pieno ragione di rimandarmi alla «dottrina del buon vecchio Hegel che ci insegnò a non separare con una barriera la quantità dalla qualità». Io mi sono sbagliato rispetto alla mia stessa convinzione di quello che è politica, di quello che è cultura e di quello che sono, nella storia, i rapporti tra politica e cultura. Pur con la mia avversione al meccanicismo e con la mia simpatia per la fisica moderna, sono caduto nel concetto meccanico che vede la mutazione qualitativa come il risultato d’una somma ininterrotta di numerose mutazioni quantitative. O, più semplicemente, mi sono irrigidito in una finzione mentale che mi aiutava a ragionare? Scherzi simili succedono spesso a chi non si esprime, di solito, attraverso il ragionamento esplicito. La volta che si trova impegnato a farlo può essere anche più astratto d’un formalista della logica. Mi sono irrigidito in una astrazione che mi faceva comodo?
La conseguenza grave a cui porta il meccanicismo della mia distinzione tra quantitativo e qualitativo è di vedere nell’attività politica due princìpi e due decorsi, l’uno dei quali fa il suo dovere, durante la fase quantitativa, ad identificarsi con la cronaca, e l’altro invece adempie la più alta missione, durante la fase qualitativa, di identificarsi con la storia. Giustamente tu desumi, perciò, che io pensi una cosa simile e che attribuisca alla cultura il compito di «dirigere» nelle fasi del cosidetto quantitativo. Con questo mi fai parlare diversamente da come penso, e da questo io mi accorgo di essere in errore in tutta questa storia del quantitativo e del qualitativo.
Pure io non ho mai pensato di rivendicare alla cultura la funzione di dirigere. Che cosa avrei fatto a rivendicarle una tale funzione? Le avrei rivendicato la possibilità di trasformarsi in politica. Poiché, automaticamente, appena si ponga sul piano del «dirigere», dell’agire, la cultura si trasforma in politica. Dire cultura che dirige è dire politica. E una «direzione» nella vita sociale c’è sempre: nelle rivoluzioni, come nelle fasi di semplice evoluzione o di involuzione; in senso conservatore come in senso sovvertitore; per conto di una classe al potere come per conto di una classe che vuole il potere. Ma che cosa significa il «dirigere» della politica rispetto al resto della cultura che continua a porsi problemi sulla strada della ricerca (scientifica, artistica, filosofica, ecc.) e che noi chiamiamo tout-court cultura? Significa che la politica può, con mezzi e intenti politici, limitare la ricerca, darle un indirizzo piuttosto che un altro, arrestarla su un punto, incitarla su un altro punto, e insomma asservirla alla sua propria azione?
Da quanto ora ho esposto più sopra è chiaro che io rifiuto una interpretazione simile del «dirigere» la quale porterebbe a una politicizzazione totale della cultura (con conseguenze neo-medioevali di impoverimento progressivo della politica stessa, ecc.), ed è chiaro che rivendico un’autonomia per la cultura come possibilità di svolgere, tra tutti gli errori cui ogni ricerca si trova esposta, il proprio lavoro non politico. Ma so che nei momenti più acuti delle rivoluzioni la politica coincide a tal segno con l’interesse della ricerca da rendere impossibile ogni distinzione tra politica e cultura ed impossibile ogni autonomia della cultura. Perciò ho fatto la mia meccanica distinzione del quantitativo e del qualitativo. Per dire che la cultura deve essere autonoma rispetto all’azione politica (anche all’interno di chi sia uomo politico) tranne nei momenti decisivi delle rivoluzioni. E non per dire che in un certo periodo x la «direzione» spetta alla cultura mentre in un periodo y «si può lasciarla» alla politica...
Io posso sbagliarmi in questo stesso senso, e posso ancora non essermi reso conto di come stiano le cose, tuttavia ritengo che la mia obbiezione sia utile, che sia almeno indizio della necessità di un approfondimento nella questione, e di un chiarimento in essa. Tu vorrai concedermi che il rapporto della politica con la cultura non sia sempre lo stesso, che varii, che varii forse parecchie volte, ma che varii almeno una volta tra una fase in cui la storia si svolge e un momento in cui si rivolge. Giuseppe Ferrari chiamava rivoluzione ogni passo anche all’indietro della storia. L’istituzione del podestà nei Comuni medioevali egli la chiamò, ad esempio, «rivoluzione dei podestà». Idem quella dei gonfalonieri. La chiamò «rivoluzione dei gonfalonieri». Ma noi, parlando di rivoluzione, pensiamo ai grandi rivolgimenti sociali come la rivoluzione inglese del sec. XVII, la francese del sec. XVIII, o la russa del nostro secolo. La cultura «vuole» questi rivolgimenti. Essa tende alla «rivoluzione». Perché? In qual senso? Per il fatto stesso di essere ricerca della verità (e lo è persino quando il filosofo romano, o Pilato per lui, pone in dubbio dinanzi a Cristo che vi possa essere una verità) la cultura inserisce una nostra scelta dell’automatismo del mondo. Cultura è verità che si sviluppa e muta; e si sviluppa, muta non solo grazie ai mutamenti concreti del mondo e grazie alle esigenze di mutamento che si presentano nel mondo, ma grazie anche al suo proprio impulso per cui essa «è» nella misura in cui è un tale impulso, ovvero nella misura in cui non si placa, non si soddisfa, non si cristallizza in possesso e sistema. Essa è la forza umana che scopre nel mondo le esigenze di mutamento e ne dà coscienza al mondo. Essa, dunque, vuole le trasformazioni del mondo. Ma aspira, volendole, ad ordinare il mondo in un modo per cui il mondo non ricada più sotto il dominio di un interesse economico, o comunque di una necessità, di un automatismo, e possa al contrario identificare il proprio movimento con quello della ricerca della verità, della filosofia, dell’arte, insomma della cultura stessa. Così la cultura aspira alla rivoluzione come a una possibilità di prendere il potere attraverso una politica che sia cultura tradotta in politica, e non più interesse economico tradotto in politica, privilegio di casta tradotto in politica, necessità tradotta in politica.
Questa aspirazione è in particolar modo evidente, per esempio, nella cultura che precedette la rivoluzione francese, e Robespierre lasciò la testa sul patibolo perché voleva essere l’uomo di una politica che fosse appunto cultura tradotta in politica senza alcun compromesso con la necessità o con gli interessi delle forze sociali che avevano agito nella rivoluzione. Egli e i giacobini si illusero di poter considerare la rivoluzione francese come «la» rivoluzione per eccellenza, e di poter esercitare il potere per conto della cultura, su un piano di sviluppo che corrispondesse allo sviluppo della cultura; anziché per conto di una forza sociale, su un piano di sviluppo che corrispondesse alla capacità progressista di questa forza sociale. Pure salta fuori un Burckhardt, e ci dice, più di settant’anni dopo, che l’antica aspirazione della cultura a prendere il potere (e prenderlo in un senso di realizzazione continua del proprio sviluppo, non di realizzazione d’un proprio momento immobilizzato) è diventata realtà, a partire dalla rivoluzione francese, con la democrazia parlamentare. Marx invece sa vedere oltre l’illusione persistente nel suo tempo. Egli ci mostra che cosa vi sia sotto la democrazia parlamentare. Ma non ci insegna a disperare, né ci suggerisce la rinuncia all’antica aspirazione. Egli ci dice che possiamo avere una rivoluzione straordinaria, tale da essere veramente quello che ogni rivoluzione (in quanto cultura) avrebbe voluto essere, e da assicurare veramente il predominio della scelta sull’automatismo, della ricerca sul sistema, della cultura sulla necessità attraverso una politica che sia sempre cultura tradotta in politica e mai più privilegio tradotto in politica. Ed è in una società senza classi, ci dice Marx, che possiamo avere un potere in funzione di cultura. Ed è in una rivoluzione capace di instaurare una società senza classi che possiamo avere la rivoluzione liberatrice della cultura.
Ma Marx non esclude che vi sia il pericolo, pur in una società senza classi, di vedere la cultura estraniarsi dalla ricerca, assestarsi in possesso della verità, fortificarsi in sistema e magari far precipitare il mondo in un automatismo d’origine culturale. Marx sa bene che un mondo liberato dalla necessità attraverso la cultura potrebbe sempre ricadere in schiavitù attraverso la cultura stessa. C’è anche nella cultura la tendenza all’inerzia. La Chiesa Cattolica è un esempio tipico di come la cultura possa cristallizzarsi in una dottrina e in una politica che imprigionano il mondo in un automatismo loro proprio, entro il quadro dell’automatismo economico e in appoggio ad esso, o, domani, al di fuori di esso. L’eliminazione dell’automatismo economico non garantisce, di per sé stessa, contro ogni automatismo. Rientra dunque nella visione del marxismo che la lotta contro lo sfruttamento sia anche lotta specifica contro questa o quella forma di automatismo, all’interno della cultura come all’interno della politica, e lo sia sempre di più quanto di più la società si sarà avvicinata alla liberazione dal bisogno.
Direi anzi che il marxismo pone l’esigenza della lotta contro lo sfruttamento con spirito di lotta contro l’automatismo, sviluppato da quello che fu lo spirito del Protestantesimo. I Marx non erano di religione israelita; erano protestanti padre e madre. Karl fu educato da cristiano protestante; e se egli identificò la rivoluzione protestante con la rivoluzione borghese non identificò lo spirito del Protestantesimo con lo spirito borghese, ma con lo spirito della borghesia come classe in ascesa che è cosa molto diversa, e significa spirito di ascesa, spirito critico-costruttivo, non conformista, anti-filisteo, problematico, tanto vero che appena in stasi, la borghesia lo abbandona per un equivalente dello spirito cattolico o addirittura ritorna, in stasi o in discesa, al cattolicesimo. Marx aspira alla sua rivoluzione «straordinaria» come ad una rivoluzione per cui l’uomo acquisti definitivamente e non molli più lo spirito di ascesa. Così possiamo dire che lo spirito del Protestantesimo è una conquista umana fatta una volta per sempre; che il marxismo la contiene; che vi ha un suo presupposto storico; che ne è l’erede; che la sviluppa; e possiamo chiederci se il marxismo non si trovi esposto a conseguenze limitatrici del suo spirito dovunque affronti una realtà che mai è stata attraversata dalla scossa di un’esperienza protestante o analoga alla protestante. Sono i nostri nemici a considerare il marxismo come una concezione millenarista che veda il suo unico ed ultimo fine nella società senza classi; essi, in tal modo, lo spiegano come uno sviluppo di giudaismo; e a me sembra che sia da nemici del marxismo, non da suoi simpatizzanti o da suoi seguaci, condiscendere a considerarlo misticamente senza porsi la sua esigenza essenziale di anti-automatismo per la quale è il contrario di una concezione millenaria, per la quale è sviluppo di Protestantesimo e non di giudaismo, per la quale è moderno e non «estemporaneo», e per la quale vede nella società senza classi non altro che un mezzo di liberazione dell’uomo.
Spesso si confondono le constatazioni di Marx con i fini del marxismo, e il suo disgusto della «storia com’è» con un presunto suo gusto di «storia come dev’essere». Marx constata che le attività dell’uomo si svolgono sotto il dominio dell’attività economica. E non si intende ch’egli mira appunto a liberarle da un tale dominio. Marx constata che sono le manifestazioni collettive, non le individuali, ad avere peso nella storia. E non si intende ch’egli mira appunto a una storia in cui abbiano infine un peso, come cultura, come qualità, le manifestazioni individuali. Si fa confusione tra il grandioso «idealismo morale» di Marx e l’arma possente del suo realismo. E non si intende che, pur insegnandoci come non si possa avere nessuna liberazione dell’individuo senza uno sforzo collettivo, Marx propugna una rivoluzione che non è a fine collettivista ma a fine individualista ed anzi la prima, la vera, a fine propriamente individualista.
Impegnato nella lotta per la conquista della società senza classi il marxismo non si è ancora sviluppato molto in direzione del suo significato intrinseco. Né ancora ha scoperto un mezzo o un modo di impedire le scivolate in un automatismo o un altro della cultura, in un automatismo o un altro della politica, e di tener vivo nell’uomo quello spirito di ascesa che già fu, chiamandosi protestante, lo spirito di ascesa della borghesia. Una società, sia pure senza classi, in cui l’uomo mancasse di questo spirito (e della problematicità derivante da un simile spirito), sarebbe una società in cui nessun nuovo Marx, e nessun nuovo filosofo, nessun nuovo poeta, nessun nuovo uomo politico avrebbero motivo di vivere. Sarebbe il contrario di quella società sognata da Marx in cui l’individuo dovrebbe, infine, avere un motivo qualitativo di vivere. Per questo è necessario che. la cultura abbia sempre aperta la possibilità di essere cultura, cioè di cercare, porsi problemi e rinnovarsi. Per questo è non meno necessario che la politica rifugga sempre di più dal pericolo di essere sistema tradotto in politica e si sforzi sempre di più di riuscire ad essere ricerca tradotta in politica. Per questo è necessario infine che il rapporto tra politica e cultura non sia regolato né dalla politica né dalla cultura e sia lasciato «libero» di variare e di implicare una maggiore o minore dipendenza reciproca, una maggiore o minore autonomia reciproca, secondo il variare delle fasi che la storia attraversa nella sua marcia di avvicinamento alla società senza classi e al primo stadio, in essa, della libertà dell’uomo.
Suonare il piffero per la rivoluzione?
Qui avrei finito con l’argomento in discussione tra noi, potrei anche chiudere, ma ancora non ho detto quello che di importante, di particolare e tuttavia importante, mi sembra di avere da dire. Dalle parole della tua lettera mi viene soprattutto, e più di tutto ha senso per me, un’impressione di grande bontà. Penserai che ora voglia approfittarne? Voglio esprimere interamente la perplessità in cui ci troviamo tanti e tanti intellettuali (parlo anche di intellettuali non iscritti al P.C.) di fronte a qualcosa che oggi inaridisce o comunque impedisce di essere più vivo il rapporto tra politica e cultura entro e intorno al nostro Partito. Non tornerò sulla polemica sorta a proposito della mia rivista. Io non ho mai inteso dire che l’uomo politico non debba «interferire» in questioni di cultura. Io ho inteso dire ch’egli deve guardarsi dall’interferirvi con criterio politico, per finalità di contingenza politica, attraverso argomenti o mezzi politici, e pressione politica, e intimidazione politica. Ma in quanto uomo anche di cultura, anche di ricerca, egli non può non partecipare alle battaglie culturali. Solo che deve farlo sul piano della cultura stessa e con criterio culturale. Vedi l’esempio della reazione marxista a Croce. Si è svolta culturalmente, e ha finito per culminare nell’opera di Antonio Gramsci che ristabilisce la piena attualità del marxismo, non senza aver accolto talune delle obbiezioni crociane, e non senza essersene giovato, non senza averle scontate, non senza averne tratto occasione di sviluppo o almeno chiarimento per il marxismo stesso. Metti invece che si fosse svolta «politicamente». Non dico proprio con l’eliminazione fisica del Croce, o con una imposizione di silenzio alla sua vecchia bocca, con la pressione di uno sciopero generale, con la forza di un’azione o di un decreto. Dico con un rigetto formale e sprezzante; con un «no» categorico e cieco; o con ragioni politiche mascherate da culturali; con menzogne. Il marxismo italiano sarebbe magari rimasto al punto in cui era nel 1908, legato mani e piedi al positivismo, e la politica stessa del nostro Partito sarebbe oggi tanto più povera, non sarebbe la politica del Partito Nuovo. Così, per «Politecnico», s’io accetto le tue critiche, e anche buona parte di quelle di Alicata, non accetto però il criterio puramente politico con il quale Alicata, ad un certo punto, ha falsificato la propria voce, falsificando le stesse possibilità di discussione, quando, nell’esemplificare un aspetto dei nostri interessi, ha parlato di Hemingway come di uno scrittorello impressionista che si può quasi fare a meno di conoscere. È a questo ch’io mi sono opposto e mi oppongo: questa inclinazione a portare sul campo culturale, travestite da giudizi culturali, delle ostilità politiche e delle considerazioni d’uso politico, col lodevole intento, evidentemente, di rendere più spiccio il compito della politica, ma col risultato di alterare i rapporti tra cultura e politica a danno, in definitiva, di entrambe. Servirsi di una menzogna culturale equivale a servirsi d’un atto di forza, e si traduce in oscurantismo. Non è partecipare alla battaglia culturale e portare più avanti, con le proprie ragioni, la cultura, e portarsi più avanti nella cultura: trasformare e trasformarsi. È voler raggiungere dentro la cultura un effetto o un altro restando al di fuori dei suoi problemi. È agire sulla cultura; non già agire in essa. Oscurantismo, ho detto. E produce quello che l’oscurantismo produce: insincerità, aridità, mancanza di vita, abbassamento di livello, arcadia, infine arresto assoluto.
Un pericolo simile non è oggi presente in Italia, tra la più viva cultura italiana e la politica del nostro Partito. Anzi sembra si allontani ogni giorno di più. Ma abbiamo secoli di cattolicesimo alle spalle, e potrebbe ripresentarsi. Inoltre è latente in parecchi paesi del mondo occidentale; a volte in Francia, a volte negli Stati Uniti d’America; per cui penso sia un pericolo che noi comunisti abbiamo una particolare inclinazione a correre, e contro il quale dobbiamo armarci di una vigile coscienza. Prendi l’America. Vi è stato più di un momento in cui i migliori narratori, i migliori poeti, e gli scienziati, i pensatori più vivi lavoravano in senso filo-comunista. La rivista trimestrale «Science and Society» ci dà ancora oggi un esempio della ricchezza di problemi che la cultura americana riusciva a porsi nei suoi contatti con il marxismo. Ma un gran numero di buone riviste letterarie che cominciarono da comuniste o filocomuniste, oggi sono diventate politicamente agnostiche pur conservando il loro elevato livello culturale. Mentre altre che sono rimaste comuniste hanno perduto il loro mordente culturale d’un tempo. Hemingway, Steinbeck, Caldwell, Dos Passos, Richard Wright, James T. Farrell hanno lasciato il loro posto di scrittori simpatizzanti col nostro movimento politico a uomini non proprio di primo ordine come Howard Fast o Albert Maltz. Eppure non si può dire che abbiano cambiato indirizzo nella loro ricerca di scrittori, o che si siano «schierati con la reazione». Alcuni, certo, hanno commesso degli errori politici; Hemingway, in pagine che sono tra le sue meno felici, ha falsificato la figura di un grande rivoluzionario francese; ma il complesso della loro opera resta e continua ad essere d’importanza rivoluzionaria; ed è dalla sua pertinenza culturale, non da una sua più o meno accidentale impertinenza politica, che si deve giudicare uno scrittore.
Può bastare che uno scrittore «parli male di Garibaldi» per essere trattato da scrittore controrivoluzionario? Molti uomini politici parlano male di scrittori rivoluzionari, eppure gli scrittori non li trattano da uomini politici controrivoluzionari. Giuseppe Mazzini, per citare un esempio già illustre, scrisse che Leopardi era un poetuccio decadente al paragone del «grande poeta civile» (figurati!) G. B. Niccolini, eppure nessun uomo di cultura si è mai sognato di considerare Mazzini un reazionario. Noi pensiamo, tutt’al più, che Mazzini non era in grado di intendere il valore rinnovatore della poesia di Leopardi. Perché da parte dei politici non si usa quasi mai la stessa indulgenza nei riguardi degli scrittori che hanno semplicemente mostrato di non saper capire una figura di politico o una posizione politica?
Ma non divaghiamo. Domandiamoci piuttosto quali vizi o difetti del nostro atteggiamento verso la cultura possano contribuire a rendere così secco come oggi, per esempio, è in America il rapporto della nostra politica con la cultura. Essi ci vengono forse dal fatto che l’alimento spirituale di cui il marxismo è ricco attira nella sua orbita, a nutrirsene, a viverci sopra di rendita, troppi piccoli intellettuali che, incapaci di vita propria, ne diventano i ringhiosi cani di custodia, e l’usano come una specie di codice della politica e della cultura, pronti a pretendere, da ogni altro che più o meno vi si avvicini, una squallida adesione conformista, priva di problematicità, come è la loro. Così ogni esigenza «diversa», ogni problema non già scontato e risolto, che uno scrittore con una vitalità sua propria ponga nella sua opera, può suscitare una levata di accuse astratte che presto o tardi lo spaventano lo sconcertano, lo spingono a tenersi discosto da noi. Piccolo-borghese, decadente, individualista sono le definizioni più miti con le quali poeti o pensatori sono stati assillati da questi fittavoli di un presunto marxismo, per anni e anni, in più di un paese occidentale. A romanzieri di prim’ordine sono stati additati, da parte di costoro, dei populisti di quart’ordine come esempi sui quali modellarsi. E ancora in questi ultimi mesi, mentre l’America rischia di tornare al pensiero di Calhoun, dottrinario dello schiavismo, accade che su un settimanale pur serio e carico di responsabilità come «New Masses» si pubblichi un articolo superficiale e settario contro il più grande pensatore progressista d’oltre Atlantico, John Dewey, della cui opera i nostri Antonio Banfi e Galvano della Volpe possono dire quanto gioverebbe, anche tra noi, in opposizione alla filosofia conservatrice di Jaspers e dei crociani.
La linea che divide nel campo della cultura, il progresso dalla reazione, non si identifica esattamente con la linea che li divide in politica. È, questo che, alle volte, non si capisce da parte nostra; o non si è pronti a capire; o non si vuol capire. E da questo nascono le diffidenze ed ostilità che rendono la politica progressista non sempre capace di sostenere la cultura progressista come di valersene, e la cultura progressista non sempre capace di sostenere la politica progressista come di valersene.
Avviene che noi si voglia giudicare dalle manifestazioni politiche di un poeta, o da quanto egli ha dato di esplicito, se la sua poesia è a tendenza progressista o a tendenza reazionaria. Così, giudicato Dostojevskij un reazionario per le sue dichiarazioni più esterne, trascuriamo di arricchirci dei profondi motivi progressisti che sono nel vivo della sua opera, e lasciamo alla reazione di arricchirsene, lasciamo ad essa di voltarli in vantaggio proprio. Al tempo di Marx il marxismo sapeva impadronirsi del valore progressista ch’era implicito nell’opera di ogni grande scrittore d’allora, fosse Hoelderlin, fosse Heine, fosse Dickens o fosse Balzac, senza guardare se essi fossero, nell’esplicito politico, con la destra o con la sinistra. Oggi noi siamo inclini a rifiutare o ignorare i grandi scrittori del nostro tempo. Ignoriamo completamente, per esempio, Kafka, che pure ha rappresentato con la forza grandiosa delle raffigurazioni mitiche la condizione in cui l’uomo è ridotto a vivere nella società contemporanea, e rifiutiamo in blocco l’opera, per esempio, di un Hemingway che pure contiene, in termini concreti, tanti dei problemi per i quali e in ragione dei quali l’uomo ha bisogno di una trasformazione rivoluzionaria del mondo. Se Hemingway, mettiamo, si compromette politicamente, noi potremo considerare nemica la sua persona, ma i suoi libri non sono nostri nemici, sono ancora nostri amici, e io ho molto in contrario a vederli rifiutati come letteratura della borghesia reazionaria. Non nego che in Hemingway ed altri autori del genere sia presente, anche in senso culturale, anche in senso poetico, qualcosa che autori più nuovi sentono la necessità di superare. L’uomo di Hemingway è ancora un tipo di superuomo, non un tipo di uomo. Ma non si può dipingere come tutto nero quello che contiene anche del nero né si può dipingere come tutto oro quello che contiene anche dell’oro. Questo è un criterio oscurantista che non si può adottare nel campo della cultura. Tocca ad opere concrete d’una più nuova poesia e d’una più nuova cultura di annullare o ridurre l’importanza delle opere concrete d’un Hemingway. E noi, sentendo trattare da scribacchini degli scrittori che sappiamo di prim’ordine, abbiamo l’impressione di essere tutti sminuiti, e che il nostro stesso mestiere sia sminuito, che la cultura stessa sia sminuita, che i nostri sforzi in senso rivoluzionario non possano mai essere riconosciuti come tali dai nostri compagni politici.
Che cosa significa, per uno scrittore, essere «rivoluzionario»? Nella mia dimestichezza con taluni compagni politici ho potuto notare ch’essi inclinano a riconoscerci la qualità di «rivoluzionari» nella misura in cui noi «suoniamo il piffero» intorno ai problemi rivoluzionari posti dalla politica; cioè nella misura in cui prendiamo problemi dalla politica e li traduciamo in «bel canto»: con parole, con immagini, con figure. Ma questo, a mio giudizio, è tutt’altro che rivoluzionario, anzi è un modo arcadico d’essere scrittore.
Uno sforzo che eviti l’arcadia
Arcadia non significa arte per arte. Ci può essere anche un’arcadia, e anche un’accademia dell’arte per l’arte, ma la formula «l’arte per l’arte» non è, di per se stessa, una formula arcadica. Storicamente noi la troviamo usata, sia nell’Inghilterra vittoriana come nella Francia secondo impero, per proteggere dal conformismo lo sviluppo di nuove concezioni della vita. L’Inghilterra vittoriana come la Francia secondo impero pretendevano che l’arte servisse a inculcare, direttamente o indirettamente, i princìpi della morale dominante. Dicendo l’arte per l’arte la cultura difendeva la propria libertà di esprimere nuove esigenze della vita. E Swinburne e Baudelaire, Flaubert e Thomas Hardy, lo stesso Oscar Wilde, ebbero funzione progressista. Aprirono un varco nel conformismo, aprirono la mente a ricevere insegnamenti nuovi. Così la loro lezione non fu che l’arte non debba «insegnare»; fu che deve «insegnare» oltre i limiti richiesti dalla società.
È l’arcadia che invece «non insegna» . L’arcadia è l’arte che il vittorianesimo o il secondo impero volevano: arte del conformismo; e io dico che «non insegna» in quanto non insegna nulla che trovi essa stessa, scopra essa stessa nella vita; in quanto non ha nulla di nuovo da dire per proprio conto; in quanto si limita a ripetere «insegnamenti» che già la morale comune, o il costume, o la politica, o la Chiesa insegnano.
Parlando d’arcadia, di solito, noi pensiamo a una sola forma di arte arcadica: a quella che fa le sue variazioni pastorali sul tema dell’amore. Ma questa forma di arte arcadica non è arcadica perché tratta d’amore. Anche gli stilnovisti trattavano d’amore e non erano arcadici. Questa forma è arcadica perché, invece di attingere alla diretta realtà delle passioni, tratta d’una concezione convenzionale che una certa società si è formata dell’amore, attraverso un suo certo costume. È arcadica, dunque, perché non aderisce direttamente alla vita, perché non si sviluppa direttamente dalla vita, e aderisce piuttosto a un principio o un altro che già sia «cultura», già riflesso o già prodotto della vita, già conquista affermata, già verità scontata, usandolo come un tema ad essa esterno che si tratti di magnificare o illustrare.
L’estetica dell’arcadia implica una distinzione tra verità e poesia, per cui la verità viene concepita a prescindere dall’elemento che la poesia è di essa e della sua ricerca, e la poesia concepita a prescindere dalla parte integrante che ha nella verità e nella sua ricerca. Il razionalismo astratto, che tutto misura a piccoli passi visibilmente razionali e non vuole riconoscere per razionali i passi più lunghi o non visibilmente razionali, o meno visibilmente razionali, è la posizione culturale che più favorisce le scivolate dell’arte nell’estetica arcadica. Le favorisce da semplice filosofia, e le favorisce anche da politica. Induce i poeti a dire: «mettiamoci al servizio della verità». E non si accorge che questo significa indurli a non lavorare per la verità, a non adempiere il loro compito di scoperta propria della verità, a non cercare anche loro la verità, a indurli in compenso a suonare il piffero per una forma raggiunta di verità cui mancherà in ogni caso la parte di verità di cui essi avrebbero dovuto integrarla.
Che il piffero sia suonato su temi di politica, di scienza o di ideologia civile anziché su temi di ideologia amorosa non cambia in nulla il carattere arcadico d’una simile musica. Buona parte delle composizioni poetiche scritte dagli arcadi italiani del Settecento sono su temi civili, e Vincenzo Monti è da arcade che scrive sulla mongolfiera o sui comizi di Lione, da arcadi scrivono i poeti civili del nostro risorgimento da arcadi e pastorelli della politica scrivono i poeti patriottici che Giuseppe Mazzini preferiva a Leopardi. Né chi suona il piffero per una politica rivoluzionaria è meno arcade e pastorello di chi suona per una politica reazionaria o conservatrice. I poeti della rivoluzione americana, come John Trumbull, come Philip Freneau, come Timothy Dwight, non risultano oggi meno arcadi di chi, a Londra, suonava il piffero per la riconquista delle colonie. L’argomento della suonata può essere un grande problema rivoluzionario, ma se allo scrittore non viene direttamente dall’interno della vita, se gli viene attraverso la politica o l’ideologia, se gli viene «come argomento» egli suonerà il suo piffero per esso, e sarà un arcade, sarà un pifferaro, non sarà uno scrittore rivoluzionario. Nel migliore dei casi, se ha temperamento lirico, ci darà del lirismo in luogo di pastorelleria, e sarà, mettiamo, un Maiakovski. Ma non è certo il lirismo a rendere rivoluzionario uno scrittore.
Rivoluzionario è lo scrittore che riesce a porre attraverso la sua opera esigenze rivoluzionarie diverse da quelle che la politica pone; esigenze interne, segrete, recondite dell’uomo ch’egli soltanto sa scorgere nell’uomo, che è proprio di lui scrittore scorgere, e che è proprio di lui scrittore rivoluzionario porre, e porre accanto alle esigenze che pone la politica, porre in più delle esigenze che pone la politica. Quando io parlo di sforzi in senso rivoluzionario da parte di noi scrittori, parlo di sforzi rivolti a porre simili esigenze. E se accuso il timore che i nostri sforzi in senso rivoluzionario non siano riconosciuti come tali dai nostri compagni politici, è perché vedo la tendenza dei nostri compagni politici a riconoscere come rivoluzionaria la letteratura arcadica di chi suona il piffero per la rivoluzione piuttosto che la letteratura in cui simili esigenze sono poste, la letteratura detta oggi di crisi.
Rifiutare e ignorare i migliori scrittori di crisi del nostro tempo, significa rifiutare tutta la letteratura problematica sorta dalla crisi della società occidentale contemporanea. E non è un rifiuto di riconoscere la problematicità stessa per rivoluzionaria? Non è un rifiuto di riconoscere la crisi stessa per rivoluzionaria?
Molta letteratura della crisi è, senza dubbio, di provenienza borghese. Discende dal romanticismo: è intrisa di individualismo e di decadentismo. Ma è anche carica della necessità di uscirne, ed è ricerca per uscirne. Si può chiamarla letteratura della borghesia solo nel senso che è autocritica della borghesia. I suoi motivi borghesi sono motivi di vergogna d’essere borghesi e di disperazione d’essere borghesi. Dunque è rivoluzionaria, malgrado i suoi vizi borghesi, come tanta letteratura del Settecento inglese o francese era rivoluzionaria malgrado i suoi vizi aristocratici. Essa soltanto, anzi, è rivoluzionaria nell’Europa occidentale e in America. Gli scrittori che militano nel nostro Partito riflettono anch’essi la vergogna d’essere «borghesi» e la disperazione d’essere «borghesi», insomma la crisi borghese che riflettono gli scrittori estranei al nostro Partito. Sono rivoluzionari, nel loro lavoro di scrittori, per motivi non molto diversi da quelli per i quali lo sono un Sartre e un Camus. Oppure non sono rivoluzionari, e fanno semplicemente dell’arcadia di partito o del lirismo di partito.
La stessa letteratura sovietica, nella misura che ci è dato giudicarla attraverso le traduzioni, fa dell’arcadia o del lirismo. Dell’arcadia, la più debole; del lirismo, la più forte. Questo indica come la crisi della cultura sia oggi di tutto il mondo, della parte ancora capitalista sotto un aspetto che possiamo magari definire «insufficienza di politicità» e della parte già socialista sotto un altro aspetto che possiamo forse definire «saturazione di politicità». Il primo scopre il fianco della cultura al pericolo di essere coinvolta nella reazione politica, il secondo lo scopre al pericolo non meno grave d’essere trascinata nell’automatismo. Lo scrittore rivoluzionario dei paesi ancora capitalisti dovrà stare in guardia contro entrambi i pericoli. E lo scrittore rivoluzionario che milita nel nostro Partito dovrà rifiutare le tendenze estetiche dell’URSS non solo perché sono il prodotto di un paese già in fase di costruzione socialista; e non solo perché sono tale prodotto in un modo particolare alla Russia che non è detto debba essere il modo della costruzione socialista italiana o francese; egli dovrà rifiutarle anche perché contengono il pericolo che contengono.
Certo noi scrittori di partito siamo preparati all’eventualità di dover limitare il nostro lavoro, il giorno che fosse indispensabile per la costruzione della società senza classi. Direi che siamo preparati all’eventualità di dovervi addirittura rinunciare. In questo soltanto è la differenza tra noi scrittori di partito e gli scrittori estranei ai partiti. Noi sappiamo che cosa è accaduto, in ogni grande rivoluzione, tra politica e cultura; sappiamo che, ogni volta, la poesia è stata arcadia; sappiamo che la cultura è diventata, ogni volta, un’ancella della politica; e accettiamo in anticipo l’eventualità che con la nostra rivoluzione accada la stessa cosa. Ma il marxismo contiene parole per le quali ci è dato di pensare che la nostra rivoluzione può essere diversa dalle altre, e straordinaria. Può essere tale che la cultura non si fermi o che la poesia non decada ad arcadia, e noi dobbiamo almeno sforzarci di fare in modo che sia tale.
Elio Vittorini
(Tratto da «Il Politecnico», n. 35, gennaio-marzo 1947).
Inserito il 16/03/2023.
Dossier Il Politecnico
Intermezzo francese con riflessi italiani
1946-1947: scontro tra «Il Politecnico» e «Rinascita» anche fuori casa
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Una querelle tra illustri esponenti della cultura aderenti al Partito comunista francese rappresentò un’ulteriore occasione per uno scambio polemico tra Vittorini, dalle colonne del suo «Politecnico», e «Rinascita», la rivista teorica del PCI fondata e diretta da Palmiro Togliatti in persona.
Un articolo del 1946 del filosofo marxista Roger Garaudy (membro della direzione del PCF) in cui si negava l’esistenza di un’estetica comunista ricevette una dura replica da parte del poeta e scrittore Louis Aragon, ex esponente dell’avanguardia surrealista e ormai principale animatore della politica culturale del partito. Lo stesso Garaudy, subito dopo, tornò sui propri passi e ammise (forse obtorto collo) che gli artisti comunisti dovevano trovare nel realismo la via per la creazione della propria arte in connessione con la lotta progressiva per un mondo migliore.
Elio Vittorini riprese per la propria rivista (n. 33-34, settembre-dicembre 1946) il primo articolo di Roger Garaudy, in pratica sottoscrivendolo e inserendolo nel solco della propria teoria su una “nuova cultura” in contrapposizione alle linee di politica culturale del partito; nell’introdurre lo scritto di Garaudy, però, Vittorini non fece menzione né della replica di Aragon né della marcia indietro del filosofo; su questi sviluppi della discussione tra gli intellettuali comunisti francesi «Il Politecnico» non aggiornò i propri lettori neanche nelle uscite successive, e questa omissione dette il destro a «Rinascita» (n. 5, maggio 1947) di criticare Vittorini accusandolo di essere in malafede, avendo presentato i termini della questione in modo parziale («con discutibile fedeltà»).
L.C.
Inserito il 28/05/2023.
Dossier Il Politecnico
Vittorini A SOSTEGNO DI gARAUDY: «NOn esiste un’estetica del Partito Comunista»
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L’articolo che qui pubblichiamo, ripreso da «Arts de France», n. 9 (ottobre 1946), porta il punto di vista di un noto teorico del marxismo francese, Roger Garaudy, sulla questione della possibilità per l’arte di essere o tendere ad essere comunista (come forma, come contenuto e via di seguito) nella società di oggi. Roger Garaudy è un uomo politico, appartiene alla direzione del Partito Comunista Francese, è stato portavoce del Partito Comunista Francese in numerose polemiche di carattere ideologico, dunque si può ritenere che il suo punto di vista sulla questione trattata in questo articolo sia condiviso dalla maggioranza degli uomini politici del Partito Comunista Francese.
Non vi è un’estetica del Partito comunista, afferma Garaudy. Lo dice per la Francia, ma la sua affermazione ha valore anche per l’Italia dove, dimenticati o ignorati gli avvertimenti in proposito del nostra grande Antonio Gramsci, accade ancora oggi che qualche compagno pretenda di spingere ad instaurare in seno al Partito Comunista Italiano un utopistico regime culturale, porgendo così agli anti-comunisti e anti-marxisti in genere l’occasione di adoprare un’arma in più nella loro campagna di denigrazione del marxismo, o comunque generando confusione al punto che, per esempio, la nostra istanza di una «nuova cultura» è stata intesa da molti amici del «Politecnico» come un’istanza di rinnovamento «estetico» (cioè qualcosa di velleitario).
La rivoluzione, dice Garaudy, ricomporrà le membra dell’artista contemporaneo, riunendo in una nuova unità gli occhi, le mani, lo spirito e il cuore suoi; ma, soprattutto, darà «milioni di lettori al romanziere, milioni di ascoltatori al musicista, milioni di amatori al pittore». Quest’ultimo è un compito cui intanto, nei riguardi dell’arte e della poesia, si dovrebbe poter lavorare nel seno dei partiti marxisti: cercare di far leggere libri, guardare quadri, ascoltar musica sempre di più per l’elevazione del livello culturale che le masse popolari hanno troppo basso in un idillico accordo con la più pigra e arretrata borghesia. Mentre premere su Renato Guttuso, perché dipinga più in un senso e meno in un altro, non fa invece parte di nessun compito rivoluzionario.
E. V.
(Tratto da «Il Politecnico», n. 33-34, settembre-dicembre 1946).
Inserito il 28/05/2023.
Dossier Il Politecnico
«rINASCITA» PRECISA I TERMINI DELLA QUERELLE FRANCESE
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Informazione sopra una polemica
Una affermazione categorica di Roger Garaudy: «Non esiste un’estetica del Partito comunista», sostenuta in un articolo su «Arts de France», è servita ad aprire nello scorso inverno una polemica con Aragon, la cui eco è giunta anche da noi portata con discutibile fedeltà dal numero di settembre-dicembre di «Politecnico».
Dice Garaudy, in difesa di un regime di completo arbitrio estetico per gli artisti, che «chi pretende che noi (– comunisti –) imponiamo un’uniforme o un fez ai nostri pittori o ai nostri musicisti o ad altri è un nemico o un imbecille».
Per questo è fuori luogo la disputa antica tra «formalismo» e «realismo», né si può dire che questo realismo o quel formalismo siano l’uno progressivo, l’altro reazionario nel campo dell’arte. Ogni opera d’arte, purché essa aggiunga «qualcosa di nuovo alla forma umana» o sia essa stessa un mezzo d’espressione, ha la sua funzione, porta una nuova esperienza. Quello che conta è contribuire a creare un volto nuovo dell’uomo, dell’umanità, dell’uomo «completo», «totale». Per questo, secondo Garaudy, è possibile lavorare come Picasso o soltanto dipingere «tre gusci d’uovo in un piatto»: l’apparente contraddizione non significa che Picasso è un rivoluzionario e l’altro forse soltanto un mediocre decoratore: la contraddizione è nella società capitalistica che ostacola la sincera espressione dell’uomo che è in ogni artista. «Avremmo il diritto di pretendere che un pittore fosse innanzitutto un uomo e poi che sapesse dipingere». Ma «le condizioni sociali dispongono altrimenti». E allora «nell’attesa dell’uomo completo, il quale non potrà nascere che in una società senza classi, bisogna contentarsi di quello che c’è».
Anche una ricerca meramente tecnica, persino un virtuosismo gratuito è utile, si giustifica col fatto che la società divisa in classi non consente all’artista un’applicazione a temi di maggiore impegno. Soltanto «in una società diversa la vostra tecnica (– di voi pittori, scultori, poeti o romanzieri –) sarà messa al servizio di altre finalità».
Con altrettanto vigore Aragon (sul numero 136 del 29 novembre 1946 di «Les Lettres françaises») rimprovera a Garaudy il pericoloso liberismo artistico contenuto nelle sue tesi.
«In altri termini, se l’arte non è spesso quello che Garaudy o voi od io stesso desidereremmo, la colpa è solo del capitalismo, e l’artista può tranquillamente continuare a dipingere qualsiasi cosa e in qualsiasi modo mentre Garaudy, voi ed io stesso batteremo sempre le mani riservandoci ogni critica per il periodo in cui in Francia ci sarà una società senza classi. Chi non comprende che se noi prendessimo tutto questo alla lettera, esso significherebbe puramente e semplicemente l’abbandono del punto mdi vista della lotta di classe? Che cos’è infatti lo stato di fatto se non precisamente il capitalismo?».
Esiste invece anche un criterio marxista per giudicare un’opera d’arte. Infatti è il realismo «che corrisponde nell’arte al materialismo storico». Non la rappresentazione fotografica del mondo, ma l’interpretazione della realtà mettendosi dal punto di vista delle correnti di pensiero progressive. La sola libertà, il solo arbitrio possibile è quello, per fare dell’arte, di dire, scrivere o dipingere la verità e in nome di essa, battersi contro ogni contrabbando eclettico, contro ogni deformazione estetizzante.
Rispondendo su «Les Lettres françaises» (13 dicembre 1946) Garaudy riconosce di aver dato una risposta «mal formulata» ad una questione «mal posta». In effetti l’artista non può essere solo un «testimone» o un trascrittore pedissequo del reale, ma soprattutto un «militante», un uomo impegnato in ogni sua attività nella lotta per un mondo migliore. Così la libertà non può più essere il diritto di dipingere o scrivere in qualsiasi modo, «il diritto all’errore». «La libertà non comincia ad avere un significato solo che per l’uomo che partecipa coscientemente al movimento progressivo della storia». Così il realismo, non ogni naturalismo plagiario, questa religione della verità è il modo di dipingere o scrivere prendendo la propria posizione di lotta. «Il realismo implica sempre un giudizio sulla realtà: anche se fotografico esso comporta una scelta: la scelta del frammento del reale. Due decisioni preliminari definiscono ogni realismo: decisione di scegliere un aspetto della realtà e decisione di adottare nei suoi confronti un’attitudine amichevole o ostile… Il nostro realismo ristabilisce la totalità del complesso umano. Esso traduce l’uomo in un’epoca con i suoi bisogni, lo situa in una classe con i suoi interessi, i suoi ideali e la sua missione storica».
Fin qui la polemica francese, ma è prevedibile – ed anzi augurabile – un suo sviluppo anche in Italia.
(Tratto da «Rinascita», n. 5, maggio 1947).
Inserito il 28/05/2023.
Dossier Il Politecnico
Da «Rinascita» – N. 7, luglio 1947
La politica comunista e i problemi della cultura
(Risposta a Elio Vittorini)
(Risposta a Elio Vittorini)
di Felice Platone
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La politica comunista e i problemi della cultura
(Risposta a Elio Vittorini)
«Politica e cultura» intitola elio Vittorini l’amichevole discussione iniziatasi tra lui e Togliatti sulle colonne del «Politecnico», ma la questione scottante non è, come sembrerebbe indicare il titolo, la vecchia questione dei rapporti generali tra politica e cultura, tra la politica in generale e la cultura in generale, tra una qualsiasi politica e una qualsiasi cultura. Il punto dolente della discussione è un altro. Il problema che ha un interesse vivo e attuale (stavo per dire: politico) e non meramente intellettualistico, il problema che preoccupa e agita e appassiona profondamente Vittorini e i suoi amici e lettori – come intellettuali, come rivoluzionari, come uomini – è il problema dei rapporti tra una determinata politica e una determinata cultura, tra la politica del Partito comunista e la cultura avanzata di cui Vittorini, pel tramite della sua rivista, è uno dei più fervidi organizzatori. Salta agli occhi l’enorme importanza di questo fatto, nuovo nella storia del nostro paese, che una parte considerevole degli intellettuali italiani, e soprattutto dei giovani intellettuali, considerino i loro problemi e i problemi della nuova cultura in connessione con la politica del Partito comunista. Questi uomini, questi militanti della cultura si rendono conto, più o meno chiaramente, che le vecchie classi dirigenti non possono più offrire alla cultura nessuna prospettiva di sviluppo e di rinnovamento e anzi la condannano alla stasi e alla involuzione. Essi tirano le somme dell’esperienza fascista che ha soffocato ogni libera attività culturale e portato lo squallore anche nel campo della cultura e si volgono alle classi nuove perché, in quanto pensano e in quanto sono fedeli alla loro missione e alla loro vocazione, si rendono conto più o meno chiaramente che la salvezza, se è possibile, può venire soltanto da quella parte. Questo spiega la loro estrema sensibilità e suscettibilità di fronte a ogni manifesta della politica comunista, le loro incertezze, i loro dubbi, le loro inquietudini, le loro diffidenze, i loro ansiosi interrogativi.
La politica del Partito comunista eviterà, effettivamente, ogni inframmettenza deleteria alla ricerca e al lavoro culturale? Creerà le condizioni di un rinnovamento e di una nuova espansione culturale? O si vorrà ancora una volta asservire la cultura a interessi estranei a quelli della cultura stessa? Queste le questioni che vanno esaminate e chiarite.
Occorrerà tuttavia sgombrare il terreno da alcune altre questioni più vaste o preliminari sulle quali Vittorini insiste a lungo nella sua ultima lettera a Togliatti, manifestando la legittima esigenza che vengano anch’esse approfondite e chiarite. Ma per ciò fare è necessario porle in modo concreto, nei loro giusti termini e alcune distinzioni e precisazione sono pertanto necessarie. Prendiamo, ad esempio, il termine stesso di «cultura» che Vittorini non adopera sempre nello stesso significato. Egli vorrà concedere che altro è intendere cultura nel senso di civiltà e altro nel senso di specifiche attività letterarie, artistiche e scientifiche. La politica è lotta di civiltà (o di «barbarie») contrastanti, in quanto è lotta di classi portatrici di civiltà, di culture contrastanti, cosicché l’affermarsi o il decadere di una cultura sono fatti politici e conseguenze di una lotta politica oltre che di un’attività strettamente culturale. Nessun conflitto può insorgere tra una determinata civiltà o cultura (che può anche essere una «barbarie» dal punto di vista della civiltà antagonistica) e la politica che ne è l’espressione concreta e la continua attuazione: l’una e l’altra sono legate alla stessa sorte; si tratta, per l’una e per l’altra, di lottare, vincere o cadere insieme. Ecco perché le attività culturali specializzate non possono staccarsi e isolarsi dalla vita senza degenerare, veramente, in retorica, in arcadia, in accademia, – foglie morte alla deriva sulle acque vive della storia. Ecco perché non si può ammettere che la «ricerca della verità» appartenga esclusivamente alle attività culturali in senso stretto. La ricerca della verità è propria di tutte le attività umane, del filosofo e dell’operaio, dell’artista e del contadino, dello scienziato e del navigatore. Il pezzo lavorato al tornio, il viaggio di una locomotiva, il pane quotidiano, contengono anch’essi, come ogni altra opera umana, una somma di verità cercate, acquisite e realizzate. Ne sa qualche cosa l’«Elefante» del Sempione e del Frejus. (Può anche non saperlo e non averne coscienza, non esser giunto, cioè, alla verità più importante e feconda, ma questa è un’altra storia). Ciò che importa è che la cultura sarà veramente libera e avrà illimitate possibilità di espansione quando queste verità, le verità di tutti gli uomini, cesseranno di essere nemiche tra loro.
Un’altra affermazione di Vittorini che dev’essere precisata è questa: che la cultura «vuole» i grandi rivolgimenti sociali, le trasformazioni del mondo. Certo, un rivolgimento storico non avviene se non nasce una «cultura», sia pure rudimentale e imperfetta, che organizzi e diriga le forze che devono attuarlo. Ma ciò significa forse che la «cultura», in generale, «vuole» i rivolgimenti sociali e le trasformazioni del mondo? Ahimè! Anche negli esempi citati da Vittorini, la storia sembra dire piuttosto il contrario. Quanti uomini di cultura non hanno inviato al patibolo i rivoluzionari, gli artefici della rivoluzione francese, i giacobini che Vittorini giustamente ammira per la coerenza e la decisione dimostrate nell’adempiere al compito di spingere avanti – come dice Gramsci – la pavida borghesia a calci nel sedere? Non è possibile approfondire qui, come si dovrebbe, il problema, in verità piuttosto complesso, dei rapporti tra la cultura e i grandi rivolgimenti storici del passato, ma qualche breve considerazione e qualche esempio potranno forse non essere inutili. Qualche settimana fa, durante una seduta alla Costituente, Togliatti, interrompendo l’on. Cappi, lo esortava a essere meno ciceroniano, cioè meno retore, e più cristiano, cioè più veritiero. Esortazione diabolica se si pensa che era rivolta a un intellettuale cattolico che ha alle sue spalle la Controriforma, il Rinascimento, il cardinale Bembo, Monsignor Della Casa e la Compagnia di Gesù. Ma così non stavano le cose agli albori del Cristianesimo, quando i cristiani affermavano la loro fede dichiardando di non essere «ciceroniani», respingendo cioè la cultura di Roma. Il Cristianesimo non aveva neppure incominciato a sviluppare i germi della nuova civiltà che portava in seno, era ancora «barbarie» e «incoltura» a petto della raffinata cultura di Roma che esso considerava come la nemica da abbattere. E fu la «barbarie» cristiana a volere il rivolgimento storico, non la risplendente cultura di Roma. In seguito, il cattolicesimo si fece cultura, divenne esso stesso la cultura della nuova classe feudale dominante e cessò di «volere» rivolgimenti sociali, vi si oppose anzi ferocemente e lottò senza esclusione di colpi contro il sorgere di una nuova cultura. Né si può dire che voglia oggi un qualsiasi rivolgimento sociale, tanto è vero che la borghesia tende a gettare un velo sulle lotte e sulle guerre del passato e a fare del cattolicismo la propria «cultura». Persino il filosofo idealista Croce, il pontefice sommo della cultura italiana, già condannato dalla Chiesa, non è insensibile a questi nuovi orientamenti e allettamenti. Ecco perché l’on. Cappi può e deve essere «ciceroniano», con l’approvazione della Curia di Roma. Per quanto riguarda le rivoluzioni del secolo XVII e XVIII, non si può dimenticare che furono precedute da un altro grande rivolgimento, dalla Riforma, che si presentò anch’essa come «incultura» in armi contro la cultura tradizionale, tanto che Erasmo poteva dire che dov’era Lutero, ivi la cultura moriva. Ma dalla Riforma – rozza e incolta – si sviluppò quella nuova cultura che, fino a un certo punto e con molte incertezze, contraddizioni, resipiscenze – simile a «quei che disvuol ciò ch’ei volle», – «volle» la rivoluzione francese.
La borghesia aveva avuto il privilegio di poter sviluppare la propria cultura e creare i propri gruppi intellettuali, ancora prima di conquistare il potere politico, grazie al fatto che l’aristocrazia aveva tradizioni militari e non altrimenti culturali, grazie alle posizioni che occupava nella vita economica, alle lotte dei nuovi Stati contro il controllo culturale di Roma, alla distruzione del monopolio culturale della Chiesa ad opera della Riforma. Essa giunse al potere possedendo già gruppi di intellettuali numerosi e addestrati in tutti i rami dell’attività culturale, e ciononostante, dopo la rivoluzione francese, la «cultura» fu in complesso più un freno che un incentivo ai successivi rivolgimenti: basti ricordare il Risorgimento italiano e il processo di unificazione della Germania.
Radicalmente diverse sono le condizioni in cui il proletariato si organizza come classe, si afferma come classe dirigente e conquista il potere politico. La classe operaia non ha posizioni e funzioni direttive nell’economia borghese, non ha possibilità di accedere alle attività intellettuali, alle Università, alle scuole, si presenta da principio come una plebe rozza e incolta, sprovvista di mezzi all’infuori della lotta e dell’organizzazione, per elaborare la propria cultura e i propri intellettuali. La cultura proletaria nasce col partito politico della classe operaia. Il Manifesto del 1848 è l’atto di nascita dell’una e dell’altro. La provenienza di Marx e di Engels dalla cultura borghese non significa affatto che la cultura borghese «volesse» lo sviluppo politico e culturale della classe operaia e tanto meno un rivolgimento proletario. All’atto stesso in cui getta le basi della sua concezione, Marx esce dal campo della cultura borghese e inizia la lotta contro di essa. Come giustamente osserva Gramsci, Marx non può essere considerato come uno dei tanti autori di nuove dottrine economiche e filosofiche; egli è il fondatore di una nuova civiltà, antagonistica alla civiltà precedente e destinata a soppiantarla.
Come bisogna dunque intendere l’affermazione che la cultura «vuole» i grandi rivolgimenti sociali? Non certo nel senso che la vecchia cultura, la cultura tradizionale, è rivoluzionaria e neppure nel senso che la cultura della classe rivoluzionaria è anch’essa rivoluzionaria, ciò che sarebbe una pura tautologia. Forse nel senso che la vecchia cultura si disgrega e che elementi della vecchia cultura abbandonano il campo della conservazione e della reazione e passano sempre più numerosi nel campo della classe progressiva e rivoluzionaria dalla cui vittoria dipendono in ultima analisi le possibilità di sviluppo e di rinnovamento della cultura? In questo senso mi pare che l’affermazione possa essere accettata, e si deve anche ammettere che, per questa nuova cultura, la ricerca della verità non significa soltanto ricerca di nuove verità, ma anche revisione delle vecchie al fine di conservare tutto ciò che ancora è vivo e fecondo della vecchia cultura. Oggi la cultura attraversa, come si suol dire, una crisi e una parte notevole di essa, nel cercare nuovi indirizzi e nuovi orientamenti che le permettano di sfuggire alla stagnazione e alla decadenza, incomincia a rendersi conto che la classe operaia è portatrice di una civiltà nuova, più avanzata. La lotta contro il fascismo ha accelerato questo processo di democratizzazione della cultura, anche tra coloro che in passato avevano sempre guardato con diffidenza al socialismo e alle realizzazioni del primo Stato socialista. Raramente il nesso politica-cultura è stato così stretto ed evidente.
Quale è dunque stato nel passato e quale è oggi l’atteggiamento dei comunisti verso la cultura e i problemi della cultura? Quale è dunque stato nel passato e quale è oggi l’atteggiamento dei comunisti verso la cultura e i problemi della cultura? C’è l’ombra di una ragione perché questi problemi vengano «sentiti, intorno al nostro Partito, con incertezza e con disagio, o addirittura con diffidenza, con ipocrisia, con avversione, con timore»? Francamente, a me pare che questa ragione non esista, fuorché nella propaganda dei nostri avversari e dei nostri nemici. Badi Vittorini che io non escludo affatto che il Partito comunista e i singoli comunisti possano commettere degli errori, incorrere in valutazioni inesatte di fatti e di uomini, nel corso della loro azione politica. Ammetto senz’altro che vi siano, in particolare, errori di settarismo e di opportunismo nell’attività politica dei comunisti; ma questi errori non caratterizzano e non possono caratterizzare la politica del Partito e ad essi non si reagisce con la diffidenza e col disagio e tanto meno con l’ipocrisia, ma con la discussione e la critica aperta. Se qualcosa si può rimproverare al Partito comunista non è certo una eccessiva e dispotica inframmettenza nell’attività culturale, ma piuttosto una certa insufficienza e discontinuità nel suo lavoro di critica culturale e di collegamento con gli intellettuali. La stessa nota di Mario Alicata che ha dato origine a questa discussione e le reazioni che essa ha suscitato sono una prova degli scarsi contatti esistenti tra intellettuali e intellettuali, nel nostro partito. Questo è un difetto che va emendato, un errore che va corretto, perché è dovere del partito creare le condizioni più favorevoli al lavoro degli intellettuali che si sono accinti coraggiosamente a dare nuovi orientamenti e nuove possibilità di sviluppo alla cultura italiana. Sia ben chiaro però che il contributo decisivo, essenziale che il partito può dare alla nuova cultura consiste nella lotta politica che esso conduce per il rinnovamento democratico del nostro paese. Senza la vittoria della democrazia, cento Alicata potrebbero anche erigere alla letteratura americana contemporanea cento monumenti alti come i grattacieli di New York, ma ciononostante la sorte della cultura sarebbe segnata. Ecco un punto fermo al quale occorre costantemente riferirsi quando si discutono i problemi della cultura e in particolare quando si parla di indipendenza e di autonomia della cultura. Ciò non toglie che Vittorini abbia ragione quando rivendica per le varie attività culturali la libertà di elaborare in piena indipendenza i loro propri metodi e criteri di ricerca, conformemente ai loro interessi specifici, e quando osserva che la linea di demarcazione tra reazione e progresso non sempre coincide nella politica e nella cultura.
Quest’ultimo rilievo ci rammenta che l’arte è un modo di conoscere la realtà e, talvolta, di conoscerla più profondamente di quanto non consentano gli altri metodi d’indagine, e anche di anticiparla. Si potrebbero ricordare le osservazioni di Marx sulle opere di Balzac e di Lenin sulle opere di Tolstoj, ma non è il caso di avviare ora quest’altro discorso.
Parliamo invece di Lenin. Qui Vittorini ha torto. Il suo giudizio sul significato culturale dell’opera di Lenin è da respingere senz’altro. Stalin è leninista; Gramsci è leninista. Essi sono leninisti non soltanto nella loro azione politica, ma anche nella loro attività culturale, poiché – osserva Gramsci – è stato Lenin che ha, «in opposizione alle diverse tendenze economistiche, rivalutato il fronte della lotta culturale e costruito la dottrina dell’egemonia». Scrive ancora Gramsci: «Ho accennato altrove all’importanza filosofica del concetto e del fatto di egemonia dovuto a Lenin. L’egemonia realizzata significa la critica reale di una filosofia, la sua reale dialettica».
Altro che aver tradotto il marxismo da metodo in sistema. Colui che ha sferrato il colpo decisivo contro le deformazioni meccanicistiche del marxismo, contro le tendenze a considerare il marxismo come un dogma e non come una guida per l’azione, è stato Lenin e nessun altro. Nel nuovo Stato, Lenin ha dato il primo potente impulso alla nuova cultura, ha messo in primo piano i problemi della cultura quando ancora infuriava la guerra civile e il problema del pane quotidiano era angoscioso, ha bandito una vera e propria crociata perché tutto ciò che era vivo della vecchia cultura venisse conservato e assimilato dalla nuova classe dirigente. Gli uomini «vivi» della cultura, che riducono tutta la concezione filosofica e l’attività culturale di Lenin al solo volume sull’empiriocriticismo, non capiranno mai nulla della statura culturale di Lenin e della sua opera nel campo della cultura; non capiranno neppure che Lenin non era un fabbricante di verità eterne, né che Materialismo ed empiriocriticismo andava scritto nel linguaggio richiesto dal pubblico cui era destinato e dalla cultura russa di quel tempo, né che quel libro non era dovuto soltanto a esigenze politiche, ma a una necessità culturale, alla necessità di difendere la cultura proletaria dalle infiltrazioni di ideologie avverse che l’avrebbero disgregata e ridotta all’impotenza. Quando Vittorini cita la cultura russa prerivoluzionaria tra quelle che «volevano» un grande rivolgimento sociale, forse non riflette che il libro di Lenin aveva contribuito a formare quella parte della cultura che effettivamente «voleva» il grande rivolgimento, contro quell’altra parte che voleva forse una rivoluzione di palazzo o qualche concessione costituzionale, ma non certo una rivoluzione socialista. Così è assurdo voler contrapporre alla dottrina di Lenin, la dottrina di Stalin che ne è lo sviluppo, la continuazione, l’applicazione a nuove situazioni e a nuovi compiti. Da ventitré anni Stalin dirige lo Stato sovietico e l’edificazione e la difesa della società socialista. In questi ventitré anni egli ha dato la misura del suo valore, della sua originalità, del suo genio. Ma una delle ragioni dei suoi successi e delle sue vittorie è senza dubbio la fedeltà incrollabile alla dottrina di Marx e di Lenin.
La cultura sovietica è nata dalla dottrina di Lenin e di Stalin, dalla dottrina della classe operaia e deve a ciò il suo intimo carattere di cultura progressiva e rivoluzionaria. Taluno si maraviglia che dopo meno di trent’anni di potere sovietico (molti dei quali passati tra guerre e guerre civili) la cultura sovietica non sia ancora entrata nel suo secolo di Pericle e nell’età del suo Rinascimento. Verrebbe fatto di sorridere di queste impazienze (a proposito di «impazienze del razionalismo scientista»!) se esse non fossero all’origine di critiche e di accusa profondamente ingiuste e infondate. La cultura sovietica si è dovuta difendere con le unghie e coi denti e ancora deve difendersi contro le infiltrazioni della cultura avversa, armata di mezzi formidabili, della forza della tradizione e servita da un potente esercito di intellettuali, e ciò nonostante ha superato rapidamente il periodo della mera resistenza e si è messa sulla strada dell’espansione. Abbiamo la certezza che essa vincerà, e questo è un fatto politico oltre che culturale, perché la politica sovietica non può vivere senza la cultura sovietica e la cultura sarebbe condannata se non potesse contare sul vigile appoggio della politica. Si comprende perciò che lo Stato sovietico e il partito bolscevico difendano la nuova cultura come la pupilla dei loro occhi e ne favoriscano con tutti i mezzi l’espansione.
Poche parole per concludere, sul commento di Vittorini alle decisioni del V Congresso del Partito comunista. Salva qualche precisazione, si può in massima essere d’accordo con Vittorini. È ovvio che aprendo le porte ad altre ideologie, il partito non ha inteso rinunciare alla propria e neppure disinteressarsi degli orientamenti ideologici e culturali dei suoi iscritti. Il partito, come ha cercato di stabilire, sul piano politico, un fronte, il più largo possibile, di difesa democratica e di lotta contro la reazione e il fascismo, così sul piano culturale, ha voluto impostare nei termini più larghi possibili la lotta contro le ideologie più reazionarie, contro la «cultura» reazionaria, in difesa della cultura progressiva e delle possibilità di rinnovamento della cultura. Mi pare che queste decisioni impegnino gli intellettuali che seguono il nostro Partito o gravitano più o meno intorno ad esso, essenzialmente a due cose, nel campo della loro attività specifica: primo, a lavorare onestamente, con sincerità, secondo la loro vocazione e la loro ispirazione, per il progresso della cultura; secondo, a non venire a patti, a non transigere con le ideologie più reazionarie e ostili alla nuova cultura, né con le loro manifestazioni culturali o pseudoculturali di qualsiasi genere, a non venire a patti, a non transigere col fascismo e col trotzkismo, con i più perniciosi nemici della democrazia e di ogni cultura progressiva. Non che si vogliano respingere i giovani (o anche i meno giovani) che si avvicinano al partito portando inconsapevolmente con sé residui del loro passato fascista o trotzkisteggiante (anzi, uno dei compiti più importanti della nostra attività fra gli intellettuali consiste proprio nell’aiutare questi giovani a rendersi pienamente consapevoli del carattere reazionario e regressivo di quelle ideologie). Ma non si può ammettere che un intellettuale comunista, a ragion veduta, con l’uno o l’altro pretesto culturale, faciliti il lavoro di disgregazione e di corruzione che trotzkisti e fascisti tentano di svolgere fin nelle nostre file.
Se qualche dubbio, qualche incertezza o qualche diffidenza dovesse nascere a causa di questa netta presa di posizione del nostro Partito contro il fascismo e contro il trotzkismo, anche in sede di cultura, si potrà sempre discuterne in modo più ampio ed esauriente. Non c’è davvero motivo di preoccuparsi se le riviste, i giornali, gli editori democratici metteranno al bando le «idee» fasciste o trotzkiste. Ci pensa la stampa gialla a diffonderle, come nei vent’anni passati ci ha pensato il fascismo.
Non mi pare che questo atteggiamento dei comunisti possa urtare le esigenze di libera ricerca e di libera attività creativa dei nostri intellettuali e a questo proposito, giusto per vuotare il sacco, vorrei ancora aggiungere che non sono molto persuaso della spiegazione che Vittorini dà del distacco di gruppi di intellettuali americani da riviste e da movimenti comunisti o filo-comunisti. Sulle cause di questo distacco si possono fare varie ipotesi: che i comunisti abbiano fatto una politica sbagliata; che quegli intellettuali, che si erano avvicinati al comunismo in periodo di bonaccia, abbiano sentito, come spesso accade, nel momento acuto della crisi e dell’offensiva anticomunista, il richiamo della loro classe (della classe che li aveva formati intellettualmente) e siano tornati all’ovile, non per viltà, ma proprio per la pressione «culturale» di tutto l’ambiente. Entrambe le ipotesi possono essere vere. La storia delle classi rivoluzionarie abbonda di episodi di questo genere, e quanti non ne abbiamo registrati in Italia nell’altro dopoguerra? Così va il mondo, e non per nulla, caro Vittorini, ci diamo da fare per vedere se riusciamo a cambiarlo un poco.
Felice Platone
(Tratto da «Rinascita», n. 7, luglio 1947).
Inserito il 29/05/2023.
Dossier Il Politecnico
Da «Il Politecnico» – N. 36, settembre 1947
Politica è cultura
Lettera di Fabrizio Onofri
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Politica è cultura
Lettera di Fabrizio Onofri
Caro Elio,
molte cose tu metti in discussione nella lettera apparsa su «Politecnico 35» e anche in quella precedente. E, giustamente, tutte le ordini intorno ad una, che è il nocciolo della questione: quali sono i rapporti tra politica e cultura? Che cos’è politica, che cos’è cultura? È proprio a questo, mi pare, che non riesci a risponderti con sufficiente chiarezza.
Nella prima lettera, tu introducevi una distinzione tra politica e cultura che si basava sull’altra tra cronaca e storia, e in definitiva su quella tra quantità e qualità. Adesso ti sei accorto di aver sbagliato, di aver preso, per distinguere, un modo meccanico e astratto. Ma ancora adesso, e qui sta il punto, tu continui ad usare di quella distinzione contrabbandandola sotto altri termini che sono in realtà equivalenti per il modo con cui li usi («automatismo» e «scelta», «necessità» e «scelta»). Tra politica e cultura non introduci, in questo modo, solo una distinzione, ma stabilisci un’opposizione, e per giunta un’opposizione statica, nemmeno dialettica, come lo stesso idealismo crociano aveva tentato di stabilire. Ancora meccanica, insomma, mi pare la distinzione che tu fai tra politica e cultura anche là dove già ti sforzi di trovare i punti di contatto, ossia un’unità, nella distinzione: «Politica – scrivi – si chiamerà la cultura che per agire si adegua di continuo al livello di maturità delle masse… Continuerà invece a chiamarsi cultura la cultura che… saprà andare avanti sulla strada della ricerca»; anche se le masse si fermano o segnano il passo: anzi, in questo caso, sarà proprio la cultura che «rimetterà in moto la politica». È proprio qui, mi pare, che tu cominci a sbagliare. Non vedendo che la cultura (e meglio avresti espresso il tuo pensiero dicendo in questo caso «l’uomo di cultura») neppure essa va avanti nel suo insieme prescindendo dal «livello di maturità» delle masse, poiché questo «livello» è esso stesso cultura, cultura che circola nel mondo, nelle masse e negli intellettuali, e non può perciò non condizionare più o meno direttamente il progredire di quella che tu chiami, in senso ristretto, «cultura». Tu commetti l’errore, nonostante gli sforzi che fai per guardartene, di considerare realmente cultura solo quella che appartiene a un ristretto gruppo d’intellettuali, a certe avanguardie. Ma questo taglio, tra cultura e incultura (o, come anche dici, «cultura sorpassata»), tu dovresti in realtà praticarlo non solo tra masse e avanguardie, tra masse e uomini di cultura, ma anche tra uomo di cultura e uomo di cultura. Non credi che in questo senso anche il Croce sia un uomo di «cultura sorpassata»? E non credi che tutti noi, me, te, e molti altri, siamo uomini di cultura sorpassata almeno da quando c’è qualcuno che conosce a fondo la disintegrazione dell’atomo? In realtà, per questa via, produttori di cultura sarebbero soltanto alcuni pochi Superuomini!
Nel concetto di cultura bisogna invece far rientrare non solo il «livello» raggiunto dallo scienziato che ha scoperto la legge di disintegrazione dell’atomo, ma anche quello del contadino che crede ancora all’inferno e al paradiso, e del «selvaggio» che crede ai numi tutelari e ai tabù: ché di fatto la cultura di un dato periodo (almeno in questo senso vasto, e diciamo su scala mondiale, con cui tu ancora usi il termine cultura, che ti si identifica così con l’altro di civiltà) è la risultante dialettica di tutti questi «livelli», i quali operano di continuo gli uni sugli altri, influenzando e condizionando anche la «ricerca» di quelli che si potrebbero chiamare i pionieri della cultura.
Se non si parte di qui, non si arriverà mai a comprendere che cosa significa ad esempio in Marx l’affermazione che «la filosofia non può tradursi in atto senza l’eliminazione del proletariato». Non si comprenderà in che modo le varie stratificazioni culturali giungano ad esprimere contemporaneamente ciascuna un proprio gruppo di intellettuali, ossia di «uomini di cultura», di «elaboratori di cultura»: non si comprenderà cioè come, in uno stesso paese, vi siano ad esempio un papa con tutta la schiera dei suoi vescovi, parroci e preti, un Benedetto Croce con la sua schiera di critici letterari, professori universitari, insegnanti, giornalisti, ecc. e un Antonio Gramsci. Ancora: non si comprenderà che cosa voglia dire, o rimarrà un’espressione vaga e romantica, «andare a scuola dalla classe operaia».
Se tu intendi per cultura il patrimonio di conoscenze che tutti gli uomini nel loro insieme hanno e la «ricerca» che con questo patrimonio essi conducono, credo che ti verrà a mancare la base principale per la distinzione da te tracciata fra politica e cultura. È evidente infatti che, per dirla con Marx, la «filosofia» procederà nella misura in cui il «proletariato» procederà verso la propria «eliminazione», ossia verso la società senza classi. È evidente cioè che l’azione politica di un partito verso determinate masse è sempre anche un fatto culturale, così come è anche cultura ciò che si esprime delle masse in un partito politico. E cultura perciò non a senso unico, da elargire alle masse bella e fatta (e allora sì che potresti parlare di automatismo! Ma sei proprio tu che lo dici), bensì rapporto operante in doppio senso, com’è ogni rapporto anche pedagogico, per cui lo stesso «maestro» apprende insegnando o – come ha detto Marx – «l’educatore stesso deve essere educato». Da un lato, l’organizzarsi di determinate masse o di determinati individui corrisponde sempre alla conquista di queste masse o individui ad un certo livello culturale e, dall’altro, questo organizzarsi produce inevitabilmente nel «quadri» (o uomini di cultura) di quelle masse, un accrescimento e un arricchimento del loro specifico patrimonio culturale. Senza il movimento delle masse operaie nella prima metà dell’800 (movimento che era già di per sé una primitiva presa di coscienza di nuovi diritti e di nuove aspirazioni, ossia una conquista culturale, da parte del proletariato), il marxismo non sarebbe nato; non si sarebbe iniziata cioè quella nuova cultura che ha in Marx la sua prima formulazione scientifica. Senza l’esperienza compiuta in un secolo dal movimento operaio mondiale e dal movimento delle classi lavoratrici in genere, la Chiesa cattolica non avrebbe mai accettato quei principi di liberalismo e, peggio!, di democrazia, che essa condannava così recisamente nel 1865. Senza il movimento delle masse lavoratrici italiane, Gramsci non avrebbe mai scritti i suoi quaderni, la sua storia degli intellettuali la sua questione meridionale.
Mi dirai che queste sono cose evidenti? Ma è appunto da queste cose evidenti che si arriva alla conclusione: essere sempre la politica anche cultura. Politica anche nel senso più immediato, come azione che spinge nuove masse o nuovi individui ad organizzarsi e a lottare (anche solo sindacalmente), cioè a conquistarsi una nuova coscienza, che è quanto dire già una nuova cultura, con tutte le ripercussioni che ciò comporta anche e fino al vertice della scala culturale. A te è sfuggito appunto che la politica non solo corrisponde a una cultura, non solo produce cultura, non solo può essere «messa in moto» da una determinata cultura (e non sempre, a differenza di come tu affermi), ma è sempre anche cultura, è cultura che si muove. Ti è sfuggito che il movimento operaio è sempre anche, e in se stesso, movimento culturale, ossia non solo si accompagna, produce e risente di un movimento culturale, ma lo è. Ti pare che la storia di 100 anni di socialismo sia solo storia di lotte politiche, di lotte e di conquiste sindacali, e non anche storia di lotte e di conquiste culturali? Di più: ti pare che aver conquistato il diritto di sciopero, le 48 ore e poi le 40 ore settimanali, il diritto all’assistenza, ecc. non sia aver conquistato, e non solo agli operai ma a tutti gli uomini, una nuova coscienza dell’uomo, ossia aver compiuto una conquista anche culturale?
La contrapposizione rigida che tu hai stabilita tra cultura e politica, ti ha portato poi a commettere l’altro errore di parlare di politica come di «automatismo», di «necessità». Non aver visto che la politica partecipa anch’essa, come «sovrastruttura», di alcuni caratteri del rimanente della cultura – ti ha portato a confondere la politica con le condizioni materiali di produzione (che Marx chiama «struttura») e ad attribuire la possibilità di una «scelta», la capacità di essere «ricerca», soltanto alla cultura in contrapposizione alla politica. Da ciò dovrebbe conseguire che, in politica, non c’è «ricerca», non vi è «scelta» e, dunque, non vi è possibilità di sbagliare! Non credo ci sia bisogno di fare i nomi di Kautsky, di Trotsky e di molti altri, per convincerti della tua svista. È certo che la politica agisce più immediatamente a contatto con la struttura, ossia con la necessità, che non il resto della cultura. Ma non ti pare che l’esistenza da te rilevata di «pifferari», tra gli uomini di cultura, sia una prova che l’automatismo è anche della cultura e non costituisce dunque un criterio di distinzione fra politica e resto della cultura? Una differenza c’è senza dubbio, ed è quella che tu chiami cultura «tout court» si muove in zone più lontane e talora tanto lontane dalla struttura da apparire come indipendente da essa. Tale suggestione, che già Engels aveva rilevata, è tanto forte che spinge pure te a rivendicare l’autonomia della «cultura» dalla politica, tu dici «anche all’interno di chi sia uomo politico», tranne – aggiungi – «nei momenti decisivi delle rivoluzioni» (e rifà qui capolino, con questi «momenti decisivi», la teoria del quantitativo e del qualitativo?). Autonomia della cultura dunque? Ma in che senso e contro chi tu avanzi tale rivendicazione? Se per autonomia tu intendi, non indipendenza assoluta, ma un campo specifico di attività che si distingua dagli altri pur essendone influenzato, condizionato e in parte determinato – dove puoi trovare qualcuno, nel marxismo e nel nostro partito, che non ti abbia già dato ragione? Ma se tu per «autonomia della cultura» intendi, come qualche volta sembri intendere, assoluta libertà, ricerca per la ricerca, senza legami con la «necessità» e senza incidenze politiche, allora credo che ti si debba dar torto, anzi che ti dài torto da te stesso. Poiché anche un processo culturale che si sviluppasse in modo completamente indipendente dal resto, sarebbe sempre condizionato, almeno dalle tradizioni culturali (e quindi anche politiche) dello sviluppo culturale anteriore; avrebbe cioè, almeno in questo, la propria necessità. Ma esiste poi questo processo «completamente indipendente»? Forse che, quando tu hai scritto queste tue lettere, non svolgevi un lavoro culturale in connessione con la politica, non volevi appunto una politica in un certo modo per avere una cultura in un certo modo? E quando hai scritto il Sempione, eri «indipendente» dalla politica, da quello che tu metti nella tua Nota in fondo al libro (il pane a tante lire, i salari a tante altre), eri «indipendente» da quello che il nostro partito dice e fa per questo pane e per questi salari? O Forse eri indipendente dalle tue lettere su «Politica e cultura»?
Non solo. Ma come ti è sfuggito il valore anche culturale della politica, così ti sfugge, per questa via, il valore anche politico di quella che tu chiami «cultura». Prendiamo l’esempio di Hemingway. Anch’io credo che Hemingway abbia scritto uno o due veri romanzi. Ma il loro limite, il loro limite artistico, sta proprio in un loro segno politico e, ancora prima, sociale e umano: in ciò che essi politicamente e umanamente rappresentano. E non dico solo del modo in cui Hemingway parla, ad esempio, di un grande rivoluzionario francese e di altri combattenti della guerra di liberazione spagnola; ma anche di qualche cosa di molto più profondo. Mi spiego. Tu scrivi che Marx «propugna una rivoluzione che non è a fine collettivista, ma a fine individualista, anzi la prima, la vera, a fine individualista». E se vuoi dire con questo che la società comunista sarà la società in cui si realizzerà il massimo di libertà individuale, comincerà anzi il «regno della libertà» e avrà piena possibilità di esplicarsi quella che oggi vien chiamata la persona umana, nessuno credo potrà darti torto. Ma è certo comunque che a quella società che tu chiami a fine individualista, ci si arriverà attraverso un massimo di coscienza sociale raggiunto dagli uomini, attraverso cioè una coscienza collettivistica di sé e del mondo, coscienza che ha la propria base appunto nella società socialista e nella lotta che si svolge nel mondo per prepararla e realizzarla. («Il punto di vista del nuovo materialismo – scrive Marx nella X Tesi su Feuerbach – è la società umana, o l’umanità socializzata»). Io credo che questa coscienza, la più alta che l’uomo abbia intrapreso finora a conquistare, si sviluppi e si perfezioni ad opera appunto di quei partiti, come il nostro, che lottano per l’avvento del socialismo. È in tale coscienza che stanno i primi segni della nuova cultura. E appunto di tale coscienza (che nasce in antitesi all’individualismo, proprio della società capitalistica) si afferma e si sviluppa il movimento socialista moderno. Nuova cultura, ossia cultura che avanza, cultura che ricerca, cultura che insegna, è appunto quella che concorre alla formazione e alla ricerca di questa nuova coscienza. Nuova cultura, che si è sinora espressa lungo tutto il movimento socialista, che si è affermata nelle lotte politiche in tutti i paesi del mondo, nel pensiero di Marx e di quanti hanno portato avanti quella coscienza; che si è espressa nella edificazione della società socialista in corso nell?unione Sovietica, e che ancora stenta ad esprimersi in altre forme della cultura, ossia in romanzi, in quadri, in musiche, in drammi. Ebbene, Hemingway appartiene all’altra cultura (alla «vecchia», se questa è la nuova), proprio perché egli perpetua ed esalta, nei suoi libri, il vecchio spirito individualistico, divenuto già scettico e disincantato, in lui, e va ad affermarlo e a dargli risalto – in libri come Per chi suona la campana? – proprio là dove più faticosamente e sanguinosamente si lotta per la conquista della coscienza nuova, della cultura nuova, di una società umana. Questo stesso spirito individualistico pervade tutta l’opera di altri scrittori, che tu citi come «rivoluzionari» (Sartre, Camus) e che per me non lo sono, e tanto più pericolosamente non lo sono, in quanto facendo opera di cultura vorrebbero prendere al socialismo tutto ciò che vi è di meno intrinseco ed uccidere, nel socialismo, proprio quello che vi è, per la cultura, di più rilevante: la lotta per la formazione della nuova coscienza sociale, collettiva, dell’uomo – lo spirito socialista. Questo mettersi contro lo spirito del socialismo, per strapparne solo alcuni aspetti qua e là, a piacimento, accomuna anzi su uno stesso piano i Sartre, i Koestler, i Gide e i vari socialdemocratici di vecchia e nuova lega, i quali non vedono ad esempio che nell’Unione Sovietica una cultura nuova si afferma e sprigiona in tutte le attività quotidiane di quel popolo anche se non trova ancora le sue espressioni più rilevanti in quadri od in romanzi.
Così dunque puoi star certo, caro Elio, che nessuno mai del nostro partito ti chiederà di suonare il piffero alla rivoluzione. E neppure ti chiederà di «limitare» il tuo lavoro o addirittura di «rinunciarvi», se tu riuscirai, come sei ben riuscito, a non farti sopravanzare o addirittura contrastare dai tempi. E ciò dipenderà, si capisce, non solo dalla tua forza d’uomo, ma anche e proprio dai tempi, che a volte mutano più in fretta di quanto sappiano e possano tener loro dietro la coscienza di un singolo e la sua forza di poesia. Ma non sarebbero allora i tempi, ossia la vita, la storia, a ridurti al silenzio? Non saresti allora un «sorpassato», un uomo – come tu dici – di «cultura sorpassata»? Tu, da uomo di cultura, fai pure la tua polemica contro il tuo Croce o il tuo Vaticano. E non chiedi mica, per questo, che diventino comunisti. Ma chiedere di non ingombrare, di non essere di ostacolo alla storia, alla vita, alla cultura, questo credo che sia, da ogni punto di vista, legittimo e giusto domandarlo.
Un’ultima cosa ancora. «Per chiamarmi marxista – tu dici – dovrei essere in grado di apportare qualche cosa al marxismo, e di arricchire io il marxismo, di essere io stesso acqua viva che affluisce nell’acqua viva del marxismo». Conosci questo brano di Gramsci, che qui appresso ti trascrivo?
«Cultura – disse Gramsci dalle colonne dell’«Ordine Nuovo» – non è il possedere un magazzino ben fornito di notizie, ma è la capacità che la nostra mente ha di comprendere la vita, il posto che vi teniamo, i nostri rapporti con gli altri uomini. Ha cultura chi acquista coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione con tutti gli altri esseri… Cultura è la stessa cosa che la filosofia… Ciascuno di noi è un poco filosofo: lo è tanto più quanto più è uomo. Cultura, filosofia, umanità sono termini che si riducono l’uno all’altro… Cosicché essere colto, essere filosofo lo può chiunque lo voglia. Basta vivere da uomini, cioè cercare di spiegare a se stesso il perché delle azioni proprie e delle altrui, tener gli occhi aperti, curiosi su tutto e su tutti, sforzarsi di capire ogni giorno di più l’organismo di cui siam parte; penetrare la vita con tutte le nostre forze di consapevolezza, di passione, dì volontà; non addormentarsi, non impigrire mai; dare alla vita il suo giusto valore in modo da esser pronti, secondo le necessità, a difenderla o a sacrificarla. La cultura non ha altro significato».
E non credi, caro Elio, che questo, Gramsci l’abbia detto proprio della cultura marxista, soprattutto della cultura marxista?
Fabrizio Onofri
Mi sembra che il miglior modo di rispondere a questa lettera di Fabrizio Onofri sarebbe di invitarlo a rileggere la mia lettere del n. 35 integrando i punti oscuri della mia con i punti chiari di questa e viceversa. Io non ho detto che la politica possa essere «automatismo» più di quanto possa esserlo la cultura. Né ho sostenuto che la cultura sia libera dalle condizioni generali di civiltà in cui il mondo, a un momento dato, si trova. Parlando della necessità di un’autonomia della cultura ho solo espresso la mia preoccupazione di vedere attuata una politica culturale che rendesse impossibile la ricerca di «pionieri». Un conto è che una grande o piccola parola nuova risenta della sua elaborazione di tutto quello che accade. Un altro conto è che si penetri nel suo processo di elaborazione per portarla a risentire in senso politico di tutto quello che accade. Tu ti limiti a dire, è vero, che politica è anche cultura. Ma poi reagisci alle mie limitazioni del concetto di politica come se intendessi dire, piuttosto, che solo la politica è cultura (o solo la coscienza politica è coscienza). È a questo che io mi oppongo, e per questo trovo di somma importanza una distinzione tra politica e cultura. Oppure dovrò dire che non merita d’esser chiamata politica la politica di chiunque, per esempio, ritenesse possibile sbarazzarsi di un valore culturale con un falò di libri su una piazza. Ora tu stesso non sei molto lontano da un simile tipo di giudizio dove tratti di Hemingway come ne tratti, o dove fai un fasciolo solo di Camus, Sartre, Koestler e Gide. Non ti accorgi che tu porti il tuo giudizio esclusivamente sulla definizione politica che si può dare dei significati politici espressi nella loro opera? Socialdemocratico, allo stesso modo, può essere chiamato persino Gorkij. E mettere un Koestler, che ha solo preoccupazioni di propagandista politico, sullo stesso piano di un Gide che ha soprattutto delle preoccupazioni umane, con meriti infiniti di arricchimento della coscienza umana, conferma appunto che tu attribuisci un valore di progresso solo a quanto si manifesta sotto l’aspetto politico del progresso. C’è anche il rischio di un’alienazione «par la politique», mio caro Fabrizio, e io vorrei che tu lo riconoscessi. Poiché spetta proprio agli uomini come te di preparare invece quel lavoro critico per cui un Gide sia reso politicamente innocuo e possa, nello stesso tempo, restare poeticamente acquisito.
E. V.
(Tratto da «Il Politecnico», n. 17, 19 gennaio 1946).
Inserito il 13/05/2023.
Dossier Il Politecnico
Da «Il Politecnico» – N. 37, ottobre 1947
“Politica e cultura”: un’intervista
di Elio Vittorini
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“Politica e cultura”: un’intervista
Allo scopo di apportare il massimo di chiarezza possibile nella discussione che si sta ancora svolgendo sui rapporti tra politica e cultura riproduciamo tradotta una delle interviste cui è stato sottoposto (sull’argomento) il nostro Elio Vittorini durante un suo recente soggiorno in Francia. Si tratta di un’intervista pubblicata da «Les Lettres Françaises» (27 giugno 1947) a cura di Jean Gratien e di Edgar Morin.
Che significa per lei «essere marxista»? Lei dice di aver aderito al partito comunista prima di aver letto un rigo di Marx e di Lenin; cioè prima di esser marxista. Non le si potrebbe contestare di essere comunista in maniera «sentimentale» piuttosto che in maniera «marxista»?
– Se ho aderito al Partito senza conoscere il marxismo, non ho affatto ceduto ad un impulso «sentimentale». Quest’adesione significa che, a un certo momento, ho cominciato a prender coscienza di quello che era la società in cui vivevo. L’enorme menzogna, la conoscevo abbastanza.
Ma perché al partito comunista e non ad un altro partito antifascista?
– Perché, senza aver letto Marx, vedevo ogni giorno di più che gli altri partiti erano in un vicolo cieco. Si riferivano tutti ad una morale anteriore al fascismo, ad una morale da cui era nato appunto il fascismo. Conducevano, dunque, tutti in conclusione ancora al fascismo. Nel caso migliore, al ristagno morale, alla sterilità. Si sforzavano di medicare le piaghe, ancora medicarle. Non si applicavano mai alla malattia in quanto tale. Era evidente anche senza aver letto Marx. Il partito comunista era l’unico a proporre in modo visibile una nuova morale, un comportamento nuovo degli uomini di fronte agli uomini-umani e agli uomini-cose. Ho visto vivere i comunisti italiani. Dall’istante in cui ho visto che devo lottare contro il fascismo, ho capito che ero costretto ad essere comunista. Così non mi lamento affatto di esser venuto anche a Marx.
Tuttavia molti scrittori esitano dinanzi a questo engagement. Essi pensano che l’adesione al comunismo implichi un sovvertimento di tutti i valori e dei valori morali in primo luogo.
– Sì, e per esempio pongono, con le migliori intenzioni del mondo, la questione del fine e dei mezzi. Eppure noi comunisti siamo gli ultimi a cui si dovrebbe porre questa questione. E dobbiamo essere altresì gli ultimi a sbarazzarci delle questioni, anche se esse impostano dei problemi che per nostro conto abbiamo già risolto. Dobbiamo accettare perfino i termini in cui queste questioni ci vengono poste, senza contentarci di dire che non sono «marxiste».
In tutte le epoche storiche, è data una certa somma di mezzi possibili, una certa provvista di mezzi, se si preferisce. Ora in tutte le epoche della storia, tutti i mezzi di cui si disponeva sono stati in sostanza impiegati, qualsiasi fosse la morale professata dall’epoca stessa. È l’ipocrisia denunciata già da Machiavelli, che voleva rendere cosciente il Principe di ciò che faceva. Ai nostri giorni, si sono scoperti dei mezzi nuovi: quelli dell’energia atomica. Ci siamo fatti scrupolo di adoperarli? No. Assodiamo dunque che tutti i mezzi di cui dispone un’epoca sono praticati da quest’epoca. Ma il mondo capitalista è fatto in modo che questi mezzi siano praticati con un’assurdità e un’ipocrisia assolute. Sono mezzi senza fine; un caos di mezzi. Siamo seri, dunque! Un fine che «giustificasse» i mezzi sarebbe pura utopia. Ma fin quando la rivoluzione non sia realizzata, autorizziamo almeno i rivoluzionari a combattere ad armi eguali. Perché è soltanto nella misura in cui si realizzerà la rivoluzione, che i mezzi potranno a loro volta «moralizzarsi». La trasformazione del mondo produce una morale. È soltanto nell’azione rivoluzionaria che la moralità comincia ad esistere effettivamente.
Si può dire che, sin d’ora, certi mezzi sono scartati dai comunisti?
– Sì, si può dirlo. Non vediamo sparire un «mezzo» divenuto inutile, quando apprendiamo che nell’Unione Sovietica è stata abolita la pena di morte?
Il principio «il fine giustifica i mezzi» non sarebbe dunque per nessun verso un principio comunista?
– Per nessun verso. Semmai mi sembrerebbe più giusta la formula: L’EPOCA GIUSTIFICA I MEZZI, IL FINE LI TRASFORMA. Mi spiego. Noi viviamo in un’epoca in cui regna un fantasma di morale. In quest’epoca la bomba atomica ha fatto più vittime della rivoluzione del 1917. La conservazione di questa società così com’è, ieri nei tentativi di conservazione fascista, oggi nel tentativo di conservazione americano, soltanto questa conservazione costa più cara in sangue, uomini e libertà che non la fondazione di un mondo nuovo. Come esitare? Nessuna morale è possibile fuori dell’attività rivoluzionaria. Il comunista è colui che si leva contro ogni violenza. Spara soltanto per difendersi. Non ci sono crimini rivoluzionari. Perciò soltanto il comunista può dire senza mentire, di rifiutare ogni fine che giustifichi i mezzi. Coloro che, senza essere rivoluzionari, pretendono di affermare quel principio, ingannano il mondo, perché giustificano i mezzi della società borghese col fine della conservazione di questa società.
Insomma, ciò che si può perdonare meno al mondo capitalista, alla controrivoluzione, è di costringerci ad usare contro di esso le sue stesse armi?
– Appunto. E, per esempio, la responsabilità delle migliaia di vittime fatte dall’aviazione alleata a Napoli, a Milano, noi antifascisti abbiamo saputo attribuirla a Mussolini. Allo stesso modo, l’origine della violenza rivoluzionaria è la violenza conservatrice.
Che risponderebbe a quelli che le opponessero un rifiuto categorico, come ad esempio Camus, dicendo che in nessun caso vogliono essere responsabili della morte di un uomo?
– Che il rifiuto astratto alla violenza costringe oggi ad accettare la bomba atomica. Come durante l’occupazione tedesca la neutralità era collaborazionista. Nella posizione di rifiuto, che è quella di Camus, non si può che lasciar versare eternamente il sangue.
Sarebbe dunque, tutto sommato, una posizione reazionaria?
– Non credo che uomini come Camus, Sartre, ecc. esprimano direttamente il desiderio del mondo conservatore di conservarsi. Piuttosto testimoniano, con il loro disordine e la loro rivolta, della presenza, in seno al mondo moderno, dei primi segni della trasformazione rivoluzionaria.
Sarebbero allora degli utopisti delusi? Non si potrebbe dire che gli intellettuali corrono costantemente questo rischio di cadere nell’idealismo, nell’istante stesso in cui la loro idea cominci a realizzarsi?
– Incontestabilmente essi formulano il problema in un senso idealistico. Ma c’è in essi una potenzialità rivoluzionaria, come in tutti gli utopisti, nello stesso tempo che una potenzialità reazionaria. I loro libri sono in anticipo sullo stato del loro pensiero. È il caso di Balzac e Dostoevskij, reazionari e pericolosi nell’ideologia che professavano, progressisti nelle loro opere. Ma bisogna insistere su questo punto: le loro opere non possono avere alcun senso per coloro che le lodano di più. Quelli che le lodano di più sono i più incapaci di vivere l’esperienza di cui esse testimoniano. È innanzi tutto a noi, rivoluzionari, che esse si rivolgono. Siamo noi, rivoluzionari, che dobbiamo dire a questi scrittori che la loro disfatta ideologica non trascina nel nulla le loro opere, ma non fa che tradirle. D’altronde è su di noi che essi contano di più per salvare le loro opere. Noi siamo ciò che rassomiglia di più alla posterità, ed essi lo sanno.
Pensa forse, come dice nell’ultimo numero del «Politecnico», che la linea di divisione tra reazionari e rivoluzionari sul piano della cultura non si identifichi con la stessa linea in politica? Non potrebbe questo applicarsi, secondo lei, agli uomini di cultura di cui parliamo?
– Sì, ma queste due linee di divisione tendono ad identificarsi ogni giorno di più. Perciò bisogna dire agli uomini di cui parliamo che è tempo per essi di unirsi ai rivoluzionari. Il tempo della scelta è venuto e l’ultimo rifiuto sarebbe senza rimedio. Continuando a rifiutare la violenza senza condizione, non potrebbero più che aiutare la reazione a mistificare la sua violenza.
E non lo svolgono già, questo ruolo?
In una certa misura, lo svolgono già. Grazie ad essi, l’attività letteraria della borghesia può essere più brillante dell’attività letteraria dei rivoluzionari. La borghesia toglie in prestito da essi la sua apparenza di vita. Debbono sapere qual è, dunque, la loro responsabilità. Ripeto, la borghesia non ha un pensiero proprio. Toglie in prestito da essi la sua apparenza di pensiero. Toglie in prestito da essi anche un certo «andamento moderno», perché il loro linguaggio ha preso qualcosa dell’energia rivoluzionaria. Tuttavia, credendo di fare una critica generale dell’epoca, questi scrittori non fanno che un’autocritica della borghesia.
Agli scrittori di cui abbiamo preso per esempio Camus, si potrà ancora dire: non c’è un terzo partito nel mondo. Il pessimismo non è un terzo partito. Il misticismo non è un’evasione fuori del mondo. E via di seguito. Il solo autentico terzo partito è il suicidio. Non già continuare a pubblicare dei libri.
Giacché stiamo passando in rassegna le obiezioni più comuni che si muovono al comunismo, che pensa di quella secondo cui il comunismo implicherebbe il livellamento delle esistenze? La preoccupazione individualista trattiene molti al limite del comunismo.
– Quest’obiezione non è seria. La rivoluzione comunista, come risulta chiaramente dalla lettura sia pur rapida di Marx, è esattamente la rivoluzione individuale. Essa non kira che ad abolire le differenze mistificate tra gli uomini. Nella società borghese in cui le differenze tra gli uomini non sono che differenze completamente estranee all’uomo stesso, son proprio le autentiche differenze, le differenze di qualità, a non esser riconosciute. Il comunista non vuole costruire un’anima collettivista. Vuol realizzare una società in cui le false differenze siano liquidate. E, liquidate queste false differenze, aprire tutte le possibilità alle differenze autentiche.
Che senso ha, dunque, secondo lei, quello slancio di fervore collettivo che si constata nell’Unione Sovietica, nelle democrazie popolari dell’Europa orientale? Pensa forse che sia uno stadio necessario dell’edificazione della società socialista?
– Ma è appunto questo mondo di fervore collettivo che esprime il momento in cui le differenze ipocrite sono in corso di distruzione. E vi si vedono sviluppare, al tempo stesso, le differenze autentiche. Questo stadio corrisponde del resto allo stadio di industrialismo di quei paesi e, in questa misura, è un loro stadio caratteristico.
I combattenti della libertà individuale non devono, quindi, impensierirsi di quello slancio collettivo?
– Ma al contrario! Si va al comunismo per amore della libertà completa dell’uomo. Marx dice che la liberazione dell’individuo non può essere compiuta dall’individuo isolato. Egli ha insegnato la necessità del mezzo collettivo per conseguire la libertà individuale. La società senza classi non ha altro senso che questo: È LA SOCIETÀ IN CUI L’INDIVIDUO POTRÀ FINALMENTE FIDARSI DELLE RAGIONI DI VITA CHE AVRÀ TROVATO PER SÉ. Nella società attuale, la coscienza individuale non può fidarsi degli imperativi più inferiori: la falsificazione è penetrata nel più segreto delle coscienze. Dirò che l’individuo della società borghese non può fidarsi nemmeno delle sue disperazioni. È possibile che certi marxisti si sbaglino su questo punto. Si sbagliano quelli che verranno al marxismo per amore dell’organizzione per l’organizzazione, dell’unità per l’unità, per spirito di «cattolicità», per ritrovare la comunione mistica di un nuovo Medio Evo costruttore anonimo di nuove cattedrali. È gente che sogna l’avvenire con i sogni del passato. A tutti quelli che sognano cattedrali bisogna opporre lo spirito di protestantesimo.
Vuol dire che il protestantesimo, prima rivolta riuscita contro il Medio Evo, annunci tutto il movimento progressista dell’avvenire?
– È questo. Non c’è alcuna divergenza tra questo punto di vista e il movimento di fervore collettivo dei paesi dell’Est. In quel fervore è implicita l’emancipazione dell’individuo. Non è assolutamente, in nessun modo, amore dell’ordine.
Posso aggiungere questo: il marxismo è sostanzialmente antioscurantista. Che cos’è l’oscurantismo? È il voler distruggere le cose della cultura con altri mezzi che non siano quelli della cultura stessa. È il voler distruggere libri con altre cose che non siano libri. Ma perché la cultura è «libera» nella società borghese? Perché essa non vi ha alcuna importanza, alcuna influenza. È tagliata fuori dalla realtà, non riesce ad agire su di essa. Mentre nella società socialista la cultura ha un’importanza primordiale e immediata. Perciò essa deve tener conto del livello culturale delle masse. Non si tratta di interrompere il processo di ricerca proprio della cultura, perché se questo processo si arresta, rischia di arrestarsi per sempre. Ma deve lottare costantemente su due fronti: quello della propria ricerca e quello del contatto permanente che deve conservare con il livello culturale delle masse. Questo combattimento su due fronti è il solo, vero problema della cultura.
Ne risulta che si può iscrivere all’attivo della borghesia la «libertà di creazione» che il mondo liberale borghese presenta come la propria più patetica giustificazione?
– Questa «libertà di creazione» è, in verità, una delle contraddizioni più grottesche di quest omondo. La cultura borghese ha prodotto valori che la sorpassano infinitamente. A cominciare da Marx. In che misura certi valori possono costituire un pericolo? Nella misura in cui sono l’espressione assoluta di situazioni tutte relative, storiche, contingenti. tutte queste opere potranno prendere il loro significato autentico, non ambiguo, man mano che avremo saputo presentarle accompagnate dai loro antidoti critici. Basta fare riguardo ad esse la messa a punto storica che esse esigono. Allora saranno reintegrate nella loro realtà obiettiva. E abbiamo già in Italia e in Francia una parte del materiale critico necessario a questi antidoti, di quegli strumenti che ci permettono di restituire le opere alla loro obiettività. Nell’U.R.S.S., dopo il 1917, non è accaduto lo stesso. È che la Russia non era passata per tutte le tappe borghesi. Il lavoro autocritico della borghesia le faceva difetto. Perciò certe opere devono essere maneggiate con precauzione. Il nostro lavoro è proprio questo: trovare come salvare la totalità della cultura senza rallentare il movimento della storia. Perciò, se c’è un pericolo Proust, il nostro compito è di trovare l’antidoto critico a Proust, che consentirà di far passare al capitale umano tutto ciò che di positivo c’è in lui. E via di seguito.
Ma il fascismo attribuisce importanza alla cultura, dal momento che la perseguita?
– Già. La borghesia non fa che tollerare la cultura finché può credere che essa sia senza importanza. Ma il fascismo, cioè la BORGHESIA NELLA SUA ESSENZA, si rende conto che la cultura, anche borghese, può avere importanza. Prende consapevolezza della potenzialità rivoluzionaria che vi è contenuta. Allora tenta di distruggere con la violenza ogni cultura.
Insomma, il fascismo vuole soffocare la cultura nella sua potenzialità rivoluzionaria. È una presa di posizione contro il richiamo alla libertà che è implicito in ogni cultura?
– Sì, e il rivoluzionario, al contrario, non può proporsi che di salvare la cultura nella sua totalità perché essa è l’espressione della totalità storica, cioè di quella umana. Ci son già valori che non esigono questo lavoro di ricerca sul «retto uso» delle opere. Shakespeare, per esempio, è l’espressione dei valori impliciti nel popolo. Che Shakespeare non sia ancora popolare, è indifferente. Può essere accettato tale quale. E veda come già in tutto il mondo i comunisti siano all’avanguardia della ricerca, dovunque siano in causa valori non soggetti a mistificazione. Quale comunista sarebbe, in quanto tale, contro Picasso, contro Schoenberg? Pensi alla parte che hanno nella vita pubblica dei loro paesi i poeti surrealisti cechi o jugoslavi. Sin d’ora tutto ciò che non è soggetto a mistificazione, è accettat dai comunisti immediatamente, senza critica. Ma sottopongono e devono sottoporre alla critica tutto ciò che è soggetto a mistificazione. La «libertà di creazione» del mondo capitalista non è che l’espressione del suo disprezzo nei confronti della profonda portata delle creazioni dello spirito.
Traduzione di Antonio Ghirelli
(Tratto da «Il Politecnico», n. 37, ottobre 1947).
Inserito il 24/05/2023.
Dossier Il Politecnico
Da «La Stampa» – 6 settembre 1951
Le vie degli ex-comunisti
di Elio Vittorini
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Le vie degli ex-comunisti
Anche in Italia si conta oggi una fila di scrittori che sono stati comunisti o filo-comunisti e che non lo sono più. Scrittori tra cui quattro o cinque di pensiero. E qualche pittore, qualche esperto di teatro, qualche esperto di cinematografo. Molto o poco noti (da Alfonso Gatto, poeta, a Felice Balbo, filosofo) e tutti più o meno della stessa generazione, uomini cioè fra i trentacinque e i quarantatré anni; possiedono qualità d’ingegno non inferiori a quelle di transfughi illustri del comunismo come Stephen Spender, o il romanziere Richard Wright, o il regista Edward Dmytryk. Ma non si potrebbe dire che con essi si sia ripetuto in Italia quanto è accaduto, con dozzine di scrittori o artisti, in Francia, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, prima dell’ultima guerra. Soltanto il caso di Ignazio Silone, uomo politico oltre che romanziere, può essere considerato, per l’Italia, spiritualmente analogo al caso dei francesi, degli inglesi e degli americani. E comunque è più facile trovare affine al rifiuto di André Gide l’atto di ripudio dei Magnani e dei Cucchi, dei politici puri, che il gesto apparentemente ambiguo col quale i Gatto e i Balbo hanno smesso di subire l’aut-aut del moralismo comunista.
La differenza tra le due categorie si rivela già nel momento delle adesioni.
Per quali motivi aderiscono al comunismo gli «europei» (e americani degli U.S.A.) che poi se ne sono staccati? Le loro confessioni al riguardo (non escluse quelle del negro americano Richard Wright) mostrano che ciascuno ne ha di personali, ma che tutti sono posseduti da angosce e da speranze più o meno dello stesso tipo.
La società dei tre Paesi in cui vivono è capitalistica e liberale insieme. I vantaggi umani del liberalismo politico si confondono in essa con gli svantaggi sociali del capitalismo. Gli uni vi possono apparire associati agli altri, e indivisibili dagli altri. Le contraddizioni di un sistema economico che perpetua nei rapporti del capitale col lavoro tanti aspetti del mondo feudale possono sembrare contraddizioni specifiche della libertà politica, o addirittura suoi attributi. L’ineguaglianza può sembrare la condizione della libertà. E tutte le conquiste graduali di una lotta millenaria dell’uomo contro il dispotismo degli organizzatori possono non essere considerate che come conquiste di classe della borghesia ottenute nei pochi decenni della sua rivoluzione.
Si aggiunga a ciò quanto persiste di romantico nella cultura moderna. Per esempio, il rimpianto della presunta unità spirituale che ogni pensatore romantico invidiò al Medioevo, e che Marx non seppe lasciar fuori, purtroppo, dalla propria dottrina. Oppure l’idealizzazione della facoltà di credere (e cioè di accettare, di non dubitare, di rinunciare alla critica e alla ricerca come fonti di vita), per cui accade che i giovani si trovino così spesso in balìa del bisogno di avere a qualunque costo qualcosa di superiore a loro nella quale credere. O il vizio che fu d’ogni epoca di ritorsione, prima d’esser romantico: quello di sentirci piccoli e incapaci di fronte ai nostri compiti umani; sentirci legati dai nostri difetti; disperare di «liberarci» da soli; e tendere a metterci nelle mani di qualche organismo (leggi, di qualche polizia) che non debba più assecondarci nei nostri umori e possa renderci buoni e bravi, finalmente, con la virtù incorruttibile di una forza esterna a noi.
Sono aberrazioni che sembrerebbero tipiche della gioventù divenuta fascista in Italia e in Germania. Specie l’ultima: della liberazione, diciamo, «par les fonctionnaires», e insomma «par les flics», anziché «par nous-mêmes». Invece risultano profondamente attive, proprio nei Paesi dove l’abitudine all’esercizio delle libertà civili ha uno spessore già di parecchie generazioni. È in tali Paesi, in Francia, in Inghilterra, negli Stati Uniti, che la libertà di parola o la libertà di cambiar residenza possono venir giudicate irrisorie. La loro importanza umana sfugge a chi non ne ha mai conosciuto la privazione. Ed è a Parigi o a Londra che le sentiamo chiamare «menzogne» con la convinzione più seria e meditata.
Anche il comunista operaio, in Francia, e tanto più in Inghilterra, dov’è raro, o negli Stati Uniti, dov’è rarissimo, si pone nella sua lotta contro il capitalismo su un piano di reazione antiliberale. Accusa anche lui «bisogni morali» di carattere romantico. È un operaio di cui si può dire che ha ereditato la filosofia, come voleva Marx, ma in continuazione di Nietzsche o di Dostoevskij piuttosto che della grande linea umanistica sottintesa nell’espressione marxiana. E lo scrittore o artista che aderisce al comunismo, in Francia, in Inghilterra o negli Stati Uniti, lo fa appunto perché vede nello sforzo dell’U.R.S.S., nello sforzo dello Stato russo, il modo di risolvere, congiuntamente ai problemi sociali, i vari disagi spirituali contemporanei, ch’egli tiene in conto, con Nietzsche o con Dostoevskij, di malattie, e che attribuisce alle trasformazioni dei rapporti umani in senso liberale, sempre riammesse come «nefaste» dopo d’esser state negate come «bugiarde».
Egli pensa, cioè, che i comunisti lavorino a fabbricare un Dio terreno capace di svolgere tra gli uomini la stessa funzione unificatrice che aveva tra essi la fede nell’antico Dio celeste, e capace peraltro di svolgere la funzione di Provveditore che invano gli uomini hanno chiesto, per millenni, alla Divinità dei Cieli. Il suo consenso ideologico, nell’aderire al comunismo, non potrebbe dunque essere più assoluto. Egli vuol collaborare alla fabbrica di Dio, e l’ideologia comunista è per lui la tecnica che prepara i materiali umani alla rifusione in elementi divini. Ma ecco che, collaborando, si accorge di come un uomo, anche l’ultimo degli uomini, sia potenzialmente più grande e più complesso di tutto il macchinoso organismo collettivo entro il quale lo vede ridotto a vite o a bullone del nuovo «universale». Grida allora che il Dio in fabbricazione è fallito. Grida anche che l’ideologia grazie a cui si è prodotto un disastro simile deve avere dei difetti gravi, e dev’essere riveduta. O grida che dev’essere stata intesa male e che occorre provarsi ad intenderla meglio. In sostanza, è diventato ideologicamente diverso. Aveva aderito al comunismo da antiliberale, e se ne distacca (a meno che non cada nel fascismo) da liberale.
L’adesione e il distacco dal comunismo degli scrittori e artisti italiani (tranne, ripeto, per Ignazio Silone che è travolto dagli interessi politici in troppo giovane età e portato quindi ad avere, come ogni uomo immerso nella politica, una sorte più europea) avvengono invece senza il minimo mutamento ideologico.
Nessuno di loro ha dato al riguardo delle spiegazioni che autorizzino ad affermarlo; ma sono io stesso uno di loro, anche se non ho mai posseduto, per trascuratezza debbo dire, e non per cautela, la tessera del partito: dei primi ad entrare nel gran giro, con la guerra; dei primi pure (si era nel 1947) a tirarmene fuori; e credo di poter presumere che com’è andata per me sia andata più o meno per tutti.
Nel ’41, quando le adesioni cominciarono, si aveva in Italia il fascismo già da diciannove anni. I «nostri» scrittori ed artisti erano dei giovani tra i venticinque e i trentatré anni, e gli svantaggi sociali del capitalismo apparivano loro terribilmente aggravati dall’abolizione delle libertà politiche e civili, assoluta in certi campi e relativa in altri. Capitalismo e liberalismo non erano per essi una cosa sola. Avevano il primo senza avere nulla del secondo; e questo rendeva loro sospetto come fautore di fascismo tutto ciò che dell’uomo e della sua cultura (o della sua ingenuità) modulasse motivi antiliberali. La realtà totalitaria in cui vivevano li conduceva a riscoprire la grandezza individuale dell’uomo che nasce solo, muore solo, e non è libero se non può contare anzitutto su una sua libertà di singolo; individuale com’è individuale la nascita e com’è individuale la morte. La libertà di cambiar mestiere o di cambiar residenza non erano «irrisorie » per essi, che dovevano chiedere continuamente dei nulla-osta alla burocrazia del regime. E la libertà di parola non era in nessun modo una «menzogna» per essi che sperimentavano ogni giorno come la sua mancanza equivalga a mancanza della parola stessa, perché uccide la fiducia tra uomo e uomo, e annulla la possibilità di farsi compagnia anche tra analfabeti.
Essi aborrivano, peraltro, l’ingiustizia sociale propria del capitalismo. Ma la consideravano un difetto di libertà che occorresse risolvere, approfondendo la lotta per i diritti dell’uomo fino a snidare i privilegi che li limitano da tutti i persistenti castelli medioevali dell’economia. L’esperienza che avevano di un capitalismo senza liberalismo li faceva ragionare come i contadini e operai del nostro Mezzogiorno e dei paesi semifeudali in generale. Analizzate le aspirazioni spontanee di quei contadini e operai, e troverete che sono, praticamente, per un liberalismo senza capitalismo. E come accade tutt’oggi che quei contadini e operai portino l’acqua delle loro aspirazioni al mulino comunista, così poté accadere che i nostri scrittori e artisti, verso il 1942, e specie nel corso della guerra civile, scambiassero il comunismo per una nuova forma storica capace di passar sopra a qualsiasi preconcetto ideologico e di farsi la continuatrice della rivoluzione liberale, secondo le nuove esigenze storiche messe fuori, un po’ dovunque, da quasi tutti i popoli.
Essi aderiscono al comunismo, voglio dire, unicamente sul piano della storia: valutandolo in base all’aspetto storico che U.R.S.S. e partiti associati assumono, mentre lottano contro il fascismo. Sul terreno ideologico, che considerano in movimento, non tentano nemmeno di affacciarsi, chi fino al ’46, chi fino al ’47, e chi addirittura fino al ’48. Perciò ogni loro delusione riguardo al comunismo non è una delusione che produca in loro un mutamento ideologico, ma una delusione che li riempie di amarezza storica. Essi non pensano: «Il comunismo non è quello che credevamo». Pensano, invece: «Il comunismo non è diventato quello che la storia lo spingeva a diventare». Rimasti sempre (anche i cattolici Balbo e Motta) i liberali che erano al momento di aderirvi, non possono non staccarsene appena si persuadono che la realtà del comunismo è antiliberale. Impiegano, invero, anni a persuadersene. Le risoluzioni oscurantiste che prendono nome da Zdanov, le decisioni da Concilio tridentino del Cominform, i processi uso processi-delle-streghe delle varie capitali balcaniche, e via di seguito, non sono determinanti che per due o tre di loro. I più non si risolvono a rompere gli indugi che quando anche la Cina (tra l’autunno scorso e quest’inverno) si chiude nella camera di sicurezza d’un regime totalitario e smentisce la loro speranza di vederla operare, con l’impeto liberale ch’era nel popolo cinese, una trasformazione del comunismo in senso effettivamente liberatore.
Ora si trovano tutti a dover ammettere (esplicitamente o implicitamente) che il dottrinarismo comunista è già andato troppo avanti nella sua tendenza a costituirsi in chiesa per poter raccogliere le reali aspirazioni storiche degli uomini, e adeguarvisi. È già quello che era la Chiesa cattolica nel Medioevo: una forza che si serve della storia, che lusinga la storia, che è nella storia, che fa storia, e che tuttavia arresta o inceppa la vera corrente della storia (e cioè della vita). La quale è ancora la millenaria corrente liberale, in cui la rivoluzione di classe della borghesia seppe a suo tempo inserirsi. Il dottrinarismo comunista nega che vi sia, sommato tutto, un movimento storico generale a indirizzo liberatore. Non riconosce che movimenti storici particolari a indirizzo di classe. E così, credendo in fondo solo nelle tirannie, avendo in disprezzo ogni spontaneità dell’uomo, spinge la rivoluzione comunista a inserirsi nell’altro movimento storico generale, che procede intrecciato col primo ma rivolto all’indietro, come suo rovescio e suo contrario.
La differenza tra le due categorie di ex-comunisti produce una differenza anche nel loro atteggiamento politico attuale?
Certo, il fatto di aver considerato il comunismo come Dio porta ora i primi, o la maggior parte dei primi, a considerarlo come il Diavolo. Essi sono diventati liberali, salvo nei riguardi del loro antico oggetto di fede. Mentre i secondi, che hanno considerato il comunismo entro limiti umani quando vi aderivano, conservano la possibilità di considerarlo entro limiti umani anche ora che lo rifiutano, e di essere quindi liberali anche nei suoi riguardi. Non diversamente, si capisce, da come accadeva di essere liberali, nei secoli passati, verso il cattolicismo, che pur era antiliberale.
Elio Vittorini
(Tratto da «La Stampa», 6 settembre 1951).
Inserito il 13/05/2023.
Dossier Il Politecnico
Da «Rinascita» – N. 8-9, agosto-settembre 1951
“Vittorini se n’è ghiuto,
E soli ci ha lasciato!…”
E soli ci ha lasciato!…”
di Roderigo di Castiglia* (Palmiro Togliatti)
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“Vittorini se n’è ghiuto,
E soli ci ha lasciato!…”
Canzone napoletana
A dire il vero, nelle nostre file pochi se ne sono accorti. Pochi si erano accorti, egualmente, che nelle nostre file egli ci fosse ancora. Vittorini? Sì, era stato accanto a noi nel combattimento contro la tirannide interna e l’invasore straniero. Come tanti altri. Né meglio, né peggio, dicono. Poi era venuto un racconto dedicato a questo combattimento, bello, ma discutibile, per quella mania di non saper presentare se non attraverso un torbido travestimento di letteratura gli eroi di quella battaglia, che furono uomini del popolo nella loro grande maggioranza, uomini chiari e semplici, dunque, di fronte ai fatti, di fronte al dovere da compiersi e al destino. Poi una rivista, che fu diffusa largamente e favorita dai nostri, che attendevano qualcosa di nuovo e di buono, ma finì per scontentare tutti e lo stesso direttore, perché conteneva di tutto e non conteneva nulla, non riuscendo ad essere né tranquillamente informativa come, diciamo, un «Calendario del Popolo», né seriamente di elaborazione. Morì, la rivista, dopo un inizio di dibattito sulla politica e la cultura. Ma qui già si camminò sui carboni, perché l’intenzione che trasudava dalle parole non era quella di distinguere, congiungere o separare queste due attività umane, ma piuttosto di trovare, per l’uomo «colto» o preteso tale una scappatoia per conto suo, lontano dalle non grate fatiche dei «politici». Infine altri libri, scritti quando già, crediamo, lo scrittore riteneva di non aver più nulla in comune con noi, di essersi liberato da qualsiasi costrizione e nei quali, dunque, libero avrebbe dovuto espandersi il genio. Ma son libri di cui è difficile parlare, perché è a tutti difficile trovar la pazienza di leggerli sino alla fine. Nei precedenti, almeno, qualcosa c’era.
Ora dice che non è più comunista, definitivamente. Ma insomma, quando lo è stato? La iscrizione al partito, dice, non l’ha mai voluta fare. Almeno ci spiegasse il perché. La gente comune, quando ritiene di esser comunista, s’iscrive. Non è un eroismo, non è un rito, e non è nemmeno un sacrificio. È l’adesione a una milizia politica e sociale; è l’apporto a questa milizia della attività della propria persona, attività materiale e attività ideale,contributo di opere e contributo di idee, nella misura che a ciascuno è concesso. Chiunque si iscrive e milita, dà al partito e al movimento comunista qualche cosa. Vittorini, in sostanza, che cosa aveva da dare e che cosa ha dato? Ma forse è proprio perché non aveva nulla da dare, che non s’è iscritto, e per questo, quando oggi dichiara di non essere più con noi, la cosa ci sembra priva di rilievo.
Paragona sé stesso con Silone. Ha torto, moralmente, perché quello è un poco di buono; ma ha torto anche per un altro motivo. Quando Silone se ne andò, anzi fu messo fuori dalle nostre file (per conto suo si sarebbe rimasto a dir bugie e tesser l’intrigo), l’avvenimento contò. Silone ci aiutò, in sostanza, non solo a approfondire e veder meglio, discutendo e lottando, parecchie cose; ma anche a riconoscere un tipo umano, determinate, singolari forme di ipocrisia, di slealtà di fronte ai fatti e agli uomini, Ma Vittorini, in che cosa, per che cosa conta?
Qui si apre il capitolo più triste. Se fosse stato zitto, certo nelle nostre file, dove grande è il prestigio di quel lusinghiero appellativo di «intellettuale», quanti profondi pensieri, fonti di recondite crisi dell’animo, gli si sarebbero attribuite. Ma ha parlato, e che desolazione! Era venuto con noi, dice, perché credeva fossimo liberali: invece siamo comunisti. Ma perché non farselo spiegare prima? Sembravamo liberali, aggiunge, perché combattevamo contro il fascismo. Ma se i liberali son proprio sempre e dappertutto stati quelli che al fascismo hanno tenuto la scala! O vogliam parlare in termini non di stretta politica, ma più larghi? Vi è un progresso della libertà nel mondo, lento, faticoso, al quale non vi è dubbio che molte e diverse classi e idee hanno dato un contributo, riuscendo ciascuna, in un momento di ascesa e progresso, a spezzare una parte delle catene che avvincono gli uomini, salvo poi a tornare indietro e fare la parte opposta, in molti casi. Noi ci inseriamo in questo processo come la forza più decisamente liberatrice, perché è il mondo stesso della produzione, da cui sono sgorgate sempre, e nei fatti e nelle idee, tutte le negazioni della libertà, che sottoponiamo alla volontà ordinatrice degli uomini organizzati in collettività produttiva. Per questo si accostano e fondono, nel movimento nostro, lotta per la libertà e lotta per la giustizia sociale. Contadini e operai non è che vogliano «un liberalismo senza capitalismo», come dice Vittorini solo riducendosi come sempre ad un giuoco di parole, ma non vogliono più il capitalismo e quindi combattono per la libertà.
E ora dovrebbero venire le obiezioni, le critiche, atte a mostrare che noi non siamo quello che diciamo e vogliamo essere, che non adempiamo la funzione a noi attribuita, secondo la nostra stessa concezione, dalla storia.
Confessiamo che, presi anche noi da quel prestigio per l’«intellettuale», a questo punto abbiamo atteso e cercato con curiosità, con interesse. Chi lo sa che questo «intellettuale» ci aiutasse a scoprire un nuovo terreno di dibattito, ci invitasse a uno scontro fecondo con nuove impostazioni di idee, nuove interpretazioni di fatti e di cose. Poveri noi! Abbiamo trovato «le risoluzioni oscurantiste che prendono nome da Zdanov», «le decisioni da Concilio tridentino del Cominform», «i processi uso processi delle streghe delle varie capitali balcaniche», ecc. ecc. Dio mio! Dio mio! C’era bisogno di pensarci tanto, e c’era bisogno di dirsi «intellettuale» e di chiamarsi Vittorini per tirar fuori, alla fine, questa roba? Ma se sta in tutti i bollettini parrocchiali, in tutti i manifesti dei Comitati civici, in tutti i discorsi di Acheson e di Truman, in tutti gli articoli del piccolo Tupini. Col nome di Zdanov va una risoluzione di quattro tanto fa, dove esattamente si indica e prevede il corso della politica imperialista americana. Non approvi? Dillo chiaro e spiega il perché. Sono di Zdanov alcuni discorsi e scritti di critica letteraria e artistica, dove si sostiene, per dirla con due parole, che l’arte dev’essere specchio dalla realtà sociale. Perché proprio questa posizione dev’essere «oscurantista» e non la posizione opposta, per esempio? È partendo dalla posizione opposta, se non altro, che vengono esaltate come grandi opere d’arte, opere dove proprio tutto è oscuro, perché la comune degli uomini non ci capisce nulla. Processi delle streghe quelli delle spie colte sul fatto a Budapest, a Bucarest, altrove? Forse Vittorini preferiva i processi che costarono dieci e dieci anni di galera a Rakosy, ad Anna Pauker, e la vita a dieci a dieci dei nostri eroi? Com’era tutto chiaro, tutto «liberale» in quei processi là!
Ma, volete sentire la più bella? Vittorini non vuol più essere comunista da quando la Cina, governata oggi da un blocco popolare diretto dai comunisti, ha cessato di essere «liberale» e si è «chiusa nella camera di sicurezza di un regime totalitario». Vediamo: la Cina sbarra oggi le porte ai colonialisti, ai loro agenti, ai loro missionari, dà ai poveri terra, lavoro, istruzione, stampa, libri, costruisce fabbriche, macchine e strade, e persino un esercito, orrore! per poter difendere la libertà. Voi non credete che questo faccia parte di «un movimento storico generale di indirizzo liberatore»? Pazienza, anzi peggio per voi! L’importante è che laggiù vi è un popolo di 450 milioni che la vede in modo diverso, perché sente, finalmente, di aver cominciato a governarsi da sé. O saran governati anche loro, quei 450 milioni, dal russo col ghigno satanico, il berretto a punta e il pugnale fra i denti, che minaccia la civiltà «occidentale»? Coraggio, Vittorini, lo avevano già detto i manifesti di Salò, lo ripetono oggi quelli di Gedda: mettici anche la tua firma e non se ne parli più! Ma chi aveva pensato tu valessi, proprio come «intellettuale», qualcosa, ti ha, ora, giudicato.
Vi sono intellettuali che, quando aderiscono al partito, pensano di doverne essere per natura i dirigenti, chiamati ad elaborare le parti più elevate della dottrina. Si sbagliano senza dubbio, perché la nostra dottrina sgorga non soltanto da una oramai secolare elaborazione di idee, ma sgorga da una esperienza, che ha per più di un secolo accompagnato, sorretto, corretto il corso e progresso delle idee. Solo dopo una adesione e penetrazione profonda, che abbia come punto di partenza, come in tutte le cose serie, anche la modestia, il contributo personale è possibile. Quello che da un intellettuale però si ha ragione di pretendere sin dall’inizio è una certa qualità del ragionare, soprattutto se si pretende, come sembra che in questo caso si pretenda, alla buona fede. Quello che in Vittorini manca, e manca certamente in molti altri ancora, è la qualità; e qualità ci sembra voler dire, per ehi lavora essenzialmente col pensiero, capacità di analisi e visione generale del mondo del pensiero e delle lotte che oggi vi si combattono. Non ha questa visione generale chi non va più in là della frase fatta o del luogo comune, siano essi quelli della noiosa propaganda reazionaria, o quelli delle tendenze pseudo filosofiche alla moda («l’uomo nasce solo», «l’uomo muore solo»: sciocchezze! L’uomo non è mai meno solo di quando nasce e di quando muore!). Provenienti dall’una o dall’altra di queste parti, la frase fatta, il luogo comune, tendono oggi soprattutto a una cosa, a abbassare e umiliare la ragione umana. Che cosa resta nel mondo, se il movimento liberatore di milioni e centinaia di milioni di uomini che costruiscono società nuove, non è più che l’«oscurantismo di Zdanov», le scomuniche del Cominform, nuovi processi delle streghe, una nuova «Chiesa» e così via? Ben sanno ciò che si fanno, coloro che in questo modo accusano la ragione di non essere più tale, l’uomo di diventare meno umano, e ciò proprio mentre si corona di successo il suo sforzo di dominare e l’economia e la natura. Vittorini pensa che rimanga, per lui e per gli altri, la «libertà». Ma già ragiona, egli stesso, come uno schiavo.
Roderigo di Castiglia*
(Tratto da «Rinascita», n. 8-9, agosto-settembre 1951).
* Roderigo di Castiglia è lo pseudonimo con il quale Palmiro Togliatti, segretario del PCI e direttore di «Rinascita», firmava i propri corsivi.
Inserito il 13/05/2023.
Dossier Il Politecnico
Che cosa è stato «Il Politecnico»
di Franco Fortini
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Che cosa è stato «Il Politecnico»
Prima parte
Erano i primi d’agosto del ’45, stava per sparire Hiroshima e, da noi, il governo Parri resisteva ancora. Lavoravo ad un nuovo «indipendente di sinistra», che Vittorini diresse per due o tre giorni. I linotipisti del «Corriere» guardavano con simpatia e commiserazione quei giornalisti improvvisati, che eravamo noi, prendersi confidenza con piombi e banconi. Allora Vittorini era ardente e alato, parlava per ellissi; leggevamo Uomini e no, stampato su una grigia carta di guerra; e quella Nota – scomparsa dalle più recenti edizioni – ch’era tanto chiara, per chi avesse saputo capirla: «Cercare in arte il progresso dell’umanità è tutt’altro che lottare per tale progresso sul terreno politico e sociale. In arte non conta la volontà, non conta la coscienza astratta, non contano le persuasioni razionali […]. La mia appartenenza al Partito comunista indica dunque quello che voglio essere mentre il mio libro può indicare soltanto quello che in effetti io sono». Era già una difesa, una recinzione di territori. Restava la parola «progresso». Di qui, in realtà, Vittorini non s’è mosso: troppo forte in lui il sentimento del «progresso» tecnico nella letteratura, della avanguardia degli scrittori e delle sue proprie invenzioni e ricerche; e, a un tempo, troppo forte l’antipatia per le intenzioni e la volontà. Voler essere un comunista significa: «non lo sono». La «debolezza d’uomo», cui la Nota attribuiva tutti i demeriti del libro, doveva ben presto diventare la cittadella da difendere contro la coscienza astratta, le persuasioni razionali. Ma a me, allora, quelle distinzioni parevano molto più ovvie di quanto oggi siano. Non sapevo quasi nulla del mondo milanese, dei rapporti esistenti fra la gente che volteggiava intorno alla stampa e alle riviste di allora. Cercavo avidamente di sapere e di capire più che potevo di quel ch’era stata, a Milano, la Resistenza; e intanto facevo fatica a distinguere facce e idee. In quell’estate andavo ricopiando certe mie poesie. Le detti a Vittorini e lui in cambio mi fece leggere dei fogli dattiloscritti: il programma di un rivista. Partecipai ad alcune riunioni. Si cominciò a preparare il primo numero del «Politecnico». Perché credo opportuno ricordarlo oggi? Perché fu l’occasionale teatro di alcune delle contraddizioni maggiori che ci hanno condotto fin qui.
Nel programma, il «settimanale dei lavoratori » prevedeva per ogni numero un articolo di «agitazione culturale»: «La cultura deve partecipare alla rigenerazione della società italiana. Come?»; «Che cosa ha inteso dire Erenburg quando ha scritto: “Anche l’ortolano uscirà dai suoi stessi sistemi tradizionali di cultura e apprezzerà la pittura di Picasso”?»; scritti propriamente politici e riferiti ad avvenimenti del giorno e ai problemi della ricostruzione: «L’alluminio deve tornare nelle case di tutti»; «Quali possibilità di evoluzione porta la legge Gullo nello stato attuale della agricoltura lombarda?»; scritti di storia politico-economica estera e italiana, quelli che dettero poi il tono a ogni singolo numero del settimanale, destinati a coprire un vastissimo settore di informazione e di critica. Articoli di «storia della cultura e di agitazione culturale», come, ad esempio, La cultura per il New Deal e contro il New Deal, Il crocianesimo nella scuola italiana attraverso la riforma Gentile; studi di analisi critico-storica del pensiero scientifico-filosofico («Tono divulgativo», annotava il programma): A che punto è il pensiero di Dewey?; È possibile una evoluzione dell’esistenzialismo in senso progressivo?; articoli «ideologici»: Che cosa significa dittatura del proletariato?; narrazioni; problemi letterari: Che cosa è utile, che cosa è dannoso per la coscienza civile degli uomini nell’opera di André Gide; Non tutti i cosiddetti ermetici sono ermetici; Giornalismo e realizzazione artistica nella letteratura sovietica; «biografie di giornali e periodici, inchiesta su quel che si legge, su quel che si potrebbe e vorrebbe leggere, condotte per province e categorie sociali»; problemi relativi alla musica, allo sport, alle feste popolari, alle biblioteche. Seguivano alcune altre proposte di argomenti, fra le più aguzze: «Ritratti di categorie morali. Gli obiettivi. Quelli che dicono di essere comunisti e non si sono iscritti perché non vogliono la dittatura del proletariato, ecc. E dove sono finiti? Non nel (e qui una lacuna dattilografica; propongo: “P.d’A.”), nei socialisti nemmeno, ma nei democristiani o nei liberali… Inchieste sui cattivi pittori… Radiografie e biografie sulle case editrici». «Pericolo di “operazione culturale” ovvero menscevismo della situazione d’oggi». «Responsabilità dell’antifascismo militante… Incapacità di riconoscere i suoi uomini di cultura».
Appena cominciò il lavoro di redazione (e poi, durante tutto il primo periodo di vita del «Politecnico», che va dalla fine del settembre 1945 al 6 aprile ’47, vigilia delle elezioni municipali di Milano) si fecero sentire le voci contraddittorie dei diversi redattori. Era un lavoro appassionante e lo ricordo con piacere. «Per fare “Il Politecnico”», diceva Vittorini, «ci vogliono le fiamme al didietro, come i carabinieri». Non era l’ardore a mancarci. Ma ci si avvide subito che la vita del settimanale subiva influenze difficili a decifrare, contraccolpi dei rapporti personali del direttore e dell’editore col Partito comunista. Credo, anzi, che questa a me ignota storia dei rapporti fra la direzione culturale del Pci e il «settimanale di cultura» sia un’altra storia del periodico. Non ero iscritto al partito e molto, quindi, mi restava celato.
«Il Politecnico», almeno in un primo momento, si proponeva di rivolgere agli intellettuali dell’antifascismo, alla frazione radicale della borghesia e a quei lavoratori che la Resistenza aveva presentati alla responsabilità politica, un discorso complesso dove l’informazione (e la divulgazione) di tutti i risultati di quella cultura contemporanea dalla quale il fascismo aveva tenuto lontani quasi tutti gli italiani, fosse, per metodo, linguaggio e correlazione di soluzioni e problemi, una proposta o fondazione di «cultura nuova». L’ambizione del progetto era di interpretare uno stato d’animo allora assai diffuso nell’Italia settentrionale: che esistesse al di sopra delle singole denominazioni politiche una tradizione rivoluzionaria e progressista del pensiero filosofico e scientifico, storico, letterario e artistico da proporre alle nuove leve culturali; così come esisteva un programma politico comune alle sinistre dell’antifascismo. Si è parlato con ironia di una «cultura da Cln», e non è esatto, se si considera che l’accento fu posto prevalentemente su formule marxiste. Certo è invece che «Il Politecnico» non si sottrasse in parte e in quella sua prima fase alla pretesa di presentare come obbligato passaggio alla cultura dei suoi lettori, quelle che erano state le letture, le simpatie, gli itinerari biografici del direttore e dei redattori: e all’errore di non aver saputo distinguere fra necessario e accessorio.
E che cos’era questa cultura rivoluzionaria? L’articolo di Vittorini sul primo numero della rivista (che per molti frettolosi e interessati, bastò a qualificare per sempre, o a squalificare, il settimanale) augurava un pensiero che governasse e non solo consolasse la società civile. Ossia un pensiero, una cultura che fossero identici per la classe politica e per quella tradizionalmente «intellettuale». (L’assenza di precisione su questo punto di partenza è all’origine di tutte le seguenti incertezze). Si chiedeva una cultura che «prendesse il potere». E in forma volutamente ingenua si esprimeva così quella certa unione di pragmatismo e marxismo che sarebbe stata il tratto più appariscente del secondo «Politecnico», quello in forma di rivista. Ma, al tempo stesso, c’era, dichiarata subito, l’assunzione d’una «cultura» genericamente antifascista come possibile punto di partenza: di qui il richiamo, fin dal primo numero, della guerra di Spagna, per il suo grande patetico di rivoluzione tradita dov’era confluito tutto l’antifascismo mondiale. Il romanzo di Hemingway sulla guerra di Spagna cominciava ad esser pubblicato a puntate fra sbarre rosse e nere, come una bandiera di anarchici; però i tagli operati allora nel testo del romanzo, se non valsero a scagionare Vittorini di fronte ai suoi dirigenti di partito dall’accusa di eccessivo amore per quel «decadente» scrittore americano, stanno a dimostrare come non si volesse guardar troppo da vicino a quella guerra di Spagna, che pur era stata drammatica prova dell’Intelligenza di sinistra.
Ma subito, al secondo numero, una citazione di Lenin sconsigliava i politici dal distrarre uno specialista culturale con immediati compiti politici; come se il giornale avvertisse subito il pericolo di essere impiegato quale rozzo strumento di propaganda. Lo si vide, in redazione, alle proteste violente suscitate da una assai infelice interpretazione classista dell’opera di Manzoni, pubblicata anonima (e dovuta, si disse, a E. Sereni). Si discuteva molto, in redazione; Vittorini, poco amante delle dispute e temperamento insofferente di critiche, ne evitava le sedute. Si dovette ottenere che le discussioni fossero stenografate per costringerlo a intendere, almeno per iscritto, le nostre critiche.
Al terzo numero si iniziava la conversazione con i cattolici; ma, almeno apparentemente, la correzione di Balbo alla formula dell’editoriale di apertura, non veniva ripresa o rilevata, né dal settimanale né da Bo (Cristo non è cultura) che, poco dopo, si apprestava a replicare a Vittorini. Si può cogliere intanto la nascita di quella polemica sulle arti figurative che si trascina tuttora: Guttuso parla d’una nuova epoca «eroica» che si apre per la pittura, ma già una didascalia posta sotto un manifesto di guerra giapponese afferma in modo perentorio quello che sarà uno dei punti centrali (mai però affrontato e risolto criticamente) del periodico: l’identità fra «arte vera» e «arte rivoluzionaria». Né vi porta rimedio (n. 4) il frammento di Malraux (di prima della guerra, naturalmente): «Non sono né Claudel né Proust che significano la borghesia, è Henri Bordeaux». (Segue questa nota redazionale, della quale ci è dato vedere tutta la ingenuità: «Non sono né Montale né Svevo che significano la borghesia italiana, è Lucio d’Ambra»). In questo quarto numero dedicato alla Francia contemporanea, dove ad una poesia di Éluard fa contrappeso una di Spender, c’è già una pagina di Sartre; nel numero seguente, accanto ad un affresco di Diego Rivera c’è la copertina d’uno dei quaderni della Bauhaus; quello dedicato alla Rivoluzione d’Ottobre si apre con una poesia di Montale e si chiude con le foto di un balletto psicanalitico. Accanto a questi esempi solo apparentemente contraddittori, si moltiplicano le dichiarazioni e i programmi di una umile e orgogliosa novità: «“Il Politecnico”», si legge nel n. 4, «non è l’organo di diffusione d’una cultura già formata ma uno strumento di lavoro per una cultura in formazione […] Compito speciale che “Il Politecnico” si è scelto per contribuire alla formazione in Italia di questa cultura è di fare da legame tra le masse lavoratrici e i lavoratori stessi della cultura». E nel n. 5: «“Il Politecnico” […] non presume affatto rinnovare la cultura italiana, ma vuole soltanto mostrare che sarebbe una buona cosa rinnovarla». «Ogni rivoluzione è stata un tentativo più o meno riuscito della cultura viva di strappare il potere a Cesare e alla cultura morta che sempre è serva di Cesare e di instaurare il regno dei cieli, cioè il suo regno sulla terra […] Lenin era tipicamente uomo di cultura…» (n. 6). Sono appena passati due mesi dall’uscita del settimanale, e Vittorini, rispondendo a Bo, e ad altri critici del suo primo editoriale, accetta la traduzione del conflitto nella semplicistica contrapposizione di «via di fuori» e «via di dentro» di salvezza di tutti e di salvezza individuale, di storia e antistoria; un conflitto che ai giorni nostri continua ad essere volgarizzato a favore di scelte sentimentali e, in verità, ipocritamente interessate1.
Tu parli di due vie, Carlo Bo, una che è dentro a noi e una che è fuori di noi. Io non voglio neanche dire che la via è una sola. Ma tu dici che la più lunga è la via fuori di noi e la più breve quella dentro di noi. Io invece dico che è il contrario: che più breve è la via di fuori. È la via più umile, Carlo Bo, la più umana e terrena: per questo più breve. E quando tu indichi l’altra, da seguire, sei anche tu un orgoglioso com’è Mila ed ogni idealista: mostri lo stesso orgoglio loro. Che cosa credi? Di poter mai compiere da te solo quella «più grande e più vera rivoluzione» cui pur aspiri?
Vittorini non vi sostiene (e non potrebbe, tanto vive in lui sono le vene nietzschiane e roussoiane di adorazione della vita e del presente, immuni da contaminazioni di pessimismo esistenziale, di angoscia storica) le tesi d’uno storicismo integrale; ma gli altri polemizzano con lui come se quelle tesi fossero le sue. Sopra la sua testa si discute coi comunisti, anzi con la «lunga bestemmia» del pensiero moderno, dalla Riforma ai giorni nostri. Né sono sufficienti gli esempi di indipendenza di fronte all'ortodossia culturale sovietica, che il settimanale continua a moltiplicare, pubblicando Oleša o Babel', parlando di uno Chagall o di un Pasternak come di artisti rivoluzionari, ponendo sullo stesso piano le vittorie del progresso e quelle del progresso socialista.
Certo, in quel primo tempo almeno, la redazione non vede chiaro in quale direzione si debba andare, anche se avverte quanto importi l'esistenza di un foglio come «Il Politecnico». Era l'inverno 1945-46, uno dei più tetri inverni di quegli anni. Milano pareva risentisse di tutta la tensione e la stanchezza del tempo di guerra. Chi veniva da Roma, già avvezzo ad un dopoguerra diverso, faceva fatica a capire come si potesse vivere in quella città di macerie e fango dove, sul far della sera, le strade si spopolavano, dove si leggeva a esi scriveva a lume di candela con guanti, cappotto e passamontagna, dove la gente faceva ancora la coda per il pane e il riso e tutte le notti suonavano i colpi di mitra e di rivoltelle degli «spiombatori» e dei banditi, da scali merci, depositi ferroviari, fabbriche. All'alba i giornali erano neri di titoli e di grida. L'inverno pareva un'unica lunga notte. E la città sentiva attorno a sé il vuoto aspro della campagna, si ripiegava su se stessa per non perdere il poco tepore del suo alito. La redazione del «Politecnico» era allora non lontana dalla cappella dell'antico lazzaretto manzoniano, in un quartiere ch'era diventato il porto di mare dei camionisti, allora re delle strade, e dei borsari neri; fitto di donne, di osterie, di sale da ballo. Dagli alberghi di piazza d'Annunzio, dove, con i loro carri armati al parcheggio, stavano acquartierati, calavano al crepuscolo i militari occupanti. Delitti, straordinari, seguiti da imponenti funerali, dividevano l'attenzione della folla con i cortei di disoccupati, e i comizî. Qualche volta «Il Politecnico» veniva incollato ai muri cittadini; e ci dava un brivido d'orgoglio vedere i nomi e i pensieri della poesia e dell'arte, di un amore che si era sempre creduto votato all'ombra e al riserbo, tremare all'aria e alla nebbia, lettura dei passanti, dei reduci dagli occhi smorti, dei vagabondi2. Talvolta si andava nei circoli operai, nelle fabbriche, a parlare del «Politecnico». Ricordo una sera, verso piazzale Corvetto, una specie di hangar mal illuminato, pieno di operai, di donne con i bambini sulle ginocchia; e ascoltavano parlare del «Politecnico» come di una cosa loro, come si trattasse del loro lavoro e della loro salute, e interrogavano, volevano sapere. (Si arrivò a proporre una tournée di tutta la redazione attraverso l'Italia meridionale e la Sicilia). Capitavano in redazione i personaggi di quegli anni: operai affamati, giornalisti, avventurieri, ex partigiani, ragazze scappate di casa, mentecatti. Arrivavano montagne di manoscritti, la più parte diari di guerra, di prigionia, di vita operaia, poesie esemplate sulle traduzioni degli americani, racconti di vita clandestina. Si aveva l'impressione che, dovunque il settimanale giungesse – ce lo confermava la fitta corrispondenza dei lettori – molti animi che erano stati scossi dalla recente esperienza rispondessero alle nostre incerte astruse parole. Era per noi la conferma della scoperta che avevamo fatta durante la guerra; quella delle incredibili possibilità della nostra provincia, delle energie latenti nelle classi mute. Con quella conferma, o scoperta, che ci stordiva, non era facile mantener la testa fredda. Era l'indistinto caos delle culture italiane, quello che vedevamo attraverso quelle lettere; e per la prima volta ci venne per la mente che l'opera alla quale era degno consacrarsi fosse di conoscere davvero che cosa significassero quelle culture e misurarle col mondo grande dei paesi lontani; perché «dappertutto è terreno di scontro […] e la rivoluzione è una sola», come allora scriveva Pavese. Eppure, a nostro onore, devo dire che nessuno si illudeva di risolvere i problemi andando verso il popolo. Tanrìto che, quando al n. 8 fu annunciata la costituzione dei «Gruppi di amici del “Politecnico”», si avvertì che l'iniziativa coincideva con uno dei tentativi accennati dalla direzione culturale del Partito comunista per controllare maggiormente il settimanale e insieme per potenziarlo; e ci fu una notevole resistenza a quei «gruppi» che sarebbero facilmente diventati, come tutte le analoghe formazioni di quel tempo, portavoce di comodo del Partito comunista e firmatari di manifesti. Il Partito comunista stava passando ad una fase di consolidamento delle proprie attività, assumendo gran parte del compiti che nell'Italia prefascista erano stati del Partito socialista; e, fra questi, compiti di vera e propria divulgazione culturale. Pensarono, quei dirigenti, di poter impiegare a questi fini la popolarità del settimanale di Vittorini? Vi fu un momento nel quale lo pensarono; ma la composizione politicamente eterogenea della redazione e la stessa personalità del direttore dovettero presto dissuaderli. «Il Politecnico» non poteva diventare quello che, proprio in quel tempo, cominciava ad essere «Il Calendario del Popolo».
Si moltiplicano d'altra parte i punti di frizione fra le posizioni del settimanale e quelle del Partito comunista; come i ripetuti atteggiamenti anticlericali di Vittorini (vedi posizione in favore del divorzio, in nota ad un articolo di A.C. Jemolo, nel n. 9); come la pubblicazione (n. 16) di un passo di Sartre e di uno di Merleau-Ponty «un marxismo vivente dovrebbe salvare la ricerca esistenzialista invece di soffocarla», con questo commento redazionale:
È questa – crediamo noi – una esigenza più o meno chiaramente sentita da quanti son persuasi che il posto proprio dell'uomo d'oggi e di domani sia in una sempre più risoluta conoscenza di come siano irriducibili tanto la necessità quanto la libertà.
O, nel n. 23, una critica piuttosto dura ad una iniziativa culturale dei comunisti francesi (Per una enciclopedia). La stessa polemica iniziale – che è il motivo centrale della rivista – continua a trascinarsi di numero in numero, con scritti di Balbo, Giolitti, Fortini, Ferrata, finché comincia a farsi chiaro che essa non è altro che il problema della posizione del marxismo moderno. Contro le interpretazioni socialdemocratiche di Karl Renner e contro la tentazione idealistica (e di Vittorini) dei «furori culturale» c'è (n. 26) una messa a punto di Balbo, dove è contenuto un accenno importante, che è già una critica al linguaggio del settimanale:
Questo successivo e strenuo «riemergere» della purezza, della tensione umana dalla formula che non serve più, «che è insufficiente per costruire le nuove formule», la più larga e più comprensiva cultura tecnicamente sempre più articolata, non si può certo definire con la parola «amministrazione», ma non si può nemmeno definire con la parola «furore culturale». Tale parola non comprende abbastanza il senso del dato, della condizione obiettiva e quindi la necessità dell'inserzione funzionale, del mordente preciso.
E non combatte il grave male dell'«eterna illusione»: credere che senza illusione l'uomo non si muova più.
Contro le tendenze e le pressioni rivolte a far del «Politecnico» uno strumento di ordinaria amministrazione politica Vittorini, nel n. 27, scriveva parole dove ancora echeggiavano i ricordi mitici della Cultura popular della repubblica spagnola ma che sarebbero suonate in contraddizione con quelle sue di pochi mesi dopo:
Le grandi affermazioni della cultura, i suoi rivolgimenti, le sue svolte, si hanno proprio nei momenti in cui sembrerebbe saggio (agli stolti) lasciarli da parte. Quando, per esempio, un nemico sovrasta con le armi; quando manca il pane; quando occorre ricostruire tutto in un paese. È allora, è nell'emergenza, che può formarsi una nuova cultura.
Ma questo appello all'entusiasmo suonava compre i proclami supremi delle città assediate. Con un articolo di autocritica, il settimanale si trasformava in rivista.
Chiariti i motivi che impongono la fine del settimanale, si legge:
Noi non abbiamo avuto, col settimanale, una funzione propriamente creativa, o, comunque, formativa. L'altra funzione, la divulgativa, ci ha preso, a poco a poco, e sempre di più la mano, abbiamo anche polemizzato, ma abbiamo detto poco di nuovo. In quasi tutte le posizioni che abbiamo prese, pur senza mai sbagliare indirizzo, ci siamo limitati a gridare mentre avremmo dovuto dimostrare. E troppo spesso abbiamo dato sotto forma di manifesto quello che avremmo dovuto dare sotto forma di studio. Troppo spesso abbiamo affidato alla grezza testimonianza dei lettori quello che avrebbe avuto bisogno della rielaborazione di scrittori. Ci siamo trovati così a divulgare delle verità già conquistate mentre avremmo dovuto cooperare alla ricerca della verità. Il nostro intento era e rimane anche divulgativo. Ma era, e non è stato, di conquistare e creare su piano divulgativo. La necessità della trasformazione in rivista mensile ci offre il modo, per la più larga misura di tempo e di spazio che ci concede, di approfondire il nostro lavoro. Ora noi potremo vigilare su noi stessi. Liberi come saremo dalla pressione degli avvenimenti non si tratterà più, per noi, di colaborare all'azione politica. Si tratterà di svolgere un'attività che sia azione di per se stessa, com'è, quando crea, l'azione culturale.
La rivista pubblicherà quasi cinquecento delle sue fittissime pagine, riprendendo in parte temi già accennati dal settimanale, in parte sviluppando temi nuovi. Vi si nota, oltre alla collaborazione abituale al settimanale (Cantoni, Ferrata, Giuliano, Rodano, Rognoni, Terra, Trevisani, Preti, Serra, Pandolfi, Rago, Del Bo, ecc.) e a una più estesa presenza di giovani (Risi, Del Boca, Del Buono, Giglio, Porzio, Tadini, Calvino, ecc.) anche quella di scrittori e di studiosi che il carattere del settimnale aveva tenuti discosti: Bo, Brancati, Pea, Sereni, Gatto, Argan… E i motivi principali ne sono: l'esplorazione dei rapporti fra marxismo e scienza economica, psicanalisi, neoempirismo, esistenzialismo; delle possibilità di nuove vie della critica letteraria e della ciritca del teatro, del cinema, delle arti figurative; dei problemi sociali del nostro paese veduti nel loro aspetto politico. E tutto ciò sullo sfondo dell'unico problema: quello dei rapporti fra azione culturale e partiti politici, fra cultura «di sinistra» e Partito comunista.
(1/2. Segue)
Franco Fortini
(Tratto da: Franco Fortini, Che cosa è stato «Il Politecnico», in Franco Fortini, Dieci inverni. 1947-1957, Macerata, Quodlibet, 2018, pp. 55-64).
Note
1 Nei numeri della rivista, e precisamente negli scritti Leggere i classici? (n. 31-32), Capoversi su Kafka (n. 37), Azione e Espressione (n. 33), Diario di un giovane borghese (n. 39) ci fu, da parte mia, un tentativo di riprendere, con accento diverso, quei motivi.
2 In sei mesi il settimanale, oltre a poesie di Saba, Montale, Solmi, Sinisgalli e di molti giovani, pubblicò traduzioni di testi poetici di Rimbaud, Larbaud, Éluard, Jacob, Aragon, Lorca, Alberti, Altolaguirre, Leonhardt, Brecht, Toller, Pasternak, Majakovskij, Blok, Auden, Spender, MacNeice, Eliot, Whitman, MacLeish, Sandburg, Gold, Prokosch, Rolfe, Lindsay, ecc.
Inserito il 16/07/2023.
Che cosa è stato «Il Politecnico»
di Franco Fortini
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Che cosa è stato «Il Politecnico»
Seconda parte
Non v’è dubbio che il passaggio del «Politecnico» da settimanale a mensile coincide con la fine dell’idillio fra gli intellettuali che avevano aderito al comunismo nello spirito dei Cln e i dirigenti politici del Partito che si apprestava ad affrontare le difficili prove degli anni seguenti. De Gasperi è da alcuni mesi a capo del governo, e si capisce che vi resterà a lungo. Matura la svolta della politica americana. S’era fatto un gran discorrere di «partito nuovo», in quel tempo. Il V Congresso del Pci affermava, nel nuovo statuto, la possibilità di appartenere al partito indipendentemente dalle convinzioni filosofiche e religiose. Vedremo come «Il Politecnico», per bocca di Vittorini, interpreterà questa affermazione come la possibilità di rimettere in discussione gli stessi principi del marxismo-leninismo, quando (e bastava aver letto, a questo proposito, gli scritti di Lenin sulla religione) l’unità nei fini politici più immediati doveva essere considerata solo propedeutica a quella ideologica. Tuttavia, quella «apertura» del Partito comunista pareva fin da allora contraddetta dalla progressiva «chiusura» della situazione politica. Si doveva provvedere ad organizzare la difesa. Ecco perché l’affermazione, contenuta nell’ultimo numero del settimanale, di voler «approfondire la ricerca» voleva anche dire che era divenuto impossibile, ormai, intrattenere un dialogo immediato con un pubblico di lettori appartenente a categorie che l’attività del Partito prevedeva oggetto di una scrupolosa disciplina ideologica. Il pensiero e l’arte della tradizione rivoluzionaria non possono più essere presentati per una mozione degli affetti, ma debbono essere ripensati criticamente; è necessario vedere che cosa, in realtà, consegua alle generiche istanze di rinnovamento. Ma questa ricerca (faranno capire i dirigenti culturali del Pci a Vittorini) non può essere compiuta portando lo smarrimento e l’incertezza fra «i compagni di base». Ecco perché la rivista si preoccupa subito di definirsi «indipendente di sinistra», e di riaffermare che non è una rivista comunista.
Precauzioni insufficienti. Il nome di Vittorini, in qualche modo, impegna il Partito. A nessun livello si possono ammettere «deviazioni». Di qui il conflitto; che si è creduto evitare ritirandosi in una pubblicazione per specialisti ma che si concluderà solo con la fine della rivista.
A leggere ora tutta l’intricata rete di lettere, risposte, repliche si ha, come spesso avviene in questi casi, l’impressione che la parte più importante della discussione non si sia svolta per iscritto, ma nelle conversazioni e nei rapporti personali. Il linguaggio della polemica è, in genere, molto cortese, con qualche occasionale e intenzionale durezza. Ma, ripeto, si ha l’impressione che, almeno in principio, non si vogliano scrivere i termini autentici della questione. Infatti, quali sono le critiche? Luporini considera (cito dalla replica di Ferrata nel n. 30, II della rivista, che è del giugno 1946) la «nuova cultura» pretesa dal «Politecnico» «una velleità romantica, un’illusione moralistica, e un abbraccio di generosi malintesi»3; Alicata, e per lui Togliatti, che su «Rinascita» (ottobre 1946) dichiarava esplicitamente di averne ispirata la nota, rimproveravano una «ricerca astratta del nuovo, del diverso, del sorprendente». Ora è davvero sorprendente che queste critiche paiono riferirsi al settimanale, ai più scoperti difetti del settimanale, fingendo di ignorare le ragioni del passaggio a rivista e l’autocritica compiuta. Vittorini lo farà ben notare in una prima nota alla lettera di Togliatti (n. 33-34). Gli scritti di Luporini, Alicata, Togliatti hanno insomma un falso scopo – la critica al confusionismo del «Politecnico» settimanale – ed uno scopo reale: mettere in guardia i lettori comunisti contro i pericoli deviazionistici dell’«approfondimento» nella rivista mensile; e, al tempo stesso, provocare una decisiva autocritica del direttore della rivista. Il risultato sarà, naturalmente, che le critiche alla rivista come tale passeranno in secondo piano e il centro della discussione diventerà quello dei rapporti fra attività (o autorità) culturale e attività (o autorità) politica.
Non c’è dubbio che, da un punto di vista tanto politico quanto filosofico, le repliche di Ferrata e di Vittorini agli scritti di Luporini, Alicata e Togliatti sono evasive e manifestamente insufficienti. Finché si tratta di pubblicare Hemingway o Sartre o Reed, di mostrare scarsa simpatia per la narrativa sovietica, di difendere Gide contro i «codini» o parlare di «psicanalisi progressiva» tutto questo, almeno nel 1946, e in Italia, non sarebbe stato sufficiente a mettere in difficoltà disciplinari Vittorini e la sua rivista. Piuttosto, dietro gli scritti di Cantoni su Burnham, di Preti su Dewey e sull’Antidühring, di Leontief sul pensiero economico sovietico; dietro le citazioni di Gramsci (che appunto in quei mesi cominciava ad essere pubblicato) si delinea la possibilità di un dibattito di fondo sui motivi essenziali del marxismo, e attraverso quello, della costituzione di un gruppo, di un nucleo di studio4. In altri termini, si forma la possibilità di un luogo di incontro e di discussione per quegli intellettuali che opportunismo o sincera evoluzione politica avrebbe portato, negli anni seguenti, fuori dal Partito comunista. Una parte di costoro evidentemente non vorrà che «tornare all’ovile» ma un’altra parte avrebbe potuto costituire una linea ideologica e politica su posizioni non comuniste senza avventurarsi sul piano inclinato della collaborazione con la restaurazione idealistica e cattolica. Taluno, per questa supposizione, mi chiamerà ingenuo; non nego che, per uno spregiudicato giudizio politico, il Partito comunista abbia guadagnato a perderli piuttosto che a trovarli, molti degli intellettuali che in questi anni hanno abbandonato le sue file o le sue vicinanze; ma essi erano, come d’altronde una buona parte di quelli che sono tuttavia nel Partito, solo la prima fila, la più visibile, di tutta una categoria di intellettuali che furono dell’antifascismo e della Resistenza e che, negli anni di cui stiamo facendo discorso, scomparivano dalla vita politica e si ritiravano negli studi privati, con risultati forse ricchi di futuro ma, al presente, ben gravi. E poi uno degli aspetti più singolari di tutta la polemica è che vi si discutono i rapporti fra gli intellettuali e il Partito comunista fingendo di dimenticare che quel problema aveva dei precedenti storici e che quei precedenti si chiamavano non solo teoria del partito secondo Lenin ma storia del pensiero rivoluzionario marxista e non marxista fino a Lenin, e non leninista fino al 1924, e non stalinista dopo il 1924, storia insomma dei rapporti fra gli intellettuali e i partiti operai, in tutto il mondo nell’ultimo mezzo secolo; che la guerra di Spagna aveva pur avuto, in questo senso, una storia; che la storia degli intellettuali comunisti e non comunisti in Unione Sovietica, in Germania, in Cina, aveva pur qualcosa da insegnare. Gli uni e gli altri paiono invece preoccupatissimi di non estendere la discussione là dove solo avrebbe un senso, cioè sul terreno storico-politico. E poi sembra impossibile che Vittorini, nelle righe più appassionate della Lettera a Togliatti (quando discorre della rivoluzione che ha come fine l’individuo, quando dice di sperare in una rivoluzione straordinaria, o parla dell’occhio vitreo del Partito, o rifiuta di suonare il piffero per la rivoluzione o definisce i compiti dello scrittore rivoluzionario) non si rendesse conto che, pur nella apparente confusione del suo dettato, egli chiedeva non solo un mutamento della politica culturale del Pci, ma una nuova teoria politica, una nuova filosofia. E, prima cosa, non tanto si trattava di rivendicare una teoria ma proprio l'autonomia pratica di poter continuare la rivista senza quegli ostacoli (ben «pratici») che una sconfessione avrebbe portato con sé.
Le obiezioni di Onofri – che replica a Vittorini nel n. 36 della rivista – tutte in sé validissime (egli ricorda, fra l’altro, che l’attività politica è, non diversamente da quella «culturale», una attività superstrutturale) e di più evidente vicinanza al pensiero di Gramsci, spingono il problema al loro punto cruciale. Dice Onofri a Vittorini:
Forse che, quando tu hai scritto quelle tue lettere, non svolgevi un lavoro culturale in connessione con la politica, non volevi appunto una politica in un certo modo per avere una cultura in un certo modo?
Nella sua breve risposta, Vittorini non raccoglie quella decisiva obiezione per limitarsi a ribattere il suo rifiuto di una politica che ricorre alla forza contro la cultura, e di una alienazione «par le politique». Infatti la rivendicazione di autonomia culturale, la richiesta di poter continuare senza scomuniche un certo lavoro di indagine culturale, era una richiesta politica; equivaleva a chiedere che il Partito comunista cominciasse a considerare parte necessaria, elemento indispensabile al progresso della causa del socialismo, il lavoro critico dei «compagni di strada» e di tutti coloro che condividendo le finalità rinnovatrici del socialismo pretendevano, negli specifici campi della propria attività culturale, quali ne fossero i riflessi politici, ad una integra autonomia critica. Era – o meglio avrebbe dovuto essere e non fu – la rivendicazione della pluralità necessaria contro la teoria della pluralità-minor male, destinata a naufragare nella unità-unanimità.
Nella primavera del 1947, dopo la pubblicazione della Lettera a Togliatti (la rivista era uscita, sino allora, in cinque fascicoli), non poche persone e motivi volevano indurre Vittorini ad interrompere subito il periodico. Nelle sale di via Filodrammatici, lugubri come un circolo filologico, non esisteva più una vera e propria redazione. Fra i collaboratori ci furono discussioni a tempesta. Chi voleva la fine immediata della rivista, con o senza un manifesto conclusivo, chi ne voleva la continuazione, con o senza il medesimo editore, accettando eventualmente di diminuire il numero delle pagine e la periodicità; chi ancora avrebbe voluto tornare al settimanale. In una lettera, cercai di chiarire la mia opinione. E, rileggendomi, credo di non aver avuto torto:
mi rifiuto, proprio perché non credo ad una politica avvilita a mero fatto, a violenza o negatività, mi rifiuto, dico, ad ammettere questo ridicolo contrato fra le verità assolute dell’indagine culturale e quelle provvisorie, mezze verità e mezze menzogne, o insomma tutte menzogne, che sarebbero della pratica politica. Le due figurazioni insomma, del chierico assorto negli eterni veri e quella del pratico dalle mani impastate e grossolane sono ambedue volgari figurazioni, figure d’uomini volgari, di cattivi chierici e di pessimi pratici; e come tali dovremmo sempre combatterli, con le loro medesime armi. Ma il solo modo di combatterli è quello di prenderli in parola. Cioè discuterli. Quando i piccoli politici (di oggi o di ieri) proclamano la necessità della dissimulazione, della tattica e della ragion di stato o di partito, supponiamoli veri politici; diamo subito importanza a quelle loro idee, aiutiamoli anzi a tradurre in idee la loro balbuzie; ed ecco che avremo innanzi non più una volgare figurazione, ma una teoria, un fatto di cultura […] L’errore di tutti i cattivi amici di «Politecnico» e di «Rinascita», l’errore nel quale tu stesso sembri talvolta cadere, è quello di credere che l’unità fra cultura e politica sia una trovata provvisoria, un matrimonio di ragione, qualcosa che va bene per il tempo di pace […] Per me invece è evidente che cultura e politica sono la medesima cosa, espressa con mezzi diversi; che, insomma, contrasto si può aver soltanto fra due teorie e due pratiche; che ogni volta che un pensiero non ha mani o le ha deboli o che le mani non han pensiero o lo han fiacco, saranno un astratto «pensiero» ed una volgare «politica». Insomma non esiste un momento nel quale per ordine di chiunque sia sospeso il dovere di dire la verità […] Io credo che, senza orgoglio né umiltà eccessive, si debba dichiarare la propria condizione di uomini di cultura e seguirla fino in fondo dicendo le proprie verità, anche a costo dello scandalo.
Intanto, in Francia e in Italia, i comunisti venivano estromessi dai governi. Della rivista, uscirono ancora quattro numeri di trentadue pagine ciascuno. L’ultimo (dicembre 1947) chiedeva: «Aiutate “Il Politecnico” con un nuovo abbonamento». Un numero di commiato – che avrebbe dovuto spiegare le ragioni dell’interruzione – non venne mai5. Vittorini ci disse d’aver avuto contatti con altri editori, desiderosi di assumere la rivista, ma di avervi rinunciato perché vi sarebbero stati inevitabili controlli e limitazioni, politici, di natura opposta a quelli che rendevano ormai impossibile la continuazione della rivista. Lo credo senz’altro; ma, a questo scrupolo politico, si aggiungeva un motivo personale, l’esaurimento dei motivi di interesse e di avventura, la stanchezza di un lavoro dispersivo, i dubbi medesimi nati da nuove letture e nuovi contatti (Vittorini era tornato a Parigi alla fine del giugno 1947, dove i suoi libri e la sua persona avevano avuto un grande successo, dopo essere stato, l’autunno precedente, ospite del Comité des Écrivains); soprattutto il desiderio di tornare al proprio lavoro di narratore interrotto, meno la parentesi del Sempione, dal 1945. Con la primavera del 1948 finiva il dopoguerra; molti andavano sempre più rapidamente perdendo le consuetudini, le amicizie e i ricordi che erano stati della clandestinità e delle speranze; per quanto apparisse precaria la pace, subentrava un naturale desiderio di sistemazione e di raccoglimento; per qualche anno tutti avevano fatto tutti i mestieri eccetto il proprio ed era stato possibile risolvere i massimi problemi in un articolo di giornale. Ci si avvedeva allora che, proprio come le città bombardate, molti istituti della vecchia Italia monarchica e fascista – come quelli giornalistici, editoriali, universitari – riprendevano a vivere o a vegetare, grazie alla «libera iniziativa privata», senza dar retta ai piani regolatori. E non mancavano, anzi crescevano ogni giorno coloro che in tutto questo vedevano solo una conferma del loro cattolico pessimismo, coltivando amorevolmente quella cattiva coscienza che, negli ultimi anni, par diventata per molti un titolo d’onore.
Così dunque finiva «Il Politecnico». Pochi mesi più tardi, spento l’ottimismo elettorale del convegno fiorentino promosso dall’Alleanza della Cultura, dopo il 18 aprile e l’attentato a Togliatti, Vittorini, di ritorno dal congresso di Wrocław, leggeva a Ginevra, alle Rencontres Internationales, una memoria sulla letteratura engagé6 dov’era riaffermato l’equivoco del quale era morto «Il Politecnico»; e ne forniva così la conclusione. Invece di andare innanzi, riprendere l’osservazione di Onofri ed affermare che, sì, la richiesta d’indipendenza della ricerca letteraria è una richiesta politica, la richiesta di una certa politica culturale da imporre ai dirigenti politici, il contenuto della Lettera a Togliatti viene ridotto, dalla distinzione di cultura e politica qual era, alla distinzione di letteratura e politica e finalmente di poesia e letteratura, per non dire all’opposizione fra poesia e cultura. Invece di difendere dalla riduzione all’immediato propagandistico e insomma dalla critica delle armi, dalle soluzioni di forza dei comitati centrali, tutta la cultura, tutta la ricerca, anche quella di più immediate risultanze politiche (come quella storica, filosofica, economica) e quindi implicitamente proporre al suo partito, restandovi o uscendone, e più in genere agli organismi della «sinistra» italiana, con le armi della critica, nuove soluzioni teoriche e pratiche, Vittorini finiva col formulare la richiesta «corporativa» della libertà della letteratura. Il periodico, che s’era aperto chiedendo una «cultura che prendesse il potere», si chiudeva con una istanza assai meno preoccupante per i nostri uomini di governo. Sarebbe invece stato possibile dar battaglia sulla breccia aperta dalla Lettera a Togliatti, assumere intero il compito di ripensamento delle ideologie rivoluzionarie che, proprio in quei mesi, gli scritti di Gramsci stavano riproponendo agli intellettuali italiani? Ma, per questo, sarebbe stato necessario ottenere dai collaboratori della rivista una disciplina, un lavoro di comune ricerca, un coordinamento degli sforzi; sarebbe stato necessario costituirsi in gruppo, bruciare rapidamente le incertezze pratiche, pianificare la rivista, farne uno strumento di lotta teorica a lunga scadenza. Né è detto che la forma della rivista sarebbe stata la più adatta, quel lavoro si sarebbe forse espresso meglio in libri comuni7. Si sarebbe avuto comunque un evento, per il nostro paese, straordinario: la costituzione di un gruppo di intellettuali che si scambiano i resultati delle loro ricerche e procedono insieme. Volle invece ognuno aver ragione per proprio conto, finendo, qual più qual meno, con aver torto di fronte alla propria responsabilità sociale. Può esser facile risposta quella che vede in tutto ciò i limiti della personalità del direttore del «Politecnico». Portato (e questa è responsabilità dei dirigenti del Pci) dall’onda di marea della Resistenza ad un compito che, per esser menato a buon fine, voleva una pazienza ed una preparazione grandi, egli non ebbe né l’una né l’altra, né seppe rinunciare ad esser sempre il primo, la vedetta… È evidente che, malgrado i lunghi scritti storici e filosofici, il secondo «Politecnico» è una rivista per immagini liriche, una rivista letteraria nel senso migliore (o peggiore) di questa parola. Questo avvertivano bene i collaboratori: i Balbo, i Cantoni, i Preti e molti altri (Giulio Preti vi era certo l’uomo dalle idee più chiare e più ricche, dal polso capace di condurre avanti l’impresa) non parteciparono mai o quasi mai alla vita della redazione. Vittorini non sapeva celare la sua insofferenza nei confronti di uomini avvezzi al rigore logico e metodico; né, d’altra parte, le critiche filistee dei professori arrivavano a capire come, sotto apparenze discutibili e personaggi e forme improprie, imposte dalla circostanza, si andassero dibattendo questioni che andavano ben oltre l’episodio e l’importanza della rivista. Non solo: ma era proprio alla schiera degli uomini di lettere tradizionali, i quali avevano lungamente ignorata e disprezzata la rivista (e aspettavano a braccia aperte il ritorno del figliuol prodigo) che, fra ’46 e ’47, essa andava sempre più, e naturalmente rivolgendosi.
Bisogna tuttavia aggiungere che probabilmente era impossibile, nell’aria del 1948, tentar su di una nuova disciplina e rigore una ripresa della rivista; essa avrebbe richiesto inevitabilmente una rottura con il Partito comunista e un lungo, forse definitivo, periodo di isolamento. Ora, il ’48 fu anno di battaglie aperte, di situazione ancora fluida. Forse nessuno di coloro che più tardi sarebbero usciti dal Pci o dai quali – come ebbe a dire, in un pauroso accesso d'orgoglio, uno di costoro – il Pci sarebbe uscito, era preparato alla serietà del compito. Così, quando, quattro anni più tardi, su «La Stampa», Vittorini farà la sua prima dichiarazione pubblica dopo il suo allontanamento dal comunismo, gli antichi collaboratori saranno dispersi ai quattro venti, restituiti per la maggior parte a quella «spontaneità» culturale così cara ai politici delle restaurazioni, che è quasi esattamente l’inverso della libertà.
Nato da una forse ingenua e irresponsabile fiducia nel garibaldinismo culturale; cresciuto fino a intravedere quale avrebbe dovuto essere il lavoro di gruppo di intellettuali che intendessero operare al rinnovamento del proprio paese; finito quando, all’avvicinarsi di un lavoro difficile, la mancanza di pazienza, di costanza, di tenacia e l’anarchico individualismo tradizionale ai nostri uomini di lettere, «Il Politecnico» non avrebbe meritato, spento com’è ormai il timbro della sua voce, tanto lungo discorso, se la sua vicenda non seguitasse ad essere piena di insegnamenti. Se soprattutto – e questo è il suo merito, che nessuna critica può contestargli – i principali problemi d’oggi son quelli medesimi che esso ha posti e, per primo, descritti in forma generale: da quello, affermato dalla sua esistenza, d’un linguaggio non tecnico né volgarmente divulgativo a quello dei rapporti fra dirigenti culturali e dirigenti politici, da quello delle relazioni fra il pensiero marxista e le altre correnti del pensiero contemporaneo a quello di nuove possibili vie di metodologia critica.
Il socialismo italiano, e i partiti che (non sappiamo per quanto tempo ancora) lo rappresentano, non ha fatto che rinviare questi problemi. Una nuova generazione di studiosi e di scrittori, assai diversa dalla nostra, lavora ormai intorno ad essi, quasi tutta avviata sulle tracce della problematica gramsciana. E forse manca a coloro solo una più stretta unione di esperienze e di ricerche, un maggior coraggio dei propri resultati e la capacità di resistere alle difficoltà pratiche e a quelle morali che nascono dall’abbandono degli organismi politici costituiti, dall’isolamento e dalla disperazione per riuscire a fondare, in mezzo al caos e all’incertezza, in un duro rifiuto di molte lusinghe, qualche resultato. Altro discorso, ma meno diverso di quanto si possa credere, si dovrebbe fare per chi, fuor delle oscillazioni delle mode, lavora ad opere di narrativa e di poesia. Viene forse, in noi e, fuori di noi, nei più giovani, una maturità per la quale né la speranza né la disperazione siano degli alibi; dove la vita nella città e quella extra moenia non si neghino e si contraddicano ma l’una sia garante della libertà dell’altra. La posizione di svantaggio della cultura socialista in Italia, rispetto a quella francese (dovuta soprattutto al fatto di non aver vissuto direttamente in tutte le sue fasi la grande querelle moderna fra comunismo e pensiero rivoluzionario non stalinista) è forse paradossalmente ricompensata dall’assenza d’una forte tradizione di democrazia borghese e dalla obiettiva asprezza dei conflitti di classe. Con più urgenza che altrove si pone qui – al limite delle culture e delle propagande in lotta e profittando della pausa concessa dalla situazione internazionale – la necessità della elaborazione, della «invenzione», di soluzioni diverse ai conflitti fra libertà e autorità, fra direzione culturale e direzione politica che il socialismo ha incontrati e suscitati sul suo cammino. Qui, vale a dire, non in una astratta geografia occidentale o orientale… La responsabilità internazionale degli intellettuali e politici italiani, la sfida posta loro dalla situazione, sono fra le più rischiose ed onorevoli, quale che sia per essere l’avvenire del nostro movimento operaio.
(1953)
(2/2. Fine)
Franco Fortini
(Tratto da: Franco Fortini, Che cosa è stato «Il Politecnico», in Franco Fortini, Dieci inverni. 1947-1957, Macerata, Quodlibet, 2018, pp. 64-74).
Note
3 Quasi con le medesime parole, anni più tardi, G. Pampaloni giudicherà «Il Politecnico» (in «Belfagor») «una generosa illusione». Con la differenza che, per Luporini, l’illusione moralistica è nell’intento predicatorio, parenetico, del foglio; per Pampaloni è illusorio, probabilmente, nel senso che «Cristo» non è cultura, ed ogni tentativo di storicizzare l’eterno gioco dell’anima non può concludersi che in una capitolazione di fronte al «Principe di questo mondo».
4 Cito per tutti gli altri numerosissimi esempi un passo redazionale che è nel primo numero della rivista: vi si parla di una dichiarazione della segreteria del Pci (relativa ad un comunicato del Pc francese sulla questione di Trieste) nella quale si invitano i comunisti francesi ad un contatto diretto col movimento democratico e operaio italiano prima di giudicare sulla questione di Trieste. E si aggiunge: «Queste parole significano che esiste una situazione nuova per i comunisti nel mondo e che i comunisti italiani sono maturi per comprenderla e darle sviluppo di vita. È finito il tempo nel quale era sufficiente, da parte dei comunisti, “risolvere” ogni questione sul piano dottrinario o su quello deliberativo della Terza Internazionale […] è necessario che pongano una dialettica concreta delle varie situazioni nazionali […] lo spirito del marxismo è nel superamento effettivo del contrasto non nella rinuncia a porlo fino alle sue estreme conseguenze».
5 Ho copia d’una lettera che mandai, il 22 gennaio del ’48 a Vittorini. Vi è detto fra l’altro:
«A poco a poco abbiamo capito che non potevamo pretendere di insegnare quel che non sapevamo ed abbiamo cercato di dire via via che imparavamo […] abbiamo rappresentato […] l’unico tentativo coerente di critica culturale, letteraria, di costume che sia stata tentata dalla Liberazione in poi. I difetti sono stati l’imprecisione filosofica, il gusto di certe trovate sonore, l’impossibilità di spingere a fondo certe premesse e di concretare un gruppo di buoni libri: e – questo un po’ per colpa o per virtù, un po’ per viltà altrui – il non aver saputo legare cinque o dieci persone, strettamente alle sorti della rivista ed al suo significato. Se questo fosse stato, oggi tu potresti affidare ad altri, almeno temporaneamente, la conduzione della rivista. E invece […] oggi, se il “Poli” deve scomparire, sembra scomparire come l’organo personale di Vittorini e per i casi politici e ideologici personali di Vittorini.
«[…] mi chiedo se è bene o male che il “Poli” muoia; male è certo […] soprattutto perché il discorso del “Poli” è a metà, a metà il suo tentativo di accordare marxismo politico e “altro”, critica alla religione e fede religiosa, cultura e politica, il suo tentativo di parlare politica, senza essere “politica”. E finalmente perché rappresenta una esigenza di comunisti o diciamo di rivoluzionari che non ha nulla a che fare con la terza forza o altre scempiaggini, ma che non deve accontentarsi della politica culturale del Pci e nemmeno delle sue semplificazioni propagandistiche su gli Usa, l’Urss, Sartre, il cattolicesimo, Gesù e il Piano Marshall. Io non ti incito alla eresia per l'eresia, come avrei fatto agendo perché le scelte non tornino ad essere sublimi e grottesche come in tempo di guerra; perché sono persuaso che non siamo in fase “qualitativa” ma assai piattamente “quantitativa”. Insomma, mi sembra venuto il momento davvero di attenuare la propria flessibilità e di stabilire quale sia il limite di rottura, il limite oltre il quale devi dire che il Partito ha torto oppure non devi dir nulla e tacere».
6 «Poiché l’artista è naturalmente engagé in quanto è artista. Engagé alla propria spontaneità, engagé dalla esperienza collettiva di cui è spontaneo portatore […] engagé alla realtà» («Rassegna d’Italia», marzo 1949). Doveva bastare, e bastò infatti, a rassicurare tutti sulla strada che avrebbe presa l’ex direttore del «Politecnico».
7 Vittorini pensò effettivamente ad una serie di volumi-dialogo. Ma non se ne fece poi nulla.
Inserito il 30/07/2023.