Francoforte e dintorni

Il professor Herbert Marcuse con una sua famosa allieva, l'attivista per i diritti degli afroamericani e militante del Partito Comunista degli USA Angela Davis.

Fonte: http://tritonmag.com/who-was-herbert-marcuse/

Estetica

Herbert Marcuse: gloria e impotenza dell’arte

di Davide Cherubini

Friburgo, 1922. Un ventiquattrenne Marcuse si diploma all’università con una dissertazione sul “romanzo dell’artista” nella letteratura tedesca. Tesi dall’argomento apparentemente inaspettato per un pensatore il cui pensiero e la cui personalità politico-intellettuale saranno tra i maggiormente intrecciati alle traversie dei vari movimenti antisistemici degli anni Sessanta e Settanta del XX secolo. Appunto: apparentemente. Il perché lo si capisce da subito guardando agli studi che lo stesso Marcuse aveva portato avanti in quegli anni universitari: come materie principali filologia germanistica e storia della letteratura tedesca, affiancate però da filosofia ed economia politica, queste ultime le discipline che più delle prime marcheranno in maniera significativa il suo percorso intellettuale ed umano rendendolo, nel bene e nel male, il pensatore che tuttora conosciamo. Proprio su questo intreccio, e particolarmente su questa componente “estetica”, si incentra il discorso dello studioso Davide Cherubini; non è un caso, difatti, se la parabola del pensiero marcusiano trova origine e conclusione proprio nell’estetica.

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Herbert Marcuse: gloria e impotenza dell’arte


di Davide Cherubini


Prima parte


Introduzione

Friburgo, 1922. Un ventiquattrenne Marcuse si diploma all’università con una dissertazione sul “romanzo dell’artista” nella letteratura tedesca. Tesi dall’argomento apparentemente inaspettato per un pensatore il cui pensiero e la cui personalità politico-intellettuale saranno tra i maggiormente intrecciati alle traversie dei vari movimenti antisistemici degli anni Sessanta e Settanta del XX secolo. Appunto: apparentemente. Il perché lo si capisce da subito guardando agli studi che lo stesso Marcuse aveva portato avanti in quegli anni universitari: come materie principali filologia germanistica e storia della letteratura tedesca, affiancate però da filosofia ed economia politica, queste ultime le discipline che più delle prime marcheranno in maniera significativa il suo percorso intellettuale ed umano rendendolo, nel bene e nel male, il pensatore che tuttora conosciamo. Proprio su questo intreccio, e particolarmente su questa componente “estetica”, vorrà incentrarsi il mio discorso; non è un caso, difatti, se la parabola del pensiero marcusiano trova origine e conclusione proprio nell’estetica1.


Se la dimensione filosofico-politica ha evidentemente preso il sopravvento nella lettura che di Marcuse è stata fatta, non occorre perciò trascurare l’estetica come ulteriore, sebbene più nascosto, fil rouge che attraversa praticamente tutta l’opera del pensatore tedesco; vuoi che sia direttamente trattando della figura dell’artista e della sua opera oppure della cultura come «complesso degli obiettivi (o dei valori) morali, intellettuali ed estetici, che una società considera come lo scopo dell’organizzazione, della divisione e della direzione del suo lavoro, come “il Bene”, che si suppone venga raggiunto grazie al modo di vivere che la società stessa ha stabilito»2. Già da questa definizione, che Marcuse mutua da Webster, si possono evincere le molteplici sfaccettature e implicazioni sociali (e quindi, in definitiva, politiche) che il termine viene ad assumere nell’analisi del nostro pensatore. Vedremo quindi come la trattazione dell’estetica sia potentemente intrisa e, per certi versi, funzionale al discorso politico marcusiano (dal quale mutua, peraltro, diverse aporie). Il destino del discorso sull’arte sembrerebbe quindi legato a Marcuse dallo stesso legame che questi ha intessuto con le vicende politiche a lui contemporanee: ha cioè risentito, con gli alti e bassi ad esso inevitabilmente connessi, di tutte le traversie e vicissitudini cui l’operazione intellettuale marcusiana è andata incontro nel corso del tempo. Per questo motivo nella trattazione delle opere scelte ho ritenuto consono seguire un criterio cronologico, così da poter maggiormente mettere in evidenza l’evoluzione alla quale il discorso marcusiano è andato incontro in rapporto ad alcuni snodi storici fondamentali.


Arte e cultura nell’ideologia borghese

Come già accennato, è fin dai suoi primi passi che Marcuse si confronta con la dimensione estetica. Ma il saggio del 1922 si rivela fin da subito ben più che mera dissertazione su un genere artistico: è il bilancio politico-intellettuale della sua partecipazione all’esperienza rivoluzionaria del ’18-’19, nella quale aveva riposto quegli ideali (anch’essi sostanzialmente estetici, oltre che evidentemente politici) dei quali si era nutrito fin dai tempi del ginnasio3. Nella letteratura tedesca individua due modi di concepire l’unità romantica di arte e vita: se nel primo caso la vita stessa viene considerata arte (“l’arte di vivere”), nel secondo i due termini del rapporto sono ineluttabilmente scissi fin dall’origine: il regno della bellezza non coincide mai con quello della realtà fattuale e la bellezza perfetta si trova così relegata al mondo ideale. Ci troviamo davanti ad una polarità che, sebbene qui solo abbozzata, preannuncia significativamente i due aspetti conviventi nella futura prospettiva politica marcusiana: il vigoroso e tutto politico anelito alla redenzione terrena dell’ordine costituito ad opera delle represse forze originarie individuali che viene costantemente sconfessato dalla spietata durezza della realtà, contro la quale non può che tragicamente infrangersi.


L’artista continuerà sempre a pretendere l’appagamento terreno, e a lanciarsi a testa bassa contro la realtà fino al momento in cui acquisterà consapevolezza dell’alternativa inderogabile: l’idea o la realtà, l’arte o la vita. L’idea diventa una menzogna quando si cerca di calarla a forza nella realtà.4


Per quanto semplicemente abbozzato troviamo qui in nuce lo sfondo entro il quale si muoverà il discorso filosofico marcusiano come prospettiva utopica di riscatto radicale e trasformazione qualitativa della vita umana di contro all’impossibilità di riconciliare la scissione originaria della vita5. Come avremo modo di vedere, le conclusioni cui perviene l’ultimo Marcuse non saranno poi così distanti da quanto qua detto riguardo la dimensione dell’artista6.


Nel saggio del 1937 Sul carattere affermativo della cultura7 Marcuse tratteggia una particolare storia della filosofia della cultura nella quale mostra gli albori, e i successivi sviluppi, della compiuta alienazione tra arte e vita, ovvero di come, fin da Platone, si sia tentato di mantenere il piano materiale scollato da quello ideale-estetico. In questo tentativo Marcuse ritiene di rinvenire il compimento borghese della separazione tra una teoria “pura” (devoluta alla trattazione di tutto ciò che è bello e sublime) e la realtà empirico-sociale. È così che la felicità, la realizzazione dell’individuo, viene fin da subito relegata al piano trascendente della cultura; l’individuo deve cioè abdicare a qualsiasi pretesa di realizzare nella realtà effettiva, quella materiale della società e della politica, il bel mondo dell’idea. Poiché la realtà viene presentata come un coacervo di contraddizioni e di tensioni, di mutamento e di incostanza (un caos), la ricerca umana della felicità viene riservata a quelle uniche cose eterne (ma perciò intangibili e, di fatto, irrealizzabili): le idee “pure”. Attraverso questa sottile (ma progressiva e sempre più persuasiva) svalutazione del sensibile si compie la frattura tra una datità storica rappresentata sempre più come ineluttabilmente inemendabile (l’ontologizzazione del reale) e una trascendenza luminosa e consolante nella quale si sono accumulati i tesori dell’umanità. Si compie così l’ordine idealistico borghese: il mondo è materiale nella misura in cui è materia per qualcos’altro di più nobile e alto, la cultura, mentre tutto ciò che scende a patti con l’utile e il pratico è squalificato in quanto meschino e povero. Ma se ancora nel mondo antico le “nobili attività” del pensiero erano prerogativa di una ristretta élite, con la modernità borghese la cultura diventa universale e immediata: così «La pura astrattezza, a cui sono ridotti gli uomini nei loro rapporti sociali, si estende anche alle loro relazioni con i beni ideali»8. È il compimento di quella che Marcuse chiama «cultura affermativa», il cui tratto più caratteristico è


l’affermazione che c’è un mondo di valore superiore ed eternamente migliore, il quale è impegnativo per tutti e va approvato incondizionatamente. Questo mondo è essenzialmente diverso dal mondo effettivo della lotta quotidiana per l’esistenza, e tuttavia ogni individuo può realizzarlo per sé "dall’interno", senza cambiare quel mondo fattuale.9


Da Lutero a Kant la «doppia morale» di matrice borghese ha fatto sì che la scissione tra utile e bello venisse rappacificata in un’unità armonica: l’interiorità diventa il libero e vasto campo delle realizzazioni dell’individuo (prima fra tutte la felicità) così che la realtà oggettiva venga non solo scagionata ma giustificata per come è: qualcosa di dato e di immutabile, che in quanto tale va accettato e, con ciò, garantito e continuato. All’uguaglianza astratta degli individui corrisponde una concreta disuguaglianza. D’altronde se per il proletariato ciò non può che apparire come una palese contraddizione, per la borghesia risulta invece più che sufficiente: questa infatti, a differenza di quello, dispone già delle basi materiali sufficienti a realizzare la soddisfazione dei propri bisogni fondamentali. I valori emancipativi e progressivi propri della borghesia al momento della sua ascesa sociale sono così trasformati in elementi conservativi del nuovo stato di cose.


Se l’analisi marcusiana si arrestasse a questo ordine del discorso non avremmo altro che una trattazione sull’ideologia borghese. Tuttavia


l’idealismo borghese non è soltanto un’ideologia: esso esprime anche un giusto stato di cose. L’idealismo non contiene soltanto la giustificazione della forma presente dell’esistenza, ma anche il dolore per il suo sussistere [...] il ricordo di ciò che potrebbe essere.10


A Marcuse difatti interessa qualcosa di più, quell’elemento che vedremo poi essere perduto dalla sua (e, a maggior ragione, dalla nostra) epoca. Nell’arte borghese si conserva il ricordo di ciò che è andato perduto, di ciò che dovrebbe (e che per il Marcuse di questi anni ancora potrebbe) essere: l’arte appartiene ad un mondo che, nel suo raccogliere tutte le speranze e i desideri negati dalla realtà, per quanto del tutto trascendente e, in ciò, irreale, pur tuttavia delinea un ordine delle cose in assoluto antagonismo con l’ordine stabilito, del quale costantemente rappresenta la negazione.


Entriamo ora in un momento cruciale del discorso marcusiano sull’arte, l’occasione in cui verranno fissate le più generali coordinate orientative per la trattazione estetica, coordinate che comprenderanno quantomeno le Note su Aragon11 e il saggio La dimensione estetica12.

Marcuse qui continua la propria parabola sulla storia della filosofia della cultura, ora tutto concentrato sullo sviluppo idealistico-borghese del concetto. L’arte diventa il campo in cui si compie il totale rivolgimento della realtà, è «l’immagine rovesciata di ciò che accade nella realtà sociale»13 che tuttavia, in forza della natura «critico-rivoluzionaria» propria dell’ideale, mantiene in vita tutte le migliori nostalgie. In ciò si rivela la natura ambigua dell’arte, che se è vero condanni l’ordine esistente al contempo ne è però una fondamentale fonte di giustificazione14. Dall’arte, difatti, non ci si può attendere il cambiamento fattuale dello stato di cose, «deve compenetrare e nobilitare il mondo dato, non crearne uno nuovo»15. Quello che appare un compito attribuitole da una precisa ideologia (quella borghese) si rivelerà poi essere la natura essenziale propria dell’arte. Se l’arte non rivoluziona il mondo è perché ne è intimamente incapace. Ma su questo torneremo poi. Basti ora notare che il luogo precipuo nel quale viene a condensarsi l’intimità trascendente della cultura è, nell’ideologia e filosofia borghese, l’anima, intesa come il totalmente altro rispetto alla realtà materiale e, perciò, aliena da alcuna prassi: «nel mondo esterno l’anima non può dispiegarsi»16. Tuttavia in questa seconda metà degli anni ’30 Marcuse crede ancora nella possibilità di emendare la cultura dalla gabbia intessutale dall’ideologia borghese: essa può tornare ad essere anticipatrice di una verità più alta e finora obliata, cioè realizzare in questo mondo (e non in un’astratta dimensione trascendente) la pienezza della dimensione sociale, quella che più tardi Marcuse chiamerà “liberazione”. La cultura rappresenta qui tutta quella virtualità che, attualmente negata, potrebbe desublimarsi per compiere in terra l’ordine di giustizia e felicità individuale, infrangendo così l’ordine anonimo e alienante del mercato e dell’individualismo. Sotto il dominio della borghesia, invece, l’anima diventa il freno attraverso cui quella tiene insieme e risolve, sublimando, le contraddizioni dell’esistente, della propria cattiva realtà. L’anima, sganciata da qualsiasi prassi, rappresenta il docile mondo nel quale la società può concedere tutte le gioie che l’individuo possa desiderare ma che è impossibilitato a realizzare nella società; i reali e concreti bisogni individuali vengono così trasferiti e relegati nel mondo dell’intimità, e che ritroviamo nelle rappresentazioni artistiche del tempo17.


[...] Questi valori portano tutti il segno affermativo di appartenere ad un mondo più alto, più puro, non quotidiano. Essi vengono interiorizzati come doveri della singola anima [...] oppure rappresentati come oggetti dell’arte [...].18


Qui non importa che l’arte rappresenti una seconda realtà in grado di riprodurre le fattezze di quella empirica: essenziale è invece che questa dimensione trascendente sia bella, ovvero che renda possibile, pur nell’apparenza, una reale soddisfazione dei bisogni umani. È proprio la bellezza quel medium che permette questa sublimazione; bellezza che tuttavia può appartenere solo al campo artistico, mai tradursi in realtà sociale. Così, in questo contesto, l’arte riesce ad «acquietare la rivolta della nostalgia»19, ovvero a disinnescare il carattere rivoluzionario di cui sarebbe dotata20. Ma, in sé, la bellezza mantiene sempre un carattere sovversivo, la «promesse de bonheur» che spaventa l’ordine costituito. Sarà tramite le Lettere sull’educazione estetica dell’uomo di Schiller che Marcuse riprenderà questo tema in Eros e civiltà21.


All’altezza di queste pagine il carattere bicefalo proprio dell’arte trova ulteriore complicazione nella distinzione tra teoria e arte:


A differenza della verità della teoria, la bellezza dell’arte non è incompatibile con una cattiva realtà presente, in cui anzi può cercare la felicità. La teoria vera [...] non dispensa consolazioni che concilino con il presente.22


Così facendo il discorso sembra però confondersi: se Marcuse fino a poc’anzi prospettava la possibilità emancipatoria dell’arte, qua pare sancirne invece l’assoluta impossibilità: solo alla teoria (la «vera teoria», ovvero la teoria critica23) può competere, in quanto fin dall’inizio non collusa con l’ordine sussistente, la negazione e conseguente sovversione dello stato di cose, mentre l’arte risulta originariamente impossibilitata a sganciarsi da quell’ambiguo oscillare tra condanna e affermazione sopra menzionato. Vedremo poi come al declinare delle possibilità storiche di una teoria che possa essere veramente rivoluzionaria Marcuse ripiegherà, non senza un velato nostalgismo, sulla funzione dell’arte24, anche se oramai purificata da ogni velleità di incidere sul reale e diretta piuttosto al tentativo di riabilitare una coscienza critica25. Proprio nelle battute conclusive di questo saggio Marcuse pare insistere su questa linea: la cultura affermativa non può che essere superata abbandonando in toto il paradigma sociale cui è intrinsecamente legata26. Qui però manca non solo la minima indicazione sul cosa questa cultura sia, ma anche sul come sia possibile una nuova cultura che niente abbia a che fare con ciò la cultura è stata finora. Marcuse scivola così inevitabilmente nell’astrattezza, poiché non offre (né forse può offrire27) determinazioni concrete sia delle condizioni di possibilità di un’altra cultura sia dei suoi contenuti28. Problema di primo rilievo se si pensa a come tutta la parabola del pensiero marcusiano trovi nella lotta all’astrattezza uno dei suoi punti cardine.


Ciò può al momento bastare per mettere in luce come già alcune idee marcusiane sull’arte, il suo ruolo e il suo (politicamente) misero destino siano già accennate in questo testo che, con ciò, conferma quanto detto sulla sua capitale importanza all’interno dell’economia della riflessione estetica di Marcuse: sono già contenute in nuce le conclusioni alle quali il filosofo tedesco perverrà nella più tarda maturità.


La dimensione estetica

Già nelle prime righe delle Note su Aragon Marcuse enuncia l’avvenuto cambiamento di scena rispetto al saggio di otto anni prima:


La liberazione [...] non si è materializzata nonostante le condizioni storiche per la sua realizzazione siano state raggiunte. Le forze rivoluzionarie che dovevano realizzare questa libertà sono state assimilate al sistema [...].29


Ci troviamo davanti al fallimento dei movimenti rivoluzionari, rei non solo di non aver saputo realizzare ciò che le condizioni materiali permettevano loro ma di essere peraltro finiti nell’orbita sempre più monopolizzante e omologante della società capitalistica avanzata. A condizioni mutate


Come strumento di opposizione, l’arte dipende dalla forza alienante della creazione estetica; dal suo potere di rimanere insolita, antagonistica, trascendente [...] e nello stesso tempo, di costruire la riserva dei bisogni umani soppressi [...].30


Questa è forse tra le più compiute espressioni di Marcuse su ruolo e posizione dell’arte: deve essere l’infinitamente negativo, assoluta negazione e contraddizione se vuole mantenersi al riparo dalle maglie della gabbia monopolistica della società. Perciò non risultano più rilevanti quei contenuti che invece trovavano una loro peculiare funzione nell’arte borghese: «il contenuto in quanto tale è irrilevante», «il potere negativo [...] dell’arte deve apparire nella forma, nell’a priori» poiché l’essenziale è che l’arte resti fedele al suo carattere intimamente negativo, l’unica possibilità affinché, per contrasto, si possa rivelare «la povertà estrema della condizione umana» nell’attuale sistema vigente e, di pari, si palesi «l’assoluta necessità della liberazione»31. Per fare ciò deve rappresentare il massimo della irrealtà e al contempo essere «più reale della realtà della normalità»32, poiché ogni forma di realismo, per quanto animato dalle migliori intenzioni riformatrici, rimane inevitabilmente apologetico, perciò cattivo e complice di una realtà che non si può in alcun modo emendare dall’interno33; ogni comunicazione artistica deve allora essere essenzialmente maieutica, indiretta.


Attraversando le opere di autori come Baudelaire, Éluard, Aragon, Breton, Marcuse vuole mostrare come la loro poetica sia articolata in modo da comunicare indirettamente, attraverso l’elemento impolitico della sensualità, quell’unico e vero fine cui il filosofo tedesco ci ha già oramai abituati:


La Patrie, né La Résistance, né La Libération sono fini in sé; questi sono solo mezzi per la promesse du bonheur. In questo modo, il contenuto è nello stesso tempo posto e negato, e la sua negazione libera il vero contenuto, il fine rivoluzionario.34


La ricerca dei surrealisti verte dunque su un linguaggio shockante, che crei estraneazione, così da poter essere rinnovato come strumento comunicativo purificato dalle contaminazioni del vocabolario ordinario della società vigente. Come possiamo notare, la ricerca di una condizione esterna e totalmente negativa si fa sempre più radicale in Marcuse. In parallelo, troviamo un elemento che in germe prelude già al cuore della tematica sviluppata in Eros e civiltà: la promessa rivoluzionaria dell’amore. L’amore è difatti presentato come l’a priori artistico precipuamente capace di capovolgere la grammatica socio-politica dell’ordine repressivo.

Tuttavia, anche in questo saggio Marcuse non riesce a non lasciarsi andare ad un’amarezza finale, riprendendo considerazioni già intraviste:


L’arte può certamente cercare di preservare la sua funzione politica negando il suo contenuto politico, ma non può cancellare l’elemento conciliatorio implicito in questa negazione.35


Ritroviamo puntualmente la «maledizione dell’arte»36: nonostante la sua assoluta trascendenza e negatività, resta ineluttabilmente collusa con il sistema vigente, risultando più strumento apologetico che critico. Quello che al massimo può fare è risvegliare la memoria, riportare alla luce quel che è stato e che poteva essere; da ciò però, nessuna rivoluzione, nessun portato sovversivo: l’arte è «inseparabilmente legata alla forma di vita dominante»37. Nello stesso momento in cui i suoi contenuti sono liberati diventano cosa, si pietrificano nella forma reificata di merci di cui poter disporre e che, in quanto oggetto di contemplazione, non possono non portare in grembo la capacità conciliatoria della gratificazione estetica. Eppure Marcuse non intende ancora arrendersi, e con un ultimo guizzo di speranza tiene a sottolineare come «sebbene questa dissoluzione [della realtà costituita] non spetti più all’arte38 [...] la falsità dell’arte potrebbe diventare la pre-condizione per la contraddizione e la negazione artistiche»39.

Eros e civiltà si colloca in sostanziale continuità con quanto visto nel precedente saggio. Il capitolo La dimensione estetica si apre difatti con la lapidaria affermazione: «È ovvio che la dimensione estetica non può convalidare un principio della realtà»40. Si ribadisce come il campo dell’estetica sia «essenzialmente non-realistico» poiché proprio a costo della sua inefficacia sul reale ha potuto mantenere la propria autonomia dall’ordine costituito. Eppure anche qui Marcuse non desiste dall’attribuire questo destino dell’arte, che in ultima istanza è a questa connaturato41, alla torsione praticata dal principio di prestazione: se vivere esteticamente è impossibile è solo perché la repressione culturale condanna e impedisce la libera espressione delle potenzialità umane, che per Marcuse possono essere veicolate proprio dalla bellezza dell’arte. Ciò non deve però stupirci: come già detto, ci troviamo ancora in un’opera sostanzialmente ottimistica nella quale l’oscillazione delle posizioni marcusiane permette di lasciare aperto lo spazio alla speranza e all’utopia42.

Riprendendo la definizione kantiana di un’estetica che sia punto mediano di sensibilità e moralità, Marcuse ripropone la già nota funzione indiretta (ora chiamata «simbolica») dell’arte: l’idea del bello veicolata dall’arte porta con sé le possibilità della libertà, ma una libertà che deve presentarsi solo per analogia, «poiché la libertà è un’idea alla quale non può corrispondere alcuna percezione»43.

Eppure una percezione estetica esiste, ed è precisamente una percezione che si accompagna al piacere. Seguendo sempre Kant, questo piacere non solo è universale44 (in quanto costituito dalla forma pura dell’oggetto), ma è anche creativo: come immaginazione estetica il piacere è difatti capace di delineare un ordine altro rispetto a quello statuito45, ordine fondato appunto sul piacere e sulla liberazione delle espressività e desideri propri dell’uomo e castrati dal capitalismo avanzato. Nella realtà conforme alla dimensione estetica potremmo quindi assistere alla ricomposizione della dualità stabilita dal principio di prestazione: natura e libertà, sensibilità e ragione trovano nuova sintesi in un nuovo principio di realtà fondato però sulla bellezza46. Tra i primi a ravvisare tale divisione Marcuse annovera Schiller che, nelle sue Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, tratteggia la possibilità di una riforma della civiltà in virtù delle forze liberatrici della funzione estetica. Anche in questa circostanza Marcuse si dilunga poi in una panoramica storico-filosofica nella quale riconosce momenti e moventi nei quali si è consumata e realizzata questa separazione fra i due principi, ovvero di come si sia passati dall’estetica come ambito pertinente ai sensi ad ambito pertinente alla bellezza e all’arte. Così è possibile mantenere la soddisfazione estetica, pur nei rigorosi limiti della forma pura dell’oggetto, mentre la dimensione sensuale viene repressa; l’aprirsi dello spazio delle possibilità artistiche resta perciò relegato all’interno di una torre d’avorio dalla quale non ci si può sporgere verso il mondo; si tratta di una libertà «non impegnativa, non impegna l’esistenza umana sul livello ordinario della vita»47. Riprendendo tesi oramai già note, Marcuse tiene a sottolineare come solo una nuova civiltà possa redimere questa scissione fondamentale. In questo caso, però, il compito di rinnovamento è assegnato alla stessa arte poiché, in accordo con Schiller, «per poter risolvere il problema politico, bisogna poter passare attraverso quello estetico, poiché è la bellezza che conduce alla libertà»48. Non si capisce però come l’estetica, finora delineata come ambito rigorosamente trascendente l’esistente (ne è addirittura sua condizione necessaria), possa realizzare questo salto nel reale. Eppure Marcuse non sembra aver dubbi a riguardo: «la liberazione dalla realtà quale è qui prospettata, non è libertà trascendente, interna o puramente intellettuale [...], ma libertà nella realtà»49. Ora, pur tralasciando come un tale mondo sia possibile senza ridursi a «estetismo irresponsabile»50, questo resta il problema eminente in Marcuse. Allora, delle due una: o la liberazione (storico-politica) preannuncia e predispone la possibilità della libera manifestazione estetica in un mondo sorretto dal rinnovato connubio tra sensualità e ragione (il che sembrerebbe non solo più ragionevole ma anche più coerente con le parole finora spese circa lo statuto dell’estetica) oppure Marcuse, del tutto fedele a Schiller, crede davvero che «il problema politico» possa e debba essere risolto dall’estetica.


Nel corso degli ulteriori sviluppi di questa trattazione vedremo come Marcuse rimarrà incapace di uscire da questa aporia51; questo però non deve stupire: come già notato è nello stesso porre l’estetica nel precario equilibrio tra pura trascendenza e forza rivoluzionaria che giace l’ambivalenza caratteristica di tutto il suo discorso. Il seme della ambiguità, che all’aumentare del termometro politico si palesa sempre più come contraddizione, è gettato fin dall’inizio.


(1/2. Segue)


Davide Cherubini


Note

1 Oltre al già citato Il romanzo dell’artista nella letteratura tedesca (da noi pubblicato da Einaudi, Torino, 1985) mi riferisco a La dimensione estetica, uno dei suoi ultimi lavori contenuto in La dimensione estetica. Un’educazione politica tra rivolta e trascendenza edito da Guerini e Associati, Milano, 2002.

2 Note sulla ridefinizione della cultura contenuto in E. Marcuse, Cultura e società, Einaudi, Milano, 1969, p. 279 (il saggio menzionato è sviluppato nelle pagine 279-299).

3 L’adesione del Marcuse liceale al movimento giovanile Wandervogel racchiude già in sé quella compresenza di tematiche estetiche e politiche che avranno poi modo di articolarsi più avanti in tutta la loro complessità: l’attaccamento alla natura, la liberazione del corpo e dell’espressione artistica che il suddetto gruppo propugnava riflettono infatti l’attenzione precipuamente politica verso un più generale atteggiamento morale che nell’incompiutezza trova la sua forza propulsiva in opposizione al sistema (già percepito come oppressivo) dominante. Per quanto riguarda la parte biografica di Marcuse, nonché l’impalcatura più generale del suo pensiero, mi rifaccio a Raffaele Laudani, Politica come movimento, Il Mulino, Bologna, 2005.

4 Il romanzo dell’artista, cit., p.165.

5 Di questo “marxismo tragico” Marcuse trova esempio paradigmatico nell’opera del pensatore ungherese György Lukács di cui Marcuse senz’altro conosceva il celebre Storia e coscienza di classe (ma inevitabilmente il pensiero vola ad un altro famoso testo lukacsiano come L’anima e le forme, nel quale questa tensione tra forme e vita è prepotentemente, nonché appunto tragicamente, presente).

6 «La teoria che si tiene lontana dalla prassi diventa fedele a se stessa» dirà Marcuse in una lettera ad Adorno del 1969, ad indicare la funzione regolativa e pura che deve mantenere la teoria davanti ad una realtà ‘cattiva’ che non offre alcuna possibilità di autentica prassi ma solo la minaccia di rendere ‘menzogna’ l’idea che forzatamente vuole essere tradotta nel reale. Le assonanze con la citazione tratta dal suo lavoro giovanile sono piuttosto evidenti.

7 Contenuto in Cultura e società, cit., pp. 43-87.

8 Ibidem, p. 48.

9 Ibidem, p. 49.

10 Ibidem, p. 52.

11 Note su Aragon, contenute in E. Marcuse, Davanti al nazismo. Scritti di teoria critica 1940-1948, Laterza, Bari, 2001, pp. 93-111.

12 Mi riferisco qui al saggio contenuto in Eros e civiltà, Einaudi, Torino, 1964, alle pp. 194-214, e non all’omonimo e conclusivo saggio sull’estetica già citato nella nota 1. A mio avviso (ovviamente entro certi limiti che mi propongo di chiarificare più avanti) la generale “dimensione estetica” marcusiana rimarrà addirittura invariata (almeno nella sostanza) fin all’ultima opera degli anni ’70. A cambiare sarà piuttosto lo scenario politico con il quale Marcuse si ridurrà sempre a fare i conti. Credo che se di differenze si voglia qui parlare, esse debbano perlopiù essere ricondotte alle modulazioni cui il filosofo tedesco sottopone la propria teoria estetica per rispondere e far fronte ai vari mutamenti storici.

13 Cultura e società, cit., p. 56.

14 «Con l’anima la cultura affermativa protesta contro la reificazione, per poi tuttavia soggiacere ad essa» (Ibidem, p. 62).

15 Ibidem., p. 57.

16 Ibidem, p. 62.

17 In queste pagine Marcuse delinea un elemento che si rivelerà poi essenziale nelle sue ultime riflessioni sull’arte, ovvero come il suo carattere affermativo riposi anche sull’avvenuta reificazione e ripetizione dei prodotti artistici, fruiti come oggetti di godimento surrogato: «Dove è diventato tutto cosa, un bell’oggetto, il corpo può far intravedere una nuova felicità. Nel momento in cui la subisce nella maniera più estrema, l’uomo trionfa nella mercificazione» (Ibidem, p. 69). È qui intravista la massificazione di cultura e arte di cui poi tratterà a partire da (e specialmente ne) L’uomo a una dimensione.

18 Cultura e società, cit., p. 67.

19 Ibidem, p. 74.

20 L’acquietamento del carattere rivoluzionario dell’arte, compiutosi attraverso il dirottamento di quelle energie umane che fungevano da alimento per il dissidio verso una più estesa base materiale di soddisfacimenti possibili, sarà proprio uno dei problemi che maggiormente assillerà Marcuse dalla metà degli anni ’60 in poi. Il fatto che il portato critico di arte e cultura venga disinnescato concorre, insieme all’avvenuta traduzione della coscienza critica in coscienza felice, ovvero alla sua integrazione nel sistema, a delineare sempre più inquietantemente il tramonto di ogni possibilità eversiva.

21 Le speranze riposte nel ruolo rivoluzionario dell’arte, e che qua compaiono solo accennate, trovano la massima espressione proprio in quest’opera che, quantomeno sotto questo punto di vista, rappresenta la vetta più alta dell’ottimismo marcusiano (insieme al Saggio sulla liberazione, che come vedremo riprende non pochi nuclei tematici dell’opera del ’55). Vedremo poi come anche in questo caso si tratti di un “ottimismo” ben preciso (cioè: utopia) e non privo di certe zone d’ombra e ambiguità.

22 Cultura e società, cit., p. 71.

23 Cfr. a riguardo Filosofia e teoria critica, in Cultura e società, cit., pp. 87-108.

24 Sulla emblematica tendenza di Marcuse a ripiegare nel mondo dell’arte nei momenti di maggior sconforto a seguito dei fallimenti e delle disillusioni politiche (non a caso, giusto per citare i due esempi tra loro più distanti, la dissertazione di laurea è stata scritta dopo il fallimento della rivoluzione del ’18-’19 e il Saggio sulla dimensione estetica negli ultimi anni della sua vita, quando ormai il pessimismo de L’uomo a una dimensione si rivelava inquietantemente sempre più crudo realismo storico) credo abbia ben visto Raffaele Laudani nel suo già citato Politica come movimento.

25 Vd. infra il capitolo Tra disperazione ed utopia.

26 «Nella misura in cui la cultura è entrata nel pensiero occidentale soltanto sotto forma di cultura affermativa, la soppressione del suo carattere affermativo si presenterà come soppressione della cultura in quanto tale» (Cultura e società, cit., p. 82). Risulta perciò piuttosto ambiguo trovare, nemmeno una pagina prima, l’affermazione opposta: «Il superamento reale di queste tendenze [della cultura affermativa] non porterà ad uno smantellamento della cultura come tale, ma ad una soppressione del suo carattere affermativo». La conclusione del suddetto saggio credo però che tolga ogni dubbio sulle reali intenzioni di Marcuse (vd. Ibidem, pp. 84-85). D’altronde non è raro trovare in Marcuse, perlomeno limitatamente a queste tematiche, delle sensibili oscillazioni tra posizioni diverse. Ci si augura che in questo breve testo ne possa emergere qualcuna, a significare come la riflessione marcusiana qui presa in considerazione sia tutt’altro che esaurita ma riesca ancora ad offrire spunti per nuove considerazioni.

27 Questo è, in definitiva, il pensiero di chi scrive. Come potrebbe la nuova cultura eludere il rischio di scadere anch’essa in cultura affermativa? Nei limiti di queste considerazioni non posso che trovarmi d’accordo con la critica mossa da Giangiorgio Pasqualotto nel suo saggio su Marcuse contenuto in Teoria come utopia. Studi sulla scuola di Francoforte, Bertani, Verona, 1974.

28 Limiti che non riguardano soltanto la formulazione della cultura nella proposta marcusiana ma che abbracciano anche il suo discorso sulle possibilità di una ‘nuova’ tecnica alternativa a quella capitalistica e sulla teoria critica nel suo compito di redimere l’astrattezza della filosofia classica.

Purtroppo, per ragioni di pertinenza e spazio, non è qui possibile andare oltre il semplice cenno ad un tema indubbiamente interessante; questa incapacità di offrire determinazioni concrete, ovvero di andare oltre la mera negazione, tende ad assumere gli inquietanti tratti di un problema tutto interno alla formulazione filosofica marcusiana, che perciò si rivela intrinsecamente impotente nell’offrire una determinata (non astratta) prospettiva altra da contrapporre allo status quo.

29 Note su Aragon, cit., p. 93.

30 Ibidem, p. 94.

31 Ibidem, pp. 95-96.

32 Ibidem, p. 94. Marcuse qui parafrasa a modo suo il noto adagio hegeliano: il reale è veramente razionale se qui ‘razionale’ viene inteso non come aderente alla datità fattuale della società (la cosiddetta reality che traduce la Realität hegeliana) ma fedele al suo carattere negativo e alla esigenza che la realtà si riappropri del proprio Sollen, della propria destinazione storica nella quale si realizzi pienamente come actuality (la Wirklichkeit di cui parla Hegel). Non potendo qui dilungarmi oltre un semplice accenno, rimando direttamente a Ragione e rivoluzione per quanto riguarda la rielaborazione marcusiana della ragione hegeliana.

33 Questo perché nella rappresentazione immediata del dato reale avvicina il lettore/spettatore al rappresentato, favorendo, attraverso la catarsi artistica, un’immediata conciliazione con il reale. Ma su questo torneremo con precisione più avanti.

Troviamo qui una differenza tra l’arte e la teoria critica la quale invece, seguendo la lezione hegeliana, deve produrre il cambiamento dall’interno laddove qualsiasi tentativo di formulare soluzioni esterne risulta astratto e indeterminato, perciò vizioso ed ineffettuale.

34 Note su Aragon, cit., p. 100.

35 Ibidem, p. 109.

36 Ibidem, p. 109.

37 Ibidem, p. 110.

38 Verrebbe da chiedersi, a questo punto, se l’arte fosse mai stata capace di adempiere a questa funzione. Evidentemente, alla luce di quanto scritto, le intenzioni di questo testo spingono in direzione di un netto diniego.

39 Ibidem, p. 111.

40 E. Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino, 1964; il capitolo, l’unico preso qui in considerazione, è alle pp. 194-214.

41 Di questo se ne renderà poi conto lo stesso Marcuse, specialmente nei suoi ultimi scritti. Lo vedremo in seguito.

42 Si tratta peraltro di considerazioni da tenere bene a mente perché nelle opere successive (a condizione di escludere il Saggio sulla liberazione) prenderanno il sopravvento proprio gli elementi più pessimistici e rinunciatari: la grandezza (e possibilità) dell’arte viene (e non potrebbe essere altrimenti) pagata al prezzo della sua impotenza.

43 Eros e civiltà, cit., p. 196.

44 L’idea kantiana dell’esperienza estetica come esperienza universale risulta affine, per certi versi, al carattere universale della cultura emerso dal saggio del ’37. Occorre quindi tornare almeno a questi due saggi per rinvenire i fondamenti della posizione marcusiana sull’arte nella polemica con l’ortodossia marxista (a riguardo cfr. in particolare infra l’ultima parte del capitolo Tra disperazione e utopia, incentrata sul saggio La dimensione estetica).

45 «L’ordine della bellezza risulta dall’ordine che governa il gioco dell’immaginazione. Questo duplice ordine è conforme a leggi, ma a leggi che sono esse stesse libere [...]» (Eros e civiltà, cit., p. 199).

46 Di questa unione Marcuse tiene a sottolineare come già il termine tedesco Sinnlichkeit renda testimonianza nella sua doppia valenza di soddisfazione istintuale e percettività sensoriale cognitiva.

47 Eros e civiltà, cit., p. 205.

48 Ibidem, p. 206.

49 Ibidem, p. 207.

50 Marcuse anche qui mostra come tutta la sua vis concreta, propria della critica negativa, svanisca ora nel momento propositivo riducendosi all’astrattezza. Davvero può essere sufficiente che la funzione estetica sia «concepita come un principio che governa l’interna esistenza umana» (Idem supra) per eludere il rischio che questa dimensione, nella quale dovrebbe compiersi la liberazione delle piene potenzialità e dei desideri umani, non scada nell’immagine del “paese della cuccagna”? D’altronde la preoccupazione si trova nello stesso Marcuse, senza però che questa riesca a scalfire la sua incrollabile fiducia: «sempre meglio accettare questo cliché [il paese della cuccagna]» piuttosto che la dimensione repressiva dello stato monopolistico avanzato (Saggio sul carattere affermativo della cultura, cit., pp. 83-83).

51 Solo nel suo ultimo saggio (La dimensione estetica) mi è parso plausibile rinvenire una presa di posizione per uno dei due termini del discorso.


Inserito il 28/1/2023.

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Herbert Marcuse: gloria e impotenza dell’arte

di Davide Cherubini

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Herbert Marcuse: gloria e impotenza dell’arte

di Davide Cherubini

Seconda parte


Tra disperazione e utopia

La prima metà degli anni ’60 rappresenta forse la fase di maggior scoramento e disillusione di Marcuse: il capitalismo avanzato ha ormai chiuso l’universo politico, ogni tentativo di eccedenza e rivolta appare ineluttabilmente integrato in una perfetta macchina che, chiudendolo nel circolo di predeterminazione dei bisogni possibili (e incoraggiati) e loro soddisfacimento, ha del tutto disinnescato l’elemento rivoluzionario insito nella cifra “fisica”1 dell’oppressione. L’attuale società è infatti “opulenta”: l’allargamento della base materiale si è tradotto in un sensibile vantaggio per tutti, disincentivando qualsiasi forma di vero antagonismo2. La repressione non viene più portata avanti direttamente, attraverso coercizioni fisiche, bensì nascosta dietro la facciata del pluralismo democratico (in sé filisteismo assoluto) che simula un contesto dialogico e aperto laddove questo stesso spazio è strettamente funzionale e aderente alle logiche del sistema. Le possibilità offerte sono quelle predeterminate dall’ordine costituito; la libertà in un tale ordine è perciò violenta necessità. Se lo scenario è cambiato è però proprio perché è venuta meno la coscienza critica della repressione subita (e del connaturato bisogno di sovvertire l’ordine corrente): l’integrazione ha desublimato l’antagonistica coscienza infelice in coscienza felice; in una società nella quale le possibilità di soddisfacimento materiale sono sempre maggiori (di pari alla sempre maggiore inoculazione di nuovi bisogni da inseguire) non c’è più bisogno di una trascendenza.

È in questo contesto che si colloca L’uomo a una dimensione e il saggio Note su una ridefinizione della cultura, nei quali Marcuse trova occasione per delineare le condizioni attuali di una cultura ormai vittima della mercificazione operata dalla società di massa.


Quel che si verifica ora non è tanto il degenerare dell’alta cultura in cultura di massa, quanto la confutazione della prima da parte della realtà. La realtà supera la sua cultura. L’uomo può compiere oggi cose più grandi che non gli eroi e i semidei della cultura; ha risolto molti problemi insolubili. Ma ha anche tradito la speranza e distrutto la verità che venivano conservate nelle sublimazioni della cultura.3


In queste poche righe iniziali troviamo la sintesi delle considerazioni marcusiane su arte e cultura di questi anni. La cultura non è di fatto confutata ma semplicemente anestetizzata e domata attraverso l’appiattimento unidimensionale4 a cultura di massa. In ciò non bisogna vedere una qualche forma di elitarismo intellettuale (cui peraltro Marcuse è profondamente alieno): il problema non è tanto la democratizzazione in sé della cultura, quanto come a questo processo si sia accompagnata la dissoluzione di quel tessuto nel quale la cultura trovava il proprio terreno fecondo: la coscienza infelice e critica5. L’alta cultura difatti permane: semplicemente è ora cosa fra le cose, oggetto di consumo, “materializzata” in ogni sua determinazione e sfrondata di qualsiasi rimando al trascendente.


Il potere assimilante della società svuota la dimensione artistica, assorbendone i contenuti antagonistici. Nel regno della cultura il nuovo totalitarismo si manifesta precisamente in un pluralismo armonioso, dove le opere e le verità più contraddittorie coesistono pacificamente in un mare di indifferenza.6


In questa opera di traduzione generale di ogni dramma, conflitto, tragedia finora inspiegabili (e perciò portatori di un vigoroso portato critico-negativo) vengono dissolti in un linguaggio comprensibile, vengono spiegati dalle nuove tecniche e dai trovati della medicina psichiatrica. Con l’unidimensionalizzazione della cultura da parte della società di massa l’arte viene perciò mutilata della propria verità, ovvero della sua capacità di creare un mondo illusorio nel quale la realtà data viene sospesa e criticata.


La desublimazione istituzionalizzata si presenta in tal modo come un aspetto della “conquista della trascendenza” attuata dalla società unidimensionale. Così come tende a ridurre, anzi ad assorbire l’opposizione (la differenza qualitativa!) nel regno della politica e dell’alta cultura, questa società tende allo stesso scopo nella sfera degli istinti. Il risultato è l’atrofia degli organi mentali necessari per afferrare contraddizioni ed alternative, e nella sola dimensione che rimane, quella della razionalità tecnologica, la coscienza felice giunge a prevalere.7


Perciò Marcuse si ritroverà a sostenere l’importanza di tornare a riattivare la dimensione coscienziale degli individui, di riconquistare la bidimensionalità, quantomeno all’interno dell’individuo. Per far ciò, tuttavia, servirebbe un apparato educativo culturale che possa formare criticamente le coscienze. Ma è proprio questo apparato ad essere in prima istanza contaminato e deformato dalle esigenze pratico-utilitaristiche della società capitalistica avanzata.


L’idea di un’educazione che operi nella società esistente per una migliore società futura è evidentemente una contraddizione, ma una contraddizione che va risolta, se il progresso deve aver luogo.8


L’educazione, la mobilitazione delle coscienze è perciò l’ultima possibilità per poter far fronte al totalitarismo unidimensionale. Eppure Marcuse ne riconosce l’impossibilità, l’intima contraddizione a realizzarsi nei tempi attuali. Alla luce di questa aporia “storica”9 non resta a Marcuse che “sospendere” le verità della teoria davanti ad una realtà che, allo stato attuale, pare impossibile da modificare. Ciò non gli impedisce di cercare in tutti i modi una conclusione capace di portare un barlume di speranza, che suona però più come grido disperato: Marcuse torna infatti a inneggiare all’arte veramente critica, educatrice e formatrice, «che parla solo di cose assenti», il cui regno è il totalmente altro dal reale, capace di creare estraneazione per dis-integrare lo spettatore/lettore dal flusso quotidiano in cui è supinamente immerso10. La solita idea di estetica marcusiana (equipaggiata peraltro con l’ormai consueto bagaglio concettuale), solo ora esasperata dalla perdita di quel terreno (la bidimensionalità della coscienza critica) su cui quantomeno poteva far perno all’epoca del precedente capitalismo borghese.

È così che Marcuse si trova costretto nell’imbarazzante situazione di dover guardare con una non troppo velata nostalgia a quella cultura borghese finora criticata:


il mondo dei loro [dei personaggi dell’arte] predecessori era certo un mondo arretrato, pretecnologico, un mondo pienamente consapevole della disuguaglianza […] ma dove l’uomo e la natura non erano ancora organizzati come cose […]11


e perciò potevano essere


l’espressione di quella alienazione libera e consapevole dalle forme di vita stabilite con cui la letteratura e le arti si opponevano a queste stesse forme anche quando si prestavano ad ornarle.12


L’ormai nota ambivalenza dell’arte tra confutazione e assoluzione dell’esistente non viene più vista criticamente alla luce della pretesa di una sua traduzione nel reale. In ciò se ne riconosce la sua essenza, poiché il suo portato critico-negativo non può non trascinare con sé anche il rovescio della medaglia: risultare inevitabilmente funzionale al sistema. Pur “adornando il sistema” l’arte era in grado di fungere da serbatoio di senso e di valori al riparo della società che quelli sopprimeva. Alla salvaguardia della trascendenza corrispondeva il mantenimento di una coscienza infelice capace di cogliere le contraddizioni del reale e, perciò, potenzialmente capace di porsi come antagonista.

Negli scritti successivi a L’uomo a una dimensione13 assistiamo ad una diversa modulazione del ritmo discorsivo marcusiano: se grossomodo fino agli anni ’50 aveva mantenuto un’impostazione filosofica tutto sommato rigorosa e puntuale, alla luce della ritrovata speranza (peraltro illusoria) nei movimenti studenteschi, pacifisti, di liberazione nazionale etc. si assiste ad un Marcuse che tenta, più volte incespicando, di stare al passo dei rivolgimenti storico-politici per cercare di cogliere un’ultima possibilità di essere attuale, di veder finalmente tradotta la teoria nella realtà. Così facendo però scivola nelle crepe della frattura che separa la filosofia dalla prassi: da un lato perde il privilegiato terreno filosofico dal quale era capace di formulare una teoria che fosse veramente critica e lucida rispetto alla società capitalistica; dall’altro vede costantemente frustrata la possibilità di incidere sul reale, scadendo conseguentemente nell’astrattezza. La filosofia dovrebbe dunque rimanere fedele al proprio terreno e ai propri intenti: «la sua capacità critica è proporzionale alla sua astrattezza che “salva la verità”»14. È a questo punto che dovrebbe allora subentrare la Teoria Critica, forte della concretezza di cui manca la filosofia. Tuttavia


La Teoria Critica, che non sopporta l’astrattezza della filosofia tradizionale, non riesce, però, a sopportare nemmeno la concretezza della critica dell’economia politica, e ritorna “all’origine”, ritorna all’astrattezza della filosofia tradizionale.15


Ancora una volta si ripresenta l’aporia interna non solo all’arte ma alla stessa filosofia: la loro grandezza, la loro capacità critica è in diretto rapporto con la loro trascendenza; nel momento in cui si tenta di tradurle in prassi suonano già le campane a morto per le loro verità tradite e sconfessate: la fedeltà alla filosofia prescrive il votarsi, se non all’inattualità, quantomeno all’ineffettualità16. Quel che doveva essere un passo avanti ci riporta ai tristi esiti già noti; Marcuse ne è dolorosamente consapevole:


La teoria critica della società non possiede concetti che possano colmare la lacuna tra il presente e il suo futuro; non avendo promesse da fare né successi da mostrare, essa rimane negativa.17


Una distanza epocale sembra porsi tra quest’ultima opera e il successivo Saggio sulla liberazione18: i toni non potrebbero essere i più diversi, eppure solo quattro anni separano le due pubblicazioni. Ora il portato ottimistico di Eros e civiltà viene ripreso e rielaborato alla luce dei rivolgimenti socio-politici del 1968; è l’utopia che spazza via il duro e spietato pessimismo de L’uomo a una dimensione. Quindi: ancora l’estetica come forza capace di unire sensibilità e ragione e di promuovere, sotto l’egida del bello, la libertà; estetica che funge dunque da «metro per una società libera»19 nella quale le relazioni umane non sono più mediate dal mercato. L’idea, già presente in Eros e civiltà, che l’estetica sia «la Lebenswelt da cui dipendono i bisogni e le facoltà della libertà per la loro liberazione»20 trova qui sostegno in due nuovi aspetti: l’elemento “biologico” dei bisogni individuali21 cui è collegata la capacità dell’arte di attingere alle «sue più originarie connotazioni tecniche»22, tali da renderla forza materiale oltre che culturale23. A ciò si deve unire una rinnovata capacità linguistica dell’artista di creare e far proprio un linguaggio unico e in grado di esprimere questi nuovi valori. Eppure Marcuse resta ancora in bilico tra la speranza e l’esigenza di delineare un piano altro rispetto all’esistente e l’impossibilità strutturale che ciò possa avvenire: «Non sappiamo immaginare alcun cambiamento storico nel rapporto tra il movimento culturale e quello rivoluzionario che possa superare il solco tra linguaggio poetico e linguaggio comune»24. Ecco allora l’utopia. L’attuale monopolizzazione linguistica attuata dall’establishment sembra infatti impedire la possibilità di superare questo baratro: il linguaggio e la comunicazione sono anch’essi, come l’arte, la filosofia e la tecnica, essenzialmente coinvolti e compromessi con l’ordine dato. Lo spettro de L’uomo a una dimensione è quindi ben lungi dall’essere spazzato via del tutto. Che si tratti del linguaggio hippie, piuttosto che del jazz o dei canti di protesta, resta l’inevitabile fatto che non abbiamo ancora un nuovo oggetto dell’arte; al massimo «quello familiare è divenuto falso, impossibile»25. Ecco allora emergere il barlume della più autentica e lucida consapevolezza di Marcuse: per quanto la nuova arte affermi la propria radicale autonomia e tensione rispetto all’esistente, «rimane estranea alla prassi rivoluzionaria in quanto l’artista è consacrato alla forma»26. Perciò tutti i vari esempi di anti-arte (minimal art, living art etc.) sono intrinsecamente votati al fallimento: sono i velleitari tentativi di superare quelle maglie del discorso artistico che tuttavia ne costituiscono le premesse di possibilità27. L’arte è tale perché (e solo perché) essenzialmente Forma:


Trasformare l’intento dell’arte è illusorio – una illusione costruita nella struttura stessa dell’arte. Per quanto “realistica” possa essere l’opera d’arte, l’artista le ha dato una forma che non fa parte della realtà […]. L’opera è irreale proprio in quanto è un’opera d’arte […].28


L’uso maiuscolo di forma è precisato dallo stesso Marcuse come rivolto a mettere in evidenza l’essenza stessa dell’arte, ciò che la rende ontologicamente diversa non solo dalla realtà ordinaria ma anche dalle altre manifestazioni culturali29. L’avere una forma significa che l’arte è innanzi tutto e prima di tutto limite, confine che blocca il libero esprimersi di idee e sentimenti; ed è in virtù di ciò che l’estetica gode di un terreno che le è proprio al di là del reale. Per far sì che ciò fosse possibile non è servito l’intervento della cultura di massa: già nelle tragedie greche, come ci insegna Aristotele, l’orrore e lo sgomento suscitati hanno un termine: sono cioè addomesticati dalla forma stessa dell’arte che, se indubbiamente è in grado di denunciare, al contempo non può che conciliare e rasserenare lo spettatore/lettore (la catarsi). Nel far ciò si viene a delineare un ordine armonico capace di compiere il miracolo dell’impossibile riconciliazione, riconciliazione che è in ultima istanza rappacificarsi con il reale.


In questo universo estetico, la gioia e l’appagamento trovano il loro posto accanto al dolore e alla morte – tutto è di nuovo in ordine. La denuncia è annullata, e anche la sfida, l’insulto e la derisione – l’estrema negazione artistica dell’arte – soccombono a quest’ordine.30


Finito lo spettacolo, conclusa l’ultima pagina del romanzo, la realtà continua come al solito. L’arte è una pausa, terminata la quale riprende il meschino e crudele ordine della società: la catarsi vale solo nella finzione. Questo è, per Marcuse, lo scandalo dell’auto-negazione insita nell’arte, il fatto che «la forma contraddice il contenuto, e trionfa su di esso, al prezzo della sua anestetizzazione»31.

A questo punto Marcuse sembra velatamente proporre una possibilità per uscire da questo circolo chiuso, per colmare lo iato tra Arte e realtà: ormai consapevole che la prima non può raggiungere la seconda, il filosofo tedesco suggerisce il movimento inverso, dove sarà allora la realtà a dover tendere all’Arte come al limite asintotico che per sua natura non potrà mai raggiungere. Per Marcuse le possibilità di un tale cambiamento radicale sono offerte del dispiegamento delle innovazioni tecniche: l’immaginazione liberata,


sostenuta dalle conquiste della scienza, potrebbe32 volgere a sua forza produttiva alla ricostruzione radicale dell’universo dell’esperienza. In questa ricostruzione il topos storico dell’estetica cambierebbe: troverebbe espressione nella trasformazione della Lebenswelt – la società come opera d’arte.33


Sia il realismo di stampo marxista che le varie forme di anti-arte non solo si rivelano sorde a questa possibilità ma al contempo collaborano all’erosione del terreno (prettamente difensivo) dell’arte: «l’abrogazione dell’Effetto di Straniamento […] dissolve il radicalismo dell’arte attuale»34, cioè la sua stessa essenza. In ciò allora si rivelano sommamente arti affermative: non tanto perché colluse col reale in quanto inevitabilmente portatrici di Forma e perciò conciliazione35, ma perché negatrici della funzione cognitiva connessa all’effetto alienante e spaesante della “vera” arte36: «dare un nome all’Innominabile»37, al continuamente rimosso dall’ordine stabilito.


La vera avanguardia d’oggigiorno [… consiste in] coloro che non indietreggiano di fronte alle esigenze della Forma, che trovano nuove parole, immagini e suoni capaci di “comprendere” la realtà come soltanto l’Arte può fare – e di negarla.38


Questa è, come in definitiva Marcuse stesso riconosce39, la vera e unica funzione politica dell’arte in una realtà storica nella quale «le mediazioni che potrebbero fare delle varie forme di arte ribelle una forza liberatrice […] sono obiettivi ancora da realizzare»40. Così, come abbiamo già visto precedentemente, tutto l’orizzonte positivo non può che rimanere, nelle attuali condizioni, utopia:


È impossibile concretizzare l’Arte come Forma della realtà.41 [Il massimo che l’arte è in grado di fare è di limitarsi ad] anticipare uno stadio in cui la capacità produttiva della società potrà essere affine alla capacità creativa dell’arte […].42


Ormai alle prese con le ultime formulazioni estetiche marcusiane possiamo renderci conto di come l’orizzonte del discorso, tratteggiato fin dalle sue prime opere, venga pian piano a chiudersi: al di là di ogni anelito alla soluzione che possa rompere la circolarità viziosa e contraddittoria dell’arte (innanzitutto con se stessa ma anche, come da ultimo abbiamo visto, con la realtà) risulti in ultima istanza frustrato. E non poteva che essere altrimenti: il destino della parabola del pensiero marcusiano è fin dall’inizio viziato da quelle aporie che nel tempo la storia si limita a porre sempre più in evidenza.


È nell’ultima formulazione marcusiana dell’arte, il saggio La dimensione estetica, che ritroviamo condensate e rielaborate nel modo più organico e coerente le idee finora emerse. In questa circostanza possiamo davvero dire che l’ultima parola spesa da Marcuse a riguardo sia la parola definitiva su un problema che, come abbiamo visto, attanaglia il filosofo tedesco fin dalla sua giovinezza. Il presente saggio si presenta innanzi tutto come un contributo al dibattito marxista sul ruolo dell’arte, e in ciò si mostra fin dall’inizio profondamente polemico con l’estetica ortodossa marxista. Di contro ad una formulazione rigida e dogmatica dell’arte come prodotto per e della classe operaia, che perciò deve essere essenzialmente realista e descrittiva dei rapporti sociali reali43, Marcuse rivendica non solo la dimensione universale dell’estetica ma anche l’importanza delle soggettività qui in gioco (idee entrambe formulate quantomeno dai tempi di Eros e civiltà)44.

Come ormai sappiamo, nel corso degli anni Marcuse ha avuto modo di allontanarsi dall’impostazione critica nei confronti dell’arte borghese come dimensione squisitamente intima e perciò rinunciataria nei confronti di qualsivoglia politica rivoluzionaria45. La dimensione coscienziale, alla luce delle amare considerazioni di L’uomo a una dimensione, è difatti diventata l’ultimo terreno dove possa giocarsi la chance emancipativa dell’individuo, il quale fintanto che resta “coscienza felice” invalida qualsiasi possibilità di rivoluzionare la società46. L’estraneazione prodotta dall’arte, il suo rapporto indiretto con la prassi non producono falsa coscienza o illusione, bensì controcoscienza47. L’arte, così formulata, rappresenta per Marcuse l’ultimo baluardo a difesa di quei contenuti costantemente negati dall’attuale società: è il luogo in cui si preserva il “così deve essere”, l’imperativo rivoluzionario che, in quanto a priori dell’arte, nel momento in cui viene posto sottrae all’arte stessa il compito di realizzarlo. Perciò irrilevanti non sono solo i contenuti (laddove, come sappiamo, conta solo la Forma), ma anche il tessuto materiale nel quale si innesta la stessa opera dell’artista: l’arte può essere valutata unicamente in virtù di ciò che dice e di come lo dice ed in questo, dice Marcuse, l’arte è davvero «arte per l’arte»48.


La radicalizzazione delle idee marcusiane intorno all’estetica è esattamente ciò che gli permette di uscire da quella “maledizione dell’arte” che abbiamo visto affliggerlo fin dai suoi primi saggi. Marcuse finalmente (ma la lenta elaborazione è ravvisabile già dalle opere degli anni ’50) sembra prendere coscienza dell’impossibilità di mantenere unita la trascendenza dell’arte e la sua rivendicazione rivoluzionaria (che dovrebbe tradursi in prassi) e perciò si decide per uno dei due poli: così facendo può ottenere un’onesta e coerente formulazione dell’arte e dei suoi rapporti con la politica49. Non per questo l’arte diventa impolitica, anzi: «più l’opera d’arte è immediatamente politica, più riduce il potere di straniamento e gli scopi radicali e trascendenti del mutamento radicale»50. L’estetica marxista, la non-arte sono le principali forme di arte affermativa, di cattiva utopia. “L’arte per l’arte” è l’unica capace di essere ad un tempo fedele al suo statuto ontologico (la Forma) e al suo compito storico di preservare e indirettamente comunicare i valori negati dalla realtà; rigettare ogni progetto di tradurre questi contenuti in prassi non è il vile ripiegamento di un filosofo oramai anziano e disincantato, bensì la più onesta formulazione di una precisa distinzione di campi: è alla politica che spetta la prassi, la realizzazione degli ideali preservati nella trascendenza dell’arte.


Mentre l’arte porta testimonianza della necessità della liberazione, testimonia anche i suoi limiti. […] Ciò che è passato non può essere ricatturato. […] Dal momento che l’arte preserva, con la promessa della felicità, la memoria degli obiettivi falliti, essa può entrare, come “idea regolativa”, nella lotta disperata per trasformare il mondo.51


Perciò, se è vero che «ogni reificazione è un dimenticare»52, l’autenticità dell’utopia dell’arte si misura proprio nella sua capacità, attraverso un doppio movimento di trascendimento e mantenimento, di dar nuova voce al «mondo pietrificato», di permettere che «il ricordo di ciò che è passato diventi una forza motrice nella lotta per la trasformazione del mondo»53.

Tuttavia, se è pur vero che la liberazione dalla società capitalistica consentirebbe lo schiudersi delle possibilità di tradurre in atto quei valori conservati nell’arte, ciò non implica la fine dell’estetica: «Una società libera non potrebbe “socializzare” queste forze, anche se potrebbe emancipare gli individui dalla loro cieca sottomissione ad esse»54. L’ordine rinnovato non può perciò scalfire lo statuto trascendente dell’arte; certo, «le immagini del Bello e dell’appagamento svanirebbero quando non fossero più negate dalla società» poiché diventate «aspetti del reale»55106, ma


per quanto libera, la società sarà afflitta dal bisogno – il bisogno di lavorare, di lottare contro la morte e la malattia, la misera. In tal modo le arti manterranno delle forme espressive ad esse pertinenti […]. Persino nei versi più “impossibili” […] esiste qualche elemento di ribellione che è ancora “valido”.56


In queste parole, che echeggiano certi spunti già presenti in Cultura e società57, troviamo la risolutiva presa di posizione di Marcuse nei rispetti del carattere eterno e inviolabile dell’estetica.


(2/2. Fine)


Davide Cherubini


Note

1 «[…] l’imponente produttività del sistema costituito aumenta e soddisfa i bisogni delle masse popolari per mezzo di un’amministrazione totale, la quale fa sì che siano i bisogni degli individui a perpetuare e rafforzare il sistema. Si dilegua così il fondamento razionale di un cambiamento qualitativo, e si dilegua con esso anche il fondamento razionale dell’alienazione della cultura dalla civiltà materiale» (E. Marcuse, Note su una ridefinizione della cultura, p. 288; contenuto in Cultura e società, cit., pp. 279-299).

2 A proposito del concetto di “desublimazione istituzionalizzata”: «Diminuendo in tal modo l’energia erotica ed intensificando quella sessuale, la realtà tecnologica limita la portata della desublimazione, e al tempo stesso riduce pure il bisogno di questa. Nell’apparato mentale, la tensione tra quel che si desidera e quel che è permesso sembra abbassarsi considerevolmente, ed il principio di realtà non sembra più richiedere una vasta e penosa trasformazione dei bisogni istintuali» (E. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino, 1967, p. 92; mi atterrò qui unicamente al capitolo La conquista della coscienza infelice: la desublimazione repressiva, pp. 75-101). Questo testo è strettamente imparentato con alcune trovate teoriche e concettuali presentate in Eros e civiltà e che, per motivi di spazio e pertinenza, non mi è possibile definire qui con chiarezza; per cui rimando direttamente al testo del 1955 per una migliore comprensione di alcuni termini come, in questo caso, desublimazione/sublimazione, erotizzazione/sessualizzazione).

3 L’uomo a una dimensione, cit., p. 75.

4 Per “unidimensionale” si intende la perdita di quella seconda dimensione nella quale, già dall’Ontologia di Hegel, Marcuse rinviene l’elemento trascendente e potenzialmente critico contenuto tanto nell’uomo quanto nella società e che ne consente, in definitiva, il superamento.

5 Cfr. a riguardo Note su una ridefinizione della cultura, cit., p. 283.

6 L’uomo a una dimensione, cit., p. 80; e, poco più avanti (p. 94): «[…] la perdita di coscienza dovuta alle libertà di gratificazione concesse da una società non libera dà origine ad una coscienza felice che facilita l’accettazione dei misfatti di questa società. È un indice del declino dell’autonomia e della comprensione».

7 L’uomo a una dimensione, cit., pp. 97-98.

8 Note su una ridefinizione della cultura, cit., p. 299.

9 Rispetto alla precedente che appartiene invece all’economia del discorso marcusiano.

10 Queste idee sono in realtà le stesse delle Note su Aragon (cfr. infra il capitolo La dimensione estetica). Rivelativa è la scelta degli autori citati: Brecht, Valéry, Rimbaud. Si fa sempre maggior chiarezza su quanto l’estetica marcusiana resti, nella sostanza, ancorata alle posizioni estetiche degli anni ’30-’40.

11 Ibidem, p. 78.

12 Ibidem, p. 79. Gli fa eco il passo di Note su una ridefinizione della cultura (p. 283): «Certamente la cultura superiore ha sempre avuto un carattere affermativo […]. Ma come ideologia essa era dissociata dalla società, e in questa dissociazione era libera di comunicare e trasmettere la contraddizione, l’accusa e il rifiuto. Oggi la comunicazione è moltiplicata sul piano tecnico […], ma il contenuto è ormai un altro».

13 In particolare, per quanto ci riguarda, nel Saggio sulla liberazione.

14 Teoria come utopia, cit., p. 73.

15 Teoria come utopia, cit., p. 74.

16 Dice infatti Pasqualotto: «Non è che il tentativo di Marcuse di superare la “lontananza” della filosofia sia attuato in modo sbagliato: è il tentativo stesso che è sbagliato […] fin dall’inizio. Il massimo che la Teoria Critica può raggiungere è quello di fornire le sue magistrali anali delle funzioni e delle condizioni della società di massa […]» (Ibidem, p. 33). Qua abbiamo evidentemente a che fare con la lettura indubbiamente critica che Pasqualotto dà di Marcuse. Tuttavia, tornando alle intenzioni del Nostro, possiamo ugualmente dire che quanto appena detto valga senza dubbio per l’arte e, con alcune riserve, anche per la filosofia: «La teoria che si tiene lontana dalla prassi diventa fedele a se stessa» nella misura in cui la realtà ne impedisce una qualsiasi realizzazione che non sia al contempo sua volgarizzazione (vd. infra nota 6, dove il discorso là appena accennato può trovare in queste pagine maggiori fondatezza e articolazione).

17 L’uomo a una dimensione, cit., p. 265.

18 E. Marcuse, Saggio sulla liberazione, Einaudi, Torino, 1969.

19 Ibidem, p. 40.

20 Ibidem, p. 45.

21 «I bisogni estetici hanno infatti un loro contenuto sociale: essi rappresentano l’esigenza da una parte dell’organismo umano d’una dimensione di appagamento che può essere creata soltanto nella lotta contro le istituzioni che nel modo stesso in cui operano negano e violano queste esigenze» (Ibidem, p. 40).

22 Ibidem, p. 45.

23 «[…] nella misura in cui la forma deve emergere dal processo sociale di produzione, l’arte avrebbe cambiato la sua collocazione e funzione tradizionali nella società; sarebbe diventata una forza produttiva nella trasformazione sia materiale che culturale» (Idem).

24 Saggio sulla liberazione, cit., p. 47.

25 Ibidem, p. 52.

26 Idem.

27 «Tutti questi sforzi frenetici tesi a produrre l’assenza di Forma, a sostituire l’oggetto reale all’oggetto estetico […], non sono forse altrettante attività frustranti, che fanno già parte nell’industria culturale, della cultura da museo? Io penso che l’obiettivo della “nuova arte” sia l’autosconfitta, dal momento che essa conserva e, per quanto minimamente, deve conservare la Forma dell’Arte […], ed è la Forma dell’Arte stessa a frustrare l’intenzione di ridurre, o persino di annullare, questa differenza, di rendere l’Arte “reale”, “viva”» (Arte come forma della realtà, contenuto in H. Brunkhorst, G. Koch, Marcuse, Massari, Viterbo, 2002, pp. 136-137). E, a pagina dopo, sempre riguardo agli artisti appartenenti a questa non-arte: «[…] eliminando la distanza tra gli attori, il pubblico e “l’esterno”, essi instaurano […] una familiarità e un’identificazione che portano la negazione e la ribellione all’interno dell’universo quotidiano – in quanto elemento piacevole e comprensibile di tale universo. […] l’illusione, piuttosto che essere distrutta, viene rafforzata». Da un lato la riduzione all’immediatezza richiama il carattere affermativo della cultura; dall’altro il meccanismo di tradurre, spiegare, rendere comprensibile “l’innominabile” esemplifica l’essenza di quella massificazione della cultura già accennata.

28 Saggio sulla liberazione, cit., p. 55.

29 Vd. nota 110, p. 129 di Arte come forma della realtà, cit.

30 Saggio sulla liberazione, cit., p. 57.

31 Arte come forma della realtà, cit., p. 134.

32 Possibilità teorica ma che in definitiva non riesce a trovare corpo nell’attuale situazione storica (basti pensare alle considerazioni, ancora del tutto attuali, svolte ne L’uomo a una dimensione). Resta comunque una delle ultime manifestazioni delle residue speranze di Marcuse nelle chance emancipative dell’arte nei confronti di una società che ha ormai integrato, insieme agli individui, ogni possibile orizzonte di discorso ad essa alternativo.

33 Saggio sulla liberazione, cit., p. 59.

34 Ibidem, p. 61.

35 Questo è, diciamo, il minimum affermativo che l’arte, se tale vuole essere, non può non avere.

36 «[…] la ribellione contro la “forma” non riesce che a provocare una perdita di qualità artistica» laddove le opere autentiche, «lungi dall’offuscare questa distanza e dal minimizzare l’alienazione, le ampliano e temprano la loro incompatibilità con la realtà data, in misura tale da sfidare qualsiasi applicazione» (Arte come forma della realtà, cit., p. 137).

37 Idem.

38 Ibidem, p. 138.

39 Ibidem, p. 137.

40 Saggio sulla liberazione, cit., p. 61.

41 Arte come forma della realtà, cit., p. 139.

42 Saggio sulla liberazione, cit., p. 62.

43 La “falsa immediatezza” dell’estetica realista di contro alla “buona illusione” appartenente alla formulazione marcusiana dell’estetica veicolata attraverso la comunicazione indiretta dell’Indicibile.

44 «L’universalità dell’arte non può essere fondata sul mondo e sulla prospettiva del mondo di una classe particolare, perché l’arte ha di mira un universale concreto, l’umanità (Menschlichkeit), che nessuna particolare classe sociale può impersonare […]» (La dimensione estetica, cit., p. 22). Non solo: poche pagine addietro (p. 20) Marcuse è ancora più risoluto nel definire e difendere lo spazio precipuo dell’arte: «Ma se l’opera d’arte non può essere compresa in termini di teoria sociale, non può nemmeno essere compresa in termini di filosofia».

45 Idee viste nel saggio Sul carattere affermativo della cultura (cfr. infra il capitolo Arte e cultura nell’ideologia borghese). Allontanamento che rispecchia il cambiamento storico avvenuto: «Ma il periodo fascista e il capitalismo monopolistico hanno decisamente cambiato il valore politico di questi concetti. Il “volo nell’interiorità” e l’insistenza sulla sfera privata possono ben servire come baluardo contro una società che amministra tutte le dimensioni dell’esistenza umana» (La dimensione estetica, cit., p. 33). E ancora: «Di fronte al valore d’uso decrescente di una letteratura totalmente mercificata, la nozione anacronistica di Dichten come arte distinta “più alta” assume di nuovo un carattere quasi “sovversivo”» (Ibidem, p. 40). Il carattere elitario dell’arte diventa ora campo difensivo contro il tentativo di immanentizzazione del trascendente artistico operato dalla cultura di massa.

46 La progressiva, e non sempre esplicita, importanza che la funzione educativa dell’arte viene ad assumere all’interno del discorso marcusiano si può già intravedere fin dalle Note su Aragon.

47 Sulla funzione “educativa” dell’arte: «L’arte non può cambiare il mondo, ma può contribuire al cambiamento della coscienza e degli impulsi degli uomini e delle donne che potrebbero cambiare il mondo» (La dimensione estetica, cit., p. 30).

48 Ibidem, p. 23. Ma questo è dovuto al carattere ontologico dell’arte stessa: «quando l’arte abbandona questa autonomia e con essa la forma estetica […], l’arte soccombe a quella realtà che cerca di afferrare e denunciare. Mentre l’abbandono della forma estetica può ben fornire lo specchio più immediato e diretto di una società […], il rifiuto della sublimazione estetica riduce tali opere in briciole di quella stessa società di cui vogliono essere la “contro-arte”. La contro-arte è fin dall’inizio autodistruttiva» (Ibidem, p. 38).

49 «[…] l’arte non sottostà alla legge della strategia rivoluzionaria». Di contro, il suo imperativo categorico, la sua utopia si manifestano nella speranza che «forse quest’ultima [la strategia rivoluzionaria] incorporerà un giorno un po’ della verità insita nell’arte» (Ibidem, p. 42). L’ideale preservato nell’arte come faro guida (ancora l’elemento educativo della “presa di coscienza”) per gettare luce sul sentiero che dovrà percorrere la pratica rivoluzionaria. Movimento che, come sappiamo, resta asintotico: «L’ideale entra in questa lotta solo come fine, telos; esso trascende la prassi data» (Ibidem, p. 43). Abbiamo qua, a mio avviso, una più onesta e plausibile determinazione del ruolo dell’Arte nei confronti delle possibilità politiche rispetto a quanto Marcuse aveva ancora da dire, forse troppo ottimisticamente, nel Saggio sulla liberazione (cfr. infra, in particolare nota 84).

50 Ibidem, p. 13.

51 Ibidem, p. 48.

52 Ibidem, p. 50. Ma qui Marcuse sta citando M. Horkheimer, T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino, 1974.

53 Idem. Di questa “lotta contro il tempo” cfr. anche il saggio di Eros e civiltà precedentemente affrontato.

54 Ibidem, p. 28.

55 Idem.

56 Arte come forma della realtà, cit., p. 140.

57 Il dubbio iniziale: «Ma forse anche la bellezza ed il godimento di essa non spetteranno più all’arte. Forse l’arte in quanto tale diventerà superflua» (Cultura e società, cit., p. 83) viene poi dissolto nella pagina successiva, a ribadire come l’arte permanga anche a liberazione avvenuta: «Anche una cultura non affermativa sarà gravata dal peso della caducità e della necessità […]. Per questo verso anche la riproduzione della vita sarà ancora una riproduzione della cultura: rappresentazione di nostalgie non appagate, purificazione di impulsi non soddisfatti».


Inserito il 30/1/2023.

#cherubini #marcuse #davidecherubini

Hans-Jürgen Krahl.

Fonte della foto: https://www.latigredicarta.it/wp-content/uploads/2023/01/Krahl-2.jpg

Hans-Jürgen Krahl e l’intelligenza in lotta

di Nicolas Martino

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Hans-Jürgen Krahl e l’intelligenza in lotta

Le «contraddizioni in processo» del lavoro culturale


Hans-Jürgen Krahl, allievo geniale e prediletto di Adorno, è un maestro della Teoria critica contemporanea. Morto nel 1970 a soli 27 anni in un incidente stradale, ci ha lasciato un corpus di scritti che, sebbene non organico – si tratta perlopiù di esercitazioni universitarie e interventi politici legati alla sua attività di leader studentesco della SDS1 a Francoforte –, pongono una serie di questioni teoriche e politiche che continuano a interrogare il nostro presente e le sue alternative.

Proprio per questo, insieme a Francesco Raparelli, abbiamo deciso qualche tempo fa di rendere di nuovo disponibili alcuni suoi scritti, curando l’antologia dal titolo L’intelligenza in lotta. Sapere e produzione nel tardocapitalismo uscita nel 2021 per Ombre corte2.

Krahl, nato nella Bassa Sassonia nel 1943, e cresciuto nella tradizione del cristianesimo conservatore, nei primi anni Sessanta definisce la sua adesione al socialismo marxista e, proseguendo gli studi universitari a Francoforte, nel giro di poco tempo diventa uno dei leader del Sessantotto europeo.

Tra i suoi scritti forse il più celebre, tradotto pubblicato la prima volta in italiano sui “Quaderni Piacentini” nel 1971, è quello che si intitola Tesi sul rapporto generale tra intellighenzia scientifica e coscienza di classe proletaria, scritto nel 19693. È qui che Krahl, in anticipo sui tempi, intravede chiaramente quella straordinaria trasformazione produttiva che di lì a poco avrebbe coinvolto tutto quanto il sistema produttivo dei paesi occidentali, segnando il passaggio dal fordismo al cosiddetto post-fordismo.

Ossia, registra quel processo che contemporaneamente determina il tramonto della classe operaia novecentesca tradizionalmente legata alla fabbrica e al lavoro manuale, e l’emergere di una nuova forza produttiva che fa del lavoro intellettuale il principale mezzo di produzione, e della metropoli lo spazio di una valorizzazione diffusa sul territorio. Una trasformazione che politicamente potremmo sintetizzare, con una semplificazione, come il passaggio dalla fabbrica alla metropoli, dal materiale all’immateriale, dal lavoro manuale al lavoro intellettuale.

Si tratta di un processo complesso che non va confuso con una rigida e ingenua dicotomia tra due condizioni contrapposte – come se il lavoro manuale tramontasse del tutto o come se nel lavoro manuale non fosse compreso da sempre anche il lavoro intellettuale e viceversa – ma va compreso come una “tendenza” che rovescia il rapporto tra i due termini a favore della generale affermazione di un lavoro intellettuale che si fa di massa e che diventa, nei paesi a capitalismo avanzato, il principale protagonista del processo produttivo.

Basta pensare alla rivoluzione elettronica degli anni Settanta per intuire meglio l’analisi sviluppata da Krahl sulla completa integrazione del lavoro intellettuale, tradizionalmente inteso come una attività libera slegata da ogni finalità produttiva, all’interno del processo di valorizzazione capitalistica.

Ecco perché il lavoro di Hans-Jürgen Krahl risulta particolarmente importante per capire la condizione del lavoro intellettuale contemporaneo, le sue origini e le sua contraddizioni. Insomma, se tradizionalmente il cosiddetto lavoro intellettuale era stato reso possibile grazie una ingiusta divisione del lavoro – separazione tra i due tipi di attività e subordinazione del lavoro manuale a quello intellettuale che lo doveva dirigere – e se questo lavoro intellettuale era appannaggio di una ristretta minoranza privilegiata che si suddivideva a sua volta il compito di organizzare e dirigere il lavoro manuale da un lato, e creare forme che dessero senso al mondo, dall’altro (di qui la nascita del ceto intellettuale e artistico in senso stretto), ora questa configurazione politico-culturale iniziava a disgregarsi a favore di una diffusione di massa del lavoro intellettuale che perdeva le sue caratteristiche di privilegio e improduttività, facendosi condizione generale della produzione e dell’estrazione del valore.

Questo comportava, come abbiamo già detto, il tramonto della classe operaia tradizionale, ma contemporaneamente anche la trasformazione del ceto intellettuale classico che perdeva le sue caratteristiche di esclusività e separatezza per farsi esso stesso classe operaia di nuova generazione, ovvero forza-lavoro post-moderna. Un processo non privo di resistenze e contraddizioni, all’interno del quale, rilevava giustamente Krahl, gli intellettuali non avrebbero rinunciato tanto facilmente alla loro condizione privilegiata, rimpiangendola e rivendicandone la legittimità ancora per molto tempo. Allo stesso tempo questa nuova condizione – che in Italia veniva rilevata, almeno in parte, nelle Tesi della Sapienza che non a caso insistevano sul ruolo degli studenti come forza-lavoro in formazione e quindi rivendicavano per questi ultimi un salario4 – poneva il rompicapo tuttora irrisolto dell’organizzazione politica.

Sul primo aspetto, ovvero il ruolo e la trasformazione degli intellettuali tradizionali, risulta particolarmente interessante il confronto tra quanto scritto da Krahl e quanto intuito negli anni Sessanta in Italia dallo scrittore Luciano Bianciardi, straordinario narratore del lavoro culturale nella Milano del boom economico, e allo stesso tempo protagonista lui stesso di quella rivendicazione nostalgica che si diceva poco fa.

Bianciardi, autore di una famosa Trilogia della rabbia – che comprende Il lavoro culturale (1957), L’integrazione (1960) e il suo romanzo più famoso La vita agra (1962)5 – intuisce, come rilevato da Paolo Virno in una nota del suo saggio Virtuosismo e rivoluzione6, il fatto che il lavoro intellettuale classico sta tramontando, che la classe operaia tradizionale inizia a scomparire, che tutto il lavoro sta diventando tendenzialmente lavoro culturale e immateriale, che nel lavoro, qualsiasi esso sia, diventano sempre più importanti le doti retorico-politiche, che bisogna ormai essere capaci di alzare «una nube di polvere possibilmente e poi nascondercisi dentro»7, ovvero bisogna essere, sempre di più, dei promotori di se stessi.

Insomma più che “fare” concretamente delle cose, diventa importante la capacità che ognuno ha di “raccontare” quello che si fa, occorre essere in grado di “inventarsi” un ruolo e una identità e soprattutto coltivare le public relations.

Queste intuizioni di Bianciardi integrano ulteriormente le analisi di Krahl, ma al tempo stesso lo scrittore di Grosseto rimane imprigionato all’interno del ruolo classico dell’intellettuale del quale rimpiange la condizione: l’integrazione di cui parla nei suoi scritti è una denuncia, appunto, dell’impotenza della voce critica dell’intellettuale che ormai, nella società dello spettacolo, tende a diventare nient’altro che una caricatura grottesca a uso e consumo dell’industria culturale. L’intellettuale diventa un imprenditore di sé stesso che deve riuscire a rimanere a galla all’interno di un sistema che comprende strutturalmente una dose di dissenso che non fa altro che rafforzare il sistema stesso.

Qualcosa di simile, molti anni dopo, sarà rilevato anche da Mark Fisher in Realismo capitalista8, quando, parlando del ruolo dei Nirvana e di Kurt Cobain sottolinea come oggi il successo di una critica radicale allo stato di cose esistente, coincida quasi sempre con l’integrazione e quindi il fallimento spettacolare della critica stessa.

Insomma seguendo le analisi di Bianciardi e Fisher la questione sembra essere quella dell’impotenza della critica e, soprattutto per Bianciardi, il rimpianto per una “funzione” che ormai sembra andata perduta. Ma in questa rivendicazione si annida anche una regressione in direzione di quel «parlare per gli altri» che Foucault indicava come una delle cose più «indegne» che ci potessero essere9, ovverosia proprio la funzione dell’intellettuale classico che Krahl, materialisticamente e senza nostalgie, dava per esaurita in virtù di una trasformazione radicale del processo produttivo.

Il primo rompicapo quindi, non risolvibile dentro nostalgie regressive, è quello di come essere «dentro e contro», ovvero dentro il sistema della produzione culturale senza rinunciare a una critica all’esistente. Potremmo anche dire che si tratta di come essere “mainstream” senza esserlo, o meglio come usare le occasioni offerte dal sistema per rovesciale contro il sistema

Questa condizione richiederebbe anche una analisi approfondita, che qui non possiamo fare, di come si stia trasformando il sapere – anche in virtù della rivoluzione digitale e quindi del tramonto della parola scritta che dal XVI secolo in poi ha egemonizzato la costruzione della conoscenza – e di cosa possa significare oggi la critica, o meglio la post-critica.

Il secondo rompicapo, invece, è quello che Krahl indicava come la necessaria organizzazione politica di una nuova forza-lavoro intellettuale che oggi si presenta come incredibilmente frastagliata e articolata al suo interno. Se pensiamo al lavoro intellettuale oggi, ci rendiamo conto che questo comprende al suo interno figure disparate, con formazioni, esigenze e obiettivi molto diversificati. Come tenere insieme i cosiddetti lavoratori della cultura, dello spettacolo e dell’arte: designer, scrittori, grafici, web content editor, social media manager e lavoratori digitali in generale, influencer, artisti, ballerini, attori, scenografi, giornalisti e sceneggiatori, per dirne solo alcuni.

Se queste sono alcune delle contraddizioni in processo più evidenti del lavoro culturale – Marx nei Grundrisse parlava del capitale come contraddizione in processo sottolineando l’ambivalenza tra la strutturale riduzione del tempo di lavoro necessario e la persistenza del tempo di lavoro come unica misura della ricchezza10 ‒ oggi più che mai sembra necessario riuscire a costruire una qualche forma associativa che organizzi queste figure e le loro lotte, così come è necessario abbandonare ogni forma di nostalgia per ruoli “indegni” e fortunatamente tramontati. Ma risolvere il rompicapo dell’intellettualità di massa non è una questione teorica, è questione politica per eccellenza e quindi appartiene ai movimenti e alla loro capacità di costruire conflitto.


Nicolas Martino


(Tratto dal sito: latigredicarta.it).


Note

1 Federazione socialista tedesca degli studenti.

2 Hans-Jürgen Krahl, L’intelligenza in lotta. Sapere e produzione nel tardocapitalismo. Introduzione e cura di Nicolas Martino e Francesco Raparelli. Postfazione di Detlev Claussen, ombre corte (2021).

3 Hans-Jürgen Krahl, Tesi sul rapporto generale tra intellighenzia scientifica e coscienza di classe proletaria in “Quaderni Piacentini”, n. 43 (1971), pp. 106-119, ora in Id., L’intelligenza in lotta, cit., pp. 90-115.

4 Aa.Vv., Le tesi della Sapienza, in «Il Mulino», n. 5-6 (1967), pp. 375-391.

5 I tre romanzi più famosi di Bianciardi sono stati recentemente pubblicati tutti insieme con il titolo Trilogia della rabbia, con prefazione di Francesco Piccolo, Feltrinelli (2022).

6 Cfr. Paolo Virno, Virtuosismo e rivoluzione in L’idea di mondo. Intelletto pubblico e uso della vita, Quodlibet (2015), pp. 122-125.

7 Luciano Bianciardi, Trilogia della rabbia, cit., p. 331.

8 Mark Fisher, Realismo capitalista, Nero edizioni (2018). In particolare le pp. 38-42 dove Fisher, parlando dei Nirvana, sottolinea il ruolo della “precorporazione” della critica da parte del sistema.

9 Cfr. la conversazione di Gilles Deleuze con Michel Foucault “Gli intellettuali e il potere” (1972), ora in Gilles Deleuze, L’isola deserta e altri scritti (1953-1974), Orthotes (2022), pp. 281-290.

10 Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, vol. II, La Nuova Italia (1968), p. 402.


Inserito il 5/2/2023.