Le vie della rifondazione

Il Partito della Rifondazione Comunista può essere paragonato a un fiume che venne a costituirsi dalla divisione di quel più grande fiume che era il PCI e dalla successiva confluenza di più rivoli e torrenti; nel suo percorso ha poi incontrato ostacoli che ne hanno determinato l’ulteriore divisione in un “delta” quasi paludoso di cui è oggi difficile riprendere le fila per ridare una prospettiva alla ricostruzione di una presenza in Italia di una formazione politica organizzata che possa dirsi partito comunista.

Questa pagina è dedicata alla raccolta di materiali per la ricostruzione delle vicende che portarono alla nascita del PRC, un soggetto importante nel panorama politico italiano degli anni Novanta. Non mancheremo neanche di proporre testi che indaghino sulla sconfitta di quel progetto e sulla disgregazione di un’area comunista che oggi può contare su cento sigle e simboli e, purtroppo, su una disarmante insignificanza.

Dal sito di Rifondazione comunista

LUCIO LIBERTINI RIFONDATORE COMUNISTA

Il 7 agosto 1993 moriva il compagno Lucio Libertini, uno dei principali fondatori del nostro partito. Nella sua orazione funebre Armando Cossutta lo definì giustamente “una delle figure più eminenti, una delle personalità più libere e vive della sinistra italiana: socialista, comunista, rivoluzionario libertario sempre”. Vi proponiamo un suo intervento pubblicato il 14dicembre 1990 sul quotidiano «l’Unità» che ci ricorda la sua battaglia contro la “svolta della Bolognina” che avrebbe condotto l’anno successivo allo scioglimento del PCI. Libertini motivava le ragioni di quella mozione del NO che scelse di definirsi “per la rifondazione comunista”. Un testo che ci riporta alle origini del nostro progetto e che ce ne ricorda il senso e il compito.

Da «l’Unità» – 14 dicembre 1990

Perché un movimento di rifondazione comunista

di Lucio Libertini

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Nei congressi sentiamo ripetere frequentemente un ritornello banale: il nome non conta, andiamo al di là del sì e del no. E, a ben vedere, una affermazione inconsistente o pretestuosa, perché ciò che è in discussione non è un nome, ma, con un nome, una identità culturale e politica, e ogni contenuto, ogni programma, ha la sua radice in una identità. Non a caso, o per capriccio, da anni è in corso una massiccia campagna dei grandi mezzi di informazione, diretta ad indurci ad abbandonare il nome comunista e la nostra identità di comunisti italiani, perché così si tagliano gli ancoraggi ideali e si diviene più facilmente preda di una deriva verso destra.

In realtà la questione di fondo che è in discussione e che investe l’intera sinistra europea (ma, ovviamente, in modo più diretto il Pci) e sulla quale occorre pronunziarsi con nettezza, riguarda un interrogativo centrale: se la vicenda di questo secolo, con il tragico fallimento dei regimi dell’Est, segni la vittoria definitiva del capitalismo, che diviene un limite insuperabile della storia umana, seppellendo la questione del socialismo; o se invece la tragica degenerazione di un grande processo rivoluzionario, che comunque ha inciso sulla storia del mondo, e le nuove gigantesche contraddizioni del capitalismo, a scala planetaria, ripropongano in termini nuovi la questione del socialismo e dell’orizzonte ideale, assai più lontano. del comunismo.

Molti di noi abbiamo rifiutato da tempo (chi scrive da sempre) di definire socialisti e comunisti quei regimi pur se ne riconoscevamo alcune storiche realizzazioni; ed è singolare che essendo stato per questo definito nel passato un revisionista e quasi un traditore, ora mi si voglia fare apparire un «conservatore» stalinista perché rifiuto di seppellire il socialismo sotto le macerie dell’Est.

Ecco, dunque, la questione Una questione che la proposta di Occhetto scioglie in una direzione ben precisa, perché da essa è assente ogni riferimento al comunismo ed al socialismo: perché la suffragano confusi discorsi su di una prospettiva che sarebbe «al di là del socialismo»; perché la identificano le dichiarazioni esplicitamente anticomuniste e antisocialiste di numerosi esponenti della cosiddetta sinistra sommersa, pronti ad essere cooptati nel gruppo dirigente del nuovo partito; perché il modello organizzativo che si propone ha caratteri sin troppo significativi, di ispirazione democratico-radicale. Non a caso essa ha suscitato l’opposizione di Bassolino, che si è accorto, sia pur tardi, dei contenuti moderati dell’operazione, e la riserva, destinata a diventare dissenso esplicito, dell’area socialista-riformista, che da solco del movimento socialista europeo non intende uscire.

Tutto ciò – la perdita della identità e del riferimento al socialismo – spiega il processo di disfacimento che la «svolta» ha indotto sul piano organizzativo ed elettorale. Una crisi ci sarebbe comunque stata in ragione della vicenda storica che attraversiamo, ed una rifondazione era comunque necessaria, ma la «svolta», per i suoi contenuti, trasforma la crisi in disfatta. Proprio perché abolire una identità sostituendola con una fuga nel vuoto, mette in causa gli ideali che ci hanno fatto stare e lottare insieme, fuggendo dalla questione dei contenuti del socialismo, invece di affrontarla.

Ecco, dunque, perché considero con interesse la posizione, sia pure ancora ambigua, di Bassolino e di altri compagni, lo stesso emergere di un’area socialista riformista, e la posizione di tanti compagni che, pur accettando il Pds, non vorrebbero rinunciare al socialismo E perché considero la rifondazione comunista non una mozione, ma un impegno culturale e politico di lunga lena, attorno alla quale costruire un movimento, non ristretto all’ambito organizzativo del Pci attuale (dal quale è fuoriuscita una vasta area di comunisti e che ha perso il rapporto con le nuove generazioni).

Siamo in campo per evitare che il congresso segni una svolta irreversibile nel senso che ho indicato Ma siamo in campo, ancor di più, per porre in Italia la questione dell’esistenza di una forza politica e sociale che, partendo dalle grandi e crescenti contraddizioni del capitalismo – la questione Nord-Sud, la questione ambientale, la questione di classe, i processi di emarginazione, l’intreccio con la grande questione femminile – riproponga in termini nuovi e avanzati la questione del socialismo. Siamo in campo per evitare che la democrazia sia azzoppata dal rifluire nel disimpegno e nella astensione di tanta parte del mondo del lavoro privato di vera rappresentanza, siamo in campo per costruire con le nuove generazioni una prospettiva nuova, respingendo l’omologazione ai modelli imperanti di una società dominata da una concentrazione senza precedenti del potere. Sappiamo di indicare una via non facile e aspra, oggi controcorrente. Una forza politica che non abbia la capacità di stare nelle ragioni di fondo della storia, e si pieghi a mode e condizionamenti esterni, va fatalmente alla deriva. Una cosa è rifondarsi, altra cosa è abiurare.


14 dicembre 1990


Lucio Libertini


(Tratto da: Lucio Libertini, Perché un movimento di rifondazione comunista, in «Lettera sulla Cosa», suppl. a «l’Unità», 14 dicembre 1990).


Inserito il 14/08/2024.

Lucio Libertini e… la Bolognina

di Franco Ferrari

Quando si apre il dibattito sulla trasformazione del Partito Comunista in un nuovo e inizialmente non ben definito soggetto politico (“la cosa”), Libertini si schiera nettamente sul fronte del “no”. Una posizione che terrà per tutto il percorso dal quale nasceranno il Partito Democratico della Sinistra e il Partito della Rifondazione Comunista. Libertini, come sappiamo, sarà uno dei promotori e fondatori di questa seconda esperienza politica. […]

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Lucio Libertini e… la Bolognina

di Franco Ferrari


Quando si apre il dibattito sulla trasformazione del Partito Comunista in un nuovo e inizialmente non ben definito soggetto politico (“la cosa”), Libertini si schiera nettamente sul fronte del “no”. Una posizione che terrà per tutto il percorso dal quale nasceranno il Partito Democratico della Sinistra e il Partito della Rifondazione Comunista. Libertini, come sappiamo, sarà uno dei promotori e fondatori di questa seconda esperienza politica.

Sintetizzando le ragioni del “no”, Libertini contesta che la questione del nome sia irrilevante, perché esso identifica un’identità politica e culturale e ogni contenuto, ogni programma ha la sua radice in una identità. Abbandonare il nome vuol dire tagliare gli ancoraggi ideali e diventare preda di una deriva verso destra.

Fatta questa premessa, il tema centrale che sollecita nel confronto ruota attorno ad un interrogativo: se il fallimento dei regimi dell’est Europa determini una vittoria definitiva del capitalismo o il bilancio di quell’esperienza, che va certamente fatto, con quella che chiama la loro “tragica degenerazione”, cancellando l’esistenza di nuove e gigantesche contraddizioni del capitalismo. Sono queste contraddizioni a riproporre la questione del socialismo e in un orizzonte ideale più la lontano, del comunismo1.

Libertini era evidentemente consapevole che una crisi era inevitabile per effetto degli stravolgimenti sociali e politici che erano in corso e che colpivano certamente la stessa prospettiva di fuoriuscita dal capitalismo. Era quindi necessaria una “rifondazione” ma la proposta della maggioranza del PCI, sostituendo un’identità con una “fuga nel vuoto”, era destinata a trasformare la crisi in disfatta. Rifondarsi era necessario, abiurare certamente no. Una valutazione che può essere verificata alla luce della situazione attuale.

All’interno del fronte degli oppositori al superamento del PCI confluivano tendenze diverse che nel corso degli anni si erano andate differenziando su questioni importanti. In genere le ricostruzioni successive, ma anche quelle del tempo, indicavano la convergenza di tre correnti: la sinistra berlingueriana, gli ingraiani, ai quali erano affini per tematiche e sensibilità coloro che erano entrati nel PCI dopo l’esperienza del PDUP e prima ancora del Manifesto e l’area che si era raccolta attorno a Cossutta.

Da questo punto di vista Libertini non aveva aggregato una propria sensibilità ma, in modo anche originale, interpretava elementi che all’interno dello schieramento del “no” erano variamente distribuiti, anche se rispetto all’area che faceva capo a Cossutta aveva sempre avuto una posizione radicalmente diversa nel giudizio del cosiddetto “socialismo reale”.

Come mai Libertini si schierò a difesa di un partito con il quale aveva spesso polemizzato e nel quale, al momento della sua adesione, aveva dovuto scontrarsi con una certa ostilità? Attraverso quali percorsi di analisi e di riflessioni arrivò a formulare la propria posizione nel dibattito interno al PCI nella sua fase finale e anche il rifiuto di pensare alla praticabilità di una corrente all’interno del neonato PDS?

Una risposta a questo interrogativo può essere almeno accennato richiamando idee espresse nell’arco di una trentina d’anni.

In un intervento su «Rinascita» del novembre del 19642 rivendicava le ragioni della formazione dello PSIUP, di cui era uno dei dirigenti, respingendo “l’illusoria via del condizionamento” interno come corrente di sinistra del PSI. Così scriveva:


La regola era – ed è in parte – quella di non perdere contatto con la destra socialdemocratica; e quindi di evitare un urto aperto, cercando viceversa di frenarla sulla strada dei suoi cedimenti, inchiodandola di volta in volta al suo penultimo cedimento. In questo modo – non sempre, ma spesso – la politica unitaria è scaduta al livello di un tatticismo di vertice, di un giuoco sulle formule, ed è stata insensibilmente privata dei suoi contenuti.


Per Libertini i due processi più rilevanti che si erano aperti nella seconda metà degli anni ’50 erano il crollo del dogmatismo staliniano e lo sviluppo di un capitalismo moderno. Tutto ciò doveva aprire una riflessione e un’iniziativa politica che ponesse all’ordine del giorno il tema del socialismo e in particolare di una democrazia socialista anche nelle aree di capitalismo avanzato.

Intervenendo sulla questione, aperta da un intervento di Amendola proprio in quei mesi, della costituzione del partito unificato della classe operaia, Libertini chiariva, con l’abituale franchezza:


Su questo terreno si pone il grande e urgente tema del partito unificato della classe operaia che non può essere l’insipido e assurdo minestrone di un generico “partito del lavoro”, bensì il partito della rivoluzione socialista, e quindi della democrazia socialista.


In diversi suoi interventi, in quegli anni, Libertini segnalava una sua vicinanza in particolare alle posizioni della sinistra del Pci e segnatamente a quelle di Ingrao. Quando nel 1972 decise di confluire nel PCI, trascinando con sé quasi tutto il gruppo dirigente della federazione del PSIUP di Torino, la sua decisione non venne accolta con molto favore. Fu soprattutto la destra del PCI a fare opposizione anche se perplessità ci furono nello stesso Berlinguer3.

Com’è noto si ricorse ad uno scambio di lettere sul settimanale Rinascita per chiarire le questioni politiche considerate irrisolte nell’adesione di Libertini al Partito Comunista. Nella risposta all’intervento di Luciano Gruppi, che evidentemente non parlava a titolo personale, Libertini riprendeva un tema che era stato oggetto di particolare dibattito nella sinistra ed anche del Partito Comunista, in particolare nel Convegno del Gramsci del 1961:il rapporto tra elementi di arretratezza e modernità nelle contraddizioni del capitalismo italiano4. Questione che aveva importanti ricadute sulla strategia politica dei partiti della sinistra.

Libertini teneva a distinguere le sue posizioni da quei compagni confluiti poi tra le forze collocate a sinistra del PCI in quanto riteneva che le vecchie contraddizioni del sistema capitalistico italiano non fossero cancellate (ad esempio la questione meridionale) ma che principale e dominante fosse la contraddizione tra capitale e lavoro.

I contenuti di una strategia politica alternativa doveva fondarsi sulla comprensione dell’intreccio tra fattori avanzati e fattori arretrati, necessità di cambiare il meccanismo di sviluppo, ruolo in tal senso delle lotte operaie avanzate, perno di un vasto sistema di alleanze che investa tutti gli aspetti della società.


Tutto ciò – scriveva – mi ha condotto sin dal 1958 non già a negare l’importanza delle rivendicazioni “democratiche”, ma a sostenere che esse dovessero essere collegate con una linea più avanzata che faceva perno sui delegati e sui consigli operai, e mettesse in discussione l’organizzazione del lavoro.


Libertini tornerà successivamente5 sulla divaricazione di posizioni con il filone teorico che aveva in Panzieri il suo punto di riferimento. Rivendicava le tesi comuni sul controllo operaio che corrispondevano alla


esigenza legittima di reagire a orientamenti populisti o genericamente democraticisti della sinistra italiana; di riportare il centro del discorso sulla fabbrica, di rivendicare la centralità della classe operaia, di tentare una analisi serrata del processo di produzione capitalistico nella fase presente, rileggendo Marx alla luce degli sviluppi reali.


Prendeva però nettamente le distanze da tutto il filone, cosiddetto “operaista”, che aveva preso le mosse dai “Quaderni Rossi”:


Ma la rottura polemica che veniva consumata con i partiti della sinistra storica, il prevalere della ricerca intellettuale astratta sui dati veri della esperienza condusse questi gruppi a isolare la fabbrica dalla società – che è cosa diversa dal rivendicarne la centralità – e a cadere in una sorta di massimalismo colto; e spinsero gli epigoni di Panzieri verso visioni del tutto astratte e unilaterali (…)


Nella sua riflessione critica su alcune delle tendenze emerse nel sessantotto, di cui Libertini rivendicava esplicitamente la validità e anche la forte caratterizzazione operaia, sollevava un altro tema che presenta ancora accenti di attualità.

Sottoponeva a critica quegli orientamenti che partivano da un’attenzione praticamente esclusiva allo specifico sociale e di cui rintracciava le basi in una “radice cattolica, missionaria”. Non si può certamente negare il valore del richiamo alla realtà sociale com’è, alle lotte e ai movimenti che scaturiscono da condizioni specifiche e assumono potenzialità di rottura degli schemi sociali dominanti.


Ma se si perde di vista la sfera politica, i rapporti politici, una concezione più organica della lotta di classe, – sottolineava – e ci si limita a ignorare le strutture istituzionali o a irriderle, lo specifico sociale diventa paradossalmente una gabbia che separa i militanti dalla società reale, e quel che sembra il massimo di concretezza si rivela poi come il massimo dell’astrazione. Nella società vi sono continuamente momenti di sintesi tra la sfera sociale e la sfera politica, e questo fa poi la storia, il sistema di connessioni entro il quale si svolge la lotta della classe operaia e di tutti i lavoratori: ignorarli conduce a una visione deformata delle cose, che oscilla ingenuamente tra la catastrofe e la palingenesi.


In un altro testo segnalava l’indispensabilità di un giusto rapporto tra il momento del movimento, della lotta e il momento dello Stato, della direzione complessiva:


Non sono realistiche quelle soluzioni che pretendono di ridurre il movimento fine a se stesso e di isolarlo dalle grandi questioni della società e dello Stato.6


Un altro tema che attraversa la riflessione e anche le battaglie politiche di Libertini riguardano evidentemente la questione dello stalinismo, il giudizio sull’esperienza sovietica e i paesi dell’est Europa. Abbiamo visto come il suo giudizio critico rivendicato nei suoi interventi nel dibattito sullo scioglimento del PCI non lo conduca a ritenere chiusa la questione del socialismo e dell’orizzonte comunista.

La polemica contro il dogmatismo staliniano lo aveva caratterizzato sin dalle sue prime esperienze politiche e lo aveva portato per lungo tempo anche a battaglie politiche in gruppi isolati o comunque molto minoritari. Confluirà poi nella sinistra socialista all’interno del PSI, ma anche in questo ambito le sue posizioni non erano affatto maggioritarie.

Nella lettera a «Rinascita» del 1972, pur riconfermando dissensi con Togliatti contenuti in un suo testo biografico dello scomparso leader comunista, ricordava di aver apertamente sostenuto e valorizzato il Memoriale di Yalta, che Togliatti redasse poco prima della morte. Quel documento, sottolineava Libertini segnava il suo avvicinamento alle posizioni del PCI, di cui aveva poi rilevato le posizioni coraggiose e di grande apertura assunte sull’invasione della Cecoslovacchia. Mentre quello che era allora il suo partito, lo PSIUP, esprimeva ambiguità e contraddizioni.

Questo avvicinamento, che consentiva di rimuovere uno dei punti di maggior dissenso con il PCI e anche con gran parte della stessa sinistra tradizionale del PSI, permise a Libertini di intervenire proficuamente sui temi posti prima dall’eurocomunismo e poi dalla terza via. Questi erano intesi come momenti di ripensamento critico delle esperienze del socialismo, caratterizzate da autoritarismo e repressioni, senza confluire nella visione socialdemocratica.

La socialdemocrazia, scriveva in un saggio pubblicato da una rivista marxista latinoamericana7, nella sostanza accetta il capitalismo anche se cerca di apportarvi delle correzioni. Il massimo di novità tollerato dalla socialdemocrazia è un più ampio ruolo dello Stato assistenziale che non modificando i meccanismi di produzione finisce per influire negativamente sullo sviluppo. In questo modo rischia di convertirsi in un lusso per i soli paesi ricchi. Inoltre, l’altra critica di fondo, è quella di separare i problemi sociali, ridotti alla distribuzione della ricchezza prodotta, dal rafforzamento della democrazia, che si identifica tout court con i sistemi democratico-borghesi così come sono.

Al contrario la posizione eurocomunista tende a trasformare la società e a superare il capitalismo collegando strettamente le riforme di struttura, i mutamenti del sistema di accumulazione e di sviluppo con il progresso della democrazia, mantenendo i valori positivi ereditati dalla rivoluzione borghese ma estendendo la partecipazione delle masse. Per questo però occorre definire una scienza politica marxista, che a partire dal giudizio sullo Stato e dal suo rapporto con la società, le classi, i movimenti, sia in grado di elaborare le istituzioni e le forme della transizione.

Ho voluto segnalare questi interventi, seppure evidentemente in modo molto sintetico, per ricordare come Libertini, nella sua ventennale presenza politica all’interno del Partito Comunista Italiano non si occupò solo, con competenza, di temi concreti, ma anche di quelle che un tempo si sarebbero chiamate “questioni di dottrina”. Il suo contributo non può quindi essere congelato alle sole tesi sul “controllo operaio” del 1958, rispetto alle quali operò aggiornamenti, integrazioni e sviluppi nuovi alla luce di quella concreta esperienza politica di massa che fu la sua presenza nel Partito Comunista Italiano.

L’attività di riflessione teorica di Libertini fu sempre strettamente collegata all’analisi dei processi reali così come alla ricerca di una stretta connessione con gli orientamenti, i bisogni, le sensibilità presenti, anche in forme contraddittorie, nei settori popolari. Nella sua visione popolo e classe non erano due oggetti contrapposti; per questo, pur se al “popolo” seppe parlare, la sua visione non può essere rinchiusa nel modello del “populismo di sinistra”, di cui si è ampiamente discusso in anni recenti.


Franco Ferrari


(Tratto da: Nikolova Barbara e Signorini Giacomo (a cura di), Lucio Libertini e… Un protagonista della sinistra italiana nel centesimo anniversario della nascita. Atti del convegno svoltosi a Pistoia il 2 dicembre 2022, Tralerighelibri, Lucca, 2023, pp. 172-179; disponibile su http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=56704#gsc.tab=0).


Note

1 Libertini, Lucio, Perché un movimento di rifondazione comunista, in «Lettera sulla Cosa», suppl. a «l’Unità», 14 dicembre 1990.

2 Libertini, Lucio, Lotta di classe e riunificazione politica, «Rinascita», pp. 4-5, 14 novembre 1964.

3 Agosti, Aldo, Il partito provvisorio, Laterza, Roma-Bari, 2013, pp. 279-282.

4 «Rinascita», 30 giugno 1972, pp. 38-39.

5 Libertini, Lucio, La generazione del sessantotto, Editori Riuniti, Roma, 1979, pp. 48-49.

6 Libertini, Lucio, Trentin, Bruno, L’industria italiana alla svolta, De Donato, Bari, 1975, p. 68.

7 Libertini, Lucio, Democracia y socialismo. El punto di vista del eurocomunismo, «Historia y sociedad», numero 13, 1977, pp. 70-85.


Inserito il 14/08/2024.

Per approfondire

Sergio Dalmasso

Lucio Libertini
Lungo viaggio nella sinistra italiana

(Edizioni Punto Rosso, 2020)

Lucio Libertini (Catania 1922-Roma 1993) ha militato, dall’immediato dopoguerra alla morte, nella sinistra italiana, da una corrente socialista minoritaria alla sinistra socialdemocratica, dall’eresia dell’USI di Magnani e Cucchi alla sinistra socialista, dall’eretica collaborazione con Panzieri al PSIUP, dal PCI a Rifondazione comunista.

Al di là delle banali accuse di essere uno “scissionista”, un “globe trotter della politica”, Libertini rivendicava una coerenza, una continuità davanti ai tanti che avevano modificato non sigle di partito, ma posizioni e scelte ideali, sostenendo una fedeltà ai propri riferimenti sociali e una linearità, nel doppio rifiuto dello stalinismo e della compromissione socialdemocratica.

Il suo grande attivismo, le capacità giornalistiche espresse da «Iniziativa socialista» a «Risorgimento socialista», da «Mondo operaio» all’«Avanti!», da «Mondo nuovo» a «Liberazione», la intensa produzione di testi, sempre legati alla contingenza politica, ma molto spesso di prospettiva (per tutti le Tesi sul controllo e Due strategie) hanno fatto di lui, per anni, un riferimento importante.

Se molte delle formazioni in cui ha militato sono oggi sconosciute ai più, sommerse nelle infinite scissioni, divisioni e rimozioni della sinistra, alcune tematiche mantengono una specifica attualità:

Il testo passa in rassegna “eresie” dimenticate, dibattiti, scelte generose anche se minoritarie, figure della sinistra maggioritaria e di un’altra sinistra (Magnani, Codignola, Maitan, Panzieri, Ferraris) sconfitta ed emarginata, con opzioni differenti, ma capace di analizzare la realtà nazionale e internazionale, le sue trasformazioni, le prospettive.

Attraverso il percorso di Lucio Libertini, il testo ripercorre mezzo secolo di storia, di successi, errori, scacchi, potenzialità, speranze, occasioni mancate dell’intera sinistra italiana.


Roberto Mapelli

Dalla rivista «Essere comunisti»

La nascita di Rifondazione Comunista
raccontata dall’interno

di Alessandro Valentini

Come si arrivò alla nascita di Rifondazione Comunista? Chi furono i protagonisti? Chi aveva preparato il terreno per la ricostituzione di un partito comunista in Italia dopo la “svolta” annunciata da Achille Occhetto in seguito alla caduta del Muro di Berlino? Come si compose e si scompose il “fronte del no” allo scioglimento del PCI negli ultimi due congressi?

Alessandro Valentini, considerato a quel tempo braccio destro di Armando Cossutta, partecipò alle riunioni e alle vicende di cui offre testimonianza in questo articolo scritto nel 2011, a vent’anni dalla nascita del Movimento e poi Partito della Rifondazione Comunista.

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La nascita di Rifondazione Comunista raccontata dall’interno


di Alessandro Valentini


Nella mattinata di domenica 3 febbraio del 1991 si riuniscono nella sala E della Fiera di Rimini un gruppo di delegati del XX Congresso del Pci per partecipare alla conferenza stampa in cui Sergio Garavini annuncia la nascita del Movimento per la rifondazione comunista. I delegati sono una novantina su 1260. L’incontro si tiene a conclusione della prima fase congressuale. La scelta è di non partecipare alla votazione sullo scioglimento del Pci e alla fase della costituzione del Pds. Insomma: non si esce dal Pci, bensì non si aderisce al Pds.

È questo l’atto formale di nascita di Rifondazione comunista.

I locali dell’Associazione Culturale Marxista diventano la sede del Movimento. In pochi giorni si forma un Coordinamento composto da due compagni per ogni regione. A tal proposito rammento che Marco Ferrando fu designato nel Coordinamento dalla Liguria. Lui e il suo gruppo infatti aderirono al Movimento non aspettando il Congresso di confluenza di Dp.

Si elegge anche un Esecutivo composto da Sergio Garavini Coordinatore e da Armando Cossutta, Lucio Libertini, Ersilia Salvato, Guido Cappelloni come Tesoriere, Rino Serri, Bianca Bracci Torsi, Peppe Napolitano e Sandro Valentini. Successivamente vi entrano prima Gianni Giadresco e poi Luciano Pettinari in rappresentanza del gruppo ex Pdup di Lucio Magri che aveva deciso di uscire dal Pds per aderire al Movimento.

Il 10 febbraio si svolge al Teatro Brancaccio di Roma, il teatro in cui dopo la Liberazione parlò Togliatti, la prima manifestazione del Movimento alla presenza di oltre 5.000 persone. Rifondazione comunista conferma di essere una forza viva e radicata nella società.

Questa è la cronologia saliente degli accadimenti racchiusi in pochi giorni. Ma non bisogna pensare che tutto fosse scontato e lineare. Si giunse alla scelta di non aderire al Pds dopo una lunga e impegnativa discussione.

Per molti questa discussione era iniziata un anno prima a Bologna, il 12 novembre del 1989, quando Occhetto intervenendo nella sala della Bolognina, di fronte a una platea di partigiani, alla domanda di un giornalista che chiese se prevedeva mutamenti profondi nel partito, anche sul nome, afferma: «Si possono presagire grandi mutamenti nel Pci. Anche nel nome».

Per “la galassia cossuttiana” invece la discussione era avviata da tempo. Quella di Cossutta era un’area che nel corso di un decennio si era andata organizzando via via che si compiva la “mutazione genetica” del Pci e il suo essere “parte integrante della sinistra europea”, cioè organicamente collegato con la socialdemocrazia.

La rivista «Interstampa», l’Associazione culturale marxista e la rivista «Marxismo Oggi»1, erano i principali strumenti di organizzazione dell’area. Ma vi erano altre strutture di riferimento: i Centri culturali. Inoltre, l’area controllava sezioni dell’Anpi e di Italia-Urss, una serie di Comitati per la pace e numerose sezioni del Pci2.

Con il XVIII Congresso del partito, quello del “nuovo corso” di Occhetto, l’area si trasforma in componente. È un Congresso poco ricordato3, ma importante perché per la prima volta si svolge su documenti contrapposti, quello della maggioranza e quello di Cossutta, anche se il regolamento non garantiva la pari dignità tra i due documenti. La vita del partito era regolata da un ferreo centralismo democratico4.

Sarà dunque quest’area a divenire lo scheletro organizzativo di Rifondazione comunista. Rammento che Cappelloni, con fare cospiratorio, distribuiva da una stanzetta della Fiera pacchetti di tessere del Movimento, che aveva fatto stampare nei giorni precedenti, ma i referenti territoriali erano prevalentemente cossuttiani e ciò determinò delle preoccupazioni in Libertini e delle tensioni con Garavini.

Per giungere allo scioglimento del Pci ci vollero – come si sa – due Congressi. Al XIX, quello di Bologna, 7-10 marzo del 1990, si arrivò con tre mozioni congressuali. La mozione del sì alla svolta, Dar vita alla fase costituente di una nuova formazione politica, per realizzare la democrazia dell’alternanza; la mozione del no di Alessandro Natta, Pietro Ingrao e Aldo Tortorella, Per un vero rinnovamento del Pci; la terza mozione, quella di Cossutta e Gianmario Cazzaniga, Per una democrazia socialista in Europa.

Dunque, il “fronte del no” si presenta diviso. Tutti i tentativi di unificazione falliscono. Il più contrario a una mozione unitaria con Cossutta è Ingrao. Il suo obiettivo è di stabilire un rapporto tra il nome e la cosa, per dare alla nuova formazione contenuti di sinistra tramite una convergenza con la “sinistra del sì” di Antonio Bassolino. Ma la seconda mozione oltre agli “orizzonti del comunismo” e la difesa del Pci non è in grado di andare.

È la terza mozione, scritta sostanzialmente da Cazzaniga, che introduce aspetti innovativi e contiene una proposta alternativa a quella maggioritaria di una nuova formazione per sbloccare il sistema politico, “per non morire democristiani” come dicevano i sostenitori della svolta.

La terza mozione tenta di fare i conti con il tracollo del socialismo reale, ma anche con il neoliberismo, che aveva vinto la guerra fredda imponendo il suo modello sociale in tutto l’Occidente. Prova a rispondere alla svolta proponendo un nuovo progetto socialista nell’ambito di un quadro europeo di riferimento Si attesta così su una posizione più avanzata rispetto a quella della pura difesa del Pci.

Se si rileggono gli atti congressuali si nota che al centro del dibattito vi è la questione della natura del nuovo soggetto e le diverse opzioni sono trasversali alle mozioni. Invece scarsa traccia vi è nel dibattito di separazioni e nulla sull’idea della rifondazione comunista. Curiosamente la parola “rifondazione” viene usata per la prima volta dai sostenitori della svolta per indicare l’esigenza di trasformare il Pci in un’altra “cosa”. In un articolo anonimo su «l’Unità» del 25 novembre 1989, Col tesseramento impegno di massa nella rifondazione, la parola ha appunto tale significato. Ma con l’accentuarsi della lotta politica assume un’altra accezione: la necessità di rifondare un’autonoma formazione comunista.

Il cambio del significato del termine avviene nell’ambito dell’esperienza che molti militanti del no maturano a Roma tra il XIX e il XX Congresso. Per iniziativa di una parte della terza mozione, degli autoconvocati e di esponenti della seconda mozione, matura l’idea di costituire i Comitati per la rifondazione comunista5.

Il primo comitato nasce nella sezione del Pci di Borgo Prati dove l’area cossuttiana era particolarmente forte. I promotori considerano arretrata l’impostazione della difesa del Pci. Occorre invece costituire Comitati che indichino l’avvio di un processo di lunga lena. In pochi mesi sorgono numerosi Comitati che svolgono iniziative autoconvocate in diverse sezioni: Nuovo Tuscolano, Testaccio, Cavalleggeri, Prima Valle, Mazzini, Italia, Ostiense, Tiburtino IV. Rammento che fui convocato da Cossutta presso il suo ufficio a Botteghe Oscure per essere richiamato all’ordine, per esprimermi le sue preoccupazioni sull’attività e gli obiettivi dei Comitati.

Ma il 28 novembre, nei locali della sezione Esquilino, si tiene un’assemblea di alcune centinaia di militanti dal significativo tema: “Idee e proposte per la rifondazione di una forza comunista in Italia”. Intervengono anche Garavini e Giuseppe Chiarante. È la svolta. L’assemblea vota un ordine del giorno che propone una manifestazione nazionale entro gennaio. Il tentativo è di ripetere a livello nazionale l’operazione romana cercando di coinvolgere i Comitati per la difesa del Pci che si sono costituiti un po’ in tutta Italia.

Fui nuovamente convocato da Cossutta ma questa volta mi manifestò il suo apprezzamento per il lavoro svolto a Roma e mi informò della volontà sua e di Garavini di voler sostenere i Comitati nella loro mobilitazione nazionale alla vigilia del Congresso. I vincoli a cui dovevano entrambi sottostare, nell’aver sottoscritto la mozione unitaria, non permetteva loro di poter indire formalmente una manifestazione senza rompere l’accordo unitario raggiunto con tutto il “fronte del no”. Insomma, Cossutta “mette il cappello” su una iniziativa che solo un paio di settimane prima considerava «fuori linea». Erano passati solo due giorni dalla riunione della terza mozione romana, svoltasi nella sezione di San Saba, dove Olivio Mancini aveva criticato duramente l’attività dei Comitati. «La loro linea non è la nostra» disse.

La manifestazione si svolgerà, naturalmente in accordo con Garavini e Cossutta, il 6 gennaio del 1991 al Teatro Eliseo sul tema “Per il rilancio di una presenza comunista in Italia”. Ma non è come Oliviero Diliberto e Sergio Dalmasso hanno scritto, errore che non fa invece Salvatore Cannavò anche se tratta in poche righe l’argomento6, che fosse un appuntamento voluto, promosso e organizzato dalla nascente area “Garavini-Cossutta”, che aveva tenuto il suo battesimo ufficiale il 4 gennaio alla Sala degli Aranci7.

Non fu la nuova area “Garavini-Cossutta” a decidere chi doveva parlare. La manifestazione fu infatti introdotta da Pietro Antonuccio, esponente dei Comitati, e si concluse con un appello stilato il giorno prima dagli stessi. Tra il 4 gennaio, riunione della Sala degli Aranci, e il 6, manifestazione dell’Eliseo, si tiene (il 5 gennaio), promosso dai Comitati, un seminario nazionale di un centinaio di quadri presso la Provincia, a Palazzo Valentini. Al termine dei lavori una delegazione composta da Walter Tucci, Luca Lo Bianco, Pietro Antonuccio e Sandro Valentini s’incontra al Bibo Bar di Piazza SS. Apostoli con Serri e Braccitorsi, che era stata simpaticamente ribattezzata per la sua vicinanza a Cossutta «la compagna della due e mezzo», per concordare un appello che sarà letto e approvato il giorno dopo dall’assemblea dell’Eliseo. Nell’appello si afferma: «L’autonomia culturale, politica e organizzativa è la condizione stessa perché la rifondazione comunista possa vivere». Nel corso dell’assemblea intervengono, come concordato con il Coordinamento dell’area, Vendola, Libertini, Salvato, Cossutta e Garavini. In platea è presente tutto il gruppo dirigente di Dp.

La proposta della rifondazione comunista è vista con simpatia da Dp, dalla rivista «Comunisti Oggi», fondata da Luigi Vinci e Fausto Sorini, e dalla sinistra della Cgil. Tra il XIX e il XX Congresso cresce pertanto un ampio movimento, dentro e fuori il Pci, contrario ad aderire al nuovo soggetto politico.

Considero lo sviluppo tra il 1990 e l’inizio del 1991 di tale movimento un aspetto decisivo, storicamente sottovalutato. Gli accadimenti di quel periodo sono stati esemplificati nei comportamenti e nelle posizioni dei gruppi dirigenti e della loro presunta granitica volontà di non aderire al Pds avendo chiara l’opzione strategica della rifondazione comunista. È stata invece l’attività generosa dei Comitati, che dopo aver imposto a Roma la loro visione svilupparono un intenso lavoro su scala nazionale8, a far maturare un orientamento politico di massa favorevole alla rifondazione comunista, e in qualche misura anche a imporlo sul gruppo dirigente del “fronte del no”.

Vengono poste così le premesse di una proposta innovativa secondo cui la ricostruzione di un soggetto rivoluzionario è un processo che non si esaurisce con la nascita del partito, anche se il partito è il luogo della rifondazione.

Certamente l’idea della rifondazione riceve un impulso importante dal seminario del “fronte del no” svoltosi ad Arco di Trento a fine settembre. Il tema del seminario è: “In nome delle cose – Materiali di dibattito per la rifondazione comunista”. Ma nonostante l’acquisizione dell’idea della rifondazione comunista e l’interessante relazione di Magri, il seminario si chiude senza fare chiarezza sulle prospettive. Fotografa le divisioni del gruppo dirigente del no.

Però attraverso la combinazione dell’attività dei Comitati e di alcune idee innovative emerse dal seminario di Arco di Trento si ottiene un importante risultato: il no si unifica nella mozione, almeno nel titolo, Rifondazione comunista9.

Dunque, anche al XX Congresso si giunge con tre mozioni. La prima, Per il Partito democratico della sinistra; la seconda, quella unitaria del no; la terza, di Bassolino, Mario Tronti a Alberto Asor Rosa, Per un moderno partito antagonista e riformatore.

C’è chi fa risalire in questa fase la determinazione di Cossutta a non aderire al Pds. Ma Cossutta non escludeva, abilmente, nessuna ipotesi. Partecipa agli incontri alla scuola di partito di Ariccia, detti del “caminetto”, dove tutti i leader del partito si riuniscono per ricercare un esito unitario. Gli incontri sembrano preludere a un accordo: la costituzione di un partito del lavoro o un patto federativo tra il nuovo soggetto e chi vuole proseguire un’esperienza comunista. Insomma, la posizione di Ingrao di “stare nel gorgo” è tutt’altro che isolata.

Con la guerra del Golfo la situazione però precipita. La maggioranza decide di votare in Parlamento il documento del governo a sostegno dell’intervento militare statunitense in Iraq. Per la prima volta nella storia del Pci undici senatori, tra cui lo scrittore Paolo Volponi, si dissociano in Parlamento.

La determinazione di Cossutta cresce con il susseguirsi degli avvenimenti. E una volta maturata la scelta punta a costituire un partito avendo come riferimento il quadro politico-istituzionale del momento. Ritiene (ma anche Garavini e Libertini avevano la medesima convinzione) che le forze proporzionaliste potessero respingere la deriva maggioritaria e bipolare. E in questo contesto ci sarebbe stato uno spazio anche per un partito comunista, in continuità con la storia migliore del Pci.

Quella errata previsione influenzò la discussione rendendo fino all’ultimo incerta la decisione sul simbolo e sul nome. Presso il notaio Fabbrani Bernardi di Rimini si ricostituisce infatti il Pci. Solo il 25 febbraio, presso il notaio Ciocci di Roma, sarà costituito il Movimento per la rifondazione comunista.

L’atto notarile di Rimini fu giustificato dalla preoccupazione che non si era a conoscenza delle intenzioni del Pds sul simbolo e sul nome del Pci. Quindi era meglio premunirsi, anche legalmente, per evitare che qualcuno potesse appropriarsi del glorioso simbolo disegnato da Renato Guttuso su richiesta di Palmiro Togliatti. Resta comunque il fatto che le tessere distribuite a Rimini recavano il simbolo del Pci e che la delegazione di Dp presente al Congresso, una volta venuta a conoscenza di tale scelta, espresse la sua netta disapprovazione10.

Per alcuni mesi ci fu dunque, per ragioni politiche, uno scontro durissimo con il Pds sul simbolo. Pochi rammentano che alla prima significativa scadenza elettorale, quella del rinnovo dell’Assemblea regionale siciliana, il simbolo presentato dal Movimento per la rifondazione comunista fu quello del Pci.

Che la questione del simbolo e del nome fosse una questione politica rilevantissima lo si capì meglio al Congresso costitutivo di Roma11. La platea congressuale si spaccò sulla proposta del nome. Prima di giungere al Congresso vi erano state delle avvisaglie. Di una sono testimone. Ero stato incaricato di ricercare un logo per il Congresso. Proposi, con il contributo di alcuni grafici, il logo di una falce e martello che formano una R, che stava per Rifondazione. Quel logo fu criticato da una buona parte dell’Esecutivo, in particolare da Libertini. L’opinione prevalente era che non si ricollegava alla tradizione del movimento operaio e comunista italiano, bensì ricordava i simboli delle formazioni estremistiche.

Il logo alla fine passò, ma compresi che sul nome ci sarebbe stata battaglia. Una parte dei delegati infatti non era per nulla convinta della proposta Partito della rifondazione comunista e dell’idea innovativa che sottintendeva. La proposta Partito della rifondazione comunista passò a maggioranza su quella di Partito comunista. E passò soprattutto grazie al grosso dell’area cossuttiana, che sicuramente era meno nostalgica del Pci, avendo in esso subito pesanti discriminazioni politiche, rispetto ai berlingueriani e agli ingraiani, che al contrario si sentivano orfani di un partito che ritenevano fosse stato loro scippato dai sostenitori della svolta12. Erano militanti e quadri di base che non coglievano a fondo le cause dello scioglimento del Pci e soprattutto che erano maturate nel corso di un decennio. Cause che venivano quindi da lontano. La svolta non era che una forzatura del “traditore” Occhetto13.

Spesso nel Prc vi è stato un confronto politico e culturale tra i cosiddetti “innovatori” e i “conservatori”. Si è presentata l’area cossuttiana come il nocciolo duro della seconda posizione. L’operazione è stata favorita anche dalla scissione di Cossutta, Diliberto e Rizzo sulla drammatica vicenda del primo governo Prodi e per le scelte politiche e culturali fatte dal Pdci. E non è un caso che molti quadri berlingueriani seguirono Cossutta nella nuova formazione comunista, determinando il fenomeno culturale del “cossuttismo”, cosa profondamente diversa dalla vecchia area cossuttiana. Ma è indubbio che tra il XVIII e il XX Congresso del Pci e in tutta la fase di costruzione del Prc, fino alla Segreteria Bertinotti a conclusione del II Congresso del partito di Roma, dal 23 al 26 gennaio 199414, l’area cossuttiana giocò un ruolo fortemente innovativo.

Il continuismo con la storia del Pci fu una inclinazione politica soprattutto di Garavini e dei suoi più stretti collaboratori. Ramon Mantovani, che partecipava allora alle riunioni dei garaviniani, cioè dei non cossuttiani, potrebbe testimoniare come il Coordinatore del movimento fu messo in una riunione riservata in minoranza su un punto decisivo: voleva proporre al Congresso costitutivo di Roma il nome Partito comunista. Come non può essere scordato il ruolo decisivo svolto dall’area cossuttiana sulla vicenda del governo Dini, primo vero atto politico rifondativo nella storia del partito, che determinò l’uscita dal Prc di Magri e di Garavini e di una parte importante dell’ex Pdup15.

Come, infine, va rammentato, che fu proprio il gruppo dei cosiddetti giovani di «Interstampa», guidati da Guido Cappelloni, che furono decisivi alla tenuta della maggioranza di Bertinotti, al momento della sua rottura con Cossutta, sostenendo con convinzione nel Cpn16 l’ordine del giorno della rottura con il governo Prodi17.

Dunque, in tanti anni di lotte politiche, di contrapposizioni e di lacerazioni nel Prc, molta manipolazione si è fatta, purtroppo anche ad arte, sugli orientamenti politici e culturali della “galassia cossuttiana”, spacciandola di conservatorismo, quando spesso questo orientamento era di altre culture, di altre tendenze. Per cui sono stato personalmente tacciato di stalinismo da chi nel ’68 e negli anni successivi gridava “viva Stalin” o “viva Mao”. Il sottoscritto tutt’al più aveva in quegli anni compiuto un “peccato di provincialismo” esultando al Pci di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer.

Anche per queste ragioni la rifondazione comunista non ha fatto allora molta strada. Le difficoltà drammatiche di oggi sono anche il risultato di questo limite. Ma il tema della rifondazione è più che mai di attualità. E come vent’anni fa18 a Rimini sappiamo che non esistono scorciatoie: né tornare al passato, qualsiasi esso sia, Pci o minoritarismo della nuova sinistra, né appellarsi a un pragmatico realismo, il cui approdo è l’omologazione della sinistra al capitalismo. Si tratta oggi di rifondare una sinistra per la trasformazione – Lenin e Gramsci avrebbero detto «di un soggetto rivoluzionario» – che indichi nel XXI secolo la via al socialismo.

Riparto da questa necessità, dettata dalle contraddizioni nuove e drammatiche che il capitalismo ha accumulato nell’epoca della globalizzazione. Ritrovo nell’odierna crisi strutturale del capitalismo, che si presenta come una crisi di civiltà, la straordinaria attualità dell’opera e del pensiero di Marx. È tempo allora di riprendere un’analisi e una pratica marxista rifondando, come ci hanno insegnato i nostri maestri, un pensiero rivoluzionario, espressione di una sinistra nuova che finalmente sia un intellettuale collettivo.

Riparto perciò da questa necessità in coerenza – credo – non solo con la mia storia di quarant’anni e oltre di militanza comunista, ma con la mia convinzione che di tale sinistra abbiamo bisogno per riproporre, dopo la straordinaria epopea della Rivoluzione d’Ottobre, il superamento del capitalismo.


Alessandro Valentini


(Tratto da: Alessandro Valentini, Perché ci chiamiamo Rifondazione comunista, in «Essere comunisti», giugno 2011).


Note

1 «Interstampa» è fondata nell’aprile del 1981 su iniziativa di un gruppo di dirigenti storici del Pci e di intellettuali quasi un anno prima che esplodesse il “caso Cossutta” sulla vicenda dello “strappo”. Il nucleo storico della rivista viene dunque da lontano, da un’opposizione sotterranea ma dura alle scelte del Pci, almeno dalla fine degli anni ’70 in poi. Infatti, per iniziativa del gruppo lombardo, nel 1979 fu presa la decisione di fondare la Cooperativa Editrice Aurora. Il primo fascicolo dell’Aurora esce nell’ottobre del 1979, Cina, Viet Nam, Cambogia: all’origine dei conflitti. Tra i fondatori della rivista, oltre ad Ambrogio Donini, Pino Sacchi e Alessandro Vaia, vi sono: Giuseppe Angelini, Adelio Albarello, Arnaldo Bera, Alfio Caponi, Giulio Cerreti, Paolo Cinanni, Otello Nannuzzi e Paolo Robotti. Aderiscono alla rivista intellettuali di prestigio come: Ettore Biocca, Alfonso Di Nola e soprattutto Ludovico Geymonat e personalità come Nino Pasti. In seguito aderiscono: Renato Scionti, Ruggero Spesso, Giovambattista Gianquinto e intellettuali come Enzo Santarelli, Umberto Carpi e Alessandro Mazzone. L’Associazione culturale marxista nasce invece l’11 febbraio del 1987. Alla Associazione aderiscono alcuni dei più prestigiosi intellettuali italiani: Mario Alinei, Guido Aristarco, Umberto Carpi, Alberto Mario Cavallotti, Gian Mario Cazzaniga, Raffaele De Grada, Franco Della Peruta, Alfonso Di Nola, Ambrogio Donini, Filippo Frassati, Severino Galante, Ludovico Geymonat, Alessandro Mazzone, Cesare Musatti, Guido Oldrini, Luigi Pestalozza, Geo Rita, Gianroberto Scarcia, Nicola Sani, Guido Valabrega e Claudio Villi. Vi aderiscono anche dirigenti di partito, di sindacato ed ex parlamentari come: Gianfilippo Benedetti, Ernesto Cairoli, Guido Cappelloni, Aurelio Crippa, Gino Giulio, Paolo Guerrini, Sabino Malizia, Saverio Nigretti, Ubaldo Procopio, Ruggero Spesso e gli editori Teti e Vangelista. La Presidenza dell’Associazione Culturale marxista nomina Gianmario Cazzaniga direttore di «Marxismo oggi» e Sandro Valentini direttore responsabile. Dopo la rottura tra Cossutta e Cazzaniga sarà chiamato a dirigere la rivista Umberto Carpi.

2 Per una maggiore conoscenza dell’area cossuttiana rinvio alla documentazione contenuta nel mio libro La Vecchia talpa e l’Araba fenice, La Città del Sole, 2000.

3 Forse il XVIII Congresso è poco ricordato perché fu il Congresso in cui il processo di snaturamento del Pci fu formalmente sancito senza una vera opposizione da parte di chi poi contrastò la svolta della Bolognina. Lucio Magri nel suo libro Il Sarto di Ulm (Il Saggiatore, 2009) riporta in appendice il documento base «per una mozione collettiva da presentare al XVIII Congresso, in alternativa a quella di Occhetto», Una nuova identità comunista. Ma Magri non spiega le ragioni per cui il suo documento rimase «chiuso in un cassetto» per essere due anni dopo riassunto e integrato e riproposto al seminario del “fronte del no” di Arco di Trento.

4 Ho in altre occasioni osservato e scritto che a volte la storia gioca con le idee. È infatti da considerare un paradosso storico che l’area di Cossutta, considerata la più ortodossa del Pci, pro-sovietica e fortemente ancorata a concezioni leniniste, fu quella che portò avanti e sviluppò con coerenza, molto di più di Pietro Ingrao, una battaglia per affermare la piena democrazia nel partito. A Ingrao va il merito di aver sollevato la questione nell’XI Congresso del Pci, ma a Cossutta va riconosciuto di aver praticato con scelte concrete e con determinazione il superamento del centralismo democratico. E se il Prc in vent’anni di vita non si è mai posto il problema di ripristinare uno strumento vetusto come il centralismo democratico per regolare la vita di un partito comunista lo si deve anche alla sensibilità delle compagne e dei compagni provenienti dall’area cossuttiana. Credo che l’idea di un diverso modo di concepire la vita democratica del partito, con l’eccesso negativo purtroppo delle pratiche correntizie, ha rappresentato la maggiore discontinuità con il Pci.

5 Gli stessi, insieme a militanti di Dp, del Movimento per l’alternativa e settori del Movimento studentesco avevano dato vita un anno prima al Comitato per la difesa e il rilancio della Costituzione. Sento il dovere di ricordarli. Per la Terza mozione: Pietro Antonuccio, Massimo Fè, Marco Noccioli, Nora Tagliazucchi, Gianfranco Lannutti, Fabio Grieco, Vincenzo Siniscalchi, Franco Iachini, Ubaldo Procopio, Franco Pallone. Per gli autoconvocati: Fabrizio Clementi, Fabio Giovannini, Umberto Carbone, Vittorio Sartogo, Maurizio Mazzi e Angelo Zola. Per la seconda mozione: Walter Tucci e Velia Simonetti. Per Dp: Maurizio Fabbri, Raul Mordenti, Giuseppe Bronzini e Maurizio Foffo. Per il Movimento per l’alternativa: Ivano Di Cerbo, Antonia Sani ed Enrico Giardino. Per il Movimento studentesco: Anubi D’Avossa Lussurgi. Questo stesso schieramento, con un ulteriore allargamento, fonderà la rivista «Quaderni romani», che nei primi anni di vita della Federazione romana del Prc, caratterizzata dalla gestione di Francesco Speranza e Gennaro Lopez di esasperato continuismo con la storia del Pci, sarà il principale fattore di innovazione politica e di ricerca culturale di una pratica per la rifondazione comunista. L’allargamento è ai quadri provenienti da Lotta continua per il comunismo, organizzazione che confluisce nel Prc dopo la sua costituzione, come Fabrizio Casari e Roberto Latella, ai quadri sindacali e di movimento come Paola Agnello Modica e Massimo Pasquini, a personalità come Giancarlo Lannutti, Ruggero Spesso e Francesco Zarcone, al gruppo degli avvocati comunisti guidati da Riccardo Faranda, a compagni come Touty Coundoul e Bruno Steri, alle compagne dei Luoghi delle donne, come Maura Cossutta, Federica Pitoni, Carla Ronga e Argia Simone.

6 Vedere Oliviero e Alessio Diliberto, La Fenice rossa, Robin Edizioni, 1998; Sergio Dalmasso, Rifondare è difficile, Centro di documentazione di Pistoia, Cric Editore, 2002; Salvatore Cannavò, La rifondazione mancata, Edizioni Alegre, 2009.

7 Garavini e Cossutta decidono di far tenere a Pettinari la relazione introduttiva in quanto è il più convinto del gruppo ex Pdup della scelta di non aderire al nascente Pds. Questa riunione è considerata l’atto di nascita della nuova area. In realtà diverse riunioni larghe si erano svolte nei mesi precedenti presso la sede dell’Associazione culturale marxista. Ma la più importante di tutte fu quella del 23 gennaio svoltasi alla vigilia del Congresso, in cui Garavini, su proposta di Cossutta, fu designato Coordinatore dell’area. La decisione era stata presa qualche giorno prima in una cena al ristorante romano Il Piedone in cui erano presenti, oltre Garavini e Cossutta, anche Libertini, Salvato, Cappelloni e Serri. Il 23 gennaio si decise anche che i tempi non erano maturi per fare subito un partito. Garavini propose di costituirsi a Rimini eventualmente in Movimento.

8 Il 9 dicembre, presso la sezione Italia si tiene una riunione nazionale dei Comitati. La relazione introduttiva e le conclusioni sono tenute da Valentini. Alla riunione sono presenti rappresentanze dal Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Campania, Puglia, Lazio, oltre una foltissima delegazione di romani. La riunione si chiude con la proposta di svolgere a Roma, il giorno dell’Epifania, un’assemblea nazionale e il giorno prima un seminario di approfondimento sulle questioni teoriche e politiche che sottendono il processo della rifondazione comunista. Nella riunione si chiarisce anche che i Comitati non si sentono vincolati alla disciplina della mozione unitaria. La sottoscrivono e la sostengono nelle sezioni mantenendo però una loro autonomia, questo perché il loro giudizio sull’intero gruppo dirigente del “fronte del no” è molto duro, in quanto mostra una serie di esitazioni, tatticismi e una sostanziale rigidità rispetto alla promozione e allo sviluppo di un’iniziativa adeguata per la rifondazione comunista.

9 La mozione unitaria, scritta da Giuseppe Chiarante, è considerata non adeguata e insoddisfacente non solo dai cossuttiani ma anche dai Comitati. Lo stesso titolo della mozione, Rifondazione comunista, è in realtà una mediazione. La mozione infatti non indica come avviare il processo rifondativo. Si limita a riaffermare che «la rifondazione comunista è, necessariamente, un processo di lunga lena: non si esaurisce né nella proposta di un nome, né in una singola scadenza congressuale. Per questo essa è il contrario di ogni progetto di separazione e di scissione».

10 Il più contrariato alla scelta di riportare il simbolo del Pci sulla tessera era Luigi Vinci, il dirigente di Dp che più si era speso ed esposto per la confluenza del partito nel Movimento per la rifondazione comunista. Una parte dell’area di Giovanni Russo Spena era infatti contraria, in particolare due membri della Segreteria nazionale come Giulio Russo e Fabio Alberti, che al momento dello scioglimento di Dp, nel giugno del ’91 al Congresso di Riccione, non aderiranno al Movimento per la rifondazione comunista insieme a una parte minoritaria di quadri periferici.

11 Il Congresso costitutivo del Prc si svolge in due fasi. La prima dal 12 al 15 dicembre del 1991 al Palazzo dei Congressi di Roma. La seconda, sempre a Roma, il 18 e il 19 gennaio del 1992 all’Hotel Ergife. Questo percorso in due tempi non era dovuto, come molti hanno interpretato, alle divisioni emerse al Palazzo dei Congressi sulle proposte del nome del partito, del Presidente e dei Luoghi di donne. Era un percorso previsto dal Coordinamento nazionale sulla base della bozza di Statuto definita, che prevedeva l’80% delle designazioni nel Cpn dalle Federazioni e solo il 20% dei componenti eletti invece dal Congresso. Per comporre gli organismi dirigenti occorreva che il Congresso approvasse prima però lo Statuto. Da qui i due passaggi. Nel primo viene approvato lo Statuto, che conteneva ovviamente anche le proposte del nome e l’istituzione del Presidente, nel secondo passaggio vengono eletti invece gli organismi dirigenti. Tra il primo e il secondo passaggio si svolgono anche la seconda parte dei Congressi di Federazione, che eleggono anche loro gli organismi dirigenti federali e designano i propri rappresentanti nel Cpn. Fu dunque un percorso congressuale molto complesso, che scaturiva dalla volontà di garantire che gli organismi dirigenti fossero composti in grande maggioranza dai territori. Il concetto della rifondazione comunista come processo partecipato dal basso trovava così proprio nello Statuto alcune prime significative risposte. E proprio le rappresentanze territoriali diedero la maggioranza a Cossutta rispetto a Garavini, che poteva contare su quadri espressione di una parte del ceto politico del Pci. La conferma che fossero questi i rapporti di forza tra i due la si evince dal voto segreto del Cpn sulla elezione del Segretario e del Presidente. Cossutta prese infatti una decina di voti in più di Garavini. La norma dell’80% del Cpn su designazione delle Federazioni viene cancellata da Bertinotti dopo la scissione di Cossutta al V Congresso. Si affermano così gruppi dirigenti in larga base espressione di cooptazioni e di nomine correntizie e di area, esattamente il contrario dello spirito statutario dei primi anni di vita del Prc.

12 Su 1.178 delegati i favorevoli a Partito della rifondazione comunista furono 593, quelli a Partito comunista 396. Ben 189 non si pronunciarono e non votarono nessuna delle due proposte.

13 La discussione sul cambio del nome del partito era in atto da diversi anni nel gruppo dirigente ristretto. Ciò che alcuni dirigenti rimproverarono a Occhetto, anche tra quelli sostenitori della svolta, fu la sua improvvisazione nel realizzarla. Poteva essere preparata in modo diverso e più adeguato, riducendo così ai minimi termini separazioni e scissioni. Attraverso una discussione partecipata e vera sulla natura del nuovo soggetto politico: liberaldemocratico, socialdemocratico, antagonista o portatore di un nuovo progetto socialista come il Pds in Germania.

14 È bene ricordare che la proposta di Fausto Bertinotti Segretario del partito, in sostituzione di Sergio Garavini, fu sostenuta con grande determinazione da Armando Cossutta che chiuse con Lucio Magri un accordo. Aldo Garzia, storica firma de «il manifesto» e collaboratore di Bertinotti nella rivista «Alternative per il socialismo» sostiene, come ricorda Salvatore Cannavò nel suo libro La rifondazione mancata, che fu un’idea congiunta di entrambi. Non veritiera è invece la ricostruzione di un Serri che si contende con Magri la primogenitura della proposta. Solo una parte minoritaria della sua area, guidata da Guido Cappelloni, il gruppo di «Comunisti oggi» (Luigi Vinci escluso), una parte di Dp, dirigenti di primo piano come Ersilia Salvato e Antonino Cuffaro, o quadri provenienti dall’area berlingueriana, come Bianca Braccitorsi, Francesco Speranza, Giuseppe Tarantino, Pier Luigi Pegolo, si opposero in vario modo alla proposta. Comunque lo schieramento pro o contro Bertinotti era trasversale alle tre mozioni presentate al II Congresso. La prima mozione, che prese il 70%, fu votata da Cossutta, Bertinotti, Magri, Garavini, Cuffaro, Serri, Castellina, Pettinari, Crucianelli, Vendola, Diliberto, Rizzo, Giordano, Grassi e Cappelloni (sono a proposito inesatte alcune ricostruzioni storiche, come quella di Simone Bertolini, che è tra l’altro una delle più ricche di informazioni, Rifondazione comunista, Il Mulino, 2004, e di Salvatore Cannavò, che lo collocano erroneamente nella terza mozione). La seconda mozione, un “correntone di sinistra”, che prese il 20%, fu sostenuta da Bacciardi, Ferrando, Maitan, Ferrero. La terza mozione, infine, che raccolse il 10% dei voti, fu sottoscritta da Salvato, Braccitorsi, Belillo, Vinci, Sorini, Favaro, Giannini, Masella, Valentini e da un gruppo di romani tra cui Steri e Mordenti.

15 Cossutta e Bertinotti ritengono non più praticabile la linea di un accordo programmatico uscita dal II Congresso, mentre Garavini e Magri reputano irresponsabile volere le elezioni a breve e chiedono di investire i gruppi parlamentari all’interno di un accordo di programma e di un governo di centro-sinistra stabile. Nella riunione della Direzione del 19 gennaio 1995 il dissenso esplode. Una proposta di mediazione di Magri viene respinta. Nei gruppi parlamentari la spaccatura è ancora più netta. Il 22 gennaio viene convocato il Cpn che approva a larga maggioranza la linea Cossutta-Bertinotti. Ma una parte dei gruppi parlamentari non si rimettono alle decisioni degli organismi dirigenti: 16 dei 39 deputati e 6 degli 11 senatori rompono la disciplina di partito e votano il “rospo”: il governo Dini. La scissione verrà consumata il 24 giugno, quando 25 dirigenti nazionali, tra cui Garavini, Magri, Serri, Castellina, Crucianelli, Pettinari, lasciano il partito. Quasi tutti costituiranno la formazione dei Comunisti unitari che avrà breve vita, per confluire successivamente nel Pds. Ma il dissenso è molto più diffuso. Spiccano tra i dissidenti che decidono di restare nel Prc i nomi di: Nichi Vendola, Franco Giordano, Milziade Caprili.

16 Si tratta del Cpn del 4-5 luglio del 1998 dove viene formalizzata la linea che porterà alla rottura con il primo governo Prodi. La tesi di Bertinotti è che la permanenza del Prc nella maggioranza di governo sta producendo un appannamento nella percezione dell’autonomia del partito, che rischia così di omologarsi. La mozione di Bertinotti ottiene la maggioranza con 188 voti, su 332 presenti al Cpn, pari al 56,6%. La mozione di Cossutta, contraria alla rottura, ottiene 112 voti, pari al 33,7%. La mozione di Ferrando, che si distingue dalle altre due pur essendo favorevole all’uscita dalla maggioranza, ma vuole dare una “sponda” a Cossutta, ottiene 24 voti, pari al 7,2%. A proposito della “sponda” data da Ferrando alla posizione di Cossutta, recentemente ho potuto leggere i “Diari” di Severino Galante relativi a quel periodo e ho appreso che Franco Grisolia, braccio destro allora di Ferrando, partecipava alle riunioni di Cossutta per preparare la conta nel Cpn. Infine, la mozione dei “pontieri” di Patta, un gruppetto di sindacalisti, ha appena 5 voti, pari all’1,5%. Il giorno successivo Cossutta si dimette da Presidente del partito e avvia le procedure della scissione giustificandola che la maggioranza formatasi al III Congresso del partito due anni prima non esiste più, anzi è capovolta. Nella votazione è pertanto decisiva l’area della rivista «l’Ernesto» di Cappelloni, Grassi, Sorini e Pegolo, che si schiera con il Segretario. L’area è formata da cossuttiani in rotta con il neocossuttismo di Cossutta, Diliberto e Rizzo, e dispone di un “pacchetto” di una cinquantina di voti nel Cpn e controlla regioni come l’Emilia Romagna, le Marche, la Calabria e la Sardegna e importanti Federazioni come Milano, Torino, Bologna e Cagliari. Altri due ex cossuttiani, componenti della Segreteria nazionale, Aurelio Crippa e Graziella Mascia, si schierano con Bertinotti.

17 Il gruppo dei giovani di «Interstampa» era composto da: Gianni Favaro, Marco Rizzo, Mauro Gemma, Luca Corsi, Mauro Cimaschi, Fausto Sorini, Graziella Mascia, Giorgio Bergonzi, Dario Marini, Leonardo Masella, Claudio Grassi, Fosco Giannini, Leonardo Caponi, Alessandro Leoni, Katia Belillo, Orfeo Goracci, Franco Iachini, Pino Sgobio, Salvatore Dubla e Sandro Valentini. Non più giovani ma in stretto rapporto con il gruppo operavano: Sirio Sebastianelli, Sergio Ricaldone, Aurelio Crippa, Giovanni Bacciardi (che uscì dal Prc su posizioni di sinistra, prima della scissione di Cossutta) e Luigi Marino. Di questi solo Corsi, Bergonzi, Marini, Caponi, Belillo, Sgobio e Marino seguirono Cossutta nel Pdci. Occorre dire che la prima incrinatura nell’area cossuttiana avviene subito dopo il XVIII con due scissioni: quella di Arnaldo Bera, Norberto Natali e Mauro Cimaschi che fondano la rivista “Nuova Interstampa” tentando di collegarsi con la formazione marxista-leninista del Pcd’I di Fosco Dinucci e al gruppo romano di “Radio proletaria”; l’altra, più corposa, sarà guidata da Sorini, Rizzo, Masella, Giannini e Leoni, che daranno vita con Vinci e la sua area alla rivista «Comunisti oggi». Queste separazioni indeboliscono la sinistra della componente cossuttiana. A Roma, in particolare, ci sarà un duro scontro, che durerà fino alla nascita del Movimento per la rifondazione comunista, tra quella parte della componente sostenuta da Cossutta e Cazzaniga, guidata da Olivio Mancini, Dino Fiorello e Luigi Arata e il grosso dei quadri di sezione che, pur restando formalmente nella componente, svilupperanno una intensa attività politica, come è detto nella nota 5. Tra il I e il II Congresso del Prc il gruppo dei giovani che si erano trovati attorno alla rivista «Interstampa», come ricorda Cannavò nel suo libro La rifondazione mancata, è da Cossutta completamente fatto fuori dai vertici del partito, tolte alcune eccezioni, in particolare di Rizzo, che si era organicamente collegato a Lucio Libertini, e di Aurelio Crippa e Graziella Mascia. A conferma di questa scelta riporto l’episodio a conclusione della seconda fase del Congresso costitutivo, gennaio 1992, che mi ha coinvolto direttamente. Cossutta per essere eletto Presidente viene a patti con Garavini sulla composizione della Direzione Nazionale. Sacrifica così sull’altare del compromesso una parte consistente della sinistra della sua area: Bacciardi, Favaro, Valentini e Braccitorsi, che si era avvicinata moltissimo a lui. Cappelloni, in disaccordo con Cossutta, riesce a tutelare il solo Diliberto, che considerava un quadro di qualità, anche del quale Garavini aveva chiesto la testa. Cossutta si giustificò affermando che era stata una scelta dolorosa, una necessità per chiudere unitariamente il Congresso. Certamente Garavini era fortemente determinato a depennare dalla Direzione Nazionale questi quadri storici dell’area cossuttiana, ma è anche vero che poco o nulla fece Cossutta per tutelarli, ben contento di ottenere con un colpo due risultati: chiudere un accordo unitario con Garavini e liberarsi di una parte dei suoi che gli ponevano troppi problemi. Resta il fatto che dopo questo episodio la sinistra cossuttiana avvia un percorso di separazione dal leader dell’area fino a riorganizzarsi, con il gruppo di «Comunisti oggi» e alcuni quadri dell’ex due, nell’area de «l’Ernesto». Personalmente pagai in quel momento due volte dazio: verso Cossutta, per essere stato tra i principali animatori del movimento dei Comitati per la rifondazione comunista, verso Garavini, che mi riteneva il responsabile delle azioni di aver fatto suonare Bandiera Rossa e di aver fatto portare da una ragazza sul palco un mazzo di fiori a conclusione dell’intervento di Cossutta nella prima fase costitutiva del Congresso del partito. Tutti i delegati scattarono in piedi e applaudirono e anche gli avversari che non volevano Cossutta Presidente del partito dovettero alzarsi e applaudire cantando l’inno con il resto dell’assemblea. Con una magistrale regia del Congresso e giocando sull’emotività Cossutta fu consacrato Presidente. Mi ricordo che nei giorni successivi Garavini in un incontro riservato mi disse: «Per quello che hai fatto al Congresso te la farò pagare». E così fu.

18 Il presente articolo risale al giugno 2011 [ndr].


Inserito il 11/01/2024.

Armando Cossutta (1926-2015) e Guido Cappelloni (1925-2012).

Autrice della foto: Bruna Polimeni.

Fonte della foto: https://immaginidelnovecento.fondazionegramsci.org/photo/detail/IT-GRAMSCI-FT0001-0042421/armando-cossutta-e-guido-cappelloni

Polemiche sulla storia del PRC

Non solo Cossutta
Da dove partire per ricostruire la storia di Rifondazione Comunista

di Guido Cappelloni

Guido Cappelloni fu a lungo animatore e organizzatore della “corrente” cossuttiana all’interno del PCI, fu fiero oppositore della deriva liberaldemocratica del partito che portò alla svolta occhettiana della Bolognina, sfociata infine nella scissione tra Partito Democratico della Sinistra e Rifondazione Comunista.

Lo scritto che presentiamo rappresenta la Prefazione al volume di Alessandro Valentini La vecchia talpa e l’araba fenice (Napoli, La Città del Sole, 2000), che ricostruisce la storia della fondazione del PRC contestando un tentativo dei fratelli Oliviero e Alessio Diliberto (La fenice rossa, Roma, Robin Edizioni, 1998) di presentare il gruppo “cossuttiano” come un monolite e Armando Cossutta come portatore di un disegno strategico lineare che va dallo “strappo” di Enrico Berlinguer alla fondazione del PRC.

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Prefazione al volume di Alessandro Valentini

La vecchia talpa e l’araba fenice

(Napoli, La Città del Sole, 2000)


di Guido Cappelloni


Credo si debba essere grati ai fratelli Diliberto. Essi hanno pubblicato «un “volumetto”, La fenice rossa, modesto, superficiale e anche storicamente inesatto». In esso sono contenute informazioni molto approssimative, vistose omissioni, vere e proprie falsificazioni.

Queste sono le caratteristiche essenziali dell'opera dei fratelli Diliberto.

L'impressione che se ne ricava è che essi l'abbiano essenzialmente scritta per fare l'esaltazione acritica di Armando Cossutta, presentato senza alcun rispetto per la storia, come il portatore di un disegno strategico lineare, come un esponente di primo piano della sinistra storica del PCI, come il capo mai discusso ed unico della cosiddetta corrente cossuttiana, come il mirabile costruttore del Partito della Rifondazione Comunista. La storia vera è molto più complessa e popolata di personaggi che hanno avuto un ruolo altrettanto di primo piano. Penso, uno per tutti, a Gian Mario Cazzaniga, principale estensore della mozione Per una democrazia socialista in Europa presentata al XIX Congresso del PCI. Con lui – esponente certamente di primo piano della corrente cossuttiana – Armando Cossutta ebbe scontri furibondi solo in parte legati alle posizioni operaiste sostenute da Cazzaniga. Per lo più, Cossutta era preoccupato che nessun intelligente e brillante intellettuale potesse rubargli la scena o mettere a nudo il tatticismo pressoché assoluto delle sue tesi. Così quando le posizioni di Cazzaniga non coincisero più con quelle di Cossutta cominciò uno scontro molto duro che condusse i due alla rottura.

Del resto, questo modo di affrontare la dialettica con i compagni è tipicamente “cossuttiano”. Io stesso ebbi modo di sperimentarlo praticamente sulla mia persona, senza alcun stupore in verità, quando, non condividendo le sue scelte al II Congresso del PRC, espressi molto chiaramente il mio dissenso: si originò uno scontro, a tratti anche sul piano personale, che ha condotto alla conclusione di ogni rapporto. È bene forse ricordare che conosco Cossutta ed ho collaborato con lui per oltre 30 anni, anche in periodi e frangenti molto impegnativi, ma non mi sono mai sentito suo amico: collaboratore, alleato, ma niente di più. Per questo non sono rimasto stupito del suo atteggiamento: solo con la sua famiglia ha rapporti autenticamente profondi, con gli altri, con tutti gli altri i rapporti sono più o meno lunghi ma sempre formali. Si allea e collabora con chiunque finché gli è utile per il perseguimento dei suoi obiettivi; cessa ogni rapporto se questa utilità viene meno, pronto a tornare sui suoi passi se ne ha nuovamente bisogno.

D'altra parte, anche sulla costruzione del Partito della Rifondazione Comunista, la storia narra cose diverse dalla leggenda dei Diliberto. I protagonisti principali furono tanti, anche a livello centrale. Penso a Sergio Garavini, senza il quale il PRC non sarebbe stato neanche immaginato (era evidente infatti per tutti noi cosiddetti “cossuttiani” che solo Garavini avrebbe potuto essere il segretario del nuovo partito e che, comunque, non poteva esserlo Cossutta) ed a Lucio Libertini che fu un grande animatore del movimento prima e del partito poi. Dunque, nessuna esclusiva per Cossutta, anzi. Cazzaniga, all'indomani del XX Congresso, dovette pagarmi una cena in un ristorante romano di alto livello avendo perso con me una scommessa: sosteneva che, alla fine, Cossutta sarebbe entrato nel PDS nel quale avrebbe costituito una corrente interna.

Anche tra i suoi più stretti collaboratori di quell'epoca, non c'erano idee chiare su cosa volesse fare “l'Armando” dopo Rimini. Bando dunque alle ricostruzioni di comodo, il ruolo di Cossutta fu certamente molto importante per la nascita del PRC, ma all'interno di una dialettica e di una pluralità di figure che ebbero altrettanti meriti e altrettanta importanza.

Perché allora dico che si deve essere grati ai fratelli Diliberto? Perché ritengo che, se questo volumetto non fosse stato pubblicato, forse Sandro Valentini non avrebbe avuto lo stimolo sufficiente per scrivere questo libro.

Un libro che, a ragione, deve essere considerato una ricostruzione seria, attenta e molto documentata della gestazione e della nascita del PRC. D'altra parte, l'opera dei fratelli Diliberto soffre di un difetto di fondo: è basata solo sul “sentito dire”, visto che né l'uno né l'altro hanno vissuto gli avvenimenti di cui narrano; entrambi sono arrivati quando era tutto fatto: Rifondazione Comunista era già in gestazione.

Ricordo che, dopo il XIX Congresso del PCI (allora ero membro della segreteria della terza mozione insieme a Cossutta e Cazzaniga), Oliviero Diliberto venne da me a Roma ad offrirsi di passare dalle fila della mozione due (quella di Ingrao per intenderci) alle nostre. Non era mai stato, fino ad allora, vicino alle nostre posizioni politiche, né aveva mai partecipato ad alcuna nostra iniziativa (penso alle riviste, alla Associazione Culturale Marxista). Mi fece una buona impressione, non condivisa da tutti. Con il passare del tempo stringemmo molto i rapporti e divenne il nostro referente per la Sardegna, eliminando – spesso con metodi non troppo ortodossi – ogni concorrente che si fosse mai affacciato sulla scena regionale. A questo proposito vale la pena di citare un esempio molto significativo. Mi presentò un compagno del PCI sardo, Walter Piludu, che, fra l'altro, era stato presidente della Provincia di Cagliari; lo accolsi ben volentieri nella nostra corrente: ricordo che lo feci conoscere anche a Cossutta. Ma quando, successivamente, Diliberto si rese conto che Piludu poteva essere un suo pericoloso concorrente in Sardegna, gli fece una guerra spietata senza esclusione di colpi (anche colpi bassi, e che colpi bassi, vero Oliviero?). Arrivò perfino, per impedirgli di essere eletto nel 1994 deputato del PRC, a favorire e a sostenere la candidatura di tal Sarritzu che, come era largamente prevedibile, ci lasciò dopo pochi mesi dalle elezioni. Non so cosa avrebbe fatto Piludu se fosse stato eletto; era comunque di ben diverso spessore di Sarritzu e non sarebbe andato via dal PRC per inadempienze finanziarie.

Cossutta, per lungo tempo, non ha condiviso questo mio giudizio positivo su Diliberto, tanto che dovetti faticare non poco con lui perché lo inserisse nella Direzione Nazionale del PRC. Solo in tempi più recenti ha cambiato idea. Lo ha fatto probabilmente quando si è pienamente reso conto che Diliberto gli somigliava molto.

Molto diversa la situazione per Valentini che narra ciò che sa, che ha visto e vissuto.

Senza falsa modestia, credo di essere stato uno dei protagonisti della lotta contro la deriva moderata del PCI e della nascita del PRC. Ed è proprio sulla base di questa mia esperienza che ritengo di poter affermare che l'opera di Valentini è il primo serio tentativo (a mio avviso ottimamente riuscito) di ricostruzione storica della nascita del PRC.

Con ciò non voglio dire che l'opera di Valentini sia ineccepibile e completa.

Ritengo, ad esempio, che il resoconto degli avvenimenti politici interni al PCI di quegli anni in città come Milano, Torino, Firenze e Napoli o in regioni come l'Emilia Romagna, l'Umbria e le Marche sia un po' troppo sommaria e possa dunque apparire sottovalutato il ruolo che ebbero tanti compagni che operavano in quelle realtà. Vorrei citarne uno per tutti: il caro compagno Pino Sacchi che a Milano (insieme ai carissimi e compianti compagni Alessandro Vaia e Arnaldo Bera) fu il perno attorno al quale ruotò e si organizzó l'opposizione al gruppo dirigente nazionale del PCI. Sacchi era spesso a Roma dove organizzavamo incontri periodici a casa di Cossutta per fare il punto della situazione ed il suo lavoro (non solo a Milano ma in tutto il Nord Italia) fu di grande stimolo in sede locale ed in sede nazionale. Potrei citarne tanti altri di ogni parte d'Italia che più o meno visibilmente hanno dato un fondamentale contributo ad organizzare quella resistenza alla liberaldemocratizzazione del PCI che ci ha consentito di dare vita al PRC.

Tuttavia, la sottovalutazione che appare nell'opera di Valentini di questi fenomeni locali è facilmente spiegabile: Valentini operava principalmente a Roma ed è dunque del tutto comprensibile che assegni un ruolo centrale ai compagni di Roma e sfumi sulla situazione di altre parti d'Italia delle quali aveva una conoscenza indiretta e parziale (la ricostruzione storica – questo si propone Valentini – non può basarsi sul “sentito dire” senza diventare celebrazione).

È auspicabile che tale limite, se così lo si può definire, venga al più presto superato dai compagni che hanno operato in altre zone d'Italia e che si possa arrivare ad avere un quadro ancora più completo ed esauriente della nascita del PRC e della complessa e per certi versi esaltante storia che l'ha preceduta.

Lo scritto di Valentini, oltre ad essere ampio e documentato, sfata finalmente una leggenda ancora oggi dura a morire: che la corrente cossuttiana sia sempre stata un'area compatta in cui c'era un capo indiscusso e poi tanti altri gregari ridotti a puri esecutori.

Valentini ricorda come non sia mai stato così: all'interno di quell'area si è frequentemente sviluppato un forte dibattito che ha portato anche a scontri molto duri e che non sempre vedevano Cossutta vincitore o comunque sostenitore delle posizioni vincenti.

Una riprova di tutto ciò la si ricava anche dalla constatazione che al momento della scissione dell'ottobre del 1998, la parte maggioritaria dell'originario gruppo dirigente dell'area cossuttiana non ha seguito Cossutta, anzi lo ha duramente contestato ed è rimasta nel PRC. Penso, oltre che a me stesso, a Grassi, Valentini, Sorini, Masella, Favaro, Crippa, Mascia, Casati, per citare i protagonisti nazionali della corrente cossuttiana prima ancora che esistesse in quanto tale: hanno seguito Cossutta soltanto pochissimi compagni della prima ora; la grande maggioranza è costituita da compagni che non ne hanno fatto mai parte, o che di quell'area avevano un ruolo marginale, come ad esempio Marco Rizzo, o sono arrivati quando quasi tutto era già compiuto, come – appunto –Oliviero Diliberto.

Ma, anche prima della scissione, e fin dall'inizio della costruzione della corrente, le contestazioni – anche durissime – c'erano sempre state e non poche volte Cossutta era stato costretto a fare buon viso a cattiva sorte accettando le decisioni prese collegialmente.

Del resto, ben tristi natali avrebbe il PRC se si fosse originato da una specie di setta religiosa con un capo indiscusso e indiscutibile e non già intorno ad un progetto politico che, inevitabilmente, suscita divergenze di opinioni, dibattito, dialettica.

Nella seconda parte del suo lavoro, Valentini affronta dei temi estremamente ardui e lo fa consapevole della difficoltà che ha di fronte.

Il PRC, così com'è oggi, con tutta la sua fragilità teorica, è veramente la sede possibile ed adeguata della rifondazione intesa come scelta strategica?

È limitativo per questi obiettivi il fatto di avere un gruppo dirigente non omogeneo, naturale conseguenza della eterogeneità delle provenienze e delle culture presenti nel partito? O è questa piuttosto una ricchezza che non siamo ancora stati così evoluti da saper sfruttare appieno?

Quando sapremo e potremo finalmente compiere un'analisi approfondita delle cause della sconfitta del movimento operaio, dalla quale partire per rielaborare una nuova strategia che ci consenta di ricominciare a respirare a grandi sorsi ed a muoverci a lunghi passi?

Quando sapremo emanciparci dai tempi della cronaca e vivere una nuova stagione in cui l'unità di misura sia quella della storia e la cronaca riprenda il suo ruolo?

Naturalmente quelli di Valentini sono poco più che titoli di capitoli che andrebbero adeguatamente sviluppati sia per quanto riguarda l'analisi, sia per indicare le prospettive della trasformazione.

Tuttavia egli fa un primo tentativo di approfondimento, ad esempio quando parla del territorio metropolitano come nuova dimensione del contesto produttivo, o del fatto che il conflitto di classe non è solo nella fabbrica, ma si è esteso ed ha in parte cambiato volto in un sistema capitalistico che, vitale ed attivo dopo la sconfitta del movimento operaio, reinventa nuove ricchezze e soprattutto nuove povertà.

Sono tematiche complesse di cui è impossibile dire cose sensate nelle pochissime pagine di una prefazione, ma proprio grazie al fatto che Valentini esprime le sue opinioni con enfasi, al limite della provocazione, è ragionevole sperare che altri compagni, magari in polemica con lui, affrontino questi temi e li approfondiscano e si inneschi finalmente quel meccanismo grazie al quale, in modo non accademico, non in convegni o seminari, si ricominci un dibattito ormai da troppo tempo soffocato dall'emergenza della quotidianità: ricominciamo a chiederci chi siamo, dove siamo, dove andiamo.

La guerra in Jugoslavia ha confermato la drammatica urgenza di trovare la risposta a questi quesiti, perché non si diano soltanto spiegazioni storiche ma, soprattutto e subito, si attuino soluzioni politiche. Non dobbiamo lasciare la tribuna agli agenti di borsa che leggono il Mibtel come si legge nei fondi di caffè: l'umanità è percorsa da grandi travagli ed è dovere dei comunisti dare risposte, indicare una via. Qualsiasi stimolo in questa direzione va accolto positivamente e messo rapidamente a frutto.

Anche per questo il lavoro di Valentini è estremamente meritorio.


Guido Cappelloni


(Tratto da: Guido Cappelloni, Prefazione al volume: Alessandro Valentini, La vecchia talpa e l’araba fenice, Napoli, La Città del Sole, 2000, pp.  9-14).


Inserito il 28/12/2023.

Dal sito «umbrialeft.it»

Un ricordo di Guido Cappelloni

di Leonardo Caponi

Guido Cappelloni (1926-2012), dirigente comunista nelle Marche, fu deputato del PCI dal 1976 al 1983, fu membro del Comitato centrale del partito e ricoprì vari incarichi a Botteghe Oscure, tra cui quello di tesoriere. Al XVI Congresso del PCI presentò insieme ad Armando Cossutta degli emendamenti in contrasto con il cosiddetto “strappo” operato da Enrico Berlinguer nei confronti della spinta ideale derivante dalla rivoluzione sovietica dell'ottobre 1917.

Nel 1991 fu tra i principali esponenti del PCI a dar vita al Movimento e poi al Partito della Rifondazione Comunista, di cui fu per diversi anni tesoriere.

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Un ricordo di Guido Cappelloni


di Leonardo Caponi


PERUGIA – Spero che qualcuno, il suo partito, i compagni più vicini, si facciano carico, tra qualche tempo, di organizzare una commemorazione di Guido Cappelloni, e anche una riflessione sulla sua opera, più esaustiva di quella, necessariamente frettolosa, imposta dalla sua morte improvvisa e dalle proibitive condizioni climatiche.

Il nome di Guido Cappelloni, probabilmente, risulterà non molto conosciuto a molti dei militanti attuali, specie i più giovani, di Rifondazione Comunista, della sinistra cosiddetta radicale e dei “movimenti”. Era per carattere e formazione politico culturale restio ad apparire sulla scena e preferiva il lavoro discreto e meticoloso dietro le quinte che però, come il primo, è importante per il successo di ogni impresa.

Guido ha avuto un ruolo rilevante nella battaglia per mantenere una presenza organizzata dei comunisti in Italia, dopo lo scioglimento del PCI. Lo ha fatto figurando tra i fondatori di Rifondazione Comunista dopo il Congresso di Rimini, preparandone la nascita nella lunga battaglia “di corrente” dentro il vecchio partito e lavorando, per una fase in posizione di grande responsabilità, per lo sviluppo e il mantenimento di quella che era stata anche una sua creatura. La “perla” della sua attività di Tesoriere di PRC fu, senza dubbio, l’acquisto della sede di via del Policlinico.

Guido aveva avuto ruoli importanti anche nel PCI. Segretario di una organizzazione territoriale, la Federazione di Ascoli, parlamentare per due legislature e poi, “chiamato”, come si diceva allora, presso la Direzione, era stato responsabile della Sezione “Ceti medi” prima e Amministratore nazionale successivamente, durante la segreteria di Enrico Berlinguer. Proprio quest’ultimo incarico che era suo motivo di orgoglio, che giudicava (ed era stato) il più importante tra tutti, era però destinato ad incrociare, per così dire, in senso avverso la sua vita politica seguente e, come vedremo, a condizionarne la figura.

La battaglia di corrente dentro il PCI durò oltre un decennio. Se Cossutta ne fu il leader politico, Cappelloni ne costituì l’infaticabile e preciso organizzatore. Ricordo le telefonate serali di Guido che, come me, contattava un gruppo di compagni in tutta Italia che costituivano, regione per regione e nelle città maggiori, l’”ossatura” della corrente cosiddetta “cossuttiana”. Telefonava di sera, dopo le nove, perché a quell’epoca la Sip applicava tariffe inferiori. Lo faceva da casa sua, anche per ragioni di riservatezza e, quantunque ridotto, quelle telefonate, numerose, lunghe e frequenti, avevano un costo del quale credo non sia mai stato rimborsato.

Venne fuori la storia dei “soldi da Mosca”, con la corrente “cossuttiana” accusata di avere ricevuto soldi dai paesi dell’Est. Era un attacco finalizzato a stroncare sul nascere il Movimento per la Rifondazione Comunista e la stessa Rifondazione. Proveniva dall’esterno, ma trovò posizioni tiepide, per ragioni di lotta politica, in settori ed esponenti di primo piano della nuova formazione che ritenevano necessario marginalizzare la componente più legata alla storia del PCI e al suo rapporto con l’Unione Sovietica. Cappelloni non negava naturalmente l’esistenza di finanziamenti dell’URSS al PCI, ma l’inquadrava, come era giusto, in un contesto storico diverso.

Egli riusciva a mantenere un atteggiamento sereno (e un aspetto sorridente) anche nelle fasi più critiche. Ricordo che una volta ruppe il riserbo che gli era proprio, specie su queste vicende, raccontando ad alcuni di noi di come i soldi provenienti da Mosca (anzi, in realtà da Praga, su ordine di Mosca) venissero “ritirati” da lui (o dall’Amministratore di turno) alla Città del Vaticano in forma di danaro “liquido”, contenuto in una borsa. Della consegna naturalmente non rimaneva traccia e il rappresentante del PCI avrebbe potuto tranquillamente appropriarsi delle somme e usarle, in tutto o in parte, a titolo personale. Così, diceva, funzionava all’epoca quella che veniva chiamata la “solidarietà internazionalista”. Il più forte aiutava il più debole.

A sostegno di questa tesi raccontava anche come per anni egli, nelle vesti di Amministratore del PCI, avesse pagato l’affitto della sede dell’ambasciata del Vietnam in Italia, al centro di Roma, in piazza Barberini, al costo di 3 milioni e mezzo al mese, perché quel povero paese, martoriato dalle bombe americane, non se lo poteva permettere.

Credo che queste vicende abbiano avuto un peso, nella storia di Rifondazione Comunista, per negare a Guido i riconoscimenti che avrebbe meritato o più riconoscimenti di quelli che ha avuto.

E credo che questo non sia giusto! Perché sull’operato di Cossutta, di Guido, della corrente cosiddetta “cossuttiana” o “filosovietica”, si possono avere opinioni diverse, critiche o molto critiche, che sarà poi in definitiva la storia a giudicare, ma una cosa è certa: senza di loro non ci sarebbe stata Rifondazione Comunista!; e perché innovare è giusto e necessario, ma non provando vergogna, nascondendo o recidendo le radici del proprio passato!

Guido aveva una grande umanità. Ho sempre pensato a lui come a un padre. Non è facile trovare in un politico di un certo livello il sentimento: passione sì, ma il sentimento è merce più rara! Guido lo aveva, tant’è che nella drammatica rottura con Armando Cossutta (sui cui motivi e sulle cui ragioni politiche non voglio in questa sede avventurarmi, lasciando anche questa questione ad altre occasioni ed alla storia) un peso rilevante lo ha avuto l’incrinatura o addirittura l’assenza (lamentata da Guido) di un rapporto personale e umano.

Lo saluto con affetto, ricordando di lui lo sguardo aperto e la faccia sorridente che gli ho rivisto addosso poco tempo fa al Congresso del suo partito e che, evidentemente, ha conservato fino all’ultimo. Ciao Guido e grazie per quello che ci hai saputo dare!


16 febbraio 2012

Leonardo Caponi


(Tratto da: Leonardo Caponi, Addio a Guido Cappelloni, era tra i fondatori di Rifondazione Comunista, in http://www.umbrialeft.it/editoriali/addio-guido-cappelloni-era-fondatori-rifondazione-comunista).


Inserito il 29/12/2023.

Sergio Garavini, Armando Cossutta, Lucio Libertini.

Fonte della foto: http://www.rifondazione.it/primapagina/wp-content/uploads/2020/08/lucio.jpg

Parte del gruppo dirigente del Movimento della Rifondazione Comunista: Paolo Volponi, Lucio Libertini, Armando Cossutta, Ersilia Salvato, Nichi Vendola, Luciano Pettinari.

Fonte della foto: http://www.rifondazione.it/galleria/picture.php?/1285/tags/9-ersilia_salvato

Dalla rivista «Il lavoratore»

Quella grande speranza chiamata Rifondazione

di Sergio Dalmasso

Una breve storia della genesi e dello sviluppo del Partito della Rifondazione Comunista composta dallo storico del movimento operaio Sergio Dalmasso.

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Quella grande speranza chiamata Rifondazione


di Sergio Dalmasso


Prima parte


I difficili anni ’80 del PCI

Vi è chi dice che la fine del PCI dati dalla drammatica morte di Berlinguer (giugno 1984). I suoi funerali, immensi e commossi, ci presentano un popolo, società nella società, che mai più incontreremo nei decenni successivi e vengono sempre paragonati a quelli di Togliatti (agosto 1964), simbolicamente fine di un’epoca.

La segreteria di Alessandro Natta si presenta come di mediazione, di continuità, ma regge con difficoltà le trasformazioni sociali e culturali, l’offensiva frontale del PSI di Craxi, segni di dissenso nello stesso partito, in cui non mancano le accuse al moralismo e alla rigidità di Berlinguer, le aperture alla socialdemocrazia europea, i primi segni di volontà di superamento di nome e simbolo.

La sconfitta elettorale del 1987 riporta il PCI ai livelli degli anni ’60, prima della ondata di lotte e spinte sociali che avevano prodotto i grandi successi del biennio 1974-1976. Viene eletto vicesegretario Achille Occhetto che, nonostante il suo passato “di sinistra”, si caratterizza immediatamente per il “nuovismo”, per il prevalere degli elementi istituzionali su quelli sociali.

Queste caratteristiche emergono, ancora maggiormente, l’anno successivo quando Occhetto diventa segretario e imprime una forte accelerazione alle tendenze “americanizzanti” (simbolica l’attenzione mediatica alle foto in cui bacia la moglie), aprendo la segreteria a una nuova generazione. La cornice “liberal” del nuovo partito porta a una scelta movimentista (pensiero di genere, ambiente, nonviolenza...) che supera la tradizionale attenzione alla centralità del lavoro e ai rapporti di produzione, ad una svolta storiografica che comprende un rovesciamento del giudizio sulla rivoluzione francese, una critica netta alla figura di Togliatti, ad una progressiva apertura alla socialdemocrazia.

In questo quadro, segnato da un netto tentativo di omologazione, dalla certezza che il superamento della “anomalia comunista”, potrà portare a un bipolarismo proprio degli altri Paesi europei, la caduta dei regimi dell’Europa orientale offre ad Occhetto l’occasione per bruciare le tappe. La “svolta” della Bolognina, significativamente annunciata a partigiani, attori di una storica battaglia (così come la perestrojka fu annunciata da Gorbaciov a combattenti della seconda guerra mondiale), sembra la logica conclusione di un processo avviato da tempo, ma incontra, invece, resistenze molto maggiori e al vertice e nella base (nasce l’interessante movimento degli autoconvocati). Se qualche opposizione alla linea maggioritaria era venuta da posizioni “ingraiane” (al congresso del 1986 gli emendamenti di Ingrao e Castellina su pace e nucleare), l’unico tentativo di opposizione strutturata e nel tempo nasce dalla componente “filosovietica” o “cossuttiana” (le virgolette sono d’obbligo). Il primo atto è del dicembre 1981, dopo il colpo di stato di Jaruzelski in Polonia e la dichiarazione di Berlinguer per il quale si è esaurita la spinta propulsiva proveniente dalla rivoluzione sovietica. Cossutta replica: è errato porre URSS e USA sullo stesso piano e dichiarare esaurita la spinta dell’Ottobre sovietico. Quello di Berlinguer è uno “strappo”; negli anni successivi userà l’espressione “mutazione genetica”.

Su queste basi nasce l’agenzia «Interstampa»1, si formano nuclei consistenti in numerose federazioni, vengono presentati alcuni emendamenti al congresso nazionale del 1983, ancor maggiormente a quello del 1986, dove la componente critica lo strappo dall’URSS, la mancanza di una opzione antimperialistica, il rapporto con la socialdemocrazia. Ha un certo seguito l’emendamento che ribadisce che i comunisti operano per il superamento del capitalismo. La strumentazione di questa area va da riviste, «Orizzonti», che vive un breve periodo, «Marxismo oggi» (dal 1987), alla Associazione culturale marxista che raccoglie grandi figure di intellettuali, emarginati dal “nuovismo” del partito. Al congresso del 1989, per la prima volta, è presente un documento alternativo che raccoglie solamente il 4%, ma infrange l’unanimismo che ha sempre accompagnato le assisi comuniste e sindacali.


PDS e Rifondazione

Dopo la dichiarazione di Occhetto, l’opposizione nel vertice del partito è maggiore di quanto avrebbe immaginato, ma durissima è la reazione di parte della base che si sente improvvisamente privata di riferimenti, certezze. Ancor più grave è avere appreso della decisione dalla TV e dai giornali, come testimoniano le lettere all’«Unità»:

Ho pianto tre volte, quando è morta mia madre, quando è morto Berlinguer, quando Occhetto ha detto che non dovevamo più chiamarci comunisti.

Il PCI non si può liquidare: per noi comunisti convinti, il comunismo è una fede radicata nella storia e se ci togliete la falce e il martello, noi lavoratori a chi potremo mai fare riferimento?

Cambiare nome è come cambiare pelle, corpo, cuore.

Occhetto chiede un congresso straordinario che si svolge a Bologna nel marzo 1990: 66% dei consensi alla mozione maggioritaria che apre il processo costituente di una nuova formazione politica (la “cosa”), 30,6% alla mozione Natta, Ingrao, Tortorella, 3,4% a quella cossuttiana. Tutti i presupposti su cui scommette la “svolta” risultano erronei:

- nella nuova formazione politica entreranno molte forze esterne, creando un partito di sinistra plurale;

- in Italia, si formerà un bipolarismo tra una destra moderata e liberale e un centro-sinistra progressista;

- nel mondo, la fine del bipolarismo aprirà un periodo di pace che permetterà di affrontare i nodi sociali e ambientali (è noto il riferimento alla foresta dell’Amazzonia).

L’opposizione ricorda come nessuno di questi punti si stia realizzando ma, nonostante questo, il processo non si arresta. 150.000 iscritt*, sfiduciati, non rinnovano la tessera e non partecipano ai congresssi. Cossutta parla di “scissione silenziosa”. Il congresso di scioglimento del partito, a 70 anni dalla fondazione, si svolge a Rimini dal 31 gennaio al 3 febbraio 1991. Nuovo nome: Partito democratico della sinistra (PDS) e nuovo simbolo: una grande quercia alla base della quale vi è il tradizionale logo del PCI.

La minoranza decide di unificarsi e usa il significativo titolo di Rifondazione comunista, ma è penalizzata dai tanti abbandoni e dalla scelta per la maggioranza di Tortorella, Ingrao… che decidono di aderire al PDS (“Vivere nel gorgo”). Qualche seguito alla mozione, intermedia, di Antonio Bassolino.

Al termine del congresso, prima che venga proclamato lo scioglimento del PCI e venuti meno gli appelli all’unità e alla federazione, novanta delegat* su 1260 lasciano il salone principale, si riuniscono in un’aula laterale, colma di bandiere del vecchio PCI, dove Garavini, Cossutta, Serri, Libertini, Salvato annunciano la nascita del Movimento per la Rifondazione comunista. Gli stessi, con Guido Cappelloni e Bianca Bracci Torsi, confermano, davanti a notaio, con atto pubblico, la continuità del partito comunista. Nessuno scommetterebbe sulle dimensioni che questa formazione assumerà. Il gruppo dirigente PDS guarda quasi con favore il distacco dell’ingombrante ala nostalgica e filosovietica. La rottura immediata serve a negare la filiazione diretta tra PCI e PDS, a far leva sull’elemento simbolico, sul patriottismo di partito contrapposto al discorso sull’unità, sulla fiducia nel gruppo dirigente, sulla volontà di mantenere unita una comunità, usato fortemente dal gruppo dirigente.

Rifondazione nasce sulla spinta e la volontà di un popolo comunista non omologato, su esigenze anche diverse, dal ricostruire il partito di Togliatti e Berlinguer alla necessità di ricercare direttive e metodi diversi, capaci di declinare le spinte di classe con le grandi emergenze (ambientalista, pacifista, di genere, altermondialista…) e si trova, da subito, a doversi misurare con una situazione modificata in peggio da:

- crisi frontale del movimento comunista ed esaurimento della stessa socialdemocrazia;

- crisi del paradigma antifascista e della discriminante verso il MSI, a livello culturale, politico, storiografico, di senso comune;

- crollo del sistema della “prima repubblica”, con gli scandali di Tangentopoli;

- sostituzione del sistema elettorale maggioritario a quello proporzionale, giudicato responsabile di ogni difficoltà e di ogni male.

Rifondazione deve navigare tra queste difficoltà e questi problemi inediti, a iniziare dal tentato colpo di stato in Russia, nell’agosto 1991, sul quale si registrano posizioni divergenti nel gruppo dirigente, mediate da Garavini, sino alla diversa interpretazione dei rapporti con le altre formazioni di sinistra (Verdi, Rete, sinistra PDS) e dell’identità di partito. Alcuni contrasti emergeranno nel congresso costitutivo (Roma, dicembre 1991), ma torneranno nella gestione successiva che pure produrrà risultati positivi, dalle elezioni del 1992 (5,6% alla Camera, 6,5% al Senato), alle amministrative del 1992, al tesseramento (superato il numero di 120.00 adesioni, sino alla caduta di Garavini - luglio 1993).

Questa prima fase, pur nella sua eterogeneità, resta una delle migliori di Rifondazione: volontà di confrontarsi, di capire, fine delle certezze, desiderio di ricominciare, di non arrendersi, certezza di poter offrire alla sinistra, non solamente italiana, una forza politica non minoritaria, legata alla propria storia, ma non dogmatica.

Possiamo dire: Ci abbiamo provato. Nonostante tutto, proviamoci ancora.


Seconda parte


Una grande speranza

Lo scioglimento del PCI, dopo 70 anni, vede nascere il PDS e Rifondazione comunista che, sovvertendo tutte le previsioni raggiunge una dimensione inattesa e si configura non solamente come piccolo movimento nostalgico.

La sua composizione è varia e articolata: al nucleo “cossuttiano”, costruito in un lavoro di opposizione e organizzativo di anni, si aggiungono settori “ingraiani”, un dirigente sindacale (Sergio Garavini) che nel ’56 fu critico sull’invasione dell’Ungheria e non votò nel 1969 la radiazione del Manifesto, Lucio Libertini il cui antistalinismo data dall’immediato dopoguerra, Democrazia Proletaria che decide il proprio scioglimento nel giugno del 1991, l’ex PdUP, con Lucio Magri, Luciana Castellina e Famiano Crucianelli che aderisce dopo alcuni mesi.

Sono, però, soprattutto prevalenti due elementi: l’enorme adesione spontanea di base di un popolo che tenta di ricostruire una identità svanita negli anni e la necessità di rimettere in discussione certezze, ritenute intoccabili e crollate nel giro di breve tempo (l’URSS, l’infallibilità dei dirigenti, il partito come comunità…) che apre una breve fase di discussione “senza rete”.

I problemi non mancano: diverse sono le proposte organizzative, diverse le letture della realtà internazionale. Quando, nell’agosto 1991, fallisce un tentativo di golpe a Mosca, ma emerge il ruolo dirigente di Boris Eltsin, la mediazione di Garavini è molto positiva, ma non mancano malumori. Al congresso costitutivo (Roma, dicembre) la diarchia Garavini/Cossutta rischia di esplodere. Sotto accusa è l’apertura di Garavini ad altre formazioni di sinistra e a settori rimasti nel PDS, scelta che metterebbe in discussione la identità comunista che è alla base del partito.

Lo scontro si acuisce dopo le elezioni politiche del 1992, quando il PDS non va oltre il 16% e Tangentopoli mette in crisi l’ipotesi di un suo rapporto con i socialisti. Garavini vede nel malessere presente nel partito della Quercia e nell’uscita di Ingrao e Bertinotti l’occasione per proporre una aggregazione più ampia (Ingrao e «il manifesto» parlano di polo della sinistra antagonista).

È l’occasione per l’ala cossuttiana, con forte intervento di Libertini, pochi giorni prima della scomparsa, di proporsi come difesa del partito. Garavini si dimette ed assumerà un ruolo sempre più marginale. Dopo un breve interregno, la scelta per la segreteria cade su Fausto Bertinotti, nella convinzione che sua sia l’immagine esterna, ma che l’apparato, l’organizzazione, i quadri restino nelle mani della componente cossuttiana.

Nell’aprile 1993, il “referendum Segni” contro il sistema proporzionale e a favore del maggioritario ha grande successo. Sul sistema elettorale e sui partiti si fanno ricadere tutte le cause degli scandali, della crisi politico-istituzionale, anche le difficoltà sociali, nella certezza che altro sistema elettorale, con scelta diretta degli eletti, possa risolverli.

Per un paradosso, questo meccanismo spinge Rifondazione a recuperare elementi di unità, non solamente elettorale, con altre forze politiche, motivo delle accuse a Garavini. Nasce, per le elezioni anticipate del 1994, la coalizione dei Progressisti, guidata da Achille Occhetto e travolta dalla “rivoluzione liberale” di Silvio Berlusconi che forma con Lega Nord e fascisti il primo organico governo di destra del dopoguerra.

Il governo regge per pochi mesi e cade sulla riforma delle pensioni, ma anche sulla critica di settori borghesi (si veda il «Corriere della sera»). La scelta va sul ministro di Berlusconi Lamberto Dini. I voti di Rifondazione possono essere determinanti per la sua tenuta, mentre la destra chiede che si torni al voto. «Il manifesto» titola “Baciare il rospo”. Inizia la logica del meno peggio. Una parte dei gruppi parlamentari non segue le indicazioni del partito (voto contrario).

Quando Dini procede alla riforma delle pensioni, la divisione si riproduce. 25 dirigenti, fra cui Garavini, Magri, Castellina se ne vanno, accusando Bertinotti e Cossutta di massimalismo e settarismo, di rottura con la storia del comunismo italiano, di riallacciarsi al massimalismo socialista.

Il problema dell’autonomia o dell’adesione, anche critica, al centro-sinistra, complici i meccanismi elettorali, dividerà Rifondazione in tutta la sua storia e sarà causa di contraddizioni, polemiche, scissioni continue.

Nel 1995 nasce il quotidiano «Liberazione», segno di autonomia rispetto al «manifesto» e a una generica “unità della sinistra”. Nel 1996, complice la divisione fra la destra di Berlusconi e Fini e la Lega, il centro-sinistra di Prodi (l’Ulivo) vince le elezioni. Per Rifondazione, anche grazie all’immagine del segretario, è il miglior dato elettorale (8,6%).

I due anni di governo dell’Ulivo vedono Rifondazione arretrare su molti punti programmatici (dalle finanziarie a Maastricht alla bicamerale), puntare sulla riduzione dell’orario settimanale a 35 ore. Vedono anche accentuarsi le differenze tra i due maggiori dirigenti, la coppia più bella del mondo, già nel 1997, quando l’ipotesi di rottura con il governo rientra, quindi l’anno successivo, quando davanti alla scelta di non votare la Finanziaria, la minoranza legata a Cossutta, soprattutto per l’iniziativa dei suoi due delfini Oliviero Diliberto e Marco Rizzo, decide una nuova scissione e la formazione del Partito dei Comunisti italiani (PdCI), maggiormente ancorato, simbolicamente, culturalmente, organizzativamente alla tradizione togliattiana. Allo slogan Svolta o rottura, agitato da Bertinotti, Cossutta ha sempre replicato: Tirare la corda senza spezzarla e la nascita del PdCI mira a mantenere in vita un governo di centro-sinistra, senza precipitare nel rischio di nuove elezioni. Quella indotta da Bertinotti è una nuova mutazione genetica in una formazione comunista.

Anche il nuovo governo sarà segnato da un deficit di riforme sociali e trasformazioni, oltre che dall’adesione di Cossiga, dalla drammatica guerra contro la Jugoslavia.

Bertinotti ritiene questa rottura (che verrà contraddetta più e più volte) come una nuova rifondazione e dà vita ad un processo di trasformazione del partito, anche se con frequenti ed improvvisi cambi di linea o di accenti.

Nonostante la guerra in Jugoslavia e la consegna del leader curdo Ocalan, nel 2000 Rifondazione, alle regionali, è in alleanza con il centro-sinistra. Crollata al 4% alle europee del 1989, torna al 5% (2% al PdCI). Non in alleanza alle politiche del 2001 (5%) vinte dalle destre che tornano al governo con Berlusconi.

È qui il nodo del ruolo di Rifondazione nel movimento altermondialista. Nelle giornate di Genova (luglio 2001) è fortemente egemone e coglie le novità che emergono dal “movimento dei movimenti”. Oltre ai drammatici scontri e alla morte di Carlo Giuliani, le giornate si ricordano per il grande protagonismo di nuove soggettività politiche, per l’aver messo al primo posto la questione ecologica e quelle del rapporto fra nord e sud del pianeta e di genere.

Vi sarebbero le possibilità per costruire, anche all’interno del bipolarismo maggioritario coatto, una alternativa di sinistra che abbia in Rifondazione il centro e leghi esperienze e storie anche diverse.

Il referendum per estendere l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori alle piccole imprese può costituire elemento di aggregazione. Il risultato è negativo. Il 15 e 16 giugno 1993 vota solamente il 25,7% degli aventi diritto. Si potrebbe fare appello ai 10 milioni di elettori, ipotizzare una articolazione di questi voti per la costruzione di una alternativa politica e sociale.

La scelta di Bertinotti è opposta ed è l’inizio della china degli anni successivi: non vi è uno spazio autonomo, il ruolo del PRC è nel condizionamento del centro-sinistra all’interno del quale deve portare la voce e il peso dei movimenti. Inizia una nuova fase.


Sergio Dalmasso


(Tratto da: Sergio Dalmasso, Quella grande speranza chiamata Rifondazione, in «Il lavoratore», numeri di marzo 2021 e aprile 2021; disponibile ai link: https://www.sergiodalmasso.com/wp-content/uploads/2021/03/Rifondazione-I-difficili-anni-80-del-PCI-Il-Lavoratore-03-2021.pdf e https://www.sergiodalmasso.com/wp-content/uploads/2021/04/Quella-speranza-chiamata-rifondazione-parte-2-aprile-2021.pdf).


Note

1 In realtà «Interstampa» era una rivista (più che un’agenzia) il cui primo numero era apparso già nell’aprile 1981, quasi un anno prima della dichiarazione di Berlinguer sull’esaurimento della spinta propulsiva della rivoluzione d’Ottobre (ndr).

Ambrogio Donini (1903-1991) con Palmiro Togliatti, 28 aprile 1950.

Fonte della foto: https://archivi.polodel900.it/scheda/oai:polo900.it:134779_palmiro-togliatti-e-ambrogio-donini-28-aprile-1950

Dalla rivista «L’Ordine Nuovo»

Ambrogio Donini, “Interstampa” e lo “strappo”

di Alessandro Valentini

Alessandro Valentini, a lungo considerato braccio destro di Armando Cossutta, ricostruisce le vicende che lo portarono a stretto contatto con una figura importante per la costruzione di un’opposizione interna al PCI di Berlinguer, quella di Ambrogio Donini, storico delle religioni, esponente di spicco di quell’area filosovietica, in parte ispirata dalle posizioni di Pietro Secchia, che si raccolse intorno alla rivista «Interstampa», uno dei nuclei fondamentali attorno a cui si riunì in tutt’Italia un nutrito gruppo di compagni che alla fine del percorso avrebbero dato vita, insieme ad altre componenti, al Partito della Rifondazione Comunista.

Dal racconto di Valentini, appassionato e tutt’altro che reticente, emergono anche alcuni ricordi personali di Ambrogio Donini sugli anni Trenta, sulla storia cospirativa del partito, sulle vicende repressive sovietiche che videro fra le vittime anche dirigenti comunisti italiani, come Paolo Robotti, cognato di Palmiro Togliatti, e dai cui meccanismi lo stesso capo del partito rischiò di trovarsi schiacciato.

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Ambrogio Donini, “Interstampa” e lo “strappo”


di Alessandro Valentini


Era la fine del 1981, ascoltavo in televisione la conferenza stampa di Berlinguer durante la quale, in riferimento ai fatti di Polonia, pronunciò la famosa frase: «Si è esaurita la spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre». Mi strofinai gli occhi, sobbalzai dalla poltrona, non ci volevo credere. Ripreso dalla sorpresa, prima fui invaso dallo sconforto e dopo mi assalì la rabbia. Non ci dormii la notte. Dissi tra me: «Devo assolutamente fare qualcosa». La mattina dopo chiamai il mio amico Sergio Laudati che lavorava al “bottegone”, sezione Autonomie locali che era diretta da Armando Cossutta. Anche lui era scoraggiato e scosso. Gli chiesi di farmi sapere che intenzioni avesse l’Armando. Il giorno dopo ero a cena a Trastevere con Sergio. Davanti a una pizza mi informò che Cossutta intendeva dare battaglia. Questa notizia mi sollevò un po’.

Ci fu infatti la Direzione del partito. In quella sede fu approvato, con il solo voto contrario di Cossutta, un documento, Aprire una nuova fase per la lotta al socialismo, in cui, oltre a condannare il nuovo governo militare presieduto dal generale Jaruzelski in Polonia, si ribadiva il giudizio espresso da Berlinguer nella conferenza stampa televisiva, cioè che «la fase dello sviluppo del socialismo che ebbe inizio con la Rivoluzione d’Ottobre ha esaurito la forza propulsiva». Alcuni giorni dopo, all’inizio del 1982, il 6 gennaio esattamente, “l’Unità” pubblicava un articolo di Cossutta in prima pagina dal significativo titolo In che cosa dissento dal documento sulla Polonia. Era lo “strappo”, l’atto con il quale Cossutta iniziò una lunga guerra che lo ha condotto a non aderire al Pds e a fondare il Prc. Ma in quel momento Cossutta non sapeva ancora che lo sbocco della sua lotta sarebbe stato la fondazione di un nuovo partito.

Il 6 gennaio, oltre a essere l’Epifania è anche il compleanno di Sergio, così lo chiamai per gli auguri di rito, ma in realtà ero ansioso di scambiare con lui qualche opinione sull’articolo dell’Armando appena pubblicato su “l’Unità”. Tra l’altro avevo letto da qualche parte che un gruppo di intellettuali e di personalità politiche, tra cui Ambrogio Donini, Ludovico Geymonat e Nino Pasti, avevano dato vita a una rivista in dissenso con le politiche del Pci. Volevo sapere se Sergio ne sapesse qualcosa. Ci vedemmo e parlammo in modo entusiasta dell’articolo dell’Armando, ma eravamo anche molto preoccupati della sua futura sorte e soprattutto di quella del Pci. Anche lui aveva sentito parlare del gruppo di intellettuali che avevano dato vita alla rivista, ma ne sapeva quanto me. Ci lasciammo con l’intesa che si sarebbe informato da Cossutta, il quale sicuramente doveva avere molte più informazioni di noi.

Passò qualche giorno, se rammento bene, e Sergio mi telefonò. «Armando ti vuole parlare», mi disse. Dopo un paio di giorni andammo a casa sua, in Viale Aventino. Cossutta fu molto affettuoso, lo conoscevo bene, dai tempi in cui ero nella Fgci, ed ero amico del figlio Dario. Entrò subito nel merito della proposta che intendeva farmi. «Lavori con l’Ansa. Non hai più incarichi di partito. Ti va di essere il mio contatto, l’uomo di collegamento tra me e “Interstampa”? Dobbiamo organizzare la battaglia nel partito, ma con il centralismo democratico non si scherza. Non posso direttamente seguire il loro lavoro politico. Devo fare molta attenzione. Se decidi di sì avrai anche un po’ di soldi per le tue spese, ogni due o tre mesi. Che ne pensi?».

Appresi così che la famosa rivista di cui si vociferava si chiamava “Interstampa”. Un nome insignificante, anonimo, non mi piaceva. Avrei preferito un titolo più ridondante, tipo “Ottobre” o “Mondo Nuovo”, come si chiamava il bel settimanale del Psiup. Con gli anni poi il nome “Interstampa” mi è entrato nel cuore. Decisi di accettare la proposta senza pensarci neppure un attimo. Stavo facendo la mia scelta di vita. Volevo fare qualcosa, la mia adesione al Pci, dal settembre del 1970, non poteva finire con la fase nuova indicata da Berlinguer.

Qualche tempo dopo capii perché la rivista fu chiamata “Interstampa”. Nel primo anno (uscì nell’aprile del 1981, quasi un anno prima dello “strappo”) in realtà era un bollettino che riportava notizie o articoli presi dalla stampa estera, quasi sempre dei paesi dell’Est, per far conoscere, sia pure a un pubblico limitato, la realtà del mondo del cosiddetto “socialismo realizzato”, che era manipolata e distorta dalla stampa occidentale. Nel suo secondo anno di vita, con il passaggio all’editore Napoleone, venne gradualmente trasformata in rivista.

Tre giorni dopo Laudati mi telefonò dicendo che mi voleva vedere, ma non dovevo assolutamente andare a trovarlo in Direzione. Decidemmo di incontrarci al Portico di Ottavia, al Ghetto. Da quel primo appuntamento in avanti, quando dovevo dare una informazione importante all’Armando o ricevere da lui una indicazione, mi sarei visto con Sergio al Portico d’Ottavia. Ogni volta lui usciva dal suo ufficio in Via delle Botteghe Oscure e a piedi, in pochi minuti, mi raggiungeva nel luogo dei nostri appuntamenti segreti. Iniziava per me una fase politica di semiclandestinità. Mi disse di telefonare a un certo Armando Giampieri, uno degli animatori della rivista, il quale mi avrebbe messo in contatto con Ambrogio Donini, ma mi raccomandò di non far saper a nessuno che ero l’uomo di fiducia di Cossutta. Solo Donini e lo stesso Giampieri ne erano a conoscenza. Mi diede un numero di telefono e ancora mi rammento come mi congedò, mi salutò dicendomi: «Hai capito? In bocca al lupo vecchio mio!». Poi, senza neppure aspettare una mia eventuale risposta, girò le spalle e con passo veloce andò via, come se quella situazione scottasse, come in certe scene di film sulla lotta partigiana.

Da buon bolscevico, il giorno dopo telefonai a Giampieri. Anche questa telefonata fu contorta, allusiva, un dire e non dire. Ci vedemmo ai giardini del Laghetto dell’Eur. Seduti su una panchina di marmo parlammo un paio di ore. Tre giorni dopo ero con Giampieri a Rignano Flaminio, o meglio subito fuori dal paese, in campagna, lungo la stradina che porta al cimitero del paese, dove, dopo circa mezzo chilometro, all’altezza di una biforcazione, in una strada non asfaltata, c’era la casa di Ambrogio Donini.

Eravamo tutti e tre seduti nel soggiorno rustico. Facevo conoscenza con il “grande vecchio” di “Interstampa”, intellettuale di fama mondiale, allievo di Ernesto Bonauiti. Donini era uno storico delle religioni e del cristianesimo; autore di libri pubblicati in non so quante lingue, come Storia del cristianesimo e Lineamenti di storia delle religioni. Prese nel 1926 il posto del suo maestro all’Università di Roma ma fu subito allontanato dall’insegnamento per decisione del governo fascista. Entrò nel Pci ma nel 1928 fu costretto a rifugiarsi all’estero per evitare l’arresto. Trasferitosi negli Usa, approfondì la sue ricerche storiche, specializzandosi in ebraico e siriano all’Università di Havard. Richiamato dal partito in Europa, al centro di Parigi, dal 1932 al ’39 fu redattore capo del quotidiano “La Voce degli italiani” e diresse le “Edizioni di Cultura e Società”. Scoppiata la guerra tornò negli Stati Uniti dove diresse “L’Unità del popolo” e insegnò storia delle religioni alla Jefferson School di New York. Con la Liberazione rientrò in Italia dopo 17 anni di esilio!

Donini ricoprì molti incarichi nel partito e nelle istituzioni: consigliere comunale di Roma, ambasciatore a Varsavia nel 1947-48, presidente dell’Istituto Gramsci, vicedirettore di “Rinascita” con Palmiro Togliatti direttore, membro del Consiglio mondiale per la pace, senatore della Repubblica per dieci anni e membro del Comitato centrale del Pci dal 1948, poi dal 1956 della Commissione Centrale di Controllo. Professore di Storia del cristianesimo all’Università di Bari nel 1973, in occasione del suo settantesimo compleanno fu insignito dal Soviet Supremo dell’Urss dell’Ordine di amicizia tra i popoli.

Uomo quindi dal curriculum spettacolare. Era sposato con Olga, una burbera sovietica, che aveva conosciuto nel suo esilio negli Stati Uniti, con la quale comunicava in francese nonostante lei parlasse perfettamente l’italiano. Donini conosceva bene anche l’inglese e il russo che Olga adoperava quando, preoccupata che lui si stancasse troppo (e in parte aveva ragione), lo esortava a licenziare gli ospiti senza che questi potessero capire le loro parole.

Ambrogio Donini era di impostazione politica secchiana, come del resto tutto il gruppo storico di “Interstampa”, ma era anche legatissimo a Togliatti, con cui aveva avuto una profonda amicizia, a differenza di altri dirigenti di matrice secchiana. Quando andai a trovarlo in occasione del suo ottantesimo compleanno mi mostrò una montagna di messaggi di auguri che aveva ricevuto, ma volle leggermi il lunghissimo telegramma di auguri inviatogli da Nilde Jotti, allora Presidente della Camera dei deputati. Ai tempi del suo legame con Togliatti, nel partito si era creato un grande scandalo; molti ritenevano inammissibile il fatto che il Segretario avesse lasciato la moglie, Rita Montagnana, una figura autorevole della storia del Pci, e un figlio avuto con lei, per mettersi insieme a una donna tanto più giovane di lui. Questa situazione provocò un certo ostracismo nei confronti di Togliatti da parte di molti dirigenti che, formati nel solco del “puritanesimo comunista” degli anni ’30, avevano una visione arretrata in merito alle relazioni sentimentali.

Togliatti soffrì molto per queste incomprensioni sulla sua unione con la Jotti. «La moralità non va confusa con il moralismo; la nostra moralità è un tutt’uno con il nostro impegno di cambiare il mondo – scrisse – il moralismo è un’altra cosa». Donini era stato anche vicepresidente del Senato, quindi era prassi che i Presidenti delle due Camere in carica gli inviassero un telegramma di auguri, ma le parole del telegramma mostravano un affetto che andava oltre un atto di cortesia istituzionale. Feci notare a Donini questo aspetto. E lui mi rispose: «È vero Sandro, la tua è una giusta osservazione. Sai, la politica nella vita non è tutto. La Jotti non potrà mai dimenticarsi che quando voleva fare l’amore con Togliatti e non sapevano dove andare, dove sbattere la testa, io fornivo le chiavi di casa mia. Queste cose non si dimenticano. Nella vita si fanno scelte politiche diverse, ma questi ricordi restano nel cuore. Il suo telegramma è, nonostante gli anni passati, un atto di riconoscenza di una donna che non ha dimenticato». Rimasi di stucco, scoprivo aspetti su storie umane, di uomini e donne del Pci, che nessun libro di storia ti racconta.

Questa storia di umanità e solidarietà comunista fa il paio con quella che qualche anno più tardi mi raccontò Cossutta. Longo, allora Segretario, voleva Pietro Secchia vicepresidente del Senato, anche a parziale riparazione delle discriminazioni di cui era stato oggetto per lungo tempo dopo che Togliatti lo aveva allontanato dalla segreteria del partito utilizzando come pretesto il caso Seniga, uomo di fiducia di Secchia scappato via e rifugiatosi in Svizzera con la cassa del partito. La Segreteria nazionale, anche se non era del tutto convinta, decise di accettare la proposta di Longo. Toccò a Cossutta tenere una riunione con il Direttivo del gruppo del Senato per avanzare la proposta. Ma il Direttivo, a maggioranza, la respinse. Andò da Longo e lo informò dell’esito negativo della riunione. L’anziano leader montò su tutte le furie: «Cos’è questo ostracismo contro uno dei fondatori del partito! È vergognoso! Contro un partigiano, un uomo che ha guidato la Resistenza. Questo comportamento è inaccettabile! Ora chiedi la riconvocazione del Direttivo del gruppo e fai sapere a tutti che quella di Secchia è prima di tutto la proposta del Segretario. Se a qualcuno non va bene venga da me per discuterla e protestare».

Fu a seguito di questo drammatico retroscena che Secchia fu eletto vicepresidente del Senato. In quello storico gruppo dirigente si poteva discutere accanitamente, si poteva litigare fino a essere costretti a scelte pesanti, ma mai veniva meno il rispetto della persona. Si era cinici, in alcune circostanze anche duri e con i nemici spietati, ma nei rapporti tra loro c’era una carica di umanità, consolidata in tante e tante battaglie comuni, che riemergeva potente ogni volta che le circostanze politiche lo permettevano, quando non si metteva in discussione la linea.

«Secchia – commentava Cossutta – era una persona sensibile e squisita, sempre gentile con gli altri, sicuramente socializzava molto più di Togliatti. Anche se qualche malalingua sosteneva che avesse qualche inclinazione omosessuale, in quanto Seniga dormiva su una brandina nella sua camera da letto, ma io non ho mai creduto a queste maldicenze. Comunque, era una persona per bene. Non condividevo certe sue posizioni, ma gli ho sempre riconosciuto coerenza politica. Si faceva amare oltre che rispettare». Non avevo mai sentito Cossutta parlare in modo quasi affettuoso di Secchia, con cui aveva avuto accesi scontri politici. Pensai: «Il gruppo dirigente storico del Pci non smetterà mai di stupirmi».


Il primo incontro con la direzione di “Interstampa” avvenne in Via Chinotto nella sede della casa editrice Napoleone. L’editore, Roberto Napoleone, aveva preso in gestione la rivista nata un anno prima. Alla riunione doveva partecipare anche Donini, ma ebbe un malore e non potendo venire mi pregò di andare a trovarlo perché doveva darmi delle indicazioni. Mi consegnò dei suoi appunti chiedendomi di leggerli nel corso della riunione. Mai ingresso in un organismo fu preparato tanto male: Giampieri aveva fatto poco o nulla per informare i compagni della mia presenza. Mi presentavo con delle indicazioni scritte da Donini, ma se i partecipanti alla riunione mi avessero detto «chi diavolo sei?» avrebbero avuto ragione. Sicuramente molti lo pensarono, anche se non ebbero il coraggio di dirlo. Così, mentre molti si chiedevano chi fossi e da dove sbucassi, partecipai alla riunione presentato frettolosamente come segretario di Donini. Forse qualcuno mi guardò anche con sospetto pensando che potessi essere un infiltrato del Pci, dato che non ero del giro dei secchiani.

A ripensarci oggi la scena era anche un po’ comica. Un amendoliano convinto, come sono sempre stato, in un covo di secchiani. Occorre sempre rammentare che “Interstampa” si era schierata con Cossutta contro lo “strappo”, ma non fu mai la rivista di Cossutta. Mi ricordo che c’erano (vado a memoria): Otello Nannuzzi, Paolo Cinanni, Giacomo Aducci, Alfio Caponi, Adelio Albarello, Ettore Biocca, Giuseppe Angelini, Aldo Bernardini e il terribile Arnaldo Bera, che era stato un fedelissimo luogotenente di Pietro Secchia e grande avversario di Cossutta. C’erano anche due giovani, Fausto Sorini ed Elisabetta, una bellissima ragazza che diventerà molti anni dopo la sua compagna e dalla quale avrà un figlio. Elisabetta è morta giovane di un brutto male. So che è stato un duro colpo per Fausto con cui ho frequentemente litigato, ma con cui ho sempre mantenuto un rapporto di affetto e di stima. Rimasi colpito nel vedere un uomo, apparentemente duro, assistere la moglie nello stadio terminale della grave malattia, con grande attenzione e delicatezza. Si dedicò a lei anima e corpo e la affiancò nelle ultime tappe del suo percorso, sino all’inevitabile e tragico epilogo.

Ma tornando a quella riunione ricordo che c’era anche un personaggio un po’ buffo, con un atteggiamento molto da cospiratore: Walter Poce, figlio di Antonio, uno dei leader del Movimento Comunista d’Italia e delle bande partigiane romane Bandiera Rossa. Poi c’era il direttore responsabile nonché proprietario della rivista Nicodemo Boccia. Erano inoltre presenti, ovviamente, oltre al sottoscritto, Giampieri e Napoleone.

Fu una riunione confusa e inconcludente. Lessi diligentemente gli appunti di Donini, molto sensati, che però su molti presenti non ottennero nessun effetto. Biocca e Poce erano scatenati, pareva volessero fare la rivoluzione il giorno dopo, ma con chi e con quali forze non era dato saperlo. Solo i giovani e qualche vecchio compagno mantennero un atteggiamento positivo. Dovetti telefonare ben due volte a Donini e farlo parlare al telefono prima con Biocca e poi con Giampieri perché tornasse un po’ d’ordine e di buonsenso nella riunione.

Uscii da quel primo incontro avvilito, preso dallo scoramento. Della riunione ne parlai qualche giorno dopo con Laudati. Ero demoralizzato. Egli sorridendo mi apostrofò: «L’Armando ti manda a dire che il pane si fa con la farina che hai. Non ci sono alternative. Cosa ti abbiamo messo a fare lì dentro. Vai e fai il tuo lavoro. Segui le indicazioni di Donini, che è il più vecchio ma anche il più assennato e lucido». Avevo compreso la lezione. Mi buttai d’impeto nel lavoro di organizzazione. Ero diventato il responsabile della diffusione della rivista, un incarico tecnico-operativo e politico nello stesso momento. La rivista non era nelle edicole, costava troppo, dunque il solo modo per farla conoscere erano gli abbonamenti e la diffusione militante. Tutto questo lavoro andava promosso e coordinato su scala nazionale e neppure Napoleone aveva la forza di farlo. Il lavoro però aveva anche una valenza politica: infatti si erano costituite le Redazioni locali di “Interstampa” nelle principali città d’Italia, che formalmente erano delle redazioni, composte da iscritti e non iscritti al Pci così come la direzione, per cui non potevano essere accusate di attività frazionista, ma in pratica erano veri e propri centri di organizzazione della battaglia in vista del XVI Congresso del Pci.

L’attività di contatto con le Redazioni locali era quindi sotto la mia diretta supervisione e da Roma ero l’unico che poteva farlo, in quanto lavoravo per la rivista a tempo pieno, tolto quelle poche ore che sottraevo all’impegno politico come cronista all’Ansa. Cossutta mi aveva consigliato di mantenere questo lavoro, che mi permetteva di arrotondare le mie entrare e nel contempo mi dava una copertura, sia pur parziale, in quanto il contributo e i rimborsi che ricevevo per la mia attività politica erano in nero; solo Donini era a conoscenza di questo delicato aspetto.

Stavo promuovendo le prime riunioni in giro per l’Italia che scoppiò subito la prima “grana” con Napoleone, a seguito del manoscritto di Paolo Robotti, uno dei fondatori del Pci e della direzione della rivista. Il suo saggio doveva essere pubblicato in una delle collane storiche della casa editrice. I problemi con Napoleone, a prescindere dal saggio di Robotti, erano comunque sorti poiché stava subendo una dura pressione dal partito che lo sollecitava ad abbandonare la gestione di “Interstampa”. A quel tempo era anche l’editore della rivista del sindacato di polizia che aveva migliaia e migliaia di abbonati. Fu dunque ricattato. Qualcuno sicuramente gli fece capire che se non si fosse separato da “Interstampa” avrebbe perso la gestione di riviste per lui economicamente molto importanti. Tutta la vicenda però si complicò con lo scritto di Robotti.

C’erano state tante campagne antisovietiche e l’ultima in ordine di tempo aveva una relazione con la vicenda che sto narrando. Questa volta la campagna si concentrava sulla liquidazione da parte di Stalin di militanti comunisti e antifascisti italiani esuli in Russia. Paolo Robotti era cognato di Togliatti. Aveva sposato Elena, una sorella di Rita Montagnana, moglie appunto di Togliatti, che era iscritta al partito dal ’21; dirigente nazionale, era molto popolare tra le donne comuniste. Robotti conosceva molto bene la questione della persecuzione di Stalin degli antifascisti rifugiatisi in Urss in quanto lui stesso esule a Mosca era stato arrestato nel periodo più buio delle epurazioni staliniane. Incarcerato, era stato torturato affinché confessasse che Togliatti era una spia dell’Ovra e denunciasse che tra gli antifascisti italiani esuli in Urss, molti dei quali erano stati militanti degli Arditi del popolo che avevano condotto azioni armate di autodifesa contro i fascisti, vi fossero dei terroristi, pericolosi per il regime sovietico. Dopo un anno Robotti uscì dal carcere ancora più convinto della sua scelta comunista.

Nel suo saggio sosteneva che gli antifascisti italiani liquidati dallo stalinismo erano stati solo 98 e faceva puntigliosamente l’elenco dei nomi. Metteva in evidenza due aspetti: in primo luogo che i militanti italiani soppressi rappresentavano un fenomeno grave, da condannare, ma molto circoscritto; in secondo luogo che nessuno di questi era un militante del Pci, ma si trattava di anarchici, di sindacalisti rivoluzionari, di socialisti massimalisti e via dicendo. Non è che questa fosse una giustificazione per ammazzarli, voleva solo dimostrare che i comunisti italiani in Russia, tolta qualche rara eccezione, non furono perseguitati.

Robotti però era gravemente malato, era ricoverato alla clinica Città di Roma a Monteverde. Dal suo letto d’ospedale fece sapere a Donini che aveva fatto una copia del suo testo: l’originale era per Napoleone, che avrebbe dovuto pubblicarlo, la copia era destinata invece proprio a Donini, al quale chiedeva un parere prima di darlo alle stampe. Ambrogio mi parlò della vicenda nel corso del nostro incontro settimanale a Rignano Flaminio. Era contrariato dall’iniziativa di Robotti poiché giustamente la riteneva politicamente debole. «E poi – a un certo punto sbottò – certe cose, certi segreti si portano nella tomba». Mi raccontò tra l’altro, per sommi capi, alcuni episodi di cui era a conoscenza e che supportavano la tesi secondo la quale Stalin aveva perso il controllo della situazione, gli era sfuggita letteralmente di mano. Alcune di queste storie le riportò, modificando qualche passaggio, nel suo libro di memorie Sessant’anni di militanza comunista.

Secondo Donini, le denunce erano favorite dall’opera nefasta di alcuni esponenti del movimento comunista che, per ambizione, erano diventati delatori della polizia segreta sovietica. Le delazioni arrivarono anche a sfiorare gli esponenti più in vista del partito, tra cui lo stesso Togliatti, che fu inviato da Stalin stesso, secondo il racconto di Donini, nel 1937 all’estero, prima a un incontro con la II Internazionale socialista, e poi a Madrid, per salvargli la vita da insinuazioni sempre più minacciose. Lo stesso avvenne, mi disse, per Vittorio Vidali – che diverrà il leggendario comandante Carlos – il quale fu sollecitato a partire, prima che la situazione divenisse insostenibile, dalla compagna Stassova, fidata collaboratrice e segretaria di Stalin.

Mi raccontò anche di un episodio che lo riguardava. Nella primavera del 1938 da Mosca era giunto al Centro di Parigi Giuseppe Berti, legato ai servizi segreti e di controspionaggio del regime sovietico. Berti si proponeva di “far pulizia” nel partito. Intendeva scoprire i collaborazionisti che mettevano in continua difficolta l’organizzazione clandestina del partito in Italia. Era convinto che Donini ed Emilio Sereni fossero due spie. La sua convinzione era basata sui seguenti fatti: Donini era figlio di un generale dell’esercito, era stato allievo di Ernesto Buonaiuti, un sacerdote scomunicato dalla Curia, e inoltre aveva soggiornato negli Stati Uniti, tempio mondiale del capitalismo. Sereni era ebreo, da giovane era stato sionista, come suo fratello che era un alto dirigente di quel movimento, il quale, forse a causa dei suoi contatti con i menscevichi russi in esilio a Parigi, anch’essi ebrei, era stato ammazzato dai tedeschi con la complicità dei servizi segreti inglesi.

Berti convocò i due sospettati informandoli che sarebbero dovuti andare a Mosca per una importante missione, dove già erano state inviate le loro biografie. Una volta giunti a Mosca ci sarebbe stato inevitabilmente l’arresto per i due e forse una tragica fine, ma l’ambasciata russa non rilasciò i visti e Donini, nel suo libro di memorie, sostiene che la Segreteria della III Internazionale, forse per intervento di Dimitrov, aveva consigliato all’ambasciata di negare ai due il permesso di entrata, facendoli, di fatto, rinunciare al viaggio. Nel nostro colloquio, invece, diede un’altra versione: mi disse che nel ’56, in un suo soggiorno moscovita, incontrò la Stassova che gli rivelò di essere stata lei a inviare un fonogramma all’ambasciata di Parigi affinché non rilasciasse i visti ai due esponenti del Pci. Mi rivelò anche che lui non aveva mai saputo se quella della Stassova fosse stata una sua iniziativa personale o avesse agito su indicazione di Stalin. Donini propendeva, ovviamente, per questa seconda ipotesi. «Una segretaria non può prendere una tale iniziativa in autonomia», commentò.

Concluse la rievocazione di quei drammatici momenti con un’ultima osservazione. «Se hai visto Il sospetto, il film di Citto Maselli con Gianmaria Volonté, puoi avere un’idea della tragedia dei terribili anni ’30. La storia racconta di un militante in odore di eresia che viene mandato in missione in Italia solo per verificare che la rete clandestina sia sicura. Lui capisce di aver fatto da cavia solo quando viene arrestato dalla polizia fascista che tenta, informandolo di essere stato cinicamente utilizzato, di ricavare dal suo interrogatorio qualche informazione. Ma lui ripete solo nome e cognome aggiungendo: “Sono un militante comunista, non ho null’altro da dire”. Sì, Sandro, le condizioni in cui operavamo erano terribili e il sospetto era parte della situazione, era un aspetto permanente della nostra militanza politica».

D’altronde anche Togliatti, come ho accennato, venne nel ’40 sottoposto a un’inchiesta e fu escluso dalle questioni riservate del Komintern. Nel ’41 addirittura fu arrestato dai sovietici per qualche giorno. È una falsità storica la presunta corresponsabilità di Togliatti sullo scioglimento del Pc polacco e della liquidazione del suo gruppo dirigente. È ampiamente documentato che egli nel ’37 era in Spagna a dirigere le brigate internazionali e solo nel ’38 andò a Mosca per una sola volta. In quell’occasione avallò lo scioglimento del partito polacco prendendone semplicemente atto. Ma erano passati sei mesi dalla decisione assunta da Stalin nel dicembre del ’37. Del resto, a Davide Lajolo che gli pose la domanda se avesse potuto schierarsi contro i processi promossi da Stalin rispose: «Se lo avessi fatto mi avrebbero ucciso. La storia dirà se era meglio morire o vivere per salvare il partito». Il colloquio è ricordato da Giuseppe Boffa. Ma pochi rammentano che anche Gramsci, nel suo periodo presso il Komintern, ebbe un atteggiamento che Spriano ha definito “anguilleggiante”. In una lettera a Togliatti Gramsci soddisfatto scriveva: «<<Mi sono guadagnato la fama di una volpe dall’astuzia infernale», giacché doveva essere, si giustificava, «molto guardingo» su problemi e cose su cui egli era scarsamente informato.

Ma forse l’episodio più divertente fu quando per tre anni di seguito Togliatti fu inviato al Congresso del Pc mongolo a rappresentare l’Internazionale. E ogni volta era latore di una elaborata lettera di saluto e di augurio di un vecchio e valoroso comunista mongolo trasferitosi in Urss. Togliatti rimase molto male quando occasionalmente apprese che il carismatico comunista era morto da diversi anni e che le missive erano costruite come pretesto per allontanarlo per un po’ di tempo da Mosca. Togliatti conosceva bene l’ambiente moscovita. Principalmente, proprio per questa sua profonda conoscenza dell’ambiente si oppose energicamente, nel dopoguerra, al tentativo di Stalin di rimuoverlo come Segretario del Pci con il pretesto di designarlo a capo del Cominform. L’operazione fu portata avanti con la complicità di Secchia e D’Onofrio. Tutta la Direzione del partito, con il solo voto contrario di Terracini e l’astensione di Longo, votò la proposta di Stalin, mentre Togliatti era a Mosca per curarsi, dopo una post-operazione alla testa per un ematoma. Togliatti era furibondo. Una volta guarito tornò in Italia, ma nessuno della Direzione tornò sul voto. L’incidente era chiuso, ma da lì la frattura con Secchia si approfondirà, fino a divenire insanabile.

Donini, dopo avermi raccontato alcuni episodi della sua militanza politica da esule (ogni volta che andavo a trovarlo spesso si soffermava a narrarmi significativi momenti della sua lunghissima militanza politica e storie ai più sconosciute del Pci), mi invitò a passare alla Città di Roma per abbracciare da parte sua il povero Robotti in fin di vita e per ritirare la copia del manoscritto destinata a lui. Feci però l’imperdonabile errore di andare a trovare Robotti due giorni dopo, quando la copia di Donini era stata ingenuamente consegnata dallo stesso Robotti a Napoleone, che si era però impegnato con lui a consegnarla al destinatario.

Io, Giampieri e lo stesso Donini inseguimmo per un mese Napoleone tempestandolo di telefonate per entrare in possesso della copia, ma non fu possibile convincerlo. Intanto Robotti era morto. Allora Napoleone rilasciò una dichiarazione alla stampa annunciando che il manoscritto di Robotti era nelle sue mani. Aveva già un accordo con il Pci: avrebbe rotto con “Interstampa” in cambio di garanzie per la sua attività di editore e, come segno di buona volontà, consegnò originale e copia del manoscritto di Robotti alla Presidenza della Commissione centrale di controllo. Non so che fine abbiano fatto, non so se siano state archiviate o distrutte. Forse è un bene che la vicenda sia andata in questo modo. Quello che è certo è che ci lasciammo con Napoleone in pessimo modo.

Via Chinotto non era più agibile e quindi dovevamo subito trovare una sede per “Interstampa” e per il Centro culturale che intendevamo costituire. Trovammo dei locali belli e spaziosi in Via Settembrini, vicino a Piazza Mazzini, ma occorrevano soldi e tanti. Cossutta e Donini si dovevano vedere segretamente, ma l’incontro saltò giacché all’anziano storico delle religioni era venuta l’influenza. Allora Laudati mi chiamò al telefono. Mi disse poche parole: «Vediamoci domani alle 10,30 al solito posto. Mi raccomando Sandro, puntualità. Ciao». Il giorno dopo giunse al Portico d’Ottavia con una busta grande, una di quelle per documenti. «Guarda Sandro – mi informò – dentro ci sono un sacco di soldi, fai attenzione. Ci sono tre buste. Una è per la sede, il Centro culturale e la rivista, che devi consegnare a Donini; la seconda è un fondo per le redazioni locali che dovrai gestire tu; la terza è un contributo per te che copre anche i rimborsi per la tua attività per i prossimi tre mesi. Pianifica bene l’utilizzo di questi soldi perché prima di tre mesi non ne avrai altri». Immaginavo da dove arrivavano quei finanziamenti ma non dissi niente. Solo qualche anno dopo ebbi la conferma di ciò che avevo intuito vedendo all’opera il Tesoriere della nostra area: Guido Cappelloni.

Con quel bel pacchetto di soldi il divorzio di Napoleone da “Interstampa” veniva risolto alla grande. Si ponevano le basi per un rilancio della rivista come strumento di organizzazione della nascente area cossuttiana. “Interstampa” dunque fu fondata su iniziativa di un gruppo di dirigenti storici del Pci e di intellettuali, quasi un anno prima che esplodesse il “caso Cossutta”. Un gruppo di personalità tutt’altro che legate a Cossutta.

Un ruolo importante lo svolse il gruppo milanese e lombardo di “Interstampa” che ha confermato, nel corso degli anni, di avere una sua autonomia politica da Cossutta. L’area cossuttiana a Milano solo formalmente ha avuto come leader Cossutta, nella sostanza ha sempre avuto come punto di riferimento questo gruppo della “sinistra storica” del Pci. Quella che per anni è stata considerata la Federazione e roccaforte di Cossutta in realtà ha sempre avuto una propria identità, pur sostenendo con grande impegno e lealtà le posizioni e le battaglie del “capo”.

Occorre anche dire che “Interstampa” era in qualche misura figlia, come più volte mi narrava Donini, di un progetto, che rimase sulla carta, elaborato molti anni prima e che aveva come principali animatori figure leggendarie del Pci: Pietro Secchia, Edoardo D’Onofrio, Paolo Robotti e lui stesso. Si trattava di dar vita a una rivista in competizione con “Il Manifesto”, soprattutto se i suoi promotori non fossero stati radiati dal Pci. Una parte di quel progetto fu realizzato dal gruppo lombardo che diede vita successivamente insieme a Donini a “Interstampa”. Nell’ottobre del 1979 esce il volume della Cooperativa Editrice Aurora, Cina, Viet Nam, Cambogia. All’origine dei conflitti, il primo di una lunga serie di fascicoli. La cooperativa, composta prevalentemente da soci militanti del Pci in dissenso con le sue scelte di politica estera, fu il primo passo visibile e pubblico di quel lungo processo politico di aggregazione dell’area. La Cooperativa Editrice Aurora sarà poi, con il trasferimento di “Interstampa” a Milano, l’editore della rivista.

La radiazione del gruppo che aveva dato vita alla rivista “Il Manifesto” fu determinata pertanto anche dalla valutazione – come ha ricordato Rossana Rossanda – che a questa “iniziativa editoriale” potesse seguirne un’altra, promossa dalla “sinistra storica”, filo-sovietica, allora molto forte nel Comitato Centrale. Il gruppo dirigente del Pci, preoccupato che si potesse minare l’unità del partito ammettendo con la pubblicazione di più riviste – di fatto – le correnti, maturò la decisione, dopo sei mesi dall’uscita del primo numero della rivista, di radiare il gruppo de “Il Manifesto”. Aveva, nel frattempo, acquisito due importanti obiettivi: la presa di distanza di Ingrao da “Il Manifesto” e la garanzia di Secchia, D’Onofrio, Robotti e Donini che non avrebbero dato vita ad un’altra pubblicazione se Aldo Natoli, Luigi Pintor e Rossana Rossanda fossero stati radiati dal Pci.

Il “nucleo storico” di “Interstampa” viene dunque da “lontano”, da un’opposizione sotterranea ma dura alle scelte internazionali del gruppo dirigente del Pci, almeno dalla fine degli anni ’70 in poi. Tra i fondatori della rivista, oltre ad Ambrogio Donini, Alessandro Vaia e Arnaldo Bera, vi sono: Giuseppe Sacchi, Giuseppe Angelini, Adelio Albarello, Alfio Caponi, Giulio Cerreti, Paolo Cinanni, Otello Nannuzzi e Paolo Robotti. Aderiscono alla rivista intellettuali di prestigio come: Aldo Bernardini, Ettore Biocca, Alfonso Di Nola e Ludovico Geymonat e personalità come Nino Pasti. In seguito, dopo il divorzio con l’editore Roberto Napoleone, aderiscono: Renato Scionti, Ruggero Spesso e Giovanbattista Gianquinto; e un altro gruppo di intellettuali: Umberto Carpi, Alessandro Mazzone, Giovanni Bacciardi ed Enzo Santarelli. Direttori della rivista, in questo periodo, sono Sirio Sebastianelli (partigiano ed ex giornalista de “l’Unità”) prima e Giacomo Adduci (che era stato dirigente nazionale della Cgil) dopo. Proprietario della rivista è l’indipendente Nicodemo Boccia, e amministratore Armando Giampieri. Sono nomi pesanti che esprimono, con la nascita di “Interstampa”, la loro aperta e pubblica opposizione a Berlinguer. L’incontro e l’intesa con Cossutta sono nelle cose. Egli ha bisogno infatti di costruire una “rete organizzativa” per condurre la sua battaglia. Nel Comitato Centrale ha il sostegno solo di Guido Cappelloni e di Luigi Ciofi Degli Atti, di Domenico D’Onchia nella Commissione Centrale di Controllo e di pochi dirigenti periferici. Troppo poco per affrontare un durissimo scontro politico in vista del Congresso, per passare nelle maglie strettissime del “centralismo democratico”.

È questa una fase poco nota della vita della galassia cossuttiana e di “Interstampa”, composta da secchiani, da amendoliani, da vecchi stalinisti e militanti delle formazioni marxiste-leniniste legati tutti ai valori della rivoluzione d’Ottobre e al filosovietismo. Ovviamente non era ancora un’area politica, lo diventerà col tempo, più avanti, con l’Associazione Culturale Marxista e con l’adesione alla stessa di intellettuali di valore, come Gianmario Cazzaniga e Luigi Pestalozza. Quello dei primi anni di vita di “Interstampa” è un periodo di incontri segreti e di riunioni clandestine, di documenti e appunti riservati. Nella maglia disciplinare del Pci, con l’accusa di frazionismo, cadono Fausto Sorini, dirigente della Federazione di Cremona, e l’ex parlamentare di Verona Adelio Albarello, dirigente storico del movimento operaio del Veneto, prima del Psiup e poi del Pci. Tutti e due, a norma dell’articolo 54 dello Statuto, furono rimossi dai Comitati Federali e subirono una sospensione del partito di sei mesi. Occorreva perciò la massima vigilanza e cautela. Chi scrive, giovane comunista vicinissimo a Cossutta, fu inviato da questo a collaborare con “Interstampa” e a divenire il “braccio destro” di Donini per garantire un collegamento tra l’anziano leader, e lo stesso Cossutta.


Non è esatto dire, come altri hanno scritto, che “Interstampa” fu soprattutto espressione del gruppo milanese e lombardo. Questa ricostruzione è parziale. Certamente, il ruolo di Alessandro Vaia e Giuseppe Sacchi a Milano e di Arnaldo Bera a Cremona fu molto importante. Inoltre, nel capoluogo lombardo, proprio sotto la direzione di Giuseppe Sacchi, operava un gruppo numeroso di quadri operai fortemente radicati sia nella Cgil sia nella Federazione del Pci, come Saverio Nigretti, Aurelio Crippa, Graziella Mascia, Ione Bagnoli, Bruno Casati, Enzo Jorfida e Sergio Ricaldone; questo gruppo era un punto di forza dell’area cossuttiana. È errato però sottovalutare il ruolo di Donini, una delle figure di intellettuale e di dirigente del Pci di maggiore spicco, che tra l’altro aveva anche notevole esperienza internazionale e rapporti strettissimi con i sovietici.

Senza Donini “Interstampa” sarebbe stato un fenomeno prevalentemente milanese. Senza il suo apporto, intellettuali come Geymonat, Biocca e Di Nola o personalità come Pasti, o dirigenti leggendari del Pci, come Robotti, non avrebbero aderito alla rivista. Questa opinione l’ho espressa con forza nel libro La Vecchia talpa e l’araba fenice che suscitò, quando uscì, alcune critiche. Di questa opinione ne ero convinto allora e ne sono ancora più convinto oggi. Il ruolo di Donini fu decisivo. Senza il suo formidabile impegno non si sarebbero stabiliti da subito collegamenti con gruppi di militanti un po’ in tutta Italia e non si sarebbero attivate, ad esempio, a sostegno della diffusione di “Interstampa” una serie di segretari di sezioni importanti della Associazione Italia-Urss, come Gian Carlo Carena a Genova, Carlo Pellegrini a Udine, Luigi Marino a Napoli e Giacomo Lucarelli a Bari, segretari spesso che non erano di formazione secchiana. Certamente il centro romano non era organizzato come quello milanese, ma non si può ridurre tutto a un fatto organizzativo; l’influenza di Ambrogio Donini, per storia, cultura e prestigio fu fondamentale su tutto il movimento che ruotava nazionalmente attorno alla rivista.

Il centro romano di “Interstampa”, costituito sia dalla Redazione Nazionale della rivista e sia dal “Centro Culturale Interstampa”, coordinato da Enzo Santarelli, in via Luigi Settembrini, non fu organizzato e strutturato come quello di Milano. Riuscì però, tra tanti limiti politici ed organizzativi, a dare un impulso importante alla costruzione di una rete nazionale intorno alla rivista. Redazioni regionali di “Interstampa”, con tanto di sedi, furono costituite un po’ ovunque: Piemonte, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Campania, Puglia, Calabria; redazioni che erano dirette da un gruppo di giovani: Mauro Gemma, Luca Corsi, Gilberto Gambelli, Enzo Pernigotti, Dario Marini, Giuseppe Turturo, Leonardo Masella, Claudio Grassi, Alessandro Leoni, Saverio Fortunato, Fosco Giannini, Franco Iachini, Fabio Grieco, Vincenzo Siniscalchi, Sergio Manes, Rodolfo Vaccarelli e Alessandra Romeo. La rivista, con l’ingresso di queste nuove energie, divenne rapidamente un piccolo laboratorio politico. Si discuteva molto sul destino del Pci, sull’attualità del leninismo, sul che fare.

Attorno ad “Interstampa” si ramificò un’area culturale-politica che sarebbe sbagliato ridurre a componente del Pci. Intanto perché nel Pci le correnti non erano ammesse e quindi per non essere considerati “frazionisti” e non incorrere in provvedimenti disciplinari, le riunioni e le iniziative della rivista o le assemblee locali degli abbonati erano aperte anche ai non iscritti al Pci. La presenza, tra l’altro, nella Direzione della rivista, di intellettuali e personalità non aderenti al Pci garantiva proprio questa impostazione. Importante, in questo senso, fu il contributo di alcuni giovani non iscritti al Pci, alcuni dei quali provenienti dall’esperienza di “Ottobre” (quotidiano vicino al PCd’I) come Antonello Obino a Milano, Ruggero Giacomini ad Ancona, Sergio Manes a Napoli e Maurizio Nocera a Brindisi.


Interstampa” nacque dunque come espressione di un’area culturale e politica e si trasformò negli anni come componente leninista del Pci sotto l’impulso politico di Cossutta e l’autorevolezza culturale di Donini. È proprio nel corso di questa trasformazione da area di resistenza culturale a soggetto politico, contro la deriva del Pci e la sua mutazione genetica, che nasceranno i problemi che porteranno, nel corso del tempo, a modeste scissioni, oggi dimenticate dalla storia. Ma questo è un altro capitolo. E questo movimento, prima di resistenza culturale e poi come soggetto politico, sarà la parte decisiva di quella che in seguito si trasformò in area cossuttiana del Pci, che condurrà la battaglia contro la svolta della Bolognina e fu decisiva per la nascita del Prc. Se Armando Cossutta, per un lungo periodo, è stato il leader indiscusso di questa area, Ambrogio Donini ne è stato il padre nobile, anche se oggi sono pochi a rammentarlo, poiché purtroppo morì poco dopo la nascita del Movimento per la rifondazione comunista, pienamente soddisfatto di aver dato il suo contributo, da intellettuale rivoluzionario, al costituente partito in fieri.


Alessandro Valentini


(Tratto da: Alessandro Valentini, Donini, “Interstampa” e lo “strappo”, in «L’Ordine Nuovo», 3 maggio 2020, reperibile al link: https://www.lordinenuovo.it/2020/05/02/ambrogio-donini-interstampa-e-lo-strappo/).


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Precisazioni doverose

A proposito di “Interstampa” e della storia dell’area cossuttiana


A seguito del mio articolo su “L’Ordine Nuovo” sono usciti su Facebook alcuni articoli che mi criticano aspramente per aver trattato la storia di “Interstampa” in modo superficiale o alcuni episodi della vita del Pci in modo di parte o scandalistico. Ho sentito allora il dovere di pubblicare quanto segue.


Su richiesta della rivista “L’Ordine Nuovo” ho scritto un articolo su Ambrogio Donini e non sulla storia di “Interstampa”. Ovviamente sono partito dai miei ricordi, cioè dall’occasione che mi permise di conoscere e frequentare il “Professore”. E l’occasione fu quando Armando Cossutta mi catapultò in “Interstampa” con lo “strappo” di Berlinguer, per fare da ponte tra lui e Donini, in quanto il centralismo democratico in vigore nel Pci impediva che tra lui e “Interstampa” ci fosse un rapporto politico stretto e diretto. Questo ruolo l’ho ricoperto per quasi dieci anni nel corso dei quali ho avuto con Donini fittissime e affettuose conversazioni su episodi della storia del Pci, moltissimi dei quali non legati all’esperienza e all’attività della rivista. Alcuni di questi episodi li ho raccontati nel saggio uscito su “L’Ordine Nuovo” come testimonianza diretta delle mie lunghe chiacchierate con lui quando andavo a trovarlo a Rignano Flaminio.

Anche in passato, con il mio libro La vecchia talpa e l’araba fenice del 2000 e successivamente con il saggio Perché ci chiamiamo “Rifondazione comunista”, uscito sulla rivista “Essere Comunisti” nel 2011, non ho mai avuto l’intenzione di scrivere la storia di “Interstampa” e di quelle figure del Pci che la promossero e la fondarono. Nel libro La Vecchia talpa e l’araba fenice dedico solo un capitolo su otto alla nascita di “Interstampa” e a quell’area che aveva come riferimento Pietro Secchia che decise prima di promuovere la cooperativa “Aurora” e poi la rivista. Non è mai stata mia intenzione, né oggi né ieri, scrivere una storia di un’area di cui mai ho fatto parte, bensì di scrivere cenni di storia, prima sull’area cossuttiana e poi di questa come corrente nel Pci, che fu l’ossatura portante, lo scheletro su cui si nascerà a Rimini, con lo scioglimento del Pci, il Prc. Una storia, ovviamente non esaustiva, basata molto sui miei ricordi.


Il compagno Giovanni Bacciardi coglie bene la questione nella sua nota. Anche se in diversi punti mi differenzio dalle sue analisi e valutazioni, egli giustamente sposta l’attenzione proprio sulla storia dell’area cossuttiana e non su quella di “Interstampa”. D’altronde il confronto tra Togliatti e Secchia lo trovo oggi un po’ ozioso e vecchio sul piano politico. L’area cossuttiana era qualcosa di meno e di più nello stesso tempo. Vi erano secchiani, togliattiani, vecchi stalinisti delle formazioni ml, socialisti cosiddetti “carristi” provenienti dal Psiup, amendoliani, militanti provenienti dalle formazioni del ’68, primo tra tutti Gianmario Cazzaniga. Ora, dirigere e costruire un’area politica che indicasse una linea che andasse oltre il “filosovietismo” non era certamente facile, e tra le diverse critiche a Cossutta trovo ingeneroso non riconoscergli la capacità e l’abilità di direzione di un movimento all’inizio politicamente molto poco omogeneo. Bisogna dargliene assolutamente merito, è un riconoscimento storico che non può essere messo in discussione.

Bacciardi rammenta le diverse scissioni da questa area e in particolare quando, con il XVIII Congresso del Pci, si trasformò in corrente. Quella di Arnaldo Bera (e non di Vaia, su questo si confonde) che diede vita a “Nuova Interstampa” insieme al Pcd’i (ml) e a Radio proletaria e quella più corposa di Sorini, Rizzo e Giannini che con Luigi Vinci e una parte di Dp diedero vita a “Comunisti oggi”. Forse Giuseppe Sacchi e Alessandro Vaia, che sono rimasti fino alla loro morte nel Prc, erano meno secchiani dei primi? E Donini che condannò nettamente quelle scissioni lo era da meno? Le valutazioni vanno fatte quindi sulla base delle scelte politiche e non in termini ideologici o storici, cioè su divisioni di altri tempi, al confronto che avvenne tra Secchia e Togliatti.

Questo approccio è ancora più valido nella prima fase della vita del Prc quando l’area cossuttiana si divise in diversi pezzi e Cossutta diede vita a un “nuovo cossuttismo”, di cui Dilberto e Rizzo furono i principali animatori. Segnali di questo inizio di frantumazione della vecchia componente vennero già nel corso delle prima fase congressuale del Prc sulla questione del nome: «Partito comunista» o «Partito della rifondazione comunista»; poi nella seconda fase quando si trattò di eleggere la Direzione in cui Cossutta accettò il veto di Garavini di non inserire in Direzione Bianca Braccitorsi, Bacciardi e il sottoscritto. Il veto era anche per Diliberto che fu tutelato dalla pressione di Cappelloni su Cossutta. Non entrò in Direzione neppure Sorini mentre vi trovò spazio Rizzo che era però nella quota di Lucio Libertini avendo votato a Torino, al XIX Congresso del Pci, la seconda mozione, e rimase suo uomo di fiducia fino alla sua morte.

Al secondo Congresso del Prc, quello in cui Fausto Bertinotti fu eletto Segretario, la disarticolazione della vecchia componente cossuttiana fu evidente. Una parte, Cappelloni, Diliberto, Albertini, Carpi, Caponi, Crippa, Mascia, Monfalcon, Galante e Grassi, votarono il primo documento (quello di Cossutta, Bertinotti e Magri); altri il secondo documento: Bacciardi, Leoni e Cristiano; infine, altri ancora votarono il terzo documento: Sorini, Giannini, Ricaldone, Favaro, Bianca Braccitorsi, Katia Belillo e Valentini. Cosa ha a che fare tutto ciò con lo storico confronto tra secchiani e togliattiani me lo si deve spiegare. Non lo colgo. Non nego il dibattito storico, legittimo e sacrosanto, nego l’attualità di questo confronto in sede politica rispetto agli orientamenti dell’area cossuttiana tra il XVIII Congresso del Pci e il secondo Congresso del Prc.


Ovviamente ognuno è libero di fare le sue considerazioni e riflessioni, di porre l’accento su un episodio e un passaggio invece di un altro, di scrivere, se ne ha la capacità, la storia di quelle figure che diedero vita alla rivista “Interstampa”, come ha fatto Fausto Sorini, ma non si può fare confusione, senza neppure essere stati protagonisti dei diversi momenti che ho ricordato, in nome di ideologismi che sono oggi riproposti forse con lo scopo di perpetuare una autoreferenzialità che nulla ha di politico.

Da parte mia ho sempre evitato di dare giudizi morali e respinto la pratica della scomunica politica sulle scelte fatte nel corso di questo trentennio da compagne e compagni (e purtroppo molti sono morti) con cui ho lavorato e condiviso momenti emozionanti e indimenticabili della mia esperienza politica e quindi non mi annovero tra quelli che ancora oggi hanno voglia di dare giudizi, singolarmente o collettivamente, e fare scomuniche; e non mi troverete mai tra quelli che alla ricostruzione storica, basandosi sui fatti, sia pur interpretandoli soggettivamente, preferiscono riproporre uno scontro ideologico del tutto fuori tempo massimo. Se si discute di come ricostruire una storia più ricca e corposa dell’area cossuttiana e di come nacque il Prc sono sempre disponibile al confronto, d’altronde recentemente ho scritto molto in tal senso sulla storia del Prc e mi pare, ad esempio, che il libro di Severino Galante, ricco di documentazione, vada in questa direzione. Il resto non mi interessa, è una discussione che lascio a chi, a ogni costo, la vuole fare.


Alessandro Valentini


(Tratto dalla pagina Facebook di Alessandro Valentini, 5 giugno 2020).


Inserito il 10/12/2023.