Vladimir Majakovskij

Vladimir Majakovskij

A piena voce

Composto tra la fine del 1929 e l’inizio del 1930, questo testo fu concepito come una «prima introduzione a un poema» dedicato, secondo varie testimonianze del circolo di amici intimi di Majakovskij, al piano quinquennale. Ed è proprio col titolo Prima introduzione a un poema fu pubblicato sul numero 2/1930 della rivista «Oktjabr’».

Diamo di seguito la versione completa del testo tradotta in italiano da Ignazio Ambrogio, curatore per gli Editori Riuniti delle opere di Majakovskij e di Gor’kij.

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A piena voce

Prima introduzione a un poema


Cari

compagni posteri!

Rimestando

nella merda impietrita

di oggi,

scrutando le tenebre dei nostri giorni,

voi,

forse,

domanderete anche di me.

E forse affermerà

il vostro dotto,

coprendo con l’erudizione

lo sciame di domande,

che, pare, ci sia stato

un certo cantore dell’acqua bollita,

nemico inveterato dell’acqua naturale.

Professore, si tolga

gli occhiali-biciclo!

Io stesso racconterò

del tempo

e di me.


Io, vuotacessi

e acquaiolo,

mobilitato e chiamato

dalla rivoluzione,

andai al fronte

dai parchi nobiliari

della poesia:

donnetta capricciosa.

Leggiadro

coltivava il giardino,

la figlia,

la villa,

il lago

e la quiete.

«Da me ho piantato il giardino,

lo innaffierò da me».

Chi spande versi dall’innaffiatoio,

chi li spruzza

a bocca piena,

riccioluti Mitrejki,

saputi Kudrejki1,

chi diavolo la sbroglierà con loro!

Per l’alluvione non c’è quarantena,

e smandolinano sotto le mura:

«Tara-tina, tara-tina,

t-en-n…»2.

Non è grande onore

che da queste rose

si levino le mie statue

nei giardinetti

dove scatarra la tisi,

dove sta la puttana col teppista

e la sifilide.

Per me

di agitprop

ne ho avuto fino al collo,

per me

imbastire

per voi romanze

sarebbe stato più redditizio

e allettante.

Ma io

mi domavo,

mettendomi

sulla gola

della mia canzone.

Ascoltate,

compagni posteri,

l’agitatore

e lo strillone.

Coprendo

le fiumane di poesia,

scavalcherò

i volumetti lirici

e come un vivo

parlerò ai vivi.

Verrò a voi

nella lontananza comunista

non come

un canoro vate-paladino eseniniano.

Giungerà il mio verso

sopra i crinali dei secoli,

sopra le teste

di poeti e di governi.

Giungerà il mio verso

ma non così,

non come uno strale

in una caccia di cupidi e lire,

non come giunge

al numismatico la logora moneta,

non come giunge la luce delle stelle spente.

Il mio verso

a fatica

squarcerà la mole degli anni

e apparirà

pesante,

ruvido,

tangibile,

come ai nostri giorni

è giunto l’acquedotto,

costruito

dagli schiavi di Roma.

Nei cumuli dei libri,

sepolcri di poesia,

scoprendo per caso

le schegge di ferro dei versi,

voi

con rispetto

lo toccherete

come un’arma antica

ma terribile.

Non sono avvezzo a carezzare

l’orecchio

con la parola,

e tra i ricci

l’orecchio della fanciulla

non arrossirà,

sfiorato da frasi scurrili.

Dispiegati in parata

gli eserciti delle mie pagine,

passo in rassegna

il fronte delle righe.

Stanno i versi,

con pesantezza di piombo,

pronti alla morte

e alla gloria immortale.

I poemi si sono irrigiditi

in fila compatta,

puntando le bocche da fuoco

dei titoli spalancati.

Arma

di tutte la più amata,

pronta

a slanciarsi in un grido,

sta raggelata

la cavalleria delle arguzie,

levando

le lance appuntite delle rime.

Tutti questi reparti

armati fino ai denti,

che per vent’anni sono passati

di vittoria in vittoria,

fino all’ultimissimo

foglietto,

io li consegno a te,

proletario del nostro pianeta.

Ogni nemico dell’immensa classe

operaia

è anche un mio vecchio

acerrimo nemico.

Di marciare

ci ordinarono

sotto la bandiera rossa

gli anni della fatica

e i giorni di fame.

Ogni volume

di Marx

l’aprivamo

come in casa

propria

si aprono le imposte,

ma anche senza leggerli

capivamo

dove andare,

in quale campo combattere.

Noi

la dialettica

non l’imparammo da Hegel.

Col fragore delle battaglie

irrompeva nel verso,

quando,

sotto i proiettili

dinanzi a noi fuggivano i borghesi,

come una volta

noi

davanti a loro.

Dietro i geni,

vedova sconsolata,

si trascini la gloria

nella marcia funebre,

ma tu muori, mio verso,

muori come un soldato,

come anonimi

morivano i nostri negli assalti!

Me ne infischio

dei bronzi massicci,

me ne infischio

del muco marmoreo!

Accordiamoci pure sulla gloria,

tanto siamo tra noi,

ma ci sia

monumento comune

il socialismo

edificato nelle battaglie.

Posteri,

verificate le boe dei dizionari:

dal Lete

affioreranno

residui di parole

come «prostituzione»,

«tubercolosi»,

«blocco».

Per voi

che siete

agili e robusti

il poeta

ha leccato

gli sputi della tisi

con la ruvida lingua del manifesto.

Con la coda degli anni

io prenderò l’aspetto

dei mostruosi

fossili caudati.

Compagna vita,

dai,

acceleriamo il passo

dei giorni che restano

nel piano quinquennale!

Nemmeno un rublo

i versi

m’hanno messo da parte,

gli ebanisti

non m’hanno arredato la casa.

E tranne

una camicia lavata di fresco

in tutta coscienza dirò

che non mi occorre altro.

Presentandomi

alla Commissione centrale di controllo

dei luminosi anni

futuri,

sopra la banda

dei ladri poetici

e scrocconi

io leverò

come una tessera bolscevica

tutti i cento volumi

dei miei

libri di partito.


Vladimir Majakovskij

(Traduzione di Ignazio Ambrogio)


(Tratto da: Vladimir Majakovskij, Opere, a cura di Ignazio Ambrogio, Roma, Editori Riuniti, 1958, III ediz. 1980, vol. 5, pp. 433-439).


Note

1 I due versi tra virgolette sono tolti da una canzoncina molto in voga in quel periodo. Konstantin Mitrejkin (1904-1934) era un poeta di tendenza «costruttivista»; Anatolij Kudrejko (1907-1984), considerato da Majakovskij un «decadente», aveva pubblicato nel 1929 una raccolta di versi intitolata Assedio.

2 Dalla poesia Valzer zingaresco su chitarra del poeta costruttivista Il’ja Sel’vinskij (1899-1968), citata qui con chiaro intento ironico.


Inserito l’11/02/2023.

Sergej Esenin (1895-1925). Fonte della foto: wikimedia.org

Sotto: l’ultima poesia di Esenin, scritta col sangue.

A Sergej Esenin

di Vladimir Vladimirovič Majakovskij

Due poeti sempre sopra le righe, due persone altrettanto sopra le righe, due suicidi. Quello del rapporto – conflittuale, e non a caso – tra Vladimir Majakovskij e Sergej Esenin è un tema di cui molti si sono occupati e che ci impegniamo a riproporre su questo sito. Intanto però godiamoci la poesia che Majakovskij iniziò a scrivere subito dopo il suicidio del “poeta contadino” Esenin, avvenuto il 28 dicembre 1925, e che portò avanti per qualche mese, fino alla sua pubblicazione sul giornale in lingua russa di Tiflis «Zarja Vostoka» [L’Aurora d’Oriente] il 16 aprile 1926.

Il suicidio del fondatore della corrente immaginista ha in seguito destato dubbi, ma ne parleremo altrove. Qui si noti il riferimento che Majakovskij fa alla mancanza d’inchiostro nella camera d’albergo del poeta: Esenin, infatti, scrisse una poesia d’addio a un caro amico usando come inchiostro il proprio sangue. Eccola:


Arrivederci, amico mio, arrivederci.
Tu sei nel mio cuore.
Una predestinata separazione
Un futuro incontro promette.

Arrivederci, amico mio,
Senza strette di mano, senza parole,
Non rattristarti e niente
Malinconia sulle ciglia:
Morire in questa vita non è nuovo,
Ma più nuovo non è nemmeno vivere.


Agli ultimi due versi del poeta suicida (Morire in questa vita non è nuovo / Ma più nuovo non è nemmeno vivere), Majakovskij contrappone i propri ultimi due versi:


In questa vita

non è difficile

morire.

Vivere

è di gran lunga più difficile.

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A Sergej Esenin


di Vladimir Vladimirovič Majakovskij


Voi ve ne siete andato,

come suol dirsi,

all’altro mondo.

Il vuoto…

Volate,

fendendo le stelle.

Senza un acconto,

senza libagioni.

Sobrietà.

No, Esènin,

questo

non è dileggio, —

in gola

ho un groppo di pena,

non un ghigno.

Vedo

che con la mano recisa, esitando,

dondolate il sacco

delle vostre

ossa.

Smettetela,

cessate!

Siete matto?

Lasciarsi

imbiancare

le guance

dal gesso mortale?

Proprio voi

che sapevate sbizzarrirvi,

come nessun altro

a questo

mondo.

Perché,

a che scopo?

L’incertezza ha provocato scompiglio.

I critici borbottano:

«Le cause

sono queste e quelle,

e in specie

lo scarso affratellamento

per effetto

della molta birra e del molto vino».

Si dice

che aveste sostituito

la bohème

con la classe,

la classe avrebbe influito su di voi

e non vi sareste più accapigliato.

Già, come se la classe

spegnesse la sete

col «kvas».

La classe

anche lei

non scherza nel bere.

Si dice

che, a mettervi accanto

qualcuno di «Na postú»,

sareste diventato

assai più bravo

nel contenuto:

voi

avreste scritto

al giorno

centinaia di versi

stucchevoli

e lungagginosi,

come Dorònin.

Ma, a parer mio,

se si fosse avverata

una tale incongruenza

vi sareste soppresso

ancor prima.

Meglio infatti

morire di vodka

che di tedio!

A noi

non sveleranno

i motivi della perdita

né il cappio

né il temperino.

Forse,

ci fosse stato

inchiostro all’«Angleterre»,

non avreste avuto ragione

di tagliarvi

le vene.

Gli epigoni si rallegrarono:

«Imitiamolo!»

Poco mancò

che un drappello di loro

non facesse di sé giustizia.

Perché

aumentare

il numero dei suicidi?

Meglio

accrescere

la produzione d’inchiostro!

Ora

per sempre

la lingua

è chiusa fra i denti.

È inopportuno

e penoso

coltivare misteri.

Il popolo,

creatore del linguaggio,

ha perduto

un roboante

sbornione apprendista.

E c’è già chi porta

rottami di versi in suffragio

da precedenti

esequie,

quasi senza rifarli.

Nel tumulo

conficcano

pali di ottuse rime, —

è così

che bisogna onorare

un poeta?

Per voi non è stato sinora

fuso alcun monumento

— dov’è

il bronzo squillante

o il granito a faccette? —

e già ai cancelli della memoria

poco per volta

hanno ammucchiato

le ciarpe delle dediche

e delle ricordanze.

Il vostro nome

nei fazzolettini è smoccicato,

Sobinov sbava

la vostra parola

e canticchia

sotto un betullina stenta:

«O amico mio,

né un motto,

né un so-o-o-spir».

Eh,

poter discorrere altrimenti

con codesto

Leonid Loengrinič!

Potersi qui levare,

tonante attaccabrighe:

«Non vi permetto

di cincischiare

i miei versi!»

Poterli

assordare

con un fischio a tre dita

contro la nonna,

e Dio, la madre, l’anima!

Perché si disperda

l’inetta marmaglia,

gonfiando

come vele

un nuvolo di giacche,

perché

alla spicciolata

Kogan se la batta,

storpiando

i passanti

con le picche dei baffi.

Finora

il canagliume

s’è poco diradato.

Molto è il lavoro,

occorre fare in tempo.

Bisogna

dapprima

trasformare la vita

e, trasformata,

si potrà esaltarla.

Quest’epoca

è difficiletta per la penna.

Ma ditemi

voi,

sciancati e sciancate,

dove,

quando,

quel grande si è scelto

una strada

più battuta

e più facile?

La parola

è un condottiero

della forza umana.

March!

Che il tempo

esploda dietro a noi

come una selva di proiettili.

Ai vecchi giorni

il vento

riporti

solo un garbuglio di capelli.

Per l’allegria

il pianeta nostro

è poco attrezzato.

Bisogna

strappare

la gioia

ai giorni futuri.

In questa vita

non è difficile

morire.

Vivere

è di gran lunga più difficile.


Vladimir Vladimirovič Majakovskij

(Traduzione di Angelo Maria Ripellino)


1926

(Tratto da: AA.VV., Poesia russa del Novecento, Guanda, Parma, 1954; AA.VV., Poesia russa del ’900, Feltrinelli, Milano, 1960).


Inserito il 20/05/2023.

Dekabrjuchov e Oktjabrjuchov

(Dicembrjuchov e Ottobrjuchov)

Film muto del 1928 basato su una sceneggiatura di Vladimir Majakovskij

A cura di Leandro Casini

Fotogramma tratto dal film Dekabrjuchov i Oktjabrjuchov (1928).

Schiaffo alla burocrazia nascente

🔴 di Leandro Casini 🔴

La commedia eccentrica Dekabrjuchov e Oktjabrjuchov riprende nel 1927-’28 temi e immagini di una poesia antiburocratica composta nel 1921 dallo stesso Majakovskij.

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Schiaffo alla burocrazia nascente


Nel 1927, a dieci anni dalla Rivoluzione bolscevica d’Ottobre, Vladimir Majakovskij elaborò una sceneggiatura per una commedia che celebrasse la ricorrenza: Dekabrjuchov i Oktjabrjuchov (in russo Декабрюхов и Октябрюхов), tradotto in italiano Dicembrjuchov e Ottobrjuchov.

L’anno successivo ne fu tratto un film, per la regia di Aleksej Smirnov e Aleksandra Smirnova-Iskander.

Nei ruoli principali: M. Cybul’skij (Nikolaj Dekabrjuchov), I. Vasil’čikov (Ivan Dekabrjuchov-Oktjabrjuchov), M. Egorova (Marija Dekabrjuchova-Oktjabrjuchova).

Su Wikipedia in russo si informa che la durata del film è di 61 minuti, ma questa versione, l’unica disponibile sui siti e sui torrent a noi noti, è di 45 minuti. Infatti si notano delle lacune nella trama che abbiamo in parte colmato basandoci, filologicamente, sul testo della sceneggiatura di Majakovskij, reperibile in traduzione italiana in: Vladimir Majakovskij, Opere, a cura di Ignazio Ambrogio, Roma, Editori Riuniti, 1958, III ediz. 1980, vol. 7, pp. 243-256.


Protagonisti della commedia

- Nikolaj Dekabrjuchov, ricco borghese

- Ivan Dekabrjuchov, suo fratello, molto meno ricco

- Marija Ivanovna Dekabrjuchova, la moglie del primo, in seguito moglie del secondo


Trama

1. A Kiev, il 25 ottobre 1917 (secondo il vecchio calendario giuliano allora in uso in Russia), Nikolaj Dekabrjuchov si sposa con Marija Ivanovna. I festeggiamenti di nozze vengono improvvisamente sconvolti da colpi di cannone e di artiglieria: è la Rivoluzione proletaria capeggiata dai bolscevichi, che mettono fine al potere del governo democratico-borghese di Kerenskij.

Il ricco borghese, sposo novello, impaurito dal cambio di regime politico, si camuffa e fugge precipitosamente a Parigi, lasciando la giovane sposa in balia degli eventi. La ricca dimora di Nikolaj Dekabrjuchov viene requisita dai bolscevichi e suddivisa tra molte famiglie povere. La povera Marija Ivanovna, sedotta e abbandonata, riesce a conservare per sé soltanto una stanza, nella quale cerca di accumulare tutte le masserizie di proprietà del marito.

Il fratello di Nikolaj, Ivan, uno spiantato, cerca di adattarsi alle nuove condizioni e si arrabatta come può. Intanto, a Parigi, dove si è rifugiato, Nikolaj ottiene un discreto successo nei circoli dell’emigrazione russa millantando un fasullo titolo di generale, vantando atti eroici di resistenza al potere bolscevico. Ottiene così il titolo, del tutto fittizio, di governatore di Kiev in esilio. Si aspetterebbe da ciò onori e denari, ma per sopravvivere è costretto a lavorare come facchino alla stazione della capitale francese e a elemosinare offerte tra i nobili russi in esilio.

2. Ivan, partendo dai gradi bassi delle gerarchie del nuovo potere, pian piano riesce a migliorare la propria condizione. Un giorno si imbatte in una lettera segreta di un polacco che contiene i piani di una congiura contro il potere bolscevico: si rivolge alle autorità sovietiche che, in cambio, gli concedono il diritto alla metà della stanza in cui vive la cognata. Poi viene inserito nel programma di cambiamento delle insegne cittadine secondo il nuovo alfabeto riformato dai bolscevichi. Grazie alla sua carriera, gli vengono assegnati anche dei metri quadrati aggiuntivi, cosa che lo fa rivalutare agli occhi di Marija Ivanovna.

Sono passati dieci anni dallo scoppio della Rivoluzione. Ivan Dekabrjuchov è nominato direttore dell’"Istituto superiore per l’introduzione della nuova ortografia". Il suo grado gli permette ora di avere un bell’appartamento, un autista personale e una donna di servizio. È a questo punto che egli si decide ad avanzare la richiesta di matrimonio alla cognata, di cui è segretamente innamorato da sempre.

Marija Ivanovna, pur lusingata dalla proposta, si rifiuta per via della legge che punisce i bigami, ma l’intralcio viene aggirato dall’impiegata dell’ufficio anagrafe che accerta un matrimonio di fatto, dovuto alla decennale convivenza, e dichiara nullo il matrimonio, peraltro religioso, contratto in precedenza con Nikolaj.

Marija e Ivan si registrano marito e moglie all’ufficio di stato civile, e seduta stante Ivan Dekabrjuchov (= Dicembrjuchov) decide di cambiare il cognome in Oktjabrjuchov (= Ottobrjuchov), un cognome che si attaglia di più alla sua posizione nella gerarchia del potere sorto con la Rivoluzione d’Ottobre.

A Parigi, Nikolaj Dekabrjuchov, stanco degli stenti che deve sopportare, cerca udienza presso il primo ministro francese Poincaré, ma quando viene a sapere che questi sta ricevendo il rappresentante plenipotenziario dell’Unione Sovietica, capisce che la storia è andata da un’altra parte rispetto alle sue aspettative di un tempo, e decide di chiedere il rimpatrio. Nel treno che lo riporta a Kiev, sfogliando la stampa sovietica, si rende conto dei progressi del nuovo regime.

Arrivato nella sua antica dimora, quasi non la riconosce per via dei nuovi addobbi della propaganda sovietica. Entra in casa e coglie i due novelli sposini a scambiarsi effusioni amorose.

Lo scandalo che sta per esplodere viene interrotto sul nascere da un colpo di cannone, che precipita Nikolaj nel terrore del ricordo dello scoppio della Rivoluzione. Si tratta invece dell’inizio dei festeggiamenti per il decennale della Rivoluzione d’Ottobre 1917, e sfilano per le strade i proletari festanti che portano sui carri le parole d’ordine bolsceviche.


La visione del film o la lettura della sceneggiatura convinceranno lo spettatore o il lettore che si tratta di un’opera tutt’altro che celebrativa, ma di una commedia eccentrica che rappresenta un simbolico schiaffo al potere sovietico per come si stava allora sviluppando.

La satira di Majakovskij si scaglia contro due obiettivi:

1) contro l’emigrazione antibolscevica russa in Occidente, che si dà ai bagordi con i soldi rubati al popolo affamato della Russia (su tale aspetto in questo articolo sorvoleremo, perché non vediamo nessun elemento di novità nel fatto che un bolscevico come Majakovskij attaccasse gli emigrati antibolscevichi in tutti i modi possibili che gli erano dati);

2) contro la burocratizzazione del potere sovietico, contro le gerarchie e i privilegi di cui godono: il fatto che un piccolo-borghese come Ivan Dekabrjuchov faccia carriera nella scala gerarchica bolscevica è una critica chiara alle degenerazioni del potere.

Ecco, questo secondo è l’aspetto dell’opera che a chi scrive più interessa. E gli interessa perché di quella storia si sente parte dall’inizio alla fine, e ritiene giusto, indispensabile anzi, indagare cause e conseguenze delle incongruenze, delle storture, delle tragedie, dei crimini che hanno attraversato la società sovietica dall’iniziale esaltante assalto al Palazzo d’Inverno (e al cielo) alla fine ingloriosa e tragica, con tratti anche da farsa (il 1991 è sembrato tutto una tragica farsa). Majakovskij in questo ci aiuta in modo prezioso, perché il suo occhio vede e la sua penna colpisce sempre soprattutto i difetti e le ingiustizie dell’uomo, della società (capitalista o socialista che sia), del potere (borghese o proletario che sia), della vita stessa.

Le immagini dell’appartamento del neo-funzionario sovietico, un parvenu senza un minimo di storia e coscienza politica sulle spalle, che rimira la moglie che si esercita al piano, il canarino in gabbia e Marx alla parete, tutto riporta dritto dritto alla nostra mente una poesia dello stesso Majakovskij intitolata Della feccia (tradotta in italiano anche con Della canaglia):


Della feccia


Gloria, Gloria, Gloria agli eroi!

Del resto,

già abbastanza

li abbiamo glorificati.

Adesso,

parleremo un po’

della feccia.


Si sono placate le tempeste dei nembi rivoluzionari.

Si è ricoperto di melma il miscuglio sovietico.

Ed è strisciato fuori,

alla schiena della Repubblica Federativa Socialista,

il ceffo

del piccolo borghese.


(Non prendetemi alla lettera,

non sono affatto nemico del ceto piccolo-borghese.

Ai piccoli borghesi,

senza distinzione di ceto o di classe,

il mio panegirico.)


Da tutte le sterminate pianure russe,

dal primo giorno di vita sovietica,

sono confluiti,

mutando in fretta il piumaggio,

per insediarsi in tutte le istituzioni.

Col sedere incallito da cinque anni di sedia,

solidi come lavandini,

campano tuttora

più cheti dell’acqua.

Si sono arredati studioli e camerette accoglienti.


E a sera

questa o quella canaglia,

la moglie,

che si esercita al piano, rimirando,

dice,

spossato dal vapore del samovar:

«Compagna Nadja!

Per la festa ci tocca un aumento:

24 mila,

secondo la tariffa.

Ah,

ora sì che mi compro

un paio di calzoni alla zuava,

larghi quanto l’Oceano Pacifico,

per sporgerne fuori come un banco di corallo!»

E Nadja a sua volta:

«E per me abiti con lo stemma.

Senza falce e martello non puoi comparire in pubblico!

Che mi metto

per far figura, oggi,

al ballo

del Consiglio militare rivoluzionario?!»

Alla parete Marx.

La cornice è d’un rosso acceso.

Accucciato sulle “Izvestija”, si riscalda un gattino.

E su, sotto il soffitto,

a più non posso

si sgola un canarino.


Marx dalla parete continua a guardare…

Poi, d’un tratto,

spalanca la bocca

e si mette a urlare:

«La rivoluzione s’è impigliata nella rete del filisteismo.

Più tremendo di Vrangel’ è il costume borghese.

Presto,

torcete il collo ai canarini,

perché da essi

non venga sopraffatto il comunismo!».


La poesia è del 1921! E dice tutto, in modo chiaro: «La rivoluzione s’è impigliata nella rete del filisteismo».

Già allora, in periodo di NEP (Nuova politica economica), Majakovskij aveva individuato il germe dei difetti e delle degenerazioni burocratiche del potere sovietico. E non deve sorprendere il fatto che il riferimento a una tale critica potesse essere riproposto nel 1928 senza incorrere in censure: si potevano ancora esprimere giudizi critici sulle storture del sistema. E forse tali giudizi erano ancor meglio tollerati perché dietro c’era proprio Majakovskij, il cantore della rivoluzione, stimato in primo luogo proprio da Stalin.


Nel film si notano caratteristiche tipiche della propaganda filobolscevica e majakovskiana: se ripensiamo ai disegni prodotti dal poeta futurista nei primi anni rivoluzionari nella sua attività di disegnatore di manifesti alla ROSTA (Agenzia Telegrafica Russa), si riconosceranno gli originali movimenti che le lettere animate delle didascalie disegnano sullo sfondo durante il discorso parigino di Nikolaj Dekabrjuchov.

Non è neanche secondario il simbolismo della propaganda filobolscevica riscontrabile nelle stesse figure dei protagonisti: il ricco borghese è grasso, come grassi venivano presentati i capitalisti nei manifesti; il fratello, meno ricco, è solo un po’ cicciottello, ma comunque più pingue degli attivisti bolscevichi, tutti estremamente magri, così sottolineando il contrasto tra il proletariato forgiato dalla fame e dal lavoro, e la borghesia, ingrassatasi nell’ozio e nello sfruttamento del popolo. Nel film sono contenuti rari e preziosi filmati originali del periodo prerivoluzionario, con sfilate in onore dello zar Nicola II, che compare in persona con tutta la corte al seguito mentre riceve la benedizione dal patriarca oppure mentre saluta una schiera di alti ufficiali.

Altrettanto rari e preziosi i rapidi passaggi delle immagini di manifestazioni in Germania e Polonia, nonché quelle delle sfilate per le strade delle città sovietiche in occasione del decimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre.


Leandro Casini


Inserito il 12/02/2023.