Vento dell’Est
Ottobre
Aderire o non aderire?
La questione non si pone per me.
È la mia rivoluzione.
V.V. Majakovskij (1917)
5 dicembre 1973: Enrico Berlinguer tiene un comizio di fronte agli operai dell’azienda chimica Leuna-Werke, in Sassonia-Anhalt, Repubblica Democratica Tedesca.
Dalla rivista «StoricaMENTE» dell’Università di Bologna
DDR, tra sogno e disincanto
di Giulia De Carlini
Recensione del volume: Costanza Calabretta, Marialuisa Lucia Sergio (a cura di), Italia – DDR. Nuove prospettive di ricerca, Roma, Istituto italiano di studi germanici, 2023, 184 pp.
Un volume collettaneo indaga i rapporti culturali e politici tra Italia e Repubblica Democratica Tedesca, in particolare nel trentennio tra gli anni Cinquanta e Settanta. Rapporti che furono patrocinati ovviamente dal Partito Comunista Italiano attraverso varie forme, dalla fondazione del Centro Thomas Mann alla promozione di gemellaggi istituzionali tra comuni “rossi” e amministrazioni locali della DDR.
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DDR, tra sogno e disincanto
di Giulia De Carlini
Recensione del volume: Costanza Calabretta, Marialuisa Lucia Sergio (a cura di), Italia – DDR. Nuove prospettive di ricerca, Roma, Istituto italiano di studi germanici, 2023, 184 pp.
La raccolta di saggi Italia – DDR. Nuove prospettive di ricerca, curata da Costanza Calabretta e Marialuisa Lucia Sergio, si inserisce nell’ambito del progetto di ricerca “Le relazioni culturali tra Italia e DDR, tra sogno e disincanto. Ricerche archivistiche e nuove prospettive interpretative”, condotto presso l’Istituto Italiano di Studi Germanici nel biennio 2021-2023. Il volume, che prende le mosse da una serie di seminari di studio svoltisi tra il 2022 e il 2023, accoglie i contributi di giovani ricercatori – sia storici che germanisti – sulla complessa vicenda storica della DDR e delle sue relazioni bilaterali con l’Italia. Tracciando e intrecciando tra loro originali percorsi di ricerca su temi di storia politica, culturale, sociale e intellettuale, la collettanea si propone di delineare il carattere «complesso e dinamico» della società tedesco-orientale, che continua a «suscitare interrogativi sul nostro presente e a sollevare numerosi problemi storiografici» (p. 11).
Per permettere al lettore di inquadrare i contributi nel più ampio orizzonte storiografico, il volume si apre con una puntuale analisi sull’evoluzione della ricerca storica sulla DDR negli ultimi trent’anni. Oltre che al ricco bilancio sugli studi tedeschi e internazionali, viene fatta emergere la varietà di orientamenti della ricerca italiana sulla DDR, presentando anche i più recenti e originali lavori, come quelli sui movimenti e le culture giovanili o quelli sull’elaborazione della memoria della DDR nella Germania riunificata (p. 20).
La distribuzione dei saggi presentati permette di seguire linearmente, cronologicamente e con completezza la parabola storica della DDR. Partendo infatti dal contributo di Edoardo Lombardi, che esamina gli strumenti politici e culturali che il partito di unità socialista della SED utilizzò nei suoi primi anni di costituzione per la costruzione di un’identità nazionale, si prosegue poi con tre saggi dedicati, da prospettive diverse ma connesse, alle relazioni bilaterali tra Italia e DDR tra gli anni Cinquanta e Settanta. Se il contributo di Francesco Leone analizza i rapporti politici transnazionali del PCI con la SED, in particolare le attività a sostegno della riunificazione tedesca negli anni Cinquanta e la lotta per il riconoscimento della DDR negli anni Settanta, il saggio di Teresa Malice delinea, invece, la storia dei gemellaggi tra le amministrazioni comunali social-comuniste dell’Italia settentrionale e le loro controparti nella Repubblica Democratica Tedesca tra gli anni Sessanta e Settanta. La studiosa è riuscita nel complesso compito di intrecciare il livello “alto”, quello dei partiti e delle amministrazioni comunali, a quello “basso”, in cui sono presi in considerazione – anche attraverso l’utilizzo di fonti orali – i rapporti personali e di amicizia tra i cittadini italiani e tedesco-orientali, accomunati dal «condiviso credo socialista, antifascista e anticapitalista» (p. 69). Le relazioni culturali tra Italia e DDR sono al centro del contributo di Costanza Calabretta, che indaga l’attività del Centro Thomas Mann, un ente culturale che raccolse molti intellettuali di sinistra e, sostenuto dal PCI e dalle istituzioni della DDR, «si occupò tra il 1957 e il 1989 di far conoscere il paese, di veicolarne la cultura, promuovendo gli scambi con l’Italia» (p. 23). Il tema degli incontri culturali e dei fermenti intellettuali durante la guerra fredda è al centro anche della riflessione di Francesca Somenzari, che studia la nascita e l’attività della Società Europea di Cultura negli anni Cinquanta. Raccogliendo intellettuali di diversi paesi, tra cui anche le due Germanie e altri stati dell’Europa orientale, la Società aveva lo scopo di «strutturare un dialogo aperto e non connotato dalla divisione tra i blocchi e dalla pressione ideologica della guerra fredda» (p. 24). Attraverso lo studio della rivista della SEC «Comprendre. Revue de politique de la culture», si presenta in particolare il dibattito condotto in ambito tedesco sull’energia atomica. A chiudere la collettanea è, infine, il saggio della germanista Giulia Bocchetti, che si concentra su Christa Wolf, una delle figure più importanti della letteratura e della cultura della DDR. Utilizzando come fonti gli scritti dell’autrice, il saggio intreccia le vicende biografiche della Wolf con la parabola storica della DDR, mostrando come le sue opere letterarie siano una cartina da tornasole delle principali questioni discusse all’epoca, tra cui: i complessi rapporti che molti intellettuali ebbero con il regime della SED, il dibattito sul conflitto atomico, fino a giungere al tema della crisi d’identità da parte di numerosi intellettuali e attivisti dei movimenti civili che, dopo la Wende, si videro chiudere per sempre la speranza di realizzare il sogno di una “Terza via”.
Nel complesso, uno dei pregi del volume è la capacità di attraversare e connettere diversi piani spaziali, facendo interagire tra loro quello nazionale – in cui sono delineate le relazioni politiche, culturali e commerciali bilaterali tra Italia e DDR –, il contesto geopolitico generale su scala europea e internazionale e, infine, la dimensione locale, attraverso lo studio di fonti documentarie provenienti da archivi comunali (come quelli di Bologna e Lipsia), ponendo al centro della relazione tra i due paesi una scala territoriale (p. 73).
Nonostante la varietà di tematiche e approcci, emergono degli elementi ricorrenti che, come un filo rosso, attraversano tutti i saggi: uno di questi è il tema dell’antifascismo, che assurse per il regime della SED a mito fondativo dello Stato e divenne imprescindibile fonte di legittimazione e connessione con l’URSS, ma fu anche, come si evidenzia dalle attività culturali promosse dal Centro Thomas Mann, motivo di incontro con l’Italia, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, quando «il paradigma dell’antifascismo e della resistenza si rafforzarono come patrimonio condiviso di valori» (p. 97).
Il “sogno e il disincanto” è un ulteriore leitmotiv che emerge dai vari contributi del volume, soprattutto nei saggi che esplorano i rapporti culturali tra intellettuali e i gemellaggi tra municipi: il “sogno” di un’alternativa socialista rispetto al modello capitalista aveva, infatti, esercitato un forte fascino e richiamo in Italia, nonostante la disillusione e la critica, anche da parte di molti intellettuali, di fronte alla scoperta delle violazioni dei diritti umani e della mancanza di libertà di espressione nel regime della DDR (p. 83). Il volume si conclude con un ulteriore e irreversibile “disincanto” all’indomani della caduta del muro, quando numerosi intellettuali tedesco-orientali non riuscirono ad accettare il fallimento della loro utopia di un rinnovamento radicale in una DDR indipendente e rigettarono la narrazione che faceva dell’occidentalizzazione la sola via possibile di successo.
Oltre che per approfondire i rapporti bilaterali tra DDR e Italia, i saggi presentati sono dunque utili per riflettere su tematiche più trasversali come la koinè antifascista, l’identità nazionale, il ruolo e la responsabilità degli intellettuali nella società, la questione dell’energia atomica, la fine del socialismo e, con essa, il tramonto delle utopie, dando la possibilità di ridefinire e ampliare lo sguardo sullo studio della storia europea del secondo dopoguerra.
Grazie all’esame di fondi archivistici inediti o poco indagati – si veda in appendice la riproduzione di alcuni documenti provenienti dall’archivio del Centro Thomas Mann – e su stimolo delle più recenti ricerche internazionali che si sono concentrate, a partire da una prospettiva globale, sulle connessioni transnazionali della storia tedesco-orientale, il volume contribuisce al superamento di una lettura della storia della DDR come entità statica e uniforme, aprendo nuovi possibili percorsi di ricerca in ottica comparativa e interdisciplinare.
Sommario
Marialuisa Lucia Sergio, Prefazione
Costanza Calabretta, Introduzione. La storiografia sulla DDR dopo il 1989: il caso tedesco e italiano
Edoardo Lombardi, «Irrweg einer Nation»: la SED e il tema dell’identità nazionale nella DDR (1946-1952)
Francesco Leone, Il Partito Comunista Italiano, la questione tedesca e la SED negli anni Cinquanta e Sessanta
Teresa Malice, «Alles ist Politik». I gemellaggi municipali tra Italia “rossa” e DDR tra prassi, simbolismo e utopia
Costanza Calabretta, Il Centro Thomas Mann: un’istituzione culturale della Guerra fredda (1957-1989)
Francesca Somenzari, La Società Europea di Cultura e la partecipazione degli intellettuali di lingua tedesca al dibattito atomico negli anni Cinquanta
Giulia Bocchetti, Il ruolo dell’intellettuale nella DDR: l’esempio di Christa Wolf
Giulia De Carlini
(Tratto da: Giulia De Carlini, Calabretta, Sergio (ed.), “Italia – DDR. Nuove prospettive di ricerca”, in «Storicamente», 20 (2024), n. 10; in https://storicamente.org/recensione_italia_ddr_calabretta_sergio).
Inserito il 05/01/2025.
Il 22 aprile 1946, sotto la presidenza di Walter Ulbricht, si tenne a Berlino il primo congresso del Partito Socialista Unificato della Germania (SED), creato il giorno precedente da Wilhelm Pieck, presidente del Partito Comunista della Germania (KPD). e Otto Grotewohl, presidente del Partito Socialdemocratico (SPD) nella zona di occupazione sovietica.
Fonte della foto: https://www.cvce.eu/de/obj/congres_du_parti_socialiste_unifie_allemand_berlin_22_avril_1946-fr-ea07c910-055b-4644-a879-d0e450dc187f.html
Edoardo Lombardi
Uno Stato senza nazione
L’elaborazione del passato nella Germania comunista (1945-1953)
L’elaborazione del passato nella Germania comunista (1945-1953)
(Milano, Unicopli, 2022)
Introduzione di Edoardo Lombardi
«Provata dall’esperienza del secondo conflitto mondiale e con un passato difficile da elaborare, la Germania entrava nel 1945 in uno dei periodi più complessi della sua storia, divisa e occupata dalle potenze alleate vincitrici. In questo nuovo contesto, i comunisti tedesco-orientali riconobbero immediatamente nella storia uno strumento per legittimare il proprio ruolo di guida delle masse. Una consapevolezza che, con la nascita della Repubblica Democratica Tedesca nel 1949, portò la SED (ovvero il Partito socialista unificato di Germania, che per quarant’anni fu la compagine politica dominante nella Germania Est) a trasformare la storia in uno strumento istituzionale. Essa divenne infatti la base fondante per legittimare l’esistenza del “primo Stato socialista sul suolo tedesco”, riplasmando e in certi casi reinventando il passato. Erano i primi passi di uno Stato senza Nazione, il cui tentativo di appropriazione della storia andò realizzandosi in modo molto graduale e non senza difficoltà, come questo libro racconta, seguendone dettagliatamente gli sviluppi» (dalla quarta di copertina del volume).
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Edoardo Lombardi
Uno Stato senza nazione
L’elaborazione del passato nella Germania comunista (1945-1953)
Introduzione di Edoardo Lombardi
Se i tedeschi fanno qualcosa, lo fanno in modo completo e coerente.1
(Hans Modrow)
Il 1° giugno 1996, lo storico tedesco Norbert Frei prendeva la parola presso l’auditorium «Einstein Forum» di Potsdam. La conferenza verteva sulle transizioni in Germania, tema che proprio in quel momento attraversava una fase molto delicata nel contesto delle politiche post-riunificazione: a sei anni di distanza dal fatidico giorno, il ricongiungimento dei due Stati tedeschi continuava a suscitare una vivissima attenzione mediatica2. Altrettanto significativo era il titolo dell’intervento di Frei: «Amnistia, ovvero: la politica della memoria in democrazia»3, contributo successivamente rieditato sul periodico «Historische Zeitschrift»4. Negli anni seguenti, lo storico tedesco avrebbe affrontato questo tema più volte, con particolare riferimento all’elaborazione storica del Terzo Reich nelle politiche culturali e vicende giudiziarie della Germania Ovest (Bundesrepublik Deutschlands, BRD5).
In questa sede, tuttavia, mi dedicherò solo limitatamente alle tesi esposte da Frei. Al contrario, vorrei prendere rapidamente le distanze dai suoi argomenti di quel giorno a Potsdam, i quali ebbero come principale oggetto le amnistie concesse al nazisti dalla Repubblica Federale nell’immediato dopoguerra6. Ai fini del nostro discorso, trovo sia molto più significativo analizzare quest’intervento all’interno di una cornice più ampia. Come si può evincere dai temi trattati quel giorno all’«Einstein Forum», gli anni successivi alla caduta del regime comunista in Germania Est (Deutsche Demokratische Republik, DDR) furono contraddistinti da un vivace dibattito pubblico e accademico intorno a numerose questioni di carattere politico, storiografico, penale o relative al discorso pubblico. Tutti gli occhi erano puntati sui due periodi di transizione del Novecento tedesco: il confronto tra le due esperienze dittatoriali, quella nazista e quella comunista, e il tentativo di differenziare i diversi modelli di violenza di Stato rappresentano, a titolo d’esempio, soltanto due di queste controversie. In quel primo di giugno 1996, ciò che Norbert Frei fece fu sottolineare la necessità di un riesame approfondito di quel secolo, scevro da tutti gli ostacoli che gli anni del secondo dopoguerra e nel pieno della Guerra Fredda avevano reso impossibile un confronto critico e scientifico con il passato.
Originata dalla cosiddetta Wende (la «svolta») o Friedliche Revolution (rivoluzione pacifica)7 del 1989, nel caso della transizione postcomunista in Germania, la cesura captata dagli storici a seguito della caduta dei regimi comunisti dell’Europa centro-orientale e la riattivazione di discorsi e dibattiti riguardanti il Novecento avevano assunto una dimensione globale in tempi molto rapidi. Non si trattò di un fenomeno esclusivamente tedesco. Né tale fenomeno si limitò alle scienze storiche. Per citare le parole dello storico francese Henri Rousso, il «movimento di riattivazione del passato»8 raggiunse proporzioni di assoluto rilievo e di portata inedita anche in termini di narrazione politica della storia. Spinti dagli eventi dell’89, opinione pubblica, partiti e governi si videro costretti a rivedere molti dei propri modelli di riferimento nello spettro delle memorie europee del Novecento:
In termini generali, alla centralità della figura dell’eroe partigiano è subentrata quella della vittima, la vittima innocente delle stragi naziste e delle violenze comuniste […] Si è affermata una raffigurazione di fondo del Novecento come secolo della violenza, dei crimini e dei genocidi scatenati dalle opposte ideologie totalitarie, nazista e comunista, con i rispettivi apparati del terrore.9
Nondimeno, nel panorama internazionale il caso tedesco presentava alcune peculiarità impossibili da ignorare. Pochi o nessun altro Paese europeo è stato segnato da vicende così radicali come lo è stata la Germania e, allo stesso modo, poche altre vicende del secolo scorso hanno così profondamente inciso sui contemporanei e sui posteri quanto quelle tedesche. Una singolarità sui generis determinata, per l’appunto, da due macro-periodi di transizione: quello postnazista e poi quello postcomunista. Rispetto al secondo, si può dire che la particolarità del caso tedesco fu anche piuttosto marcata rispetto ad altri Paesi dell’Europa orientale comunista, tra i quali la DDR spiccava per la sua reticenza ideologica agli stimoli dalla Perestrojka (ristrutturazione) voluta da Michail Gorbačëv: per la sua insensibilità al cambiamento e il suo attaccamento all’ortodossia marxista-leninista, la Germania Est non aveva pari tra i regimi del cosiddetto «socialismo reale»10. A fronte di questa inflessibilità, che su molti temi era anche condivisa con alcune delle altre repubbliche popolari (Romania su tutte), la transizione tedesco-orientale fu contraddistinta da una straordinaria attenzione mediatica da parte dell’Occidente e, soprattutto, da un attivismo e da un dibattito politico dal basso non violenti e molto vigorosi.
Vale qui la pena ricordare quale ruolo ebbero i movimenti civici di protesta tedesco-orientali nel corso della Wende: la loro presenza fu fondamentale tanto nella messa a freno della distruzione dei documenti ad opera del MfS (Ministerium für Staatssicherheit, la «Stasi»)11, quanto nella riapertura del dibattito storiografico sulla DDR. In verità, di alcune questioni si era già iniziato a discutere da alcuni anni nella Germania occidentale, dove il dibattito era molto vivo sia nell’opinione pubblica che nel contesto della ricerca. Basti pensare alla cosiddetta «disputa degli storici» (Historikerstreit), avviata nel 198612: nel corso di quest’ultima erano scesi in campo, da una parte, quegli storici e intellettuali che avevano intravisto una continuità tra il regime del Partito nazionalsocialista, la NSDAP (Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei), e quello della SED (Sozialistische Einheitspartei Deutschlands13); sul versante opposto della disputa si trovavano invece coloro che rifiutavano questo paradigma, il cosiddetto «consenso antitotalitario», così come era stato formulato, perché lo ritenevano troppo semplicistico14. Il confronto con la doppia (doppelt) esperienza dittatoriale, tanto spaziale quanto temporale, fu con ogni probabilità l’elemento più particolarizzante e problematico della transizione postcomunista tedesca15. Con il crollo del Muro, il tema veniva finalmente “consegnato” al libero dibattito. Per la nuova Bundesrepublik unificata (la Repubblica Federale post-1990), la caduta della DDR significò che era arrivato il momento di fare i conti con il passato comunista di una parte del Paese. Allo stesso tempo, si poneva l’obbligo di dialogare con la duplice e conflittuale riscrittura della storia tedesca che le due Germanie avevano operato fino ad allora16.
Il secondo termine temporale con il quale bisognava fare i conti era il 1945. Provata dall’esperienza del Secondo conflitto mondiale, in particolar modo dagli ultimi mesi di guerra (autunno 1944-primavera 1945), e spaventata all’idea di un confronto con i numerosi strascichi del regime nazista, la Germania entrava in una quotidianità del tutto inedita. In questa nuova dimensione, la distruzione materiale del paese faceva da contraltare a quella psicologica17. Costrutti come «Società del crollo» (Zusammenbruchsgesellschaft) e «Ora zero» (Stunde Null)18 erano allora e sono ancora oggi sintesi molto ricorrenti e note anche al di fuori del contesto tedesco. Si pensi, ad esempio, al modo in cui il film Germania anno zero di Roberto Rossellini rievocava questi due concetti: quelli di “crollo” e di “annullamento” della realtà, arrivandone a descrivere la paradossale quotidianità.
Termini come Stunde Null, indubbiamente fortunati e per certi versi anche efficaci, sono tuttavia insufficienti per una storiografia che deve confrontarsi necessariamente col binomio storia-memoria. Un aspetto sensibile di questo problema è rappresentato dalla cosiddetta Vergangenheitsbewältigung (il «superamento del passato»), un’espressione ormai divenuta di uso comune sia in ambito scientifico che giornalistico per descrivere un desiderio diffuso e comune nelle due Germanic del secondo dopoguerra: ossia quello di superare letteralmente il passato, spesso e volentieri rifugiandosi nell’oblio piuttosto che in una sana presa di coscienza critica. L’uso e la coniazione del termine Vergangenheitsbewältigung, infatti, non sono da ricondurre alla disciplina storica. A questo proposito, va anche precisato che le parole che gli storici adoperano oggi per parlare dell’elaborazione del passato in Germania sono assai numerose e che non tutte rendono giustizia all’ambito della ricerca. E non è un caso che ciò accada proprio perché, in più di un’occasione, non è stata quest’ultima a coniarli.
Tra gli esempi più noti e controversi allo stesso tempo troviamo il «superamento del passato», la cui “invenzione” è solitamente attribuita al primo Bundespräsident (presidente federale) Theodor Heuss, che l’avrebbe utilizzata in un suo discorso nel 1951. Anche il cancelliere Konrad Adenauer aveva parlato della Vergangenheitsbewältigung durante un suo intervento in parlamento, e per giunta in quello stesso anno19. Il «superamento» era il sintomo di un tentativo, ben più vasto e non celato dalle autorità tedesco-occidentali, di far prevalere una determinata immagine della Germania e dei tedeschi: innocenti, anziché carnefici; vittime (quelle civili dei bombardamenti) e militari (soldati che avevano “solo” fatto il loro dovere) piuttosto che protagonisti dati consensuali di un regime liberticida e fautore di una guerra di annientamento su scala continentale. I due leader della BRD si riferirono in più di un’occasione al «superamento del passato», riconoscendo sì la necessità di non dimenticare il periodo del Terzo Reich, ma respingendo tuttavia l’idea di una Kollektivschuld («colpa collettiva», da condividere tra tutti i tedeschi). Ad essa venne preferita la parola Kollektivscham, vale a dire una «vergogna collettiva», derivante dal fatto di aver spartito la cittadinanza tedesca con Hitler e con i gerarchi nazisti. L’espressione «superamento del passato» è quindi frutto di un’elaborazione politica e utilitarista della storia, nonché la conseguenza di una complessa serie di esigenze dettate dai solchi lasciati dalla guerra.
Solo in seguito questo termine ottenne una ricalibratura critica da parte della letteratura scientifica, tant’è che oggi questo linguaggio specialistico è passato dall’essere un’esclusiva tedesca a rappresentare quasi un metodo a sé stante per la disciplina storica e per il dibattito pubblico sui temi della memoria collettiva e del confronto col passato. La parola Vergangenheitspolitik (letteralmente «politica del passato») indica l’insieme delle strategie politiche «di reintegrazione sociale di rei e vittime»20; altre locuzioni come Geschichtspolitik21 ed Erinnerungskultur («politica della storia» e «cultura della memoria») esprimono la volontà di una determinata classe politica di ergersi a catalizzatore e filtro della rielaborazione e della comunicazione della storia al grande pubblico. Infine, lo storico tedesco Martin Sabrow scriveva che con la parola Geschichtsaufarbeitung22 (elaborazione della storia) vengono indicate
le due grandi attrattive del nostro attuale rapporto con il passato: da una parte, il desiderio di superare il passato attraverso una liberazione morale, scientifica e politica; e dall’altra, l’aspirazione ad accertarsi del passato, che nella prossimità dello ieri trova una parte essenziale di quel sentimento di familiarità, che è a fondamento dell’identità.23
Lo scopo di questo volume consiste nell’indagare in quale modo – e con quali scopi – si sia proceduto a una rielaborazione in termini politici del passato nella Germania orientale comunista dei primissimi anni del dopoguerra: ovvero, tra il 1945 e il 1953. Gli anni della Guerra Fredda, nei quali la questione tedesca avrebbe giocato un ruolo chiave, furono contraddistinti da un profondo conflitto politico-culturale tra le due Germanie: la Repubblica Federale a Ovest e la Repubblica Democratica a Est. In tal senso, nonostante l’arco cronologico e il focus principale di questo volume siano destinati a un contesto più circoscritto (1945-1953), ho ritenuto opportuno fare diversi incisi e riferimenti sul periodo bellico (1943-1945) e sulla seconda grande transizione tedesca del Novecento, quella del 1989. Nell’attuale contesto della ricerca, in cui anche l’analisi storiografica ha assunto una dimensione globale, invitando altresì al confronto interdisciplinare e all’analisi comparata nel lungo periodo, 1945 e 1989 emergono come elementi pressoché canonici24.
La successiva scelta di circoscrivere l’arco cronologico, e di riservarsi il diritto di estendere l’analisi oltre quest’ultimo, rientra esattamente in questa logica: il 1945, l’anno della fine del secondo conflitto mondiale e del rientro dei comunisti tedeschi25 in Germania, è un momento paradigmatico della storia contemporanea tedesca. Allo stesso modo, la morte di Stalin, la sollevazione popolare di Berlino Est del 17 giugno, nonché la fase culmine di una serie di epurazioni politiche interne alla SED raggiunta in quell’anno rendono imprescindibile soffermarsi sul 1953 come ulteriore termine periodizzante. Non ultima, la transizione postcomunista del 1989-1990 comportò indubbiamente benefici che vanno oltre la fine del regime comunista tedesco-orientate e la fine della “Cortina di ferro”. La progressiva apertura degli archivi della ex-DDR26 fornì ai ricercatori una mole impressionante di documenti ufficiali tra verbali, colloqui, ordinanze e, non ultimo, immagini e fonti audiovisive. Per la prima volta dopo più di quarant’anni, gli storici ebbero l’opportunità di studiare in modo organico l’esperienza della Germania orientale e di storicizzarla per mezzo della sua stessa produzione documentaria. Agli studiosi fu possibile ricostruire le politiche attraverso cui la DDR aveva indagato e riscritto il suo passato e la storia tedesca per esteso. Più puntualmente, vorrei soffermarmi su quest’ultimo passaggio.
I trenta e più anni che ci separano dalla fine della Germania Est, fino alle più recenti ricorrenze della caduta del Muro e della riunificazione, hanno avuto risvolti molto singolari e intriganti per lo scenario tedesco. Per certi versi, è innegabile che la fine della DDR abbia fatto la fortuna dei ricercatori e degli storici. D’altro canto, è quasi paradossale che la caduta del regime tedesco-orientale ne abbia determinato il maggiore successo mediatico e commerciale dai tempi della sua fondazione, avvenuta nel 1949. Questa riaffermazione mediatica dello «Stato degli operai e dei contadini»27 è avvenuta in coincidenza con il movimento di riattivazione del passato di cui si è già accennato e con l’impatto che esso ebbe nel discorso pubblico europeo e globale dopo in caduta del regimi comunisti dell’Europa orientale28. La bibliografia a carattere storico-scientifico, la narrativa e il romanzo e, non ultimo, il cinema e le più recenti piattaforme streaming hanno contribuito a far sorgere un notevole interesse attorno alla Guerra Fredda e alla transizione postcomunista in Germania. In questo caso, non posso che ricordare quanto oggi influisca su questo rinnovato successo il singolo caso del muro di Berlino, la cui semantica ha quasi travalicato la drammaticită originaria della sua costruzione. Da strumento di repressione e di contenimento demografico, il Muro è stato ormai declinato in ogni forma possibile.
La Guerra Fredda in sé è ormai divenuta un «prisma»29 – per utilizzare una fortunata espressione dello storico Mirco Carrattieri – all’interno del quale racchiudere secondo convenienza tutto ciò che va dal secondo dopoguerra fino al novembre 1989. Un filtro le cui diverse sfumature sono state e ancora oggi vengono riprodotte in film, best-seller di varia tipologia, musei e percorsi interattivi30, gruppi di ricostruzione storica (living history o reenactment) e, non ultimo, giochi da tavolo e videogames31. Lungometraggi di successo come Goodbye Lenin!32, Le vite degli altri33 e, in tempi più recenti, la serie di Amazon Prime Deutschland ’8334; romanzi come Stasiland35 della scrittrice e ricercatrice freelance Anna Funder e l’ultima ristampa dell’autobiografia di Hans Modrow36, primo ministro della DDR dal 1989 all’aprile 1900 e protagonista della Wende; non ultimo, il complesso e pittoresco fenomeno dell’Ostalgie37 hanno fatto sì che una serie di immagini della Germania Est venisse proiettata anche ad di fuoridel contesto tedesco. In definitiva, siamo davanti da un vero e proprio processo di commercializzazione del passato tedesco-orientale.
Per la storiografia, un aspetto molto stimolante e al contempo problematico di questa grande varietà di prodotti e medium culturali è stato, ed è tutt’oggi, quello di alimentare prospettive e immaginari diversi presso un pubblico straordinariamente ampio. Dalla raffigurazione di uno Stato totalmente monopolizzato dalla sua polizia segreta (un dato storico fondato, ma che solitamente viene ridotto quasi a un cliché) si passa cosìall’immagine altrettanto stereotipata di una dittatura soft, kitsch, dai tratti quasi parodistici: un conflitto costante tra quella che lo storico Gianluca Falanga ha definito «paranoia»38, in riferimento a un regime di controllo di tipo “psicosociale” come quello imposto dalla Stasi, e la Normalität (normalità quotidiana)39 affermatasi nella DDR dagli anni Settanta, di cui ha parlato il filosofo Jürgen Habermas. Problematiche di questo tipo, già vive nel pieno degli anni della Guerra Fredda, sono tutt’ora oggetto delicato di studio per diversi ricercatori e divulgatori. Non a caso, l’intento di storicizzare la Repubblica Democratica Tedesca è stato più volte criticato, soprattutto dalle associazioni e dai parenti delle vittime del regime comunista, come un tentativo di sminuirne il carattere repressivo e illiberale. Definizioni quali «dittatura del consenso» (Martin Sabrow), «dittatura assistenzialistica» (Konrad H. Jarausch) o «dittatura partecipativa» (Mary Fulbrook) sono state respinte seccamente e a più riprese, perché giudicate troppo propense alla sottovalutazione del regime di BerlinoEst40.
Tra il 1945 e il 1953 i dirigenti comunisti si trovarono a dover giocare una partita su più fronti: dal confronto con gli anni del Terzo Reich alle Guerre contadine del Cinquecento; dalla didattica nella scuola dell’infanzia a quella nelle università. Si consideri anche il ruolo fondamentale dei mezzi di intrattenimento e dei media, in special modo il quotidiano «Neues Deutschland» («Nuova Germania», organo del Comitato Centrale della SED). Non ultime, non vanno trascurate tutte le dinamiche innescate o contraddistinte dai molti rapporti diretti – di amicizia e di lavoro – tra le autorità politiche e quelle accademiche. Rapporti, questi ultimi, che spesso vennero a delinearsi o ad esaurirsi a causa delle logiche di potere.
Quali furono, dunque, i tratti salienti della politica della storia tedesco-orientale? Alla luce della letteratura scientifica più recente, è corretto affermare che si sia trattato di una riscrittura superficiale e fallimentare del passato? Quali elementi avallano e quali altri vanno a confutare quest’ultima tesi? Per rispondere a questi interrogativi, il volume intende ricostruire, seguendo il filo conduttore della Geschichtspolitik comunista-orientale, la complessità e la natura multilivello di un tentativo inusuale e recente di nation building come quello della DDR. Una realtà politica il cui passato e la cui ricostruzione dell’omogeneità culturale, politica e sociale dovettero essere letteralmente ricostruiti da zero: «La Rdt nasce così come uno Stato senza nazione e molti sforzi sono stati dedicati dal partito e dagli intellettuali ed operatori culturali, per creare una nazione, una coscienza nazionale»41.
La tesi di laurea magistrale dalla quale ha avuto origine questo volume traeva ispirazione da un saggio dello storico Dietrich Orlow, The GDR’s Failed Search for a National Identity, 1945-1989, pubblicato nel 2006 sulla «German Studies Review»42. Il contributo di Orlow, sul quale ho avuto modo di tornare in più occasioni durante la stesura, è stato di grande importanza nel definire il mio approccio alla materia; non ultimo, esso si è rivelato anche un testo estremamente esaustivo e problematico allo stesso tempo. L’assunto dello storico tedesco-americano, secondo il quale la DDR avrebbe fallito nel suo tentativo di creare una nuova identità nazionale, merita due considerazioni d’insieme. In primo luogo, sono giunto a dubitare fortemente dell’efficacia del termine «fallimento»43 laddove applicato alle politiche della storia nella Germania orientale. Tale utilizzo rimanda all’idea inesatta che i comunisti tedeschi fossero totalmente avulsi alle idee di «nazione» e di «tradizione», passaggio sul quale si avrà modo di ricadere in più di un frangente nel corso della lettura di questo libro44.
Il ragionamento di Orlow, tuttavia, non è del tutto impreciso. Anzi, uno dei risvolti più pregevoli del lavoro dello storico è proprio quello di aver definito con efficacia il rapporto tra la SED e la storia nazionale tedesca, rivelandone i punti deboli e le numerose ambiguità: aporie, contraddizioni e cambi di rotta avrebbero infine condotto a una percezione straniante del passato da parte dell’opinione pubblica della Germania Est e contribuito in maniera significativa alla perdita di legittimità del regime alla fine degli anni Ottanta45. Contrariamente agli scopi che la leadership della SED si era sempre prefissa a partire dalla sua fondazione, avvenuta nel 194646, la narrazione ufficiale del passato proposta dalle istituzioni della DDR non sarebbe riuscita nel suo intento di fornire una solida e verosimile raison d’être al regime. Partendo dall’assunto di Orlow, il mio scopo non è fornire una rilettura definitiva di questi temi, bensì costruirne una visione d’insieme e, per quanto possibile, innovativa dal punto di vista della struttura, dej contenuto e dei metodi di ricerca.
La definizione di «fallimento» in merito alle politiche della storia della SED nasconde un altro punto debole. Se da un lato è fuori discussione il fatto che le politiche culturali della Germania Est sono risultate, soprattutto alla riprova della caduta del regime, inefficaci nel convogliare il consenso verso la leadership dello Stato socialista, dall’altro va anche detto che sintesi di questo tipo possiedono molti limiti a livello storiografico. Arrivare a concludere che la DDR e la Aufarbeitung (elaborazione) storica tedesco-orientale si siano rivelate esperimenti fallimentari, ancorché alla luce della caduta del regime comunista, rischia di appiattire eccessivamente quella realtà, di renderla inerte e di privarla delle sue particolarità e oscillazioni. Il rischio è dunque quello di insistere troppo sulle logiche della transizione postcomunista e di non riconoscere alle politiche della storia della SED una loro coerenza interna. Allo stesso modo, ridursi a valutare l’efficacia delle politiche della storia della DDR sulla base del consenso è un’operazione intellettualmente legittima, ma analiticamente insufficiente; essa non può certo tenere conto dei sedimenti depositati da quarant’anni di regime comunista che, ancora oggi, contraddistinguono parte della memoria collettiva tedesca.
Un altro malinteso nel quale si rischia di incorrere è quello di ridurre l’elaborazione tedesca del passato all’influenza sovietica. Anche in questo caso occorre molta prudenza, per quanto sia innegabile che i comunisti tedeschi abbiano attinto a piene mani dal retroterra culturale dei loro principali garanti e alleati. Molti intellettuali vicini al Partito socialista unificato fecero pressioni per aumentare questa contaminazione in alcune fasi (ad esempio nel 1948 e nel 1953). Tuttavia, l’immissione di elementi sovietici si verificò a margine di una forte autonomia politica da parte della SED, spesso rivendicata in nome di un disimpegno sempre maggiore dall’influenza di Mosca. Anche in questo caso, parafrasando lo storico Wilfried Loth47, il rischio diventa quello di confondere la «storia dei russi in Germania»48 con una storia in versione “russa” della Germania. Del resto, quello di descrivere la DDR come un fantoccio sovietico è un sempre stato un problema comune nella storiografia49.
Credo che, anche alla luce della storiografia più recente, ricadere in una simile conclusione sia alquanto superficiale. Certo, il conflitto Est-Ovest ebbe una grande importanza per il processo di autodefinizione della DDR, al punto da inficiare la percezione stessa di quest’ultima nel resto del mondo. E d’altronde furono proprio gli storici tedesco-orientali a esaltare attivamente il ruolo dell’Unione Sovietica quale garante della sovranità e dell’indipendenza della prima e sola «nazione socialista tedesca»50. Questa, tuttavia, era la propaganda; la realtà era invece molto più insidiosa. Su questo passaggio, ad esempio, lo storico Norman Naimark ha tratto conclusioni estremamente corrette: i sovietici non avevano progetti a lungo termine né in campo culturale né tantomeno politico e, dove possibile, declinarono la maggior parte della responsabilità ai comunisti tedeschi51.
In ultima analisi, non posso non soffermarmi sulle fonti utilizzate, sul metodo di ricerca e sulla struttura volume. Nei piani originari, il mio lavoro avrebbe dovuto fare leva sullo spoglio di alcuni fondi dell’Archivio federale tedesco, in particolare quelli della Fondazione-Archivi dei partiti e delle organizzazioni di massa della DDR52 e il Fondo «Paul Merker» tra quelli digitalizzati dal Bundesarchiv53. Purtroppo, la pandemia di Covid-19 in corso nelle fasi conclusive della ricerca e della stesura della tesi di laurea mi ha precluso qualunque spostamento internazionale nel 2020, impedendomi di raggiungere una parte considerevole delle fonti primarie. Per approfondire il tema della didattica della storia nelle scuole di primo e secondo grado della Germania orientale, avevo contattato il Georg-Eckert-Institut di Braunschweig, la cui biblioteca possiede molti libri di testo della fine degli anni Quaranta. Sfortunatamente, anche in quest’ultimo caso non è stato possibile ottenere una digitalizzazione – ancorché parziale – dei volumi.
Limitazioni a parte, l’utilizzo delle librerie digitali, la possibilità di ricorrere agli archivi dal web (sopra tutti quello di «Neues Deutschland») e il continuo confronto tra questi ultimi e la bibliografia secondaria hanno fatto sì che potessi ultimare il lavoro di ricerca e stesura. La disponibilità di questi strumenti alternativi mi ha aiutato a circoscrivere i metodi dell’elaborato originario con maggiore precisione. Circa due terzi delle monografie consultate sono stati reperiti in formato open source, cosa che ha portato a un dialogo continuo con la storiografia internazionale, a partire da quella di lingua tedesca. A conti fatti, si è trattato di un risvolto inaspettato e più che fortuito. L’uso del digitale è stato, al contempo, una soluzione alla quale dover ricorrere per necessità e un’occasione per sfruttare con rigore e continuità diverse piattaforme di consultazione online. La qualità del materiale digitalizzato e il format intuitivo di questi strumenti hanno fatto il resto: a siti web come quello del Bundesarchiv, al National Archives di Londra54 e, non ultimo, all’archivio web di «Neues Deutschland» non si può che rendere merito del prezioso lavoro svolto e della facilità con cui oggi sono consultabili questi materiali.
Il quotidiano «Neues Deutschland»55, del quale ho compiuto uno spoglio ordinato e sistematico relativo agli anni 1946-1953, è la principale nonché più intrigante fonte primaria cui fa riferimento questa ricerca. Edito per la prima volta il 23 aprile 1946 a seguito del convegno di unificazione “forzata” (Zwangsvereinigung)56 del Partito comunista tedesco (Kommunistische Partei Deutschlands, KPD) con quello socialdemocratico (Sozialdemokratische Partei Deutschlands, SPD) del settore orientale della Germania, il giornale fu dapprima testata del partito e poi organo del suo Comitato Centrale fino al dicembre 1989. Ispirandosi al periodo della militanza comunista clandestina all’estero, il titolo del periodico si richiamava esplicitamente a due precedenti pubblicazioni: il giornale dei comunisti tedeschi in Messico «Alemania Libre» («Germania libera») e il suo “erede” «Nueva Alemania» («Nuova Germania», per l’appunto, titolo che il quotidiano assunse nel gennaio 1945). Pubblicato con il benestare dell’Amministrazione militare sovietica in Germania (Sowjetische Militäradministration in Deutschland, SMAD), «Neues Deutschland» subì un processo di assimilazione molto graduale alla sola narrazione comunista, e infatti in un primo momento la sua direzione venne spartita in modo piuttosto equo tra gli esponenti dei due ex-partiti della sinistra tedesca: i primi a gestire la redazione furono il socialdemocratico Max Nierich e il comunista Sepp Schwab. Le cose cambiarono drasticamente con il 1953, anno in cui i nuovi vertici del giornale, soprattutto i due caporedattori Lex Ende e Rudolf Herrnstadt, vennero estromessi dal partito57.
Nei capitoli che seguiranno, ho cercato di trarre il massimo da ciò che «Neues Deutschland» ha da offrire. La struttura stessa del quotidiano, suddiviso in rubriche spesso particolarmente estese e dettagliate su temi di carattere politico e storico-culturale, ha anche stimolato e guidato l’impostazione generale e la distribuzione dei contenuti nei diversi capitoli. Ogni argomento viene analizzato anche alla luce della sua diffusione e notorietà nella DDR, tra specialisti e grande pubblico: va visto in questo senso il mio tentativo di proporre anche diversi riferimenti, ad esempio, al mondo del cinema quale veicolo della narrazione storica proposta dal regime comunista.
La prima parte del volume introduce il lettore al tema del confronto con il passato dalla prospettiva dei comunisti tedeschi. La KPD del periodo bellico (1941-1945) è un partito sradicato dalla madrepatria a causa dell’esilio impostogli dai nazisti nel 1933: in un frangente nel quale la condotta di guerra assume inevitabilmente la priorità per i garanti e protettori del partito (i sovietici), i comunisti tedeschi intravedono la possibilità di legittimare fin da subito un loro futuro ritorno in Germania. Siamo così di fronte a un primo nucleo di elaborazione, una base portante per la futura Geschichtspolitik della DDR. Con il ritorno della sua leadership in Germania e la nascita della SED, i comunisti tedeschi si troveranno poi a dover fare i conti con le varie istanze imposte dalle logiche della transizione.
Dal secondo fino al quarto capitolo, il mio intento iniziale era quello di proseguire in maniera cronologica, illustrando in questo senso i vari temi messi a fuoco dalle politiche culturali e dagli intellettuali della Germania orientale. Ciò è stato possibile soltanto in parte. Nella fattispecie, realizzare una ricerca che condensi al suo interno tutta la narrativa a sfondo storico della DDR per ogni suo settore, dall’Età comunemente definita classica a quella contemporanea, dagli studi sulla slavistica a quelli di storia locale, è una sfida che a mio parere richiede il contributo di più di un ricercatore. E anche in quel caso risulterebbe difficile condensare in un’opera unica tutta una serie di analisi. Una ricostruzione rigidamente cronologica, inoltre, avrebbe rischiato di irrigidire troppo l’inquadramento di determinati episodi della storia tedesca alle spese di altri elementi secondari, ma importanti e funzionali ai fini della ricerca e allo scorrimento della lettura. Rammento, a titolo d’esempio, la formazione di una nuova scuola di storici tedesco-orientali o la nascita del sistema scolastico nella Zona di controllo sovietica (Sowjetische Besatzungszone, SBZ58) dal dopoguerra al 1949. A questi due temi sono dedicati la parte conclusiva del primo capitolo e un’ampia parte del secondo. Quest’ultimo va quindi ad affrontare dettagliatamente tre fenomeni molto importanti per la scuola storiografica marxista-leninista e per le politiche della storia della SED, quali: il Bauernkrieg, ovvero la guerra contadina del Cinquecento, la Prussia e il fronte unito della classe operaia.
All’Età contemporanea sono infine dedicati i capitoli tre e quattro. In virtù della sua importanza per la Geschichtspolitik del Partito socialista unificato, quasi tutto il terzo capitolo è riservato all’antifascismo. L’obiettivo che mi sono posto, da questo punto di vista, è quello di far emergere la vasta semantica del termine nel contesto europeo del secondo dopoguerra e di dedicarmi, successivamente, al paradigma così come consolidatosi nelle due Germanie. Da lì il tema della Widerstand (resistenza) tedesca al nazismo, la cui narrazione è stata declinata in forme diverse dalla Repubblica Democratica e da quella federale: da strumento di autolegittimazione ad arma di attacco politico. A questa analisi ho dato seguito tramite una serie di riflessioni sulla topografia, sul calendario civile e sul pantheon delle personalità simbolo della DDR. Anche in questo caso, come già sperimentato nel secondo capitolo, ho cercato di fornire un quadro delle varie forme d’intrattenimento e dei medium culturali tramite i quali la SED ha tentato di esporre la propria idea di storia ai cittadini tedesco-orientali.
Il quarto capitolo e parte delle conclusioni sono incentrati su diversi episodi della storia contemporanea. Nel dettaglio, ho ritenuto opportuno insistere su alcuni tra i più noti (alla storiografia) motivi della memoria di Stato della Germania orientale, parte dei quali avrebbe raggiunto l’apice della notorietà solo negli anni Settanta, con un trascorso peraltro non facile e spesso perfino ostacolato dallo stesso regime comunista. Sicuramente indicativo, in questo senso, il caso della Guerra civile spagnola, il cui percorso verso il successo subì diverse oscillazioni nel corso dei primi anni della Repubblica Democratica. Alle conclusioni ho preferito, in continuità con l’ultimo capitolo, affidare una riflessione d’insieme a partire da due ultimi episodi rilevanti, anch’essi oggetto di una mai approfondita elaborazione da parte del regime tedesco-orientale e dei suoi storici: la morte di Stalin, la cui figura e culto sarebbero stati custoditi gelosamente come un tabù dalla SED, senza peraltro mai diventare oggetto di un’elaborazione storica o politica; e la sollevazione popolare di Berlino del 17 giugno 1953.
E infine, se questo volume ha potuto prendere forma è soprattutto grazie al contributo di storici e amici che hanno creduto negli obiettivi e nei contenuti della mia ricerca. Il mio primo ringraziamento va a Stefano Bottoni, forse la persona che più di tutti ha fatto per promuovere il mio lavoro, a partire dalla tesi magistrale di cui è stato il relatore. A lui vanno la mia personale amicizia e la mia stima come allievo. A Gustavo Corni va la mia gratitudine per tutti i consigli e il supporto che mi ha dato nella fase di ampliamento e perfezionamento di questo libro; non da ultimo, per la puntuale ed eleganze prefazione. Ad Andrea Borelli e Francesca Tacchi devo il fatto di avermi introdotto a larga parte dei temi che si avrà modo di incontrare nelle prossime pagine e di aver contribuito in modo significativo alla mia maturazione come studente.
In ordine sparso, devo questo libro anche ai preziosi consigli di Stefano Bartolini, Matteo Grasso e Deborah Paci; all’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Pistoia, del quale sono socio ormai da quattro anni e che è stato il luogo in cui questo libro ha preso forma, va un pensiero particolare.
Grazie a mio padre e a mia madre, ai quali devo tutti i miei studi. A Ester dedico ogni parola di questo libro.
Edoardo Lombardi
(Tratto da: Edoardo Lombardi, Introduzione al volume: Edoardo Lombardi, Uno Stato senza nazione. L’elaborazione del passato nella Germania comunista (1945-1953), Milano, Unicopli, 2022, pp. 17-34).
Note
1 Hans Modrow, La Perestrojka e la fine della DDR. Come sono andate veramente le cose, Mimesis, Milano, 2019, p. 91.
2 Cfr. Marzia Ponso, Processi, riparazioni, memorie. L’elaborazione del passato nella Germania postnazista e postcomunista, Mimesis, Milano, 2015, p. 113. L’ultimo cancellierato di Helmut Kohl (1992-1998) vide un’intensificazione del dibattito politico e sociale sui temi della giustizia di transizione. L’anno precedente all’intervento di Frei era stata istituita la seconda commissione d’inchiesta sul superamento delle conseguenze della dittatura della SED nel processo dell’unità tedesca (Überwindung der Folgen der SED-Diktatur im Prozess der Deutschen Einheit).
3 Norbert Frei, Amnestiepolitik in Den Bonner Anfangsjahren. Die Westdeutschen Und Die NS-Vergangenheit, in «Kritische Justiz», vol. XIX, (1996), n. 4, pp. 484-94, qui p. 485.
4 Ibidem.
5 Gran parte della letteratura e della storiografia internazionale ha assorbito gli anagrammi e i termini originali in lingua tedesca. In questa sede non verrà fatta eccezione alla regola, salvo in alcuni casi in cui si è reso necessario l’adattamento delle parole in italiano per evitare ridondanze e per rendere più scorrevole la lettura: ad es. con i costrutti «Repubblica Democratica Tedesca», «Germania Est» o «Germania orientale» per riferirsi alla DDR. Sempre per quanto concerne l’utilizzo della lingua tedesca, tutte le traduzioni sono ad opera dell’autore ove non espressamente indicato.
6 A questo proposito, oltre al già citato Norbert Frei, vorrei menzionare l’opera dello storico tedesco Hermann Lübbe: entrambi hanno trattato in chiave storico-giuridica delle aporie e delle contraddizioni interne che avevano contraddistinto le strategie della Repubblica Federale rispetto al tema del lascito nazionalcialista. La Germania Ovest oscillò spesso tra l’oggettiva necessità di un’amnistia generalizzata (concretizzatasi nel 1949) e l’enorme mole di atti giudiziari a carico degli ex funzionari del Terzo Reich. Cfr. Hermann Lübbe, Der Nationalsozialismus im deutschen Nachkriegsbewusstein, in «Historische Zeitschrift», (1981), n. 236, pp. 579-599. Ricordo anche la ricerca di Bernd Faulenbach, Storia e memoria del nazionalsocialismo. Un nuovo paradigma?, in «Contemporanea», (2007), n. 4, pp. 567-580, qui p. 568.
7 Con l’espressione Die Wende ci si riferisce a tutti gli eventi che hanno portato alla fine della DDR e alla successiva transizione postcomunista, culminata con il ricongiungimento delle due Germanie. Da un punto di vista cronologico, questo processo si colloca tra la metà del 1989 e la riunificazione tedesca ma, spesso, si utilizza come primo termine della periodizzazione il giorno del “crollo” del muro di Berlino, il 9 novembre 1989. Cfr. Gustavo Corni, Storia della Germania. Da Bismarck a Merkel, il Saggiatore, Milano, 2017, pp. 373 e ss.
8 Henri Rousso, Vers une mondialisation de la mémoire, in «Vingtième siècle», (2007), n. 94, pp. 3-10, qui pp. 3-4; cfr. Politiche e culture del ricordo dopo il 1989, (a cura di) Filippo Focardi-Bruno Groppo, Viella, Roma, 2013, p. 8.
9 Politiche e culture del ricordo dopo il 1989, (a cura di) F. Focardi-B. Groppo, Introduzione, cit., pp. 10-11.
10 Andrea Borelli, Gorbačëv e la riunificazione della Germania. L’impatto della perestrojka sul comunismo (1985-1990), Viella, Roma, 2021, p. 29.
11 Cfr. Carolina Castellano, Gli archivi, la storia, l’elaborazione. Rappresentazioni del passato nella giustizia di transizione tedesca, in «Quaderni storici», (2008), n. 2, pp. 351-383. Su questi temi rimando anche a N. Frei, Amnestiepolit in Den Bonner Anfangsjahren, cit., pp. 484-94.
12 Cfr. C. Castellano, Gli archivi, la storia, l’elaborazione, cit., pp. 351-354.
13 La SED (Partito socialista unificato di Germania) fu la protagonista indiscussa e forza egemone della scena politica della Germania Est dalla sua fondazione (1946) fino alla caduta del Muro. Per la traduzione dell’anagramma faccio riferimento a G. Corni, Storia della Germania, cit., p. 246.
14 Cfr. Ivi, cit., pp. 356-360. Sul tema del consenso antitotalitario cfr. Thomas Schaarschmidt, Il concetto di totalitarismo come categoria interpretativa occidentale e la sua rinascita dopo il 1989, in (a cura di) Magda Martini-Thomas Schaarschmidt, Riflessioni sulla DDR. Prospettive internazionali e interdisciplinari vent’anni dopo, il Mulino, Bologna, 2011, pp. 59-74.
15 Cfr. M. Ponso, Processi, riparazioni, memorie, cit., pp. 16-17.
16 Cfr. Ivi, cit., pp. 17-22. La Germania federale (o «Repubblica di Bonn», in contrapposizione alla DDR, nota anche come «Repubblica di Berlino Est»), si concentrò sul paradigma del consenso antitotalitario in modo tale da stabilire una continuità tra il regime nazista e quello comunista della DDR. Per un approfondimento sul tema rimando al saggio di T. Schaarschmidt, Il concetto di totalitarismo come categoria interpretativa occidentale, cit., pp. 59-74. Segnalo anche il saggio di Eckhard Jesse, „Vergangenheitsbewältigung“ Nach Totalitärer Herrschaft in Deutschland, in «German Studies Review», vol. XVII, (1994), pp. 157-171.
17 Cfr. G. Corni, Storia della Germania, cit., p. 282.
18 Ibidem.
19 Cfr. Gustavo Corni, La Seconda guerra mondiale nella memoria delle due Germanie, in F. Focardi-B. Groppo (a cura di), Politiche e culture del ricordo dopo il 1989, cit., pp. 133-154, qui p. 143.
20 M. Ponso, Processi, riparazioni, memorie, cit., p. 15.
21 Da un punto di vista prettamente linguistico, le parole Vergangenheitspolitik e Geschichtspolitik sono quasi sinonime, dal momento che Vergangenheit può essere tradotto come «passato» e che la parola Geschichte significa «storia». Il termine Geschichtspolitik, ha spiegato recentemente lo storico polacco Jan Szumski, era entrato in uso alla fine del XIX secolo negli ambienti culturali di lingua tedesca. Oggi viene prevalentemente utilizzato in relazione al secondo dopoguerra. Cfr. J Szumski, Le politiche storiografiche dell’Unione Sovietica verso i paesi slavi del blocco orientale. Strutture formali ed istituzionali (1945-1989), in (a cura di) S. Santoro-F. Zavatti, Clio nei socialismi reali, cit., pp. 37-59.
22 Il filosofo Theodor Adorno coniò un’altra formula negli anni Cinquanta, Aufarbeitung der Vergangenheit (elaborazione del passato): si tratta di una delle espressioni più corrette per sintetizzare il senso di un’elaborazione critica del passato. Come si è visto, la semantica delle transizioni tedesche rischia di diventare un potenziale labirinto di equivoci, con termini usati spesso in modo intercambiabile e che, tuttavia, rimandano a concetti diversi. Per colmare questo divario linguistico, il termine Aufarbeitung (elaborazione) è il più appropriato, in quanto si riferisce a determinate casistiche senza rischiare di vincolarle eccessivamente a un termine troppo specifico e/o riduttivo. Cfr. M. Ponso, Processi, riparazioni, memorie, cit., pp. 26-29. Su questo tema ha scritto anche Norbert Frei, Vergangenheitspolitik. Die Anfänge der Bundesrepublik und die NS-Vergangenheit, Beck, München, 1996.
23 Citato in M. Ponso, Processi, riparazioni, memorie, cit., p. 15. Per la stesura di questo inciso cfr. Ivi, cit., pp. 12-15. Della medesima storica vorrei segnalare un contributo precedente: Id., Una triplice Vergangenheitsbewältigung. La politica del passato in Germania, in «Teoria politica», vol. XXIV, (2009), n. 1, pp. 27-52.
24 Cfr. Stefano Santoro-Francesco Zavatti, Introduzione, in Clio nei socialismi reali. Il mestiere di storico nei regimi comunisti dell’Europa orientale, (a cura di) Stefano Santoro-Francesco Zavatti, Unicopli, Milano, 2020, pp. 7-19, qui p. 11.
25 I nazisti, al governo da gennaio, misero fuorilegge il Partito comunista tedesco (KPD) nel marzo 1933. Da quella data, gli ex-dirigenti comunisti avrebbero trovato riparo in diversi Stati europei e no: in Belgio e Francia, dal Messico all’Unione Sovietica. Cfr. G. Corni, Storia della Germania, cit., p. 197.
26 Cfr. C. Castellano, Gli archivi, la storia, l’elaborazione, cit., pp. 351-384.
27 Formula di autodefinizione della DDR coniata nel 1974, cfr. Wilfried Loth, Figliastri di Stalin. Mosca, Berlino e la formazione della RDT, Quattroventi, Urbino, 1997, p. 9; si veda anche A. Borelli, Gorbačëv e la riunificazione della Germania, cit., p. 74.
28 Cfr. Politiche e culture del ricordo dopo il 1989, (a cura di) F. Focardi-B. Groppo, cit., p. 8.
29 Mirco Carrattieri, Oltre il crepuscolo. Giocare la guerra fredda, in (a cura di) Chiara Asti, Mettere in gioco il passato. La storia contemporanea nell’esperienza ludica, Unicopli, Milano, 2019, pp. 257-289, qui p. 257.
30 DDR Museum - Berlin’s interactive museum (ddr-museum.de), ultima consultazione: 06/07/2021. È recente l’esperimento del DHM di Berlino di creare un percorso interattivo in VR (realtà virtuale) che permette al visitatore del museo di rivivere il celebre salto (Der Sprung) del poliziotto di guardia alla frontiera tedesco-orientale Konrad Schumann. DER SPRUNG-1961- Deutsches Historisches Museum (dhm.de), ultima consultazione: 06/07/2021.
31 Cfr. M. Carrattieri, Oltre il crepuscolo. Giocare la guerra fredda, cit., pp. 257-260.
32 Wolfgang Becker, reg., Goodbye Lenin!, 2003.
33 Florian Henckel von Donnersmarck, reg., Le vite degli altri, 2006.
34 Edward Berger-Samira Radsi, reg., Deutschland ’83, 2015. I tre capitoli sono usciti, rispettivamente, nel 2015, nel 2018 e nel 2020. Deutschland ’89, Germania a 30 anni dalla riunificazione | Geopolitica, ATLANTE | Treccani, il portale del sapere, ultima consultazione: 06/07/2021.
35 Distribuito da Feltrinelli in due diverse edizioni, nella versione italiana libro è conosciuto con il titolo di C’era una volta la DDR. Cfr. Anna Funder, C’era una volta la DDR, Feltrinelli, Milano, 2003.
36 H. Modrow, La Perestrojka e la fine della DDR, cit.
37 Sul tema dell’Ostalgie segnalo in particolare il recente contributo di Marzia Ponso sulla rivista «Passato e presente», cfr. Marzia Ponso, Memoria postcomunista e riappropriazione d’identità nella Germania orientale, in «Passato e presente», (2020), n. 110, pp. 45-61. Una menzione anche al recente volume del giornalista Francesco Piero Cristino, La Repubblica di Sabbiolino. DDR… ma non troppo!, Albatros, Viterbo, 2020. Cfr. Lucia Conti, recensione a Francesco Cristino, La Repubblica di Sabbiolino, cit., «Il Mitte», 30 novembre 2020, “La Repubblica Sabbiolino. Ddr… ma non troppo!”. Storia di un simbolo più forte di ogni muro - il Mitte, ultima consultazione: 02/12/2020.
38 Mi riferisco al titolo del volume più noto di Gianluca Falanga, Il ministero della paranoia. Storia della Stasi, Carocci, Roma, 2012.
39 Traducibile come «normalità», ma nel senso di «prassi quotidiana», «consuetudine». Cfr. Jürgen Habermas, Die Normalität einer Berliner Republik, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1995.
40 Cfr. M. Ponso, Processi, riparazioni, memorie, cit., p. 351.
41 Gustavo Corni, La storiografia nella RDT tra dogmatismo e innovazione, in «Studi storici», vol. XXV, (1984), n. 2, pp. 569-591, qui p. 570.
42 Cfr. Dietrich Orlow, The GDR’s Failed Search for a National Identity, 1945 1989, in «German Studies Review», vol. XXIX, (2006), n. 3, pp. 537-558.
43 Una chiave di lettura simile è presente in Konrad H. Jarausch, The Failure of East German Antifascism: Some Ironies of History as Politics, in «German Studies Review», vol. XIV, (1991), n. 1, pp. 85-102.
44 Cfr. D. Orlow, The GDR’s Failed Search for a National Identity, cit., p. 537.
45 Cfr. Ivi, cit. A questo proposito, vorrei menzionare altre due ricerche, quella di Mary Fulbrook, The State and the Transformation of Political Legitimacy in East and West Germany since 1945, in «Comparative Studies in Society and History», vol. XXIX, (1987) n. 2, e il volume di Jeffrey Herf, Divided Memory. The Nazi Past in the Two Germanys, Harvard University Press, 1997.
46 Cfr. W. Loth, Figliastri di Stalin, cit., p. 256 (rimando alla Tavola cronologica).
47 Sono riflessioni che Loth espone nell’introduzione del suo volume. Cfr. Ivi, cit., pp. 9-14.
48 Titolo di uno dei più importanti volumi sulla storia della presenza sovietica in Germania, ad opera dello storico Norman Naimark, The Russians in Germany. A History of the Soviet Zone of Occupation (1945-1949), Harvard University Press, 1995.
49 Cfr. G. Corni, La storiografia nella RDT, cit., pp. 569-572.
50 Altro termine di autodefinizione della DDR. Cfr. Ivi, cit., p. 569.
51 Cfr. N. Naimark, The Russians in Germany, cit., pp. 466-467. È dello stesso avviso John Connelly, Captive University. The Sovietization of East German, Czech, and Polish Higher Education (1945-1956), University of North Carolina Press, 2000, p. 282. Corni invece pone maggiore enfasi sulla dipendenza della DDR dall’Unione Sovietica. Cfr. G. Corni, Storia della Germania, cit., p. 350.
52 Bundesarchiv, Bundesarchiv Internet - Stiftung Archiv der Parteien und Massenorganisationen der DDR im Bundesarchiv (SAPMO), d’ora in poi: Bundesarchiv, «BA» e Stiftung Archiv der Parteien und Massenorganisationen der DDR, «SAPMO».
53 Il fascicolo «Paul Merker» (BA, DY 30) è contenuto nel Bundesarchiv, Sekretariat Paul Merker im ZK der SED (bundesarchiv.de), ultima consultazione: 03/05/2021.
54 The National Archives, KV 1/1388, KV2/1388.
55 Archivio digitale del quotidiano «Neues Deutschland. Organ des Zentralkomitees der Sozialistischen Einheitspartei Deutschlands» (d’ora in poi «Neues Deutschland, ND-Archiv), www.nd-archiv.de.
56 Il congresso per l’unificazione (Zwangsvereinigung der SPD und KPD zur SED) venne programmato per il 21 e 22 aprile 1946: Ulbricht lo aveva comunicato a Stalin nel febbraio dello stesso anno. Cfr. W. Loth, Figliastri di Stalin, cit., p. 57. Cosiddetto «forzato» (dalla parola tedesca Zwang, che significa «obbligo» o «coercizione») a causa del clima nel quale si arrivò alla fusione dei due partiti. A margine di un dialogo apparente, sovietici e comunisti tedeschi tentarono in tutti i modi di forzare la mano ai socialdemocratici della Zona d’occupazione orientale: attraverso tentativi di ricatto, aggressioni, arresti e omicidi. Cfr. Ivi, cit., pp. 43-47.
57 Sinossi del quotidiano tedesco «Neues Deutschland» (Über uns nd-aktuell.de), ultima consultazione 19/07/2021.
58 Con questa definizione si allude a quella porzione di Germania occupata dalle truppe sovietiche nel 1945 e amministrata dai medesimi fino al 1949, anno della fondazione della DDR.
Inserito il 23/12/2024.
Dal settimanale «La Lettura»
Letteratura tedesca con radici all’Est
Jenny Erpenbeck, un amore oltre il Muro
intervista a cura di Mara Gergolet
Un uomo di 53 anni e una ragazza di 19 s’incontrano a Berlino Est nell’86, la passione muta in un rapporto tossico che dura fin dopo la caduta del Muro: con questa storia, che arriverà in Italia in autunno, Jenny Erpenbeck ha vinto il Booker. «La Lettura» è andata a trovarla a casa, dove conserva tracce della Ddr che fu la sua patria.
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Jenny Erpenbeck, un amore oltre il Muro
di Mara Gergolet
Jenny Erpenbeck ama custodire un «archivio della memoria» della Ddr. E vedendolo appeso al muro, nella casa appena sopra il centro di Berlino, con le finestre che danno su una piazza alberata e silenziosa al mattino, è quasi come entrare un po’ nei suoi libri. Tutti sono documenti veri. Ma questa parete di fogli A4, scoloriti e quasi imbruniti, contengono quel che lei ha selezionato dalla scomparsa: la copia carbone dell’acquisto della Trabant da parte di sua mamma, un biglietto di teatro, lo scontrino dell’ultima volta che ha fatto la spesa con i marchi della Ddr. In una scatola di plexiglass dietro alla cyclette – questa è la stanza degli ospiti – sigarette e fiammiferi. Viene in mente quel che l’influente critico del «New Yorker», James Wood, ha scritto di lei: che in un Paese così votato all’introspezione, Erpenbeck sta invece scrivendo «niente meno che la storia interiore della Germania». È lo stesso James Wood che, nel 2017, le ha predetto il Nobel.
Erpenbeck ci accoglie a casa poco dopo aver vinto a Londra il Booker Prize International, il più importante premio internazionale, con Kairos. È la prima volta per uno scrittore tedesco. Ammette che «le sue giornate sono stravolte», che non riesce a scrivere. «Ma la scrittura tornerà». Ripete che ne è felice. È nata nel 1967 a Pankow, quartiere di Berlino Est, e come ha ricordato sul palco del Booker, la sua è fin dai nonni una famiglia di intellettuali, artisti dell’Est.
La mamma fu la traduttrice dall’arabo del Nobel egiziano Nagib Mahfuz. Non è la prima scrittrice importante «orientale» post-Muro, basti pensare a Ingo Schulze o Uwe Tellkamp, ma è «meno tedesca» di loro, meno sperimentale e più narrativa. Ed è singolare anche il suo percorso: perché Erpenbeck, che ha subito a lungo un certo sguardo dall’alto della critica tedesca, non del tutto rientrato, ha dovuto essere iscritta nel canone delle «grandissime voci» internazionali, paragonata a Orhan Pamuk o J.M. Coetzee, per essere riconosciuta in patria. Un po’ come Elena Ferrante, solo che la sua materia non è Napoli ma la Germania.
Kairos (in greco: attimo giusto, tempo opportuno) è la storia d’amore tra una ragazza di 19 anni, Katarina, e un uomo sposato di 53, Hans, scrittore e autore radiofonico, che si incontrano in una giornata piovosa su un bus ad Alexanderplatz. Si svolge in 6 anni, tra il 1986 a il 1992, a ridosso della caduta del Muro, quando la storia stravolgerà anche le loro vite lasciandole con prospettive opposte. Una storia d’amore e «costrizione» (così la sintetizza il traduttore in inglese Michael Hofmann), con voci diverse che si ricompongono. Quando fanno l’amore per la prima volta, con il sottofondo del Requiem di Mozart, Erpenbeck lo descrive così: «Non sarà mai più come questa volta, pensa Hans. Sarà sempre così, pensa Katarina». In Italia esce in autunno per Sellerio.
Quanto c’è di lei in Katarina, non di autobiografico, ma nello sguardo su quegli anni? Dovreste avere, grosso modo, la stessa età.
«C’è molto, ma non tutto. Facciamo parte della tessa generazione annoiata dalla politica, stanca delle riunioni. Nella mia famiglia si discuteva tutto il tempo come rendere possibile il cambiamento. Ma non eravamo parte dell’opposizione. Confesso di non essere stata così coraggiosa».
Speravate in Gorbaciov?
«All’inizio, certamente. Ma Mikhail Gorbaciov ha anche dato via quel che non possedeva: la vita delle persone, e il significato delle loro vite».
Kairos è una storia di un “amour fou” che presto degenera in controllo, dominazione e depravazione. Un amore che sa di abusi. Perché questo tema così contemporaneo?
«Mi interessavano molti aspetti. Come qualcosa che nasce in modo glorioso si trasformi in qualcosa di oscuro, sbagliato. Sia Katarina che Hans si innamorano ma per ciascuno, per le loro biografie, l’amore ha un posto diverso. Katarina si aspetta un futuro, mentre a Hans piace indirizzare il presente per avere un bel passato da guardare. На un’idea completamente diversa del tempo. Mi interessava il potere dell’emozione, e lo sguardo qui si può allargare ai movimenti politici, che può portare le persone in luoghi che si riveleranno pericolosi. Abbiamo Vladimir Nabokov che con Lolita ha raccontato la storia dall’aspetto maschile. A me interessava il lato della ragazza».
Tra i due c’è una grossa differenza d’età. E quindi uno squilibrio di potere, che alla fine si rovescia. È questo il meccanismo che muove il libro?
«In realtà, volevo raccontare una storia più ampia. E con Hans la trama abbraccia ottant’anni: era dodicenne quando il regime nazista fallì. Si rivolta contro il padre, va nella Germania dell’Est e vive tutti i momenti nevrotici di quel regime. Tra questi cambiamenti, queste rotture, impara che dietro a ogni verità c’è una bugia. È un uomo abituato alla delusione, impara a gestirla e poi a crearla lui stesso. Non credo che la differenza d’età rappresenti un problema in sé. Anche mio marito ha 20 anni più di me, eppure siamo ancora insieme dopo trent’anni. Può esserci uno squilibrio, ma la vera domanda è: come usi questo potere? Né Katarina con i suoi mille interessi, solare, è una vittima tipica dell’abuso».
Però, quando avvengono, ha difficoltà a segnare questi fatti nei diari…
«Una donna che lo subisce, ed è successo quasi a ognuna, non solo fatica a riconoscerlo, anche perché può non rientrare nella sua idea di erotismo. Si vergogna anche per lui: che provi, o confessi a sé stesso, questi desideri».
La segretezza delle loro vite è un filo rosso del libro. Che cos’è la segretezza?
«All’inizio è un legame forte tra Katarina e Hans, di condivisione. Poi diventa qualcosa che esclude chi forse avrebbe potuto dare un buon consiglio. Infine è una prigione. Sei solo nello spazio prodotto dal tuo segreto».
La Stasi arriva nelle ultime pagine. E ci si chiede: è questo ciò che le dittature fanno alle persone? Alla fine dobbiamo ripensare e rileggere tutto il libro?
«Come con ogni libro, io credo. Se uno arriva fino a lì…».
E la Stasi?
«Volevo scrivere un libro sulla Germania dell’Est in cui la Stasi non avesse un ruolo centrale. Arrivata a un terzo, dopo alcune ricerche, ho capito che tutto era diverso da come me l’ero immaginata. Non la metterei in termini di cosa le dittature fanno alle persone. Anche in Argentina c’erano torturatori che erano bravi padri di famiglia. Quel che è peggio, secondo me, è come le dittature usano alcuni che non sono “brave persone”. Gli danno la possibilità di esercitare le loro cattive abitudini. E li rendono necessari. La Stasi si è evoluta nel tempo, alla fine aveva così tanti informatori e così tante informazioni che erano impossibili da utilizzare. E allora la domanda è: perché? Forse perché era l’ultimo tentativo di produrre cittadini leali, vincolandoli con il segreto. Per quanto sembri assurdo».
È stata dura per quella generazione alla quale Hans appartiene?
«È stato difficile per chi aveva veramente sperato in un buon sistema. Come Christa Wolf o Uwe Johnson. Come affronti la delusione, quando devi confessare a te stesso che le cose si sono evolute diversamente? Non è un male aver sperato. Che fai? Uwe Johnson è finito su un’isola inglese, Christa Wolf fino all’ultimo si augurava un “socialismo buono”».
Il 9 novembre 1989 cade il muro di Berlino. Katarina a pochi isolati da Bornholmerstraße, dove la storia sta cambiando, è con un’amica, ignara di tutto. È un’esperienza più reale di quel che noi abbiamo visto in tv?
«Credo che sia molto più interessante guardare alla periferia che al centro. Anche in altri miei libri i protagonisti perdono il momento storico perché non ci prestano attenzione. Le cose interessanti stanno negli angoli, fuori dallo schermo di Hollywood».
Il libro inizia da una scatola piena di oggetti. Sembra che per lei le «cose» abbiano una particolare importanza.
«A un certo punto lavoravo a teatro, ero il props manager, la responsabile degli oggetti di scena. Lì impari i percorsi delle cose. Devi posizionare un pugnale a destra dell’attore o attrice che lo prenderà, poi il coltello finirà per uccidere qualcuno. Finché resta a terra, da dove deve essere rimosso prima che la scena cambi. Nel percorso dell’oggetto c’è una storia, spesso ignota a chi lo possiede».
Una memoria.
«Non è importante solo il contenuto della lettera ma la lettera stessa. Io sono l’archivio della mia famiglia. Continuano a portarmi scatoloni, devo decidere cosa tenere e cosa buttare. Ma, invecchiando, negli oggetti ritroverai cose della tua famiglia che ignoravi. Mi affascina quante storie coesistono in un unico oggetto».
Perché oggi vince l’Afd in Germania orientale?
«Ma vince ovunque in Europa, in Italia, in Francia, in Svezia. Io penso che viviamo nella paura: la guerra in Ucraina, in Israele e a Gaza… Siamo sopraffatti da problemi troppo grandi per poter essere risolti. E allora alcuni pensano: torniamo nel nostro piccolo mondo, alziamo i confini, restiamo sicuri. Ma seguono leader spregiudicati. Ora tutti questi capi sovranisti fanno i compagnoni, dicono: “Putin è un amico”, ma nel momento in cui arrivassero al potere, comincerebbero a combattersi 5 minuti dopo. E questo porta alla guerra, lo sappiamo dalla storia».
In Germania non c’è un problema specifico nell’Est con l’Afd?
«Sì. Però i leader dell’Afd vengono dall’Ovest. Un problema dell’Est è com’è avvenuta la transizione. La leadership è stata, in pochissimo tempo, sostituita da quelli dell’Ovest. Migliaia di persone nelle università, nelle aziende, nelle magistrature hanno perso il lavoro. C’è stata un’esperienza di massa del diventare impotenti. La rivoluzione è stata pacifica solo nei primi mesi. Nello stesso momento in cui è arrivata la Repubblica federale, le persone si sono dovute adeguate a un sistema che non conoscevano. Non conoscevamo lo stress del dover fare soldi. Ed è arrivata la delusione».
È un mondo pericoloso?
«Ci sono due famosi versi di Hölderlin: “Wo aber Gefahr ist, wächst / Das Rettende auch”. “Dove c’è pericolo, cresce / anche ciò che salva”. Possiamo solo sperare che la cosa che si salva cresca da qualche parte, lontano dai nostri occhi».
Intervista a cura di Mara Gergolet
(Tratto da: Mara Gergolet, Un amore come la Stasi, in «La Lettura», n. 656, 23 giugno 2024).
Inserito il 26/06/2024.
Jenny Erpenbeck (Berlino Est, Ddr, 1967), padre di origini russe e madre polacca, ha esordito nel 1999 con Storia della bambina che volle fermare il tempo (Zandonai, 2013; Sellerio, 2020). Con E non è subito sera (2012; Feltrinelli, 2013) ha vinto l’Hans Fallada Prize. Sellerio ha pubblicato anche Voci del verbo andare (2016; vincitore dello Strega Europeo 2017 e di altri riconoscimenti), Di passaggio (2019) e Il libro delle parole (2022). Kairos, uscito nel 2021, in tascabile nel 2023, ha vinto quest’anno l’International Booker Prize: in autunno lo proporrà Sellerio.
Jenny Erpenbeck (n. 1967).
Autore della foto: W.B.
Fonte della foto: https://kirjandusfestival.tartu.ee/en/performers/jenny-erpenbeck-germany/
Cesare Cases (1920-2005).
Autore della foto: Mario Dondero.
Fonte della foto: https://ilmanifesto.it/cesare-cases-larte-della-recensione
Intellettuali italiani e Germania socialista
Cesare Cases e la DDR
di Michele Sisto
Un approfondito saggio di Michele Sisto ricostruisce la parabola del rapporto del germanista Cesare Cases (1920-2005), grande intellettuale marxista, con la vita culturale e politica del primo Stato socialista in terra tedesca.
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Gli intellettuali italiani e la Germania socialista
Un percorso attraverso gli scritti di Cesare Cases
di Michele Sisto
Prima parte
La storia del rapporto tra gli intellettuali italiani e la DDR presenta, per il numero e la diversità degli attori coinvolti, nonché per il suo costante evolversi dal dopoguerra al 1990, aspetti di complessità che non è possibile trattare in succinto. Se Collotti è stato lo storico dell’‘altra Germania’, se Bettiza e la Spinelli le hanno dedicato ampi reportage critici, se Montinari e Mucchi vi hanno risieduto per anni, Cesare Cases (1920-2005) ne è stato probabilmente l’osservatore più assiduo e influente, a partire dal famoso saggio del 1958 Alcune vicende e problemi della cultura nella RDT, divenuto subito imprescindibile, fino agli articoli dedicati alla riunificazione, passando per il suo ruolo attivo nel ‘caso Havemann’.
In qualità di consulente per la letteratura tedesca all’Einaudi, egli ha inoltre avuto tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta un ruolo di primo piano nella mediazione di autori e critici tedesco-orientali, dai suoi ‘fari’ Lukács, Mayer e Brecht1, a ‘oppositori interni’ come Wolf Biermann. La particolare natura e la costanza del suo interesse per la DDR, infine, sono legate non solo a una solida formazione filosofica e politica, comune alla sua generazione, ma a una fondamentale inquietudine del pensiero, che interdice ogni rassegnazione all’esistente, e che nel 1990 ha fatto scrivere a Hans Magnus Enzensberger, in un omaggio in versi all’amico germanista: «La ferita / del possibile sanguina ancora»2.
Ripercorrendo le prese di posizione di Cases, e mettendole a confronto con quelle di altri intellettuali, vorrei dunque abbozzare una storia dei significati che la DDR, quale soggetto storico prima ancora che compagine statale realmente esistente, ha via via assunto nella discussione interna ai gruppi intellettuali italiani (marxisti, ché le altre correnti di rado hanno manifestato interesse nei confronti delle democrazie popolari)3.
E vorrei concludere con una breve riflessione sulla funzione dell’intellettuale novecentesco quale interprete della storia, e sui suoi mutamenti negli ultimi decenni del XX secolo.
1. La minaccia del capitalismo
Una premessa indispensabile. Lo sguardo di Cases sulla Germania socialista non è quello di un politologo, preoccupato di misurarne la crescente o calante luminosità nel cielo della Guerra fredda, ma quello di un filosofo della storia. Lo sfondo delle sue valutazioni non è la scacchiera della geopolitica ma, hegelianamente, la storia universale del genere umano. Dare un giudizio sulla DDR, nel suo caso, significa dunque non soltanto giudicare il comunismo storico novecentesco e la sua credibilità quale alternativa al capitalismo, ma capire se l’umanità ha un futuro, e per quali strade esso debba avanzare. Come molti intellettuali della sua generazione Cases è animato, prima ancora che da un profondo antifascismo, tanto più sentito in quanto ebreo, da un anticapitalismo radicale, che già nell’immediato dopoguerra trova precoce manifestazione nella scelta di fare una tesi di laurea su Ernst Jünger4. Ancora nel 1990 scriverà: «il capitalismo resta la più grave minaccia per l’umanità e coloro che sperano in un suo futuro indeterminato non sanno quel che si dicono»5.
Questa persuasione, maturata nei primi anni Quaranta a Zurigo, dove ripara per sfuggire ai campi di concentramento, è dunque prima filosofica che politica: si traduce in adesione al comunismo a partire dalla lettura di Storia e coscienza di classe6 e si corrobora in seguito attraverso la frequentazione di Hegel, Marx, Gramsci, Adorno, Benjamin, Marcuse e di una letteratura tedesca riletta alla luce del marxismo, da Goethe a Thomas Bernhard, passando per Mann e Brecht. La critica all’ordinamento borghese del mondo si affina con l’affinarsi degli strumenti concettuali ed espressivi, che consentono di individuare le più nascoste forme di repressione, feticismo, alienazione, e di denunciare il regresso antropologico legato all’avvento della società del benessere. Su questo vero e proprio nucleo centrale (e generativo) della sua riflessione non solo politica ci si potrebbe, e dovrebbe, soffermare a lungo. Ma, per esigenze di sintesi, sarà sufficiente citare una «stupenda descrizione dell’alienazione della vita nelle grandi città americane», che nel 1965 Cases, trovandola tra le poesie californiane di Brecht, traduce con evidente adesione.
Meditando sull’inferno
Meditando, mi dicono, sull’inferno
il fratel mio Shelley trovò ch’era un luogo
pressappoco simile alla città di Londra. Io
che non vivo a Londra, ma a Los Angeles,
trovo, meditando sull’inferno, che deve
ancor più assomigliare a Los Angeles.
Anche all’inferno
ci sono, non ne dubito, questi giardini lussureggianti
con fiori grandi come alberi, che però appassiscono
senza indugio se non si innaffiano con acqua carissima. E mercati
con carrettate di frutta, che però
non ha odore né sapore. E interminabili file di auto
più leggere della loro ombra, più veloci
di stolti pensieri, veicoli luccicanti in cui
gente rosea, che non viene da nessuna parte, non va da nessuna parte.
E case, costruite per uomini felici, quindi vuote
anche se abitate.
Anche all’inferno le case non sono tutte brutte.
Ma la paura di essere gettati per strada
divora gli abitanti delle ville non meno
di quelli delle baracche.7
Tra i lettori di questa traduzione, apparsa su «Quaderni piacentini», c’è Pier Paolo Pasolini, che la inserisce immediatamente nella Divina Mimesis, uno dei testi che preludono alla radicale critica della società dei consumi più tardi deflagrata negli Scritti corsari. Anche qui – la Divina Mimesis è esplicitamente ricalcata sulla Divina Commedia – la vita nel capitalismo è rappresentata come un inferno, e gli ignavi del primo cerchio, «che visser sanza infamia e sanza lodo», diventano impiegati, professionisti, operai, parassiti politici e piccoli intellettuali, antropologicamente omologati e ridotti a inseguire una bandiera, la dantesca «insegna», che raffigura, a ben guardare, nient’altro che merda: «uno Stronzo»8.
Dunque: il capitalismo reale come inferno. E dall’altra parte il socialismo reale, come possibile alternativa.
Il primo riferimento di Cases alla Germania socialista si trova in un articolo apparso nel 1951, l’anno della sua iscrizione al PCI, sulla rivista marxista indipendente «Discussioni». Rispondendo in forma epistolare all’amico Renato Solmi, egli accetta di vestire i panni del marxista ortodosso e di illustrare il classico problema del rapporto tra struttura e sovrastruttura. Pur senza sottovalutare l’influenza della sovrastruttura (culturale: «dai fenomeni sociali ai politici, al diritto via via fino all’arte») sulla struttura (economica: i «rapporti materiali di produzione»), Cases afferma recisamente, anche se non senza la consueta ironia, il primato di quest’ultima. Sarebbe impossibile, osserva, e persino ridicolo, pensare di trasformare la società agendo solo sulla sovrastruttura, come faceva il sansimoniano Barthélemy Prosper Enfantin proponendo di «obbligare la gente a portare delle camicie abbottonate a tergo, affinché, non essendo possibile indossarle da soli, si sviluppasse il senso della solidarietà e della fratellanza». Non si limita ad esempio alla sovrastruttura quanto sta accadendo nei paesi socialisti, come lo stesso Solmi – osserva Cases – dovrebbe aver constatato durante il suo viaggio a Berlino Est per la terza edizione dei Weltfestspiele der Jugend und Studenten:
«Tu sei reduce dal festival di Berlino – scrive – e hai visto i cartelli inneggianti all’amor del prossimo. Ma hai avuto chiara coscienza che queste esplosioni di forma sottintendono un mutamento del contenuto, e hai capito benissimo come esse non avessero perciò niente in comune con le adunate oceaniche, gli inginocchiatoi dei confessionali e le scempiaggini del 1984 di Orwell. Non credo che tu, nonostante le tue riserve, che posso in parte comprendere, abbia mai avuto l’impressione che quei cartelli equivalessero alla camicia di Enfantin, fossero assurde pretese di cambiar l’uomo cambiando soltanto la topografia dei bottoni».9
Quello che Cases considera in atto nella DDR, e in tutto il blocco sovietico, non è dunque un semplice avvicendamento di regimi politici, ma un «movimento reale» che agisce sui rapporti di produzione, sulle strutture profonde della società.
Le «riserve» da lui attribuite a Solmi sono peraltro condivise da un’area significativa dell’antifascismo italiano, più vicina al Partito socialista che al comunista, e ben rappresentata, nella generazione di Cases, da Franco Fortini. Anch’egli ebreo, radicalmente anticapitalista, marxista, e legato a Cases da una burrascosa amicizia fin dagli anni dell’esilio svizzero, Fortini nel 1949 attraversa la Germania raggiungendo il campo profughi di Poggenhagen, nei pressi di Hannover, dove intervista alcuni dei giovani che a decine ogni giorno arrivano dalla zona sovietica. Se nella zona d’occupazione occidentale, come egli rileva sconsolatamente, «l’immensità delle stragi e della distruzione non spinge affatto gli uomini a vivere in modo diverso, a cercarsi un cuore nuovo», i racconti dei profughi orientali riferiscono di durissime condizioni di lavoro, fame, burocrazia, stupri, spoliazioni, arruolamenti forzati nella Volkspolizei. Pur augurandosi che «una visita in Ostzone» gli dia elementi per ricredersi, secondo Fortini «questo passaggio dall’hitlerismo ad una verità politica rivelata e imposta dall’occupante (neppure giustificata da una dittatura del proletariato) è proprio quello che gli eredi della Rivoluzione d’Ottobre non dovevano compiere». Poiché in Germania il comunismo aveva il compito più glorioso e difficile, conclude, «è tragico, non lieto per nessuno, che abbia moralmente perduta la sua battaglia»10.
Consegnando assai precocemente (non importa qui se con ragione o no) l’esperimento della DDR agli archivi della storia, Fortini si preclude la possibilità di tornare a verificarne i progressi e i regressi nel tempo; mentre Cases, politicamente più isolato e meno informato sulle efferatezze del comunismo staliniano, continuerà per anni a concedere una relativamente ampia apertura di credito al «primo Stato socialista in terra tedesca». Sarà lui, e non Fortini, a compiere la «visita in Ostzone».
2. Viaggi in Germania (1954-1958)
Sebbene piuttosto diffuso tra gli intellettuali di area marxista, l’interesse nei confronti della Repubblica Democratica Tedesca è e rimane, in Italia, appannaggio di una minoranza. Fino al 1973 i governi a maggioranza democristiana, avendo optato per l’avvicinamento alla Repubblica Federale, considerata la Germania tout court, e per l’ingresso nella NATO, rifiutano di riconoscere ufficialmente la DDR, che del resto per il «Corriere della Sera» non è altro che uno «Stato fantoccio» sorto con l’appoggio dei carri armati sovietici. Ancora nei primi anni Sessanta, dopo la costruzione del muro di Berlino, le difficoltà degli intellettuali nel passare la frontiera insorgono quasi esclusivamente a causa dei visti occidentali, che l’Allied Travel Office spesso rifiuta di rilasciare. Se è vero che l’anticomunismo da una parte e l’antifascismo dall’altra forniscono, come due lenti, immagini opposte, più o meno deformate della realtà tedesco-orientale, è altrettanto vero che la lente dell’anticomunismo, dominante nei mass-media, è quella attraverso cui, volente o nolente, guarda la maggior parte degli italiani, in un contesto di parzialità istituzionalizzata dell’informazione.
Nei primi anni Cinquanta l’interesse di Cases per la DDR è senz’altro corroborato da alcuni libri che ne provengono, primi fra tutti quelli di Lukács. I quattro saggi raccolti nel 1947 dallo Aufbau-Verlag con il titolo Karl Marx und Friedrich Engels als Literaturhistoriker entro una copertina gialla, di carta zigrinata, a surrogare una tela che sarebbe stata troppo costosa, costituiscono la base della raccolta Il marxismo e la critica letteraria, che egli assembla e traduce per Einaudi nel 1953. Altri due opuscoli, Deutsche Literatur im Zeitalter des Imperialismus e Fortschritt und Reaktion in der deutschen Literatur, che nel ’56 comporranno, ancora per Einaudi, la fortunata Breve storia della letteratura tedesca dal Settecento ad oggi, «furono tra i primi libri stampati a Berlino dopo la fine della guerra, e giovani come Günther Cwojdrak hanno ricordato quale senso di scoperta abbiano provato di fronte ad essi in mezzo al disorientamento culturale succeduto al nazismo»11. Dopo Lukács è la volta del Suddito di Heinrich Mann, dei romanzi di Hans Fallada, delle Kalendergeschichten di Brecht …
Tra i primi pareri di lettura scritti per Einaudi molti riguardano autori stabilitisi nella DDR. Le valutazioni positive di libri come Abschied di J. R. Becher, P.L.N. di Werner Krauss, Das Beil von Wandsbeck di Arnold Zweig, Im Morgennebel di Ehm Welk o Mephisto di Klaus Mann, che contrastano con il giudizio generalmente negativo sulla letteratura tedesco-occidentale (ad eccezione quasi esclusiva di Wolfgang Koeppen e Arno Schmidt), non portano però quasi mai alla pubblicazione12.
L’occasione, per Cases, di verificare le impressioni mediate dai giornali e dalla letteratura sono due soggiorni in Germania: il primo nella Repubblica Federale nell’estate del ’54, il secondo nella Repubblica Democratica nell’autunno-inverno 1956-1957.
Le sue corrispondenze, pubblicate sul settimanale del PCI «Il Contemporaneo» nel novembre del 1954 sotto la rubrica Lettere dalla Germania13, danno voce alla diffidenza nei confronti di quello che gli appare da una parte «uno Stato erede di tutte le peggiori tradizioni tedesche» e dall’altra il «paese più aridamente americanizzato e neocapitalistico d’Europa». Cases insiste sulla «continuità» con il passato, sulla mancanza di volontà di fare i conti con il nazionalsocialismo, sul «concretismo» imperante nelle nuove generazioni (l’«aspirazione scevra di speranze e di illusioni, al benessere materiale, alla sistemazione nella vita»), sull’incapacità di esprimere un’opinione pubblica realmente libera. La terza corrispondenza, che prende di mira la «Bild-Zeitung», è forse la più severa:
«Non ci si può fare un’idea, se non de visu, di che cosa siano questi giornali. La politica vera e propria vi è ridotta a qualche riga. Il resto sono tenebrose vicende di spionaggio sovietico, che mostrano come e qualmente quest’ultimo era più che mai robusto durante il terzo Reich … e soprattutto delitti, delitti, e poi ancora delitti. Resterebbe inconcepibile che ci siano abbastanza delitti da alimentare il sadismo di questi giornali se la cosa non si spiegasse facilmente col fatto che sono essi stessi a crearli. Essi sono Auschwitz trasformato in pillole, o meglio sono le pillole – le nere fantasie ossessive del filisteo tedesco – che talvolta, in occasioni propizie, si agglutinano a formare i massacratori di Auschwitz».14
La cultura cosiddetta alta, per parte sua, col suo invito a sottrarsi alla massificazione per ripiegarsi aristocraticamente sull’individuo, «non fa altro che ribadire l’abbandono delle masse all’abbietta propaganda reazionaria, di cui è in realtà consapevolmente complice, di modo che è lecito sospettare che i vari Heidegger, Jünger, Holthusen, che invitano ad evadere dalle città babeliche per cercare nel fondo dei boschi l’immutabile ‘Essere’, figurino tra i maggiori azionisti della “Bild-Zeitung”». La desolazione è tale che il corrispondente sbotta: «Si può pensare quel che si vuole della Repubblica Democratica Tedesca, ma una cosa è certa: là molti tedeschi, specialmente giovani, hanno potuto approfittare di un processo di rieducazione che li ha resi consapevoli degli errori del passato e della necessità di un mutamento radicale»15. Il primo contatto con questi tedeschi avviene al Congresso internazionale dei germanisti, che si svolge a Roma nel settembre 1955. Ricorda Cases nella sua autobiografia:
«Io camminavo tranquillamente tra le panchine di Villa Sciarra al Gianicolo, quando fui colpito dalla vista inusuale di una panchina gremita di tedeschi che discutevano sommessamente, ma animatamente, e per di più erano eccezionalmente malvestiti. Pensavo che fossero ‘i nostri’ e non mi sbagliavo».16
Nell’articolo pubblicato in quell’occasione sul «Contemporaneo» egli contrappone ai «fumi ideologici» dei germanisti occidentali, che per non affrontare il recente passato sottraggono gli scrittori alla società che li esprime rendendoli «atemporali», l’«apertura di orizzonti» e la «più esatta impostazione dei problemi» di Hans Mayer e degli altri studiosi tedesco-orientali17.
Invitato da Mayer, l’autunno seguente Cases è a Lipsia, per tenere corsi di lingua e letteratura italiana al Romanisches Institut e all’Institut für Weltliteratur. Qui si lega a studiosi come Werner Krauss, Winfried Schröder, Heinz Stolpe e Manfred Naumann, e collabora con i «Weimarer Beiträge»18. Il suo sforzo di cogliere la reale portata della conversione strutturale del paese è testimoniato dalla corrispondenza con gli amici italiani. «Il fenomeno positivo generalmente trascurato», scrive nel gennaio 1957 a Delio Cantimori:
«è la scomparsa pressoché totale della tracotanza o, come direbbe Grünanger nel suo medio alto tedesco, dell’übermüete teutonica, scomparsa dovuta sia al socialismo, sia semplicemente al fatto che qui la batosta è stata molto più sentita e la ricostruzione più lenta è avvenuta non in base all’iniziativa individuale, sicché manca quell’orgoglio del tedesco che siccome si è ‘fatto’ il Volkswagen crede di essere padrone del mondo. Non c’è più la ‘machtgeschützte Innerlichkeit’ di cui parlava Thomas Mann, perché non c’è la Macht e anche la Innerlichkeit è stata molto scossa. Fatto sta che, diversamente da quanto mi accade nella Germania di Bonn, io praticamente non provo più quei risentimenti verso i tedeschi che mi impedivano di avvicinarli come esseri normali … Ciò non significa che non ci siano gravi sopravvivenze di teutonismo, magari travestito socialisticamente, ma l’essenziale è che esistono le premesse per superarlo, e che occorrerebbe soltanto dare maggiori possibilità di realizzarsi a queste forze costrette a rimanere per lo più latenti».19
Arrivato a Lipsia quattro giorni prima della rivolta di Budapest, Cases assiste infatti da vicino alla caccia alle streghe che troverà il suo capro espiatorio nel ‘gruppo Harich’, del quale farebbero parte anche alcuni dei suoi amici lipsiensi20. Nell’aprile 1957 scrive all’amico filologo Sebastiano Timpanaro. In latino, ad evitare la censura.
«Timeo etenim ne epistulae meae quaedam aperiantur et ab hominibus huic officio praepositis legantur. Aliter explicare non possum, cur milites quaestorii, qui immerito populares nuncupantur (lucus a non lucendo), in domum meam irruperint et non cauponam meam tantum modo, sed omnes conlocatarios (ex hiis surdam vetulam quandam, quae domo nunquam exit) percontati sint, an ego rerum novarum studiosus solis occidui partes reliquissem, ut reipublicae huius ruinam fortasse molirer».21
A minacciare lo stato socialista non sono tuttavia, secondo Cases, le paventate attività spionistiche di un germanista italiano – peraltro messo fuori combattimento dalla tosse asmatica – bensì la politica autoritaria di chi lo governa:
«Sic infirmus et omnino inutilis ruinam orbis totius et quasi humani generis declinationem conspicio. Dux germanicus hirci barba ornatus libertatis ultimam speciem iugulavit. Hic cerneres homines optimos patriae amantissimos in carcerem deiectos; Blochium philosophum summum aqua et igni interdictum; Berensium Benariumque rerum oeconomicarum cultores ducis fulmine perculsos, quia veritati indulgeant; stultos ubicumque imperantes; mendacium quasi supremam reipublicae legem factum».22
Sebbene dovuto alla banale esigenza di aggirare la censura, questo latino maccheronico, che descrive la DDR attraverso la lingua di Cicerone e di Sallustio, risulta uno strumento stilistico straordinariamente adeguato a esprimerne l’involuzione autoritaria. Ma le preoccupazioni di Cases vanno in primo luogo all’Italia, dove dopo il ’56 il PCI cerca di contenere la protesta degli intellettuali con metodi non troppo dissimili.
Nel lungo, circostanziatissimo saggio Alcune vicende e problemi della cultura nella RDT, che esce nel 1958 non sul «Contemporaneo» o su «Società», le riviste vicine al Pci con le quali aveva collaborato fino al ’56, bensì sul mensile letterario «Nuovi Argomenti», espressione di un marxismo indipendente dalla politica culturale del partito, Cases conclude rivolgendosi appunto ai vertici del PCI23. Dopo aver ampiamente infranto la consegna del silenzio sugli aspetti più repressivi del socialismo esteuropeo, descrivendo l’isterilirsi della vita culturale nella DDR in una spirale di incarcerazioni, autocritiche, suicidi, mentre «il gruppo dirigente si restringe sempre di più alla sorda e nefasta figura di Walter Ulbricht, garanzia di repressione e immobilismo», egli incalza, in un crescendo di interrogativi:
«È lecito, a chi vedeva con gioia profilarsi nella R.D.T. una nuova Germania e una nuova cultura tedesca democratica, rattristarsi per tale situazione? È lecito additare nei responsabili di essa i veri «sabotatori» e «traditori» del socialismo, i veri complici di Adenauer, così come Adenauer e la sua politica hanno sempre rafforzato la posizione di Ulbricht? È lecito credere che non si possa ribadire la propria fede nel socialismo e la propria avversione per il capitalismo senza dire chiaramente queste cose? Oppure l’«intelligenza della necessità» consiste soltanto, come altri crede, nell’accettare il letargo, e aspettare che il serpente abbandoni le spoglie, a rischio di vederlo trasformato nella «visione da incubo» di un comunismo fatto di burocrati, poliziotti, frigoriferi, e niente uomini?».24
Il saggio inaugura un atteggiamento che più tardi diverrà comune tra i germanisti italiani: di fronte all’alternativa tra delegittimare la DDR, come fa il governo, e legittimarla senza riserve, come fa il PCI, essi scelgono di fatto di appoggiarla (contro Bonn), restituendo tuttavia un’immagine negativa del «regime ulbrichtiano» e positiva degli intellettuali che, da sinistra, esercitano un’opposizione al suo interno. Questo atteggiamento, che ritroviamo nell’autorevole Storia della letteratura tedesca di Ladislao Mittner (1968), si deve in parte alla certezza, derivata da Lukács, che la cultura e gli intellettuali abbiano un potere reale e decisivo nella trasformazione del mondo, una certezza che oggi appare tanto remota da far sorridere. A questa sorta di autocoscienza corporativa, all’interrogativo sulla propria funzione sociale, è però riconducibile lo stesso interesse per la DDR, dove il socialismo, con «l’acuto senso di una comunanza di destini, nel bene e nel male, che esso comporta», dà all’attività degli intellettuali «una profondità e una rappresentatività di cui si cercherebbe invano l’equivalente in occidente»25.
Nel 1959 Cases, invitato dal segretario della sezione pisana del PCI a fare autocritica, non rinnova la sua iscrizione.
(1/2. Segue)
Michele Sisto
(Tratto da: Michele Sisto, Gli intellettuali italiani e la Germania socialista. Un percorso attraverso gli scritti di Cesare Cases, in AA.VV., Riflessioni sulla DDR. Prospettive internazionali e interdisciplinari vent’anni dopo (a cura di Magda Martini e Thomas Schaarschmidt), Bologna, il Mulino, 2011, pp. 97-121, disponibile anche su https://www.academia.edu/18885790/Gli_intellettuali_italiani_e_la_Germania_socialista_Un_percorso_attraverso_gli_scritti_di_Cesare_Cases?email_work_card=title).
Note
1 Così sono definiti nell’autobiografia Confessioni di un ottuagenario, nuova ed. accresciuta, Roma 2003, alla quale si rimanda per un più ampio profilo biografico del germanista.
2 «Die Wunde / des Möglichen blutet noch» (Pragmatismus), nel volume dedicato a Cases Poesia tedesca del Novecento, a cura di A. Chiarloni - U. Isselstein, Torino 1990, p. XI.
3 Lo sfondo è dato dal lavoro di M. Martini, La cultura all’ombra del muro. Relazioni culturali tra Italia e DDR (1949-1989), Bologna 2007. Per la più ampia ricezione nei media italiani si rimanda invece a E.S. Kuntz, Kostanz und Wandel von Stereotypen. Deutschlandbilder in der italienischen Presse nach dem Zweiten Weltkrieg, Frankfurt a.M. 1997.
4 C. Cases, La fredda impronta della forma. Arte, fisica e metafisica nell’opera di Ernst Jünger, a cura di H. Dorowin, Scandicci 1997. Dove non altrimenti indicato i rimandi bibliografici si intendono ad opere di Cases.
5 La minaccia del capitalismo. Una lettera di Cesare Cases, in «il manifesto», 8 giugno 1990, p. 1.
6 Si vedano le bellissime pagine della prefazione a Su Lukács (Torino 1985) in cui Cases ricorda come quella lettura gli avesse rivelato «il rapporto tra l’infelicità psichica di un intellettuale asmatico e solitario e la promessa di una società che garantisse maggior libertà e giustizia per tutti».
7 Brecht in America: sei poesie inedite, traduzione e presentazione di Cesare Cases, in «Quaderni piacentini», 4, 1965, 25, pp. 3-4.
8 P.P. Pasolini, La Divina Mimesis, Torino 1975. La poesia è citata in chiusura degli Appunti e frammenti per il III canto, datati 1965.
9 Divagazioni su struttura e superstruttura (2ª parte e fine), in «Discussioni», NS, 3, 1951, 11, p. 7.
10 F. Fortini, Diario tedesco. 1949, Lecce 1991, p. 50.
11 La storia della letteratura tedesca fuori dagli schemi dell’«intelletto» e del «sentimento», in «Notiziario Einaudi», 5, 1956, 4, p. 5.
12 Per una trattazione più ampia del ruolo di Cases nella ricezione della letteratura della DDR in Italia mi permetto di rimandare a M. Sisto (ed), L’invenzione del futuro. Breve storia letteraria della DDR dal dopoguerra a oggi, Milano 2009, pp. 331-411.
13 La monade tedesca (6.11.1954), I «pesciolini» autocritici (20.11.1954) e I teorici del nichilismo (27.11.1954). Segue, a distanza di un anno, una serie di Lettere tedesche, di taglio culturale-letterario: Brecht, Adorno, Kafka (5.3.1955), La notte universale (14.5.1955), Le forme della decadenza (2.7.1955), Il congresso dei germanisti (24.9.1955), Dopo Kafka (14.1.1956) e La quaglia spennata (19.5.1956). Renato Solmi, che in quest’occasione accompagna Cases, esprime valutazioni analoghe a quelle dell’amico nell’articolo Viaggio in Germania, in «Notiziario Einaudi», 3, 1954, 9, pp. 1-3 e 10, ora in R. Solmi, Autobiografia documentaria, Macerata 2007, pp. 123-131.
14 I teorici del nichilismo, in «Il Contemporaneo», 1, 1954, 35, p. 5.
15 Ibidem.
16 Confessioni di un ottuagenario, p. 99.
17 Il congresso dei Germanisti, in «Il Contemporaneo», 2, 1955, 38, p. 5.
18 Sulla principale rivista accademica letteraria tedesco-orientale pubblica tre recensioni: alla Drammaturgia di Amburgo di Lessing curata da Paolo Chiarini (III, 3, lug.-sett. 1957), alla Storia della letteratura del suo maestro milanese Carlo Grünanger (IV, 1, gen.-mar. 1958) e a Die Kunst der Interpretation di Emil Staiger (VI, 1, gen.-mar. 1960).
19 La lettera, datata 18 gennaio 1957, è conservata all’Archivio della Scuola Normale Superiore di Pisa. Ringrazio Dario Borso e Milletta Sbrilli per avermela messa a disposizione.
20 Per una rievocazione del soggiorno a Lipsia si veda C. Cases, Confessioni di un ottuagenario, pp. 99-107.
21 «Temo infatti che alcune mie lettere vengano aperte e lette dagli uomini addetti a questo compito. Non potrei spiegare altrimenti perché la polizia, che a torto è detta popolare (lucus a non lucendo), abbia fatto irruzione in casa mia e abbia interrogato non solo la padrona di casa ma tutti gli affittuari (tra i quali una vecchia sorda che non esce mai di casa) chiedendo se io non sia venuto dall’occidente animato da impulsi rivoluzionari per ordire il crollo di questo Stato» (Lettera a Sebastiano Timpanaro, 4 aprile 1957, in L. Baranelli [ed], Un lapsus di Marx, Pisa 2005, p. 28).
22 «Così malconcio e del tutto inservibile assisto alla catastrofe del mondo intero e, per così dire, allo sbando dell’umanità. Il dittatore germanico, adorno di barba caprina, ha annientato l’ultima parvenza di libertà. Qui vedresti persone eccellenti e fedelissime alla patria gettate in prigione; il grande filosofo Bloch costretto all’esilio; gli economisti Behrens e Benary colpiti dal fulmine del dittatore per aver sostenuto la verità; gli stupidi comandare ovunque; la menzogna innalzata a legge suprema dello Stato» (Ibidem).
23 Dalle lettere di questo periodo si evince che Cases ha in mente soprattutto i responsabili della politica culturale del PCI, nonché alcuni dei suoi intellettuali di punta. Tra questi Mario Alicata, Concetto Marchesi, Ranuccio Bianchi-Bandinelli.
24 Alcune vicende e problemi della cultura nella RDT, in «Nuovi Argomenti», 6, 1958, 34, p. 49, ora in Il testimone secondario, Torino 1985, pp. 319-356.
25 Alcune vicende e problemi, p. 45.
Inserito il 18/06/2024.
Cesare Cases e la DDR
di Michele Sisto
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Gli intellettuali italiani e la Germania socialista
Un percorso attraverso gli scritti di Cesare Cases
di Michele Sisto
Seconda parte
3. Solidarietà critica (1958-1973)
In realtà il saggio sulla DDR, pare, piace a Togliatti, «il quale odiava Ulbricht e quindi si rallegrava di ciò che aveva letto contro di lui»26. Sta di fatto che di lì a qualche anno, in particolare in seguito alle polemiche sul caso Havemann, il PCI passerà, nei confronti della DDR, all’esercizio di quella che Magda Martini ha definito «solidarietà critica»27.
Anche fuori dal partito, Cases continua a bersagliare soprattutto la Repubblica Federale del «miracolo tedesco»28 e, quando nel ’61 viene intervistato da una radio tedesco-occidentale, giustifica la costruzione del muro di Berlino29. Non stupisce, dunque, trovare il suo nome accanto a quelli di Ferruccio Parri, Lavinia Mazzucchetti e Paolo Chiarini tra i relatori di una conferenza organizzata a Roma nel 1963 dal Centro Thomas Mann, l’«Associazione per i rapporti culturali fra l’Italia e la Repubblica Democratica Tedesca» fondata nella primavera del 1957 da intellettuali indipendenti in seguito a un’iniziativa congiunta di PCI e SED. E di ritrovarlo ancora nel 1967 tra i membri del Consiglio, insieme, tra gli altri, a Ernesto Ragionieri30.
Ma il sostegno di Cases al Centro è del tutto marginale rispetto al suo contributo, in questi stessi anni, alla costruzione di un movimento politico che non si identifichi né con lo «stato di cose presente» né con quel «paese nel paese» che è il Partito comunista, ricercando i propri modelli e interlocutori non più nel mondo sovietico ma nelle rivoluzioni terzomondiste (Cuba, Vietnam), nella rivoluzione culturale cinese, nella lotta per i diritti dei neri negli Stati Uniti. È la «nuova sinistra».
Durante il suo soggiorno del 1956-1957 Cases era stato testimone di come i principali fermenti per lo sviluppo di una cultura socialista non venissero dalle istituzioni, bensì da alcuni intellettuali relativamente isolati, e spesso osteggiati: Lukács, tra i protagonisti della primavera ungherese, era stato l’ispiratore del gruppo raccoltosi intorno al filosofo Wolfgang Harich, che aveva promosso l’unico tentativo serio di democratizzare dall’interno il paese; Brecht aveva esercitato un vasto influsso sui giovani scrittori, incoraggiandoli, insieme a Hans Mayer, a un impegno letterario che evitasse gli equivoci del realismo socialista; Robert Havemann si era segnalato sulle pagine della «Deutsche Zeitschrift für Philosophie» (la rivista di Harich) per il suo tentativo di mettere il materialismo dialettico al servizio della scienza (e non viceversa, come per lo più avveniva nei paesi socialisti).
È proprio alle posizioni e traiettorie di questi intellettuali che Cases più si interessa in questi anni. Di Brecht, come è noto, cura per Einaudi l’edizione di svariate opere, contribuendo in modo rilevante a consolidare il suo prestigio letterario e a superare la diffidenza di una parte degli italiani, che vedeva nel suo teatro un veicolo della propaganda tedesco-orientale. Ma è in particolare la traduzione delle contestate lezioni tenute da Havemann alla Humboldt Universität nell’inverno 1963-1964 ad accendere la miccia di un dibattito politico che condurrà al primo scontro aperto tra PCI e SED. Dopo l’espulsione dello scienziato comunista dal partito Dialettica senza dogma era stato, naturalmente, pubblicato in Germania Federale, ma la traduzione presso una casa editrice di sinistra come Einaudi, per di più presentata da Cases come «una delle poche testimonianze di una decisa volontà di riproporre i temi del marxismo in un’atmosfera di libertà e di rispetto della scienza»31, dà alle posizioni di Havemann una risonanza tale da mettere in difficoltà la SED. Alla positiva recensione del matematico Lucio Lombardo Radice sull’«Unità» rispondono con una lettera aperta sette filosofi tedesco-orientali, provocando a loro volta una presa di posizione del PCI: «A nostro avviso nel confronto delle opinioni non debbono intervenire misure persecutorie; lo stato e le istituzioni pubbliche socialiste non debbono privilegiare alcuna ideologia»32. Questo intervento, il primo apertamente in contrasto con la politica culturale ulbrichtiana, segna l’inizio di notevoli tensioni tra i due partiti comunisti, che culminano nel 1966 in un attacco del «Neues Deutschland» alla «teoria dello stato aconfessionale», a Lombardo Radice, al PCI.
«La pubblicazione dello Havemann, in fondo, – scrive a Cases il giovane giurista e consulente einaudiano Mario Losano, da poco rientrato da un soggiorno in Germania orientale – non ha fatto che aumentare l’inespresso rispetto del Ministero della Cultura per questo studioso eterodosso. Giulio Einaudi sosteneva in questi giorni che forse si doveva a questo nostro intervento il fatto che Havemann non abbia perso del tutto la sua posizione nel mondo accademico»33. L’operazione, allora, viene ripetuta. Cases traduce alcune poesie di Wolf Biermann e Günter Kunert su «Quaderni piacentini»34, li inserisce nell’antologia Giovani poeti tedeschi (Einaudi 1968), e promuove la pubblicazione di due volumi di versi: Ricordo di un pianeta di Kunert (Einaudi 1970) e, in anticipo di pochi mesi sulla sua Ausbürgerung, Per i miei compagni di Biermann (Einaudi 1976).
Pur facendo quanto è in suo potere per rafforzare il dissenso interno alla DDR, verso la metà degli anni Sessanta Cases è costretto a prendere atto che, grazie all’opposizione di intellettuali come Böll, Enzensberger, Weiss e al nascente movimento degli studenti, un movimento rivoluzionario appare più probabile nella Germania occidentale che in quella socialista, dove «lo stalinismo ha distrutto», persino in uomini come Lukács e Havemann, «la speranza nella rivoluzione mondiale»35.
Ancora anni dopo, presentando l’autobiografia di Havemann Domande risposte domande (Einaudi 1971), Cases polemizza con Fortini, in un curioso scambio di ruoli rispetto a vent’anni prima, facendosi portavoce della scarsa fiducia della nuova sinistra italiana in un sommovimento democratico nei paesi del Patto di Varsavia:
«Recentemente Franco Fortini ha protestato (in “Quaderni piacentini”, n. 44-45) contro la tendenza della ‘nuova sinistra’ a resecare dai propri orizzonti, o a condannare in blocco senza nemmeno concedere il beneficio dell’inventario, intere zone come l’URSS e le democrazie popolari. Ha ragione: facciamo ammenda. Tuttavia resta il fatto che un movimento che intenda ripensare le condizioni e le prospettive della rivoluzione deve prendere il suo bene dove lo trova, e in quei paesi se ne trova poco».36
4. Un’oasi precapitalistica minacciata dall’alienazione (1973-1989)
Nel 1973 la Repubblica italiana, sulla scia del Grundlagenvertrag sottoscritto tra Bonn e Berlino Est, riconoscono ufficialmente la DDR. La normalizzazione dei rapporti diplomatici è salutata da Cases come un passo avanti, ma allo stesso tempo è fonte di nuove preoccupazioni. Quelle che l’americano John Dornberg magnifica come le conquiste di una nuova potenza europea, scenario di «un miracolo economico non meno spettacoloso del primo Wirtschaftswunder della Germania occidentale»37, sono per lui il segnale che le strutture del capitalismo (e con esse la sua mentalità) si stanno riproducendo anche all’Est, proprio il rischio dal quale aveva messo in guardia contestando la dottrina della «coesistenza ideologica»38. La «rivoluzione tecnico-scientifica»39, i successi del «made in GDR», i 712 milioni di dollari di scambi commerciali con la BRD (e i 50 con l’Italia), l’alta moda dello stilista Heinz Bormann, la bionda che pubblicizza la saponetta Diplom sul «Neues Deutschland», l’efficientismo, la tecnocrazia, la crescente esigenza di beni voluttuari, minaccia di distruggere uno degli aspetti che differenziano in positivo la DDR dall’altra Germania, e che ancora emergevano, quasi involontariamente, perfino in un reportage critico come quello di Enzo Bettiza:
«Passato il muro, ciò che subito colpisce è il silenzio e la quiete. Tutto appare rallentato, vecchio, più vicino ai tempi dell’immediato dopoguerra tedesco. Presto si dimenticano i rumori e i bagliori fosforescenti che avvolgono quell’immensa megalopoli americanizzata ch’è oggi la Germania atlantica. Si affonda in un mondo germanico più fermo, più antico, quasi più autentico. Una Germania precapitalista, addirittura preweimariana».40
Questa «autenticità», che per Cases non è altro che un più basso grado di alienazione, rischia di andare perduta. Già nel 1958, attaccando la corrente filosofica del neopositivismo, che auspicava il prevalere della «mentalità scientifica» di fronte alle «concezioni del mondo» (dalla cattolica alla comunista) screditate come miti e magie, egli aveva inteso contrastare una tendenza che avrebbe provocato «il disarmo intellettuale e morale dell’uomo di fronte al potere del capitale monopolistico, la democrazia alla rovescia per cui tutti sono egualmente inermi di fronte a ciò che viene loro presentato come scientifico»41. Anche i paesi socialisti già allora non ne erano immuni, e a distanza di una decina d’anni Cases teme che essi proseguano sulla via di una modernizzazione tecnologica ‘alla occidentale’, che non solo lascerebbe intatte le strutture politiche dello stalinismo, ma condurrebbe a forme di alienazione ‘socialistica’ del tutto analoghe a quella capitalistica.
Questo è il tema intorno al quale ruota la recensione a I nuovi dolori del giovane W. di Ulrich Plenzdorf, apparsa nel 1975 sui «Quaderni piacentini». Il protagonista, nota Cases, non è che un ‘giovane Holden’ in abiti tedesco-orientali, incline a una ribellione fine a sé stessa e incapace di opporre resistenza alla «deprimente identificazione del socialismo con l’ideologia produttivistica». Ma se nel film Die Legende von Paul und Paula, sceneggiato da Plenzdorf, «l’anticonformismo oltrepassa Salinger per giungere a un nuovo conformismo non dissimile da Love story e quasi altrettanto evasivo e reazionario», nel romanzo l’autore ha la geniale idea di fare della vicenda di per sé conformista dell’operaio Edgar Wibeau una caricatura della storia di Werther, attraverso un fitto gioco di rimandi al testo di Goethe, che il protagonista trova e legge per caso, senza sapere di cosa si tratti. Nella distanza tra il gergo burocratico socialista e quello giovanilistico del novello Holden da una parte, e la prosa enigmatica del Werther, di cui sono citati ampi brani, dall’altra, risuona l’eco di un mondo in cui l’individuo poteva condurre una vita forse più repressa ma senz’altro più autentica. In un paese occidentale peraltro, aggiunge Cases, sarebbe ormai impossibile innescare e perfino percepire questa tensione:
«La possibilità oggettiva di questa risonanza non consentita al giovane Holden sta nella maggiore verosimiglianza che l’individuo continua a mantenere nei paesi socialisti, se non altro perché la costrizione sociale è meno introiettata e accettata, più esteriore, imposta, separata. Il titolo di Carlo Levi Il futuro ha un cuore antico vale sempre a designare una situazione in cui l’individuo, nonostante ogni accusa di totalitarismo, gode in realtà di uno spazio che ai nostri occhi appare quasi ottocentesco. Il libro di Plenzdorf mostra insieme che nella nuova generazione questo spazio si è ridotto di molto e che tuttavia sussiste quel tanto che basta per identificarsi con il vecchio Werther».42
La «mancanza di orpelli capitalistici», il «fondo rustico e popolano» e il fondamentale «ascetismo» della più povera e più socialista delle due Germanie sono il motivo per cui, secondo Cases, l’amico Mazzino Montinari vi si era trovato bene durante i lunghi soggiorni a Weimar per attendere all’edizione critica delle opere di Nietzsche: abitandoci, inoltre, «aveva sperimentato lo spirito di solidarietà della popolazione di fronte alle carenze comuni»43. Ancora nel 2000, nella stravagante spiegazione del crollo della DDR che si legge nell’autobiografia, ritroviamo questi stessi elementi, rideclinati nella contrapposizione tra due sfere semantiche la cui composizione rivela la coscienza infelice dell’intellettuale borghese: da una parte ricchezza / efficienza / ordine / velocità / disumanità, dall’altra povertà / inefficienza / disordine / lentezza / umanità.
«Si tirava avanti tra la scarsa fiducia dei pochi in un futuro povero ma decoroso e la grande ammirazione dei molti per i fasti del capitalismo. Io ero per la prima soluzione e manifestavo il mio entusiasmo per gli uffici statali trasandati con donne ciabattanti che mi ricordavano quelli di Pisa: era la fine dell’ordine burocratico nazista. Ma i miei amici [della DDR] scuotevano il capo: se non si dava ordine ai tedeschi, questi si sarebbero rivoltati. Avevamo ragione tutti, solo che non tenevamo conto della globalità dei fenomeni. Il rapido crollo della Rdt non si spiega senza la nostalgia dell’efficienza così come le reviviscenze comuniste nell’ex Rdt non si spiegano senza la nostalgia dell’inefficienza e di ritmi di lavoro meno forsennati. Era il mondo intero che esitava ed esita tra follia tecnologica e follia yoga, entrambe suicide».44
La DDR somiglia, qui, alle borgate romane o all’Africa di Pasolini: un luogo certo non immune ma meno sfigurato dalla trasformazione antropologica determinata dall’instaurarsi della società del benessere. In un certo senso l’argomentazione di Cases raddoppia su un piano filosofico oggettivante, rassodato dalla teoria della reificazione di Lukács e dalla scuola di Francoforte, la polemica condotta negli stessi anni da Pasolini su un piano poetico ed etnografico, facendo perno sulla propria esperienza e sull’espressività letteraria. Comune ad entrambi non è tanto la nostalgia per un mondo perduto, quanto la critica totale a un processo di modernizzazione considerato disumanizzante. «Il progresso è sì qualcosa di indomabile, ma nel senso dell’autodistruzione»45, dirà Cases qualche anno più tardi.
5. In un mondo alla rovescia (1989-1990)
Durante la Wende, quando la DDR da «paese che non evolve per niente»46 si avvia a trasformarsi in una «nota a piè di pagina della storia», l’atteggiamento dialettico di Cases, per cui l’oscillazione tra critica e sostegno è determinata dal mutare degli interlocutori, lo conduce a una nuova svolta: come negli anni Sessanta aveva chiesto al governo di riconoscere la DDR, e al PCI di denunciarne le derive autoritarie, così dopo l’89 rifiuta di unirsi al coro inneggiante alla «rivoluzione pacifica». Al pittore Gabriele Mucchi, che dopo aver vissuto per decenni nella DDR chiede all’età di novant’anni di diventarne ufficialmente cittadino, scrive:
«Ho saputo che tu hai chiesto la cittadinanza della DDR quasi in articulo mortis (della DDR naturalmente, non tua). A me è parso un gesto encomiabile dati i tuoi rapporti con questo paese e dato che adesso tutti dimenticano gli aspetti positivi che aveva nonostante tutto. Ho visto che a capo della SED o comunque si chiami c’è il figlio del mio vecchio amico Gysi, che certo avrai conosciuto anche tu. Ma temo che il tentativo di dare un po’ di potere a questi oppositori o comunisti sensati sia un chiudere le stalle quando sono scappati i buoi. Negli altri paesi forse c’è ancora qualche speranza di recuperare bene o male gli aspetti positivi del socialismo ‘reale’, ma in Germania temo che sia impossibile, perché la presa del modello occidentale è troppo forte almeno per quelli che non lo conoscono».47
Proprio il giudizio negativo sul «modello occidentale» è al centro della sua interpretazione della riunificazione tedesca, «o per meglio dire dell’assorbimento di una Germania da parte dell’altra»48. Il 3 ottobre 1990, giorno dell’entrata in vigore del trattato di unificazione, pubblica sulla prima pagina del «manifesto» un articolo teso, nervoso, una ricostruzione densa e contratta del dopoguerra tedesco e allo stesso tempo una vera e propria resa dei conti con la Germania e con la sua storia.
Prima di leggerne per esteso almeno la prima parte, occorre però fare un passo indietro di qualche mese, fino a una recensione del 1988, in cui egli, per la prima volta, istituisce una relazione diretta tra società del benessere e nazionalsocialismo. «Sotto il nazismo – scrive – la gente in Germania stava bene; Hitler era riuscito nell’intento di creare la ‘comunità popolare’ come in quello di sterminare gli ebrei». Adesso però, lamenta, a destra come a sinistra, nessuno, «(salvo i nazisti, che non interessano)», vuole riconoscere questa verità. Perché? La ragione è semplice:
«se si ammette che in quegli anni si stava bene e non si è apologeti del regime, bisogna riconoscere che nel mondo così com’è si può essere felici in una ‘comunità popolare’ solo se si fa finta di non sentire le grida che provengono dall’adiacente camera di tortura, su cui, come spiega un geniale sogno di Castorp nella Montagna incantata, si fonda questa felicità. Siccome questa nel dopoguerra è diventata la situazione generale in Occidente, con la differenza che al posto dell’isterica ‘comunità popolare’ c’è la pacifica società del benessere e che le vittime da torturare o da annientare sono sempre più lontane, ecco che non si può svelare il mistero del passato perché non si può svelare quello del presente».49
A partire da questa angolatura argomentativa si può ora tornare all’articolo del 1990, nel quale fin dalle prime parole riemergono – come un magma che ha ribollito per decenni – il radicale anticapitalismo (non disgiunto da una vena di antigermanismo), e molti altri motivi toccati in queste pagine, per culminare nel telegrafico, postumo riconoscimento di uno stato che, nonostante i catastrofici difetti, aveva comunque il pregio di essere costruito su basi egualitarie.
«Per essere il più impopolare possibile bisognerà cominciare con il nazismo, di cui non si parla se non come massima manifestazione della Grande Germania, che mette ancora paura. Ma il nazismo è anche un periodo in cui i tedeschi (almeno sino a tutto il 1942) stavano benissimo. Per questo erano tutti (salvo valorose ma trascurabili minoranze) nazisti attivi o passivi, disposti a conquistare il mondo, ad ammazzare milioni di uomini e a rischiare la catastrofe per mantenere quel loro benessere. Questa affermazione è ancora più impopolare, perché è vile materialismo marxista o addirittura feuerbachiano («l’uomo è quel che mangia»). Ma è così, anche se nel dopoguerra si è fatto del proprio meglio, soprattutto da parte antifascista, per palliare questa verità. Nella Rft i democristiani ebbero successo con lo slogan della continuità, nella Rdt quello della rottura fu un fiasco completo per i comunisti.
E poi rottura con che cosa? Proprio con il benessere, non con l’oppressione politica che continuava sotto altra insegna. Per reggere a quel regime ci voleva un idealismo che solo i vecchi materialisti marxisti erano in grado di esibire. Essi si meravigliavano che i tedeschi, che si erano mostrati disposti a sopportare allegramente i lager da Dachau in poi, facessero tante storie per un po’ di Bautzen (la prigione per antonomasia nella Rdt). Ma adesso non si meravigliano più e si uniscono alla caccia degli uomini della Stasi, mentre tutti i vecchi nazisti erano rimasti impuniti, almeno nella Rft, e la gente diceva loro: ‘Corri corri galantuomo, qui c’è una chiesa, là c’è un convento’».
Rifiutando la spiegazione interna del crollo della DDR50 Cases allarga lo scenario:
«Tutto dipende dallo sponsor. Alla Rdt era toccato quello povero e cattivo, alla Rft quello ricco e buono. I nazisti, non c’è dubbio, migliorarono a ovest e peggiorarono a est: là si trovarono in una situazione in cui mantenevano la continuità loro cara senza bisogno di usare la violenza verso l’esterno e imparando a usare le istituzioni democratiche dall’interno. Avevano trovato un modello positivo, gli Usa, e a un certo momento si permisero perfino il flirt con i socialisti. Invece nella Rdt la gente si stringeva la cintola, reprimeva i ricordi e gli unici socialisti sinceri erano gli intellettuali, che finivano poi lo stesso, anzi a maggior ragione, a Bautzen. Ora gli equivoci sono finiti e di sponsor ce n’è rimasto uno solo, quello buono. Non c’è più nessuna ragione di mantenere due Germanie separate e il problema, certo difficile, è solo quello di rimpastare due stati uno dei quali si mangerebbe dieci partner della forza dell’altro, che aveva dalla sua solo l’eguaglianza dei poveri».51
È evidente che per Cases con la scomparsa della DDR, e del comunismo storico novecentesco, «la minaccia del capitalismo» non fa che aggravarsi. Nella Germania unita nel culto del D-Mark52 si vive ormai senza alternative in un «mondo alla rovescia»53 degno di E.T.A. Hoffmann. Anche il suo paesaggio letterario appare «alquanto squallido», e gli unici scrittori di qualche rilievo sono quelli provenienti dall’Est: «Se non altro, possono dire se hanno o meno nostalgia del ‘socialismo reale’»54.
La sua posizione, però, a questo punto, non può più essere considerata rappresentativa degli intellettuali italiani. Non solo sono rare e disperse le voci che si oppongono a una liquidazione senza appello del comunismo storico novecentesco, ridotto nei mass-media a una vicenda di dittatori, di Stasi e di Trabant, e nelle università a oggetto di studi sempre più specialistici. È accaduto qualcosa di più: la figura stessa dell’intellettuale, quale era stata incarnata da Cases e dagli altri fin qui citati, si sta estinguendo55. Nella nuova generazione di specialisti della mediazione simbolica è venuto meno il nesso che per almeno due secoli aveva legato ogni interpretazione della storia a una concezione filosofica del mondo, e che era stato il presupposto dell’impegno intellettuale di Lukács come di Gramsci, di Adorno come di Fortini. Costanzo Preve, uno degli interlocutori dell’ultimo Cases56, interpretando il marxismo come «religione filosofica comunista di salvezza»57, vede in essa l’erede tanto dell’escatologia giudaico-cristiana quanto del razionalismo illuminista, nonché l’ultimo tentativo di «dare al semplice scorrimento del tempo storico un ‘significato’ trascendentale di realizzazione di una comunità umana tenuta insieme da valori etico-politici di tipo universalistico»58.
Negli anni in cui più si discute di ‘fine della storia’, e una vicenda come quella della DDR, fuori dal proprio orizzonte di ‘significato’, rischia di apparire desolatamente priva di senso, quasi un’assurdità, Cases è tra coloro che rifiutano di abbandonare questo tentativo e di abdicare al ruolo sociale dell’intellettuale che esso aveva contribuito a fondare:
«Io sto tornando alla teoria lukácsiana del ‘come se’. Noi dobbiamo comportarci come se il modello di storia cristiano-hegeliano-marxista fosse vero, cioè ci fosse un progresso discontinuo certo, ma che conduce comunque da qualche parte, perché se vediamo nella storia, un po’ alla Schopenhauer o recentemente alla Wolfgang Sofsky, solo il trionfo della violenza, solo regresso, allora cediamo le armi. Credo che soggettivamente per l’individuo sia bene continuare a credere in una specie di progresso storico…».59
(2/2. Fine)
Michele Sisto
(Tratto da: Michele Sisto, Gli intellettuali italiani e la Germania socialista. Un percorso attraverso gli scritti di Cesare Cases, in AA.VV., Riflessioni sulla DDR. Prospettive internazionali e interdisciplinari vent’anni dopo (a cura di Magda Martini e Thomas Schaarschmidt), Bologna, il Mulino, 2011, pp. 97-121, disponibile anche su https://www.academia.edu/18885790/Gli_intellettuali_italiani_e_la_Germania_socialista_Un_percorso_attraverso_gli_scritti_di_Cesare_Cases?email_work_card=title).
Note
26 Intervista a Cesare Cases, p. 149; cfr. anche Confessioni di un ottuagenario, p. 117.
27 M. Martini, La cultura all’ombra del muro, p. 109.
28 Si vedano la recensione a La doppia notte dei tigli di Carlo Levi (La Germania di Levi, in «Passato e Presente», 2, 1959, 11-12, pp. 1423-1427), il commento di alcuni episodi di vandalismo antisemita (Le due generazioni del pericolo tedesco, in «Passato e Presente», 3, 1960, 14, pp. 1815-1820) e le presentazioni dei libri di Erich Kuby (Rosemarie, la beniamina del miracolo economico tedesco, in «Notiziario Einaudi», 7, 1958, 4, pp. 3-4, e Prefazione, in Germania provvisoria, Torino 1960, pp. 5-10).
29 A. Chiarloni (ed), Intervista all’autore, in F. Cambi (ed), Saggi e note di letteratura tedesca, rist. anast., Trento 2002, p. XIV.
30 Il Centro, che prende il nome da Thomas Mann per sottolineare l’unità della cultura tedesca al di là della divisione politica, si adopera, quasi in supplenza di un’ambasciata, innanzitutto per facilitare le relazioni tra i due paesi. Presieduto inizialmente dal filosofo marxista Antonio Banfi, col quale Cases si era laureato (e in seguito da Ranuccio Bianchi Bandinelli, da Franco Antonicelli e infine da Stefano Rodotà), si apre da subito alla collaborazione di intellettuali di diverso orientamento politico, lasciando in ombra i temi politici più controversi e concentrando gli sforzi sul versante culturale. Nell’elenco dei collaboratori contenuto nell’opuscolo Dieci anni del Centro Thomas Mann. 1956-1967 (Roma 1967) si leggono i nomi di Giulio Carlo Argan, Remo Cantoni, Enzo Collotti, Renzo De Felice, Galvano Della Volpe, Giacomo Devoto, Enrico Filippini, Franco Fortini, Vittorio Gassmann, Paolo Grassi, Renato Guttuso, Carlo Levi, Giacomo Manzoni, Augusto Monti, Mario Monicelli, Enzo Paci, Pier Paolo Pasolini, Gillo Pontecorvo, Luigi Rognoni, Luigi Squarzina, Giorgio Strehler, Leo Valiani e numerosi altri. Cfr. M. Martini, La cultura all’ombra del muro, passim.
31 Prefazione, in R. Havemann, Dialettica senza dogma, Torino 1965, p. 16.
32 Cit. in M. Martini, La cultura all’ombra del muro, p. 174, dove si trova un’ampia ricostruzione della vicenda.
33 Archivio di Stato di Torino, Archivio Giulio Einaudi Editore, Corrispondenza con autori e collaboratori, Cases, c. 985.
34 Tre poeti tedeschi, in «Quaderni piacentini», 5, 1966, 28, pp. 70-75.
35 Le idee politiche di Havemann e di Lukács, in «Quaderni piacentini», 5, 1966, 27, pp. 15-28, ora in Su Lukács, p. 27.
36 Havemann e le contraddizioni della verità, in «Libri nuovi», 5, 1972, 10, p. 8.
37 J. D Ornberg, La Germania dietro il muro. Anatomia della Repubblica Democratica Tedesca, Milano 1968, p. 5.
38 In particolare in Le idee politiche di Havemann e di Lukács.
39 Cfr. U. Mählert, La DDR. Una storia breve. 1949-1989, Milano 2009, pp. 88-89.
40 E. Bettiza, L’altra Germania, Milano 1968, p. 57.
41 Marxismo e neopositivismo, Torino 1958, ora in Il boom di Roscellino, Torino 1990, p. 44.
42 Werther in Germania orientale, in «Quaderni piacentini», 14, 1975, 56, p. 141.
43 Il granduca di Weimar: ricordo di Mazzino Montinari, in «Belfagor», 42, 1987, 3, p. 339.
44 Confessioni di un ottuagenario, p. 103.
45 L. Forte (ed), Intervista a Cesare Cases, p. 155.
46 Oltre il muro c’è il Reno, in «L’Espresso», 26 luglio 1981, p. 73, rec. di A. Seghers , La gita delle ragazze morte e altri racconti, Milano 1981.
47 Lettera di Cases a Mucchi, 29 gennaio 1990, in M. Martini, La cultura all’ombra del muro, p. 318.
48 Il compleanno è da McDonald’s, in «Il Sole 24 ore» (Domenica), 4 ottobre 1998, rec. di G. Grass, È una lunga storia, Torino 1998.
49 Per non dimenticare, in «L’Indice», 5, 1988, 7, p. 28, rec. di B. Beuys, Vergeßt uns nicht. Menschen im Widerstand 1933-1945, Reinbek 1987.
50 Si veda in questo senso anche l’intervista C’era una volta la DDR, in «Comunisti Oggi. Progetto per una nuova identità», 2, 1991, 8, p. 5.
51 C’è da aver paura?, in «il manifesto», 3 ottobre 1990, p. 1.
52 Addio trecce di Loreley, ora la patria è il marco, in «La Stampa», 30 luglio 1994, p. 16.
53 Le nostalgie di un venditore di fontane, in «Il Sole 24 ore» (Domenica), 6 maggio 2001, rec. di J. Sparschuh, Il venditore di fontane, Firenze 2000.
54 Ibidem.
55 Confessioni, p. 12.
56 Cfr. L. Forte (ed), Intervista a Cesare Cases, p. 93.
57 C. Preve, Il marxismo e la tradizione culturale europea, Pistoia 2009, p. 85.
58 Ibidem.
59 L. Forte (ed), Intervista a Cesare Cases, p. 172.
Inserito il 18/06/2024.
Aleksandr Nevskij, il capolavoro di Sergej Ejzenštejn
Dal settimanale «Alias»
Cinema sovietico
Sergej Ejzenštejn, il montaggio verticale
di Alessia Cervini
È il 1 dicembre 1938 quando Aleksandr Nevskij viene presentato a Mosca, subito accolto con grande favore dal pubblico e dai vertici del partito. Con questo suo primo film sonoro, Sergej Ejzenštejn torna alla regia quasi dieci anni dopo il suo ultimo lavoro, Il vecchio e il nuovo (1929), e una lunga serie di progetti falliti.
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Sergej Ejzenštejn, il montaggio verticale
di Alessia Cervini
È il 1 dicembre 1938 quando Aleksandr Nevskij viene presentato a Mosca, subito accolto con grande favore dal pubblico e dai vertici del partito. Con questo suo primo film sonoro, Sergej Ejzenštejn torna alla regia quasi dieci anni dopo il suo ultimo lavoro, Il vecchio e il nuovo (1929), e una lunga serie di progetti falliti: i film scritti e mai realizzati, come Una tragedia americana, tratto dal romanzo di Theodor Dreiser; quelli girati e mai montati, come Que viva Mexico!; quelli perduti in circostanze misteriose come Il prato di Bezin.
Per questa e altre ragioni analoghe, gli anni Trenta sono per Ejzenštejn un periodo di grande crisi personale e professionale, determinata da una radicale trasformazione della situazione politica e culturale in Unione Sovietica, della quale il regista si rende immediatamente conto, di rientro dal suo lungo viaggio attraverso l’Europa, gli Stati Uniti e infine il Messico.
Negli anni della sua assenza, in patria, tutto è cambiato: persino la rivoluzione sembra, quando Ejzenštejn torna a Mosca, nel 1933, ormai un ricordo lontano, proprio come il cinema che l’ha raccontata e che pare a molti un traguardo ormai superato, da cui occorre prendere le distanze.
Scene quotidiane
Le esigenze a cui l’arte deve rispondere non sono più quelle intercettate dalle Avanguardie: non è necessario continuare a dar voce alla causa rivoluzionaria, quanto piuttosto cominciare a raccontare la vita quotidiana del cittadino sovietico medio, assimilabile a quella di un qualsiasi spettatore cinematografico. All’ideologia dell’uomo comune, si associa la retorica del richiamo alla tradizione russa e ai valori della nazione, utili a sostenere e rafforzare sempre di più il culto della personalità di Stalin.
A questi principi deve richiamarsi il cinema di cui si parla nel corso della «Prima Conferenza dei lavoratori della cinematografia sovietica», che si tiene a Mosca nel gennaio 1935 (un anno dopo la Conferenza degli scrittori, voluta da Maksim Gor’kij).
In quella occasione, infatti, viene battezzato il «realismo», insieme a una generazione di giovani registi – fra di loro i fratelli Vasil’ev, autori del film divenuto simbolo di questo nuovo modo di concepire il ruolo del cinema, Čapaev (1934) – pronti a dichiarare conclusa la grande stagione avanguardistica, di cui Ejzenštejn – insieme ad altri – era stato uno dei protagonisti.
È chiaro, già nel corso di quella famosa Conferenza, che per raggiungere i risultati sperati è necessario ridimensionare drasticamente il ruolo che, per tutti gli anni Venti, la cosiddetta «scuola sovietica» ha attribuito al montaggio, in quanto primo principio costruttivo del film, e prediligere, al contrario, una struttura lineare del racconto cinematografico, molto più simile a quella che era in uso da decenni, nel cinema americano. D’altro canto, accade un po’ ovunque che l’arrivo del sonoro riproponga la questione della centralità della narrazione, come priorità assoluta anche per un’arte fondata sull’immagine, come il cinema.
Ed è infatti per questo stesso scopo che il sonoro viene utilizzato, con qualche anno di ritardo, anche in molti film girati in Unione Sovietica, nella seconda metà degli anni Trenta: come strumento che, in questo caso specifico, punta a consolidare la vocazione realista del cinema post-avanguardista, o potremmo anche dire «stalinista».
Intorno alle possibilità aperte dall’avvento del sonoro, si giocano in Unione Sovietica due modelli di cinema opposti: uno maggioritario, in linea con i dettami del cosiddetto «realismo socialista», l’altro minoritario, che cerca ancora la strada per sperimentazioni possibili. In pochi, in verità, si sottraggono all’impero della nuova idea dominante di cinema: ci prova Boris Barnet in un film del 1932, Sobborghi, usando il sonoro in chiave apertamente espressiva e anti-naturalistica, nella direzione che Ejzenštejn, Pudovkin e Aleksandrov avevano teorizzato nella loro Dichiarazione sul sonoro (1928), già alla fine degli anni Venti. Per altri, come per esempio Aleksandr Medvekin – che, ancora nel 1935, realizza un film muto come La felicità – il rifiuto del sonoro è il modo per (ri)pensare il realismo in senso «magico», diversamente da quanto imposto, come vero e proprio paradigma, da Gor’kij e dai suoi epigoni.
Per Stalin e non
Il ritorno di Ejzenštejn alla regia si inscrive dentro questo scenario. Per certi versi, Aleksandr Nevskij è una risposta fedele alle istanze del realismo socialista: il racconto delle vicende del grande e coraggioso principe che, intorno al 1240, riuscì a difendere il paese dall’avanzata dei Cavalieri Teutonici e a porre le basi per la fondazione della grande Russia, non può non suonare come un modo per incensare l’operato di Stalin, ed esaltarne il profilo e la statura politica. La circostanza per cui Ejzenštejn ricevette, nel febbraio del 1939, l’Ordine di Lenin (la più alta onorificenza prevista, allora, in Unione Sovietica) conforta nell’idea che la decisione di girare il film rispondesse, prima di ogni altra cosa, all’esigenza di uscire dall’ombra in cui era finito per molti anni, prima dell’uscita di Aleksandr Nevskij. Per questa ragione, Ejzenštejn sarebbe stato successivamente accusato di avere cercato un compromesso con il potere, per garantirsi uno spazio minimo di libertà creativa: il che è senz’altro vero. Ma le cose si complicano, se non ci lasciamo sfuggire il modo in cui Ejzenštejn lavora, qui per la prima volta, con il sonoro.
Scritti teorici
Se è vero infatti che, quanto alla storia che decide di raccontare, il film è senza dubbio influenzato dall’egemonia che il realismo socialista è riuscito a conquistare, al cinema come in letteratura, non altrettanto si può dire se si guarda al modo in cui quella storia è raccontata, soprattutto grazie a quello strumento nuovo – il sonoro, appunto – che costringe Ejzenštejn a rimettere in discussione l’idea di montaggio su cui a lungo, per tutti gli anni Venti almeno, si era soffermato.
Come già in altre occasioni era accaduto, l’uscita di Aleksandr Nevskij è accompagnata da una serie di scritti che forniscono una base teorica alla pratica registica; in questo caso specifico, mettono a fuoco il concetto di «montaggio verticale», a partire dal quale il primo film sonoro di Ejzenštejn è costruito. È a questo punto che la strada intrapresa da un film come Aleksandr Nevskij si separa dal cinema del realismo socialista: tornare a individuare nel montaggio – anche in questa forma aggiornata – il principio costruttivo del film significa recuperare la parte migliore dell’esperienza avanguardistica che in molti avrebbero voluto considerare definitivamente superata.
La posizione anti-realista di Ejzenštejn è chiara: «L’arte comincia propriamente solo a partire dal momento in cui l’associazione tra il suono e la rappresentazione visiva non è più semplicemente registrata secondo il rapporto esistente in natura, ma è istituita secondo il rapporto richiesto dai compiti espressivi dell’opera» (Il montaggio verticale, 1940).
Questo tipo di convinzione fonda il rapporto di collaborazione fra il regista e Sergej Prokof’ev, autore delle musiche di Aleksandr Nevskij. Insieme i due progettano una complessa partitura audiovisiva, in cui le inquadrature procedono l’una dopo l’altra «conformandosi plasticamente al movimento della musica e viceversa».
Politica della forma
Suoni e rappresentazioni entrano così in relazione solo in virtù di un lavoro di messa in forma che rende possibile la costruzione di una immagine a più dimensioni, in cui traccia visiva e traccia sonora non esistono più ciascuna per sé, ma unicamente nella loro fusione. È in questa immagine che va rintracciato il senso generale dell’opera d’arte, che non può mai limitarsi a rappresentare il reale, ma anzi deve aspirare a costruirlo, a immaginarlo diverso da ciò che è. Sostenere un’idea del genere non era scontato, in piena epoca staliniana, anzi. In essa risiede il valore più profondo e ancora molto attuale del cinema politico ejzenštejniano.
Alessia Cervini
(Tratto da: Alessia Cervini, Il montaggio verticale all’Opera, in «Alias», anno XXVII, n. 20, 18 maggio 2024).
Inserito il 09/06/2024.
Toh, la satira sovietica!
Un film del 1975 prendeva di mira la burocrazia e le tendenze all’uniformazione nella società sovietica del tempo.

Il film più visto di sempre, schiaffo satirico al burocratismo
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Ирония судьбы, или С легким паром! (in italiano Ironia del destino, ovvero Buona sauna!) è una commedia sovietica del 1975, regia di El’dar Rjazanov. È uno dei film più famosi del cinema sovietico, e ancora viene mandato in onda ogni notte di Capodanno. Il film ironizza sull’uniformazione della società sovietica, prendendo di mira in particolare i moduli abitativi che si ripetono tutti uguali nelle anonime periferie delle città sovietiche.
Il film si apre con un cartone animato (nello spezzone che riproduciamo qui sul nostro sito) che stigmatizza la mentalità della burocrazia che cerca di eliminare qualsiasi aspetto di differenziazione estetica o compositiva nelle costruzioni di impronta moderna. La trama del film porta all’eccesso questo difetto della società sovietica, rappresentando una commedia degli equivoci in cui il protagonista, un medico moscovita, si ritrova ubriaco fradicio a Leningrado nella notte di Capodanno. Sale su un taxi che lo porta in una via dal nome identico a quella in cui abita a Mosca, il numero civico corrisponde a un blocco di appartamenti identico al suo, la chiave nella serratura corrisponde perfettamente, e si ritrova così in un appartamento leningradese uguale al suo, con gli stessi identici mobili, disposti soltanto in modo un po’ diverso. Ancora ubriaco, viene trovato addormentato dalla padrona di casa, un’insegnante, che al termine di una nottata piena di sorprese finirà per innamorarsene.
Il film ha finalmente una versione sottotitolata in italiano grazie al sito https://perestroika.it/. Lo possiamo vedere integralmente al link: https://perestroika.it/film/lironia-del-destino-ovvero-benlavato/
Fonte della foto: https://kprf.ru/activity/education/141660.html
URSS – Metà anni ’70
La scuola sovietica
sotto i riflettori della letteratura e del cinema
sotto i riflettori della letteratura e del cinema
🔴 di Leandro Casini 🔴
A metà degli anni Settanta alcuni scrittori e cineasti sovietici portarono all’attenzione dell’opinione pubblica ciò che non andava nella scuola sovietica: rigidità nei rapporti insegnanti-alunni, un insegnamento basato su assiomi indiscutibili, proclamazione di principi senza rapporto con la realtà, un’offerta didattica limitata ai programmi ministeriali senza incentivo agli stimoli e alle riflessioni individuali.
Sembravano ormai maturi i tempi per una discussione generale della società sovietica sui metodi, sul senso, sugli scopi dell’istruzione universale. Gli artisti non fecero altro che dare risonanza a istanze che emergevano dall’interno della scuola, a discussioni e contrapposizioni che animavano i dibattiti tra gli insegnanti e soprattutto tra i giovani.
Presentiamo brani dal romanzo La notte dopo l’esame di maturità (1974) di Vladimir Tendrjakov, esponente di punta della letteratura del cosiddetto “disgelo”, e il film Diario di un preside (1975, regia di Boris Frumin), scritto dallo sceneggiatore Anatolij Grebnëv.
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La scuola sovietica
sotto i riflettori della letteratura e del cinema
di Leandro Casini
A metà degli anni Settanta alcuni scrittori e cineasti sovietici portarono all’attenzione dell’opinione pubblica ciò che non andava nella scuola sovietica: rigidità nei rapporti insegnanti-alunni, un insegnamento basato su assiomi indiscutibili, proclamazione di principi senza rapporto con la realtà, un’offerta didattica limitata ai programmi ministeriali senza incentivo agli stimoli e alle riflessioni individuali.
Sembravano ormai maturi i tempi per una discussione generale della società sovietica sui metodi, sul senso, sugli scopi dell’istruzione universale. Gli artisti non fecero altro che dare risonanza a istanze che emergevano dall’interno della scuola, a discussioni e contrapposizioni che animavano i dibattiti tra gli insegnanti e soprattutto tra i giovani.
Accantonato ormai da decenni l’analfabetismo imperante prima della Rivoluzione, raggiunto un livello culturale di massa impensabile in Occidente, con le case degli operai in cui non mancavano scaffali con le opere dei classici russi e sovietici, tirati in milioni di esemplari e venduti a prezzi irrisori per facilitarne la diffusione, pareva giunto il momento storico di mettere sotto i riflettori ciò che non funzionava più nei rapporti tra le generazioni, con i giovani non più disposti a imparare a pappagallo la lezione impartita.
Presentiamo due esempi che rendono un’idea del clima culturalmente vivace che dominava allora la società sovietica. Capisco che sembra un’affermazione paradossale, visto che si considera l’era di Leonid Brežnev come un grigio periodo monolitico di automi pronti ad alzare la mano a comando e all’unanimità, a marciare al passo dell’oca davanti al mausoleo di Lenin, senza voglia né possibilità di pensare in modo autonomo rispetto alle direttive del partito.
Da 40 anni ormai studio la storia di quella società, e gli anni Settanta sono senza dubbio – dopo il decennio post-rivoluzionario e insieme ai Sessanta – i più vivaci culturalmente e i più stimolanti per i temi affrontati e le proposte che venivano lanciate dal cinema e dalla letteratura al vasto pubblico sovietico. Questa mia opinione trova conforto nelle parole del poeta e critico letterario Dmitrij Bykov in un suo articolo sullo scrittore Jurij Trifonov:
[…] gli anni Settanta [sono], secondo me, il decennio più interessante della storia della letteratura sovietica. Un decennio, da un lato, di stagnazione, estremamente cupo, poco promettente, quando sembrava che l’Unione Sovietica sarebbe morta per sempre, come una specie di Venezia socialista; dall’altro lato, però, mai – qui sono pronto a rispondere delle mie parole, – mai, né negli anni Venti, né negli anni Sessanta, così tante persone brillantemente dotate hanno operato contemporaneamente nella cultura sovietica. Per la prima volta si ebbe un cambiamento qualitativo nello sviluppo culturale del lettore, dell’ascoltatore, dello spettatore sovietico, e nello sviluppo della cultura sovietica in generale. La stragrande maggioranza dei residenti urbani e un numero significativo di residenti rurali cominciavano a costituire l’intelligencija.
Questo fenomeno, che Solženicyn chiamava «periodo dell’istruzione generalizzata», rappresentava in realtà la formazione di una classe sovietica completamente nuova, e questa classe istruita era la più intelligente, la più interessante, la più promettente della storia sovietica. Negli anni ’80 essa è stata erosa e, in una certa misura, probabilmente distrutta. Se dobbiamo davvero rimpiangere qualcosa nell’esperienza sovietica, allora dobbiamo rimpiangere più di tutto questo genere di persone.
Uno degli autori di punta di questo e del precedente decennio, quello del “disgelo”, fu indubbiamente Vladimir Tendrjakov (1923-1984), uno scrittore proveniente dalla provincia profonda (la regione di Vologda) che nei suoi racconti offre dei quadri e delle scene di vita segnati dalle contraddizioni del tempo, e in cui non mancano episodi di violenza e delitti.
Uno dei romanzi (in realtà, per la classificazione letteraria russa, un racconto lungo, una povest’) più significativi e ricordati di Vladimir Tendrjakov è La notte dopo l’esame di maturità (Noč’ posle vypuska), pubblicato nel settembre 1974 sulla rivista culturale «Novyj mir» («Mondo nuovo»), organo dell’Unione degli scrittori dell’URSS.
Il romanzo, dedicato a una scuola di base (che in Unione Sovietica formava alunni dai 7 ai 17 anni), si svolge tutto in una notte, per l’esattezza la notte in cui, terminati gli esami di Stato degli alunni dell’ultimo anno, viene organizzata la festa generale di chiusura dell’anno scolastico. All’inizio del festeggiamento sono previsti dei discorsi, e per gli studenti è chiamata a parlare la più dotata e meritevole della scuola, Julija Studënceva. Con sorpresa di tutti, la neodiplomata fa un discorso che diventa uno sfogo del tutto fuori dai canoni tradizionali, e l’evento getta nello sgomento sia i rappresentanti del corpo docente, sia gli studenti.
Alla fine delle danze e del rinfresco di rito, un gruppo di sei insegnanti si riunisce in sala docenti insieme al direttore della scuola (il nostro “preside”, oggi “dirigente scolastico”), mentre il gruppetto di amici della Studënceva, anch’essi in sei, passa la nottata a bere e a discutere sotto al monumento ai caduti della Seconda guerra mondiale che domina la città.
L’intreccio si dipana in capitoli che si alternano secondo uno schema regolare, direi elementare: a ogni capitolo dedicato alle discussioni e rotture in sala docenti segue un capitolo sugli studenti che hanno deciso di dirsi sinceramente tutto ciò che pensano gli uni degli altri, fino ad ammissioni inconfessabili e liti furibonde, e così via fino alla fine. Tutto è sostanzialmente composto in forma di dialoghi, tanto che fin dal 1976 furono messe in scena delle rappresentazioni teatrali e drammatizzazioni radiofoniche e televisive basate sull’opera di Tendrjakov.
Nel libro emergono i contrasti intergenerazionali tipici del vivere scolastico di ogni tempo e luogo, e ciò sembrerebbe una cosa scontata. Non meno attesi sono gli amori contrastati o non corrisposti, le infatuazioni adolescenziali, le gelosie tra compagni di classe. Dall’altra parte, però, meno scontato è vedere nero su bianco in un romanzo sovietico l’emergere della violenza giovanile urbana in una città sovietica, dove secondo i soliti slogan avrebbe dovuto vivere la gioventù più felice del mondo; far emergere un fenomeno negato come questo apriva la strada anche all’ammissione che allora in Unione Sovietica potevano esistere anche la prostituzione, il traffico di stupefacenti, ecc., piaghe considerate tipiche ed esclusive delle corrotte società capitalistiche.
Tra i sei insegnanti non sono banali gli attriti e le contrapposizioni, così come emergono dal dibattito sul senso e sui metodi dell’insegnamento scolastico, sugli obiettivi da porsi nella formazione delle coscienze dei giovani, sull’efficacia o meno della tradizione didattica sovietica, sulle modalità di rinnovamento – anche grazie al ricorso alla tecnologia – dell’istruzione: tutto il dibattito interno al corpo docente prende il via grazie allo sfogo della Studënceva. Ed ecco che gli insegnanti più attaccati ai metodi del passato escono sconfitti dal confronto apertosi, nel quale si manifesta tutta la loro distanza dalle esigenze delle giovani generazioni.
Tutte queste tematiche delicate per una società che tendeva a nascondere la polvere delle contraddizioni sotto il tappeto rosso dell’uguaglianza e della fratellanza fecero sì che il romanzo non venisse pubblicato in volume a parte fino ai tempi della perestrojka. Non si può parlare di censura, tuttavia, perché la pubblicazione sul «Novyj mir» aveva garantito comunque un’enorme diffusione e una disponibilità in tutte le biblioteche dell’Unione, e anche perché le riduzioni radiotelevisive e teatrali più o meno aderenti al testo non aspettarono i tempi di Gorbačëv. È però certo che Tendrjakov fu considerato dal potere politico, in varie fasi della sua produzione, uno scrittore scomodo, anche se non tanto da poter essere etichettato come “dissidente”.
Presentiamo quattro brevi brani significativi del romanzo. Il primo è il dirompente discorso-sfogo della studentessa modello Julija Studënceva, la prediletta dal corpo docente, che rovina subito la festa e sorprende i suoi stessi compagni, i quali evidentemente non la conoscevano del tutto. Un discorso che demolisce alla radice il senso dell’educazione scolastica, uno “schiaffo al senso comune”.
Il secondo brano mette in contrapposizione il discorso di Vasja Grebennikov, uno studente ligio alle direttive del Komsomol (l’organizzazione giovanile del Partito Comunista dell’Unione Sovietica), e l’invettiva dell’artista in erba Igor’ Prouchov, considerato da alcuni un genio, da altri una nullità.
Nel terzo brano che abbiamo scelto si accenna en passant al tema delle bande giovanili, dei conflitti tra giovani che appartengono a strati sociali diversi e che abitano in aree della città caratterizzate da enormi differenze di sviluppo urbanistico e socio-culturale.
Il quarto brano è il dialogo finale tra la direttrice didattica Ol’ga Semënovna e il direttore della scuola Ivan Ignat’evič. Ormai chiuso il confronto-scontro tra colleghi, a notte fonda i due si avviano verso casa traendo un bilancio delle discussioni della serata, in tal modo dando voce esplicita al messaggio profondo che l’autore voleva esprimere con la propria opera: la scuola dovrebbe valorizzare le personalità degli studenti e incentivare le loro inclinazioni individuali, anziché tendere alla loro omologazione, all’uniformazione, all’appiattimento generale, fattori che non portano ad altro se non a una società composta di mediocri.
* * *
Un anno dopo la pubblicazione de La notte dopo l’esame di maturità, tematiche simili vennero affrontate al cinema dallo scrittore e sceneggiatore Anatolij Grebnëv. Se nel romanzo di Tendrjakov la direttrice didattica Ol’ga Semënovna ha idee più avanzate e innovative rispetto agli altri docenti, nel film Diario di un preside (Dnevnik direktora školy, 1975, regia di Boris Frumin) la sua “collega” Valentina Fëdorovna, direttrice didattica appunto, difende la tradizione in contrasto con il direttore della scuola, Boris Nikolaevič Svešnikov, che cerca di proporre nuovi metodi di insegnamento e un nuovo approccio degli insegnanti nei confronti degli alunni, al di là dei canoni ormai invecchiati e dei programmi ministeriali.
Già nel 1968 il cinema aveva messo sotto i propri riflettori la vita e i rapporti all’interno di un istituto scolastico con il film Vivremo fino a lunedì (Doživëm do ponedel’nika, regia di Stanislav Rostockij), che affronta il tema della felicità dal punto di vista dei ragazzi e da quello degli adulti. Anche qui, come in Tendrjakov, si hanno protagonisti di pari livello tra gli studenti e tra gli insegnanti, sostanzialmente in questo caso tre contro tre. Ma quello che resta del film, il messaggio forte, viene esplicitato dall’apparentemente timido e dimesso alunno Genka Šestopal, che in un tema su che cosa è la felicità scrive soltanto: «La felicità è quando ti capiscono!».
Dunque, sette anni dopo, che cosa ci poteva essere di originale nel tornare a parlare di scuola al cinema? Evidentemente i tempi erano maturati e il clima era favorevole, Tendrjakov ed altri avevano sollevato dubbi, scoperto i nervi e avanzato proposte attraverso le loro opere. E il film Diario di un preside rovesciava in qualche modo le parti, in maniera del tutto originale.
Il preside di una scuola di Leningrado entra in conflitto non con gli studenti ma con il corpo docente e il modo tradizionale di insegnare, rappresentato dalla direttrice didattica Valentina Fëdorovna, per cui il maestro insegna e l’alunno impara ciò che gli viene insegnato. L’approccio del preside Svešnikov è diverso: lui vuole che ognuno si faccia sulle cose una propria opinione e la difenda, pur rispettando sempre l’opinione altrui.
Emergono dalla pellicola altre contraddizioni della società sovietica del tempo: le raccomandazioni, le richieste di aiuto agli uomini di potere, il conflitto fra le generazioni, i matrimoni contratti alla leggera, senza solide basi economiche e senza pensare alle conseguenze per il futuro.
Il film ottenne grande successo e vasta risonanza, anche per il tema “scuola” che veniva affrontato in modo inatteso e innovativo per quella fase della storia sovietica.
Durante le riprese si determinarono conflitti tra lo sceneggiatore e il regista, che cambiò vari dettagli e diverse battute rispetto a quanto era scritto nella sceneggiatura. Due anni dopo la televisione produsse un telespettacolo sulla stessa sceneggiatura di Grebnëv dal titolo Racconto in prima persona (Rasskaz ot pervogo lica, 1977, regia di Evgenij Radkevič), e qui l’aderenza al testo originale fu meglio conservata. Nei dialoghi televisivi si esplicitava di più ciò che nel film veniva appena accennato e che talvolta poteva non essere del tutto chiaro per il pubblico. Ma a volte accennare, sussurrare, suggerire, evocare, lasciar intendere, insinuare è più efficace che affermare, proclamare, gridare ai quattro venti, soprattutto se si deve far in modo che i lettori e gli spettatori assimilino e facciano proprie davvero le suggestioni e le idee che si vogliono veicolare attraverso le opere artistiche.
Ora il lettore e lo spettatore giudichino da soli se i brani di Tendrjakov e il film di Grebnëv e Frumin valgono il tempo che si impiega per – rispettivamente – leggerli e visionarlo. Giudicheranno così se è vero che in quella metà degli anni Settanta l’arte sovietica era capace di esprimere potenzialità che qui in Occidente sono rimaste sostanzialmente sconosciute, se si eccettua un ristretto gruppo di addetti ai lavori.
Leandro Casini
Inserito il 28/01/2024.
Pagine di letteratura
La notte dopo l’esame di maturità
di Vladimir Tendrjakov
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La notte dopo l’esame di maturità
di Vladimir Tendrjakov
Presentiamo quattro brevi brani significativi del romanzo. Il primo è il dirompente discorso-sfogo della studentessa modello Julija Studënceva, la prediletta dal corpo docente, che rovina subito la festa e sorprende i suoi stessi compagni, i quali evidentemente non la conoscevano del tutto. Un discorso che demolisce alla radice il senso dell’educazione scolastica, uno “schiaffo al senso comune”.
Il secondo brano mette in contrapposizione il discorso di Vasja Grebennikov, uno studente ligio alle direttive del Komsomol (l’organizzazione giovanile del Partito Comunista dell’Unione Sovietica), e l’invettiva dell’artista in erba Igor’ Prouchov, considerato da alcuni un genio, da altri una nullità.
Nel terzo brano che abbiamo scelto si accenna en passant al tema delle bande giovanili, dei conflitti tra giovani che appartengono a strati sociali diversi e che abitano in aree della città caratterizzate da enormi differenze di sviluppo urbanistico e socio-culturale.
Il quarto brano è il dialogo finale tra la direttrice didattica Ol’ga Semënovna e il direttore della scuola Ivan Ignat’evič. Ormai chiuso il confronto-scontro tra colleghi, a notte fonda i due si avviano verso casa traendo un bilancio delle discussioni della serata, in tal modo dando voce esplicita al messaggio profondo che l’autore voleva esprimere con la propria opera: la scuola dovrebbe valorizzare le personalità degli studenti e incentivare le loro inclinazioni individuali, anziché tendere alla loro omologazione, all’uniformazione, all’appiattimento generale, fattori che non portano ad altro se non a una società composta di mediocri.
Estratto n. 1
1.
Com’era in programma, la serata per la licenza di maturità veniva aperta dai discorsi ufficiali.
Si potevano sentire, nella palestra al piano di sotto, le sedie che venivano spostate, gli ultimi preparativi per il banchetto.
E gli ex studenti della decima classe, adesso, non avevano già più un’aria da scuola: le ragazze negli abitini alla moda, che sottolineavano certe rotondità già mature, i ragazzi tirati fin troppo a lustro, con le loro camicine sfavillanti, incravattati, imbarazzati del loro stesso repentino farsi adulti. Sembrava che fossero tutti impacciati di se stessi; i festeggiati sono sempre ospiti – più degli altri – alla loro festa.
Il direttore della scuola, Ivan Ignat’evič, un uomo imponente con le spalle da atleta, pronunciò un’allocuzione commossa: «Dinanzi a voi si aprono migliaia di strade…». Saran migliaia, le strade, e tutte aperte, ma è probabile che non lo siano allo stesso modo per tutti. Come d’abitudine, Ivan Ignat’evič enumerò i «maturi» secondo un ordine corrispondente al loro trascorso profitto scolastico. Veniva per prima una non confrontabile con nessun altro, colei che per tutti e dieci gli anni di scuola s’era lasciata alle spalle tutti gli altri, Julečka Studënceva. «Farà onore a qualsiasi istituto universitario del nostro paese…». Seguiva la piccola schiera degli «indubbiamente capaci», chiamati ciascuno per nome, venivano tributati ad ognuno gli onori dovuti. Genka Golikov venne menzionato tra costoro. Quindi venivano fatte oggetto d’attenzione, ma non magnificate, le «personalità singolari», un attestato – in sé – che peccava d’eccessiva vaghezza; Igor’ Prouchov e altri. Chi precisamente fossero codesti «altri», il direttore non lo ritenne necessario specificare. E infine buoni ultimi tutti gli altri, anonimi, «cui la scuola augura ogni successo». Nel novero di questi ultimi risultarono compresi Natka Bystrova, Vera Žerich, Sokrat Onučin.
Pronunciare il discorso di replica spettava a Julečka Studënceva, che stava in prima fila verso le strade del destino. Chi altri, se non lei, doveva ringraziare la sua scuola per le cognizioni che vi aveva ricevuto (a cominciare dall’alfabeto), per la tutela protrattasi lungo dieci anni, per quei vincoli di fraternità che ciascuno avrebbe portato spontaneamente con sé?
Ed essa salì al tavolo della presidenza, piccolina, nel suo vestito bianco con le spalline di mussolina, con i fiocchi bianchi nelle treccine a ciambelle; un’adolescente, non certo una «matura», con la sua solita espressione d’inquietudine severa – troppo severa anche per un adulto – sul visino affilato. Tutta eretta, con un’aria di sussiego, un’alterigia riservata nel portamento della testa.
– Sono stata invitata a parlare a nome di tutta la classe, ma voglio parlare a nome mio. Soltanto per me!
Tale dichiarazione, pronunciata col tono perentorio della prima della classe che non si sbaglia mai, in nulla, non suscitò nessuna obiezione, non allarmò nessuno. Il direttore si mise a sorridere, annuì, e s’agitò sulla sedia per mettersi più comodo. Che cosa avrebbe mai potuto dire, se non parole di gratitudine, lei che a scuola non aveva sentito altro che lodi, nient’altro che esclamazioni d’entusiasmo sul suo conto? Sicché, i volti dei suoi compagni di classe esprimevano la solita attenzione condiscendente.
– Se voglio bene alla scuola, io? – Voce stentorea, eccitata. – Sì che le voglio bene! Tanto!… Come il lupacchiotto ama la sua tana… Ma ecco che bisogna uscirsene, dalla propria tana. E ci si trova con migliaia di strade davanti, tutte in una volta! Migliaia!…
Un fruscio serpeggiò per l’aula magna.
– Quale devo prendere, io? Da tempo mi ponevo questa domanda, ma la schivavo, ne rifuggivo. Soltanto, adesso non posso più sfuggirla. Si deve andare avanti, ma non posso, non so… La scuola mi ha fatto sapere tutto, meno una cosa: che cosa mi piace, che cosa amo veramente. C’erano cose che mi piacevano, altre invece no. Ma se non mi piacevano, voleva dire che erano più difficili, e allora, dài, metticela tutta, se no non prendi il tuo bravo cinque1. La scuola, da me, voleva i cinque; io le ho dato retta e… non ho avuto il coraggio d’amare veramente qualcosa… Adesso, ecco, mi sono guardata attorno; è venuto fuori che non amo nulla. Nulla; eccetto la mamma, il papà e… la scuola! E ci sono migliaia di strade, tutte uguali, tutte indifferenti… Non crediate che io sia felice. Ho paura. Molta paura!
Julečka si fermò, guardando con i suoi occhi inquieti, da uccellino, l’aula in silenzio. Si poteva sentire che dabbasso trasportavano le sedie per il banchetto.
– Non mi manca niente, – dichiarò; e si avviò al suo posto a piccoli passi, a scatti.
Estratto n. 2
2.
[…] Attorno al direttore, Ivan Ignat’evič, e alla direttrice didattica, Ol’ga Olegovna, c’è pigia pigia. Vi si prodiga fino allo stremo Vasja Grebennikov, un ragazzotto di bassa statura, agghindato in modo pittoresco, con un completo nero, la cravatta a ghirigori, le scarpe di vernice. Come al solito, è riboccante di sacri principî; è il miglior attivista della classe, un campione della disciplina e dell’ordine. E adesso Vasja Grebennikov sta difendendo l’onore della scuola, che Julečka Studënceva ha messo in dubbio:
– La nostra alma mater! Anche lei, Jul’ka, per quanto alzi la cresta, non riuscirà a cancellarla… No! Non cancellerà la scuola dalla mente!
Contro Vasja, animato di sacra indignazione, c’è Igor’ Prouchov, beffardo. Questi è vestito addirittura con negligenza, la sua camicia non è proprio di bucato, i calzoni sono spiegazzati, una scura peluria giovanile, che non conosce il rasoio, gli copre le gote e il mento.
– Davanti ai miei esimi superiori, io dico…
– Ex superiori, – lo corregge Ol’ga Olegovna, con un sorriso premuroso.
– Sì, davanti agli ex superiori, ma rispettati come prima… Trepidamente rispettati! Io dico: Jul’ka ha ragione come non mai! Avevamo voglia di goderci il cielo azzurro, e ci hanno fatto stare davanti a una lavagna nera. Noi meditavamo sul senso della vita, e ci costringevano a pensare ai triangoli isosceli. Ci piaceva ascoltare Vladimir Vysockij2, e ci hanno fatto imparare a memoria il decrepito: «Mio zio fu uomo d’onestissimi principî…»3. Ci lodavano per l’ubbidienza, e ci punivano per l’indocilità. A te, Vasja, amico mio, questo ti stava bene; a me no! Io sono di quelli che non possono sopportare il collare col guinzaglio...
Nel discorso del direttore, Igor’ Prouchov era stato compreso tra le personalità singolari, era il miglior pittore della scuola, e filosofo riconosciuto. Si sta inebriando della sua requisitoria. Non gli muovono obiezioni, né Ol’ga Olegovna, né il direttore, Ivan Ignat’evič; sorridono con tono d’indulgenza. E si scambiano delle occhiate.
Un interlocutore se l’è trovato anche Evgenij Viktorovič, l’insegnante più giovane, di geografia; la sua fronte serena e aperta mostra una calvizie bovina, poco austera, e le sue guance sono d’un rosa disastroso per la sua autorevolezza. Gli sta di fronte Sokrat Onučin:
– Adesso che abbiamo pari diritti civili, permettetemi di scroccarvi una sigaretta.
– Non fumo, Onučin.
– Peccato. Perché privarsi delle piccole gioie della vita? Io personalmente fumo da quando facevo la quinta. Di nascosto, s’intende, almeno fino ad oggi.
[…]
Estratto n. 3
4.
La «palla di cannone» era un fiasco di «Gamza»4 grosso e tondo, sistemato nella sua impagliatura di plastica. Sokrat Onučin aveva preso la sua chitarra. Tre ragazzi e tre ragazze della decima «A» avevano deciso di passare la notte all’aperto.
Il più in vista del gruppo era Genka Golikov. Genka era una celebrità cittadina, volto aperto, occhi chiari, capelli biondi, altezza uno e novanta, spalle larghe, muscoloso. Nella palestra cittadina di judo5 scaraventava sopra la testa i giovanotti del complesso industriale; era il dio dei monellacci, terrore della congrega di teppisti della borgata suburbana chiamata «India». Quel nome esotico era derivato da parole assolutamente comuni: «individual’noe stroitel’stvo»6, abbreviato «indstroj». Un tempo, ancora all’epoca della fondazione del complesso industriale, a causa dell’estrema penuria di alloggi, venne deciso di incoraggiare la costruzione privata. Fu assegnata all’uopo una zona in disparte dalla città, al di là d’un dirupo anonimo. E la gente andò lì a costruirsi una casa, talora alla bell’e meglio, in fretta e furia, case messe su con assi e coperte di cartoni catramati, talora invece case solide, padronali, con le strutture in ferro, con verande e servizi. Da tempo la città era cresciuta, e non pochi abitanti dell’«India» s’erano trasferiti negli edifici a cinque piani, con gas e fognature; tuttavia, l’«India» non s’era spopolata, e non accennava ad estinguersi. Vi erano comparsi dei nuovi abitanti; rifugio d’ogni genere di malepiante, a «India» vigevano leggi e costumi tutti particolari, che talvolta facevano disperare la polizia.
Non molto tempo prima vi era comparso un certo Jaška-Accetta. Girava voce che fosse stato dentro per fatti di sangue. Jaška sottomise tutta l’«India»; la città lo temeva. Qualche tempo prima Genka Golikov s’era azzuffato con Jaška. Jaška era stato bellamente sbattuto sull’asfalto, davanti agli occhi dei suoi sbigottiti tirapiedi; s’era però alzato, dicendo: «Tela, bello mio, campa e ricorda che l’Accetta non spacca i trucioli!». Si ricordi Jaška, piuttosto, di girare al largo. Genka è la gloria della città, paladino dei deboli e degli offesi.
[…]
Estratto n. 4
21.
Ol’ga Olegovna e il direttore, Ivan Ignat evič, camminavano per la città che dormiva. Ivan Ignat’evič stava dicendo:
– Ecco, ci siamo impelagati in problemi generali, e io continuavo a pensare a mio figlio. Sì, sì, proprio Alëška… Lo sa, no, che non è riuscito ad essere ammesso all’università. In modo stupido, del resto. S’era preparato, con perseveranza, per la facoltà chimico-tecnologica, ed è stato bocciato in lingua russa, ha infilzato un errore nel tema. È partito soldato… No no, io non ho nulla contro l’esercito, anzi, avevo voglia che il ragazzo annusasse un po’ di disciplina militare, che vivesse in una comunità, che lo spelassero della crosta familiare dell’infanzia. Non è stato l’esercito, a spaventarmi: ma lui, Alëška. Si preparava a diventare chimico, il servizio militare non se l’era mai sognato, eppure ha accettato tranquillamente, dirò perfino con sollievo, una decisione che s’era formata da sé, senza la sua partecipazione. L’esercito gli sta bene, perché lì lui non deve preoccuparsi di se stesso: lo svegliano a comando, lo nutrono, a comando, lo istruiscono, lo mandano a dormire. Ogni passo è previsto, registrato, compreso dal regolamento: tutto stabilito. Che cosa è questo, Ol’ga Olegovna: mancanza di volontà del carattere?
Non direi, veramente, che fosse totalmente svogliato. Una volta, ha ottenuto un premio, per gli sci; non è, semplicemente, che l’ha ottenuto, ha voluto ottenerlo, s’era preparato con tenacia, apposta per quello, con volontà. E il carattere… Hmm! Quanto se ne vuole. Che che, noi in famiglia lo avvertivamo. Ma sa che cosa avevo notato, Ol’ga Olegovna? Lui usava troppo spesso parole come «i ragazzi han detto… tutti dicono… così fanno tutti». Tutti portano i capelli lunghi, sulla collottola, anch’io devo fare così; tutti usano la paroletta «matusa» per dire «padre», e lo faccio anch’io, tutti prendono premi nelle competizioni sportive, e io non devo essere da meno, farò vedere io di non essere peggio degli altri, darò prova di volontà, di perseveranza. Come tutti gli altri… Anche se questo non significa affatto avere la vita facile! Anzi! Bisogna star dietro agli altri, e quante forze si spendono! Non è più facile, ma molto più semplice. La facilità e la semplicità non sono due cose con lo stesso significato. È più semplice vivere secondo un comando direttivo, ma questo non vuol dire necessariamente che sia più facile.
Ol’ga Olegovna si fermò:
– È più semplice vivere come tutti gli altri? – domandò di nuovo.
Anche Ivan Ignat’evič si fermò.
Sopra di loro brillava un lampione, la strada era deserta, le finestre, ammassate l’una sull’altra sulla parete perpendicolare, erano tutte buie, la città dormiva.
– Evidentemente pecchiamo un po’ tutti, in questo, – disse con aria colpevole Ivan Ignat’evič. – Chi di noi non si uniforma: come fanno gli altri, così anch’io.
– Ma non le è venuto in mente che le persone della specie «anch’io come gli altri» accoglieranno sempre con ostilità i nuovi Copernico e Galilei, solo perché ciò che essi affermano non corrisponde a quello che tutti vedono e pensano? Ostili ai Copernico, e bendisposti verso i mediocri.
– Mm, sì! Non per nulla si dice tra il popolo: «la semplicità è peggio del furto».
– Del furto soltanto? Non furono forse dei sempliciotti a diventare quella forza terribile che ha portato su gli Hitler? «La Germania sopra a tutto», semplice e chiaro, non richiede spiegazioni e solletica l’amor proprio. E il sempliciotto si mette a inneggiare a Hitler!
– Mm, sì. Ma dove va a parare? Non riesco a coglierlo.
– Noi abbiamo discusso tutta la sera, un baccano del diavolo. E che cosa non abbiamo affrontato: acculturazione e passione, indifferenza e delinquenza, artigianato e rivoluzione industriale. Solo, non abbiamo notato una cosa…
– E che cosa?
– Che oggi, sotto i nostri occhi, è nata una personalità! Un avvenimento d’immenso significato!
– Mm, sì… Ma, permetta, qui attorno, siamo tutti delle personalità: lei, io, il primo passante che ci capiterebbe d’incontrare, se passasse qualcuno per la strada.
– Tutti?… Ma lei, Ivan Ignat’evič, lei stesso ha appena detto: chi di noi non pecca del «come gli altri, così anch’io», in una sordina generale. Personalità ben oliate, smussate: lei mi perdoni, non è un assurdo? Come dire, acqua secca, certezza incerta, tenebra raggiante. La personalità è sempre esclusiva, qualcosa di assolutamente opposto al «come tutti».
– Se lei si riferisce alla Studënceva, anche prima aveva doti esclusive; non si può negarlo.
– Si distingueva dagli altri solo perché questo «come tutti» le riusciva meglio che agli altri. Ma d’un tratto, un’esplosione, non più come tutti: ha espresso se stessa, non ha avuto paura. Un avvenimento, quasi un miracolo, Ivan Ignat’evič.
– Sì: adesso anche un miracolo. Perché lei deve ingrandire le cose?
– Se c’è qualcosa che si può ritenere un miracolo, è soltanto la nascita. E sotto i nostri occhi è nata una personalità umana nuova, non simile a nessuno. E noi non l’abbiamo notato!
– Come sarebbe a dire, non l’abbiamo notato: se non abbiamo fatto altro, tutta la sera, che parlare di lei!
– Noi abbiamo prestato attenzione solo alle sue accuse nei nostri confronti, abbiamo parlato di quelle, le abbiamo esaminate da tutti i punti di vista possibili e immaginabili, ma non abbiamo pronunciato neppure una parola di stupore, o di gioia.
– Stupirsi, vada ancora; ma di che avremmo dovuto rallegrarci?
– Una persona non banale, che pensa in maniera autonoma, non è forse un fenomeno consolante, Ivan Ignat’evič?
– Mm-sì, – pronunciò Ivan Ignat’evič, forse dubbioso, forse con aria di riprovazione, oppure titubante, temendo di non capire.
Procedettero oltre.
I loro passi risuonavano nella strada deserta, tamburellanti quelli di Ol’ga Olegovna, pesanti, strascicati, quelli di Ivan Ignat’evič. L’aria era fresca, ma dai muri delle case esalava un confuso tepore; le pietre che stavano riposando restituivano, senza volere, il sole diurno.
Vladimir Tendrjakov
(Tratto da: Vladimir Tendrjakov, La notte dopo l’esame di maturità, traduzione di Cesare De Michelis, Torino, Einaudi, 1976, pp. 3-5, 9-11, 16-18, 116-119).
Note
1 Nel sistema scolastico sovietico il punteggio della votazione va da 1 a 5, che pertanto rappresenta il voto massimo.
2 V. Vysockij (1938-1980), noto chansonnier, autore con Okudžava e Galič delle più diffuse canzoni di protesta, semiclandestine.
3 È il celeberrimo primo verso del primo capitolo dell’Evgenij Onegin di A. Puškin.
4 Vino bulgaro, rosso secco.
5 Letteralmente sambô, una specie di judo.
6 Costruzione individuale.
Inserito il 28/01/2024.
Il film
Diario di un preside
(Regia di Boris Frumin, URSS, 1975)
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Diario di un preside (Дневник директора школы) è un film sovietico del 1975, prodotto dalla casa cinematografica leningradese Lenfil’m, diretto da Boris Frumin su una sceneggiatura originale di Anatolij Grebnëv (lo stesso autore dello sceneggiato biografico Karl Marx. Gli anni giovanili, di cui parliamo in questa stessa sezione [vedi >>>]).
Un preside entra in conflitto non con gli studenti, ma con il corpo docente e il suo modo tradizionale di insegnare, rappresentato dalla direttrice didattica Valentina Fëdorovna, per cui il maestro insegna e l’alunno impara ciò che gli viene insegnato. L’approccio del preside Svešnikov è diverso: lui vuole che ognuno si faccia sulle cose una propria opinione e la difenda, pur rispettando sempre l’opinione altrui.
Emergono dalla pellicola altre contraddizioni della società sovietica del tempo: le raccomandazioni, le richieste di aiuto agli uomini di potere, il conflitto fra le generazioni, i matrimoni contratti alla leggera, senza solide basi economiche e senza pensare alle conseguenze per il futuro.
Il film ottenne grande successo e vasta risonanza, anche per il tema “scuola” che veniva affrontato in modo inatteso e innovativo per quella fase della storia sovietica.
Durante le riprese si determinarono conflitti tra lo sceneggiatore e il regista, che cambiò vari dettagli e diverse battute rispetto a quanto era scritto nella sceneggiatura.
Diario di un preside, URSS, 1975, Lenfil’m
Regia: Boris Frumin
Sceneggiatura: Anatolij Grebnëv
Interpreti principali:
Oleg Borisov (Boris Nikolaevič Svešnikov, preside)
Ija Savvina (Valentina Fëdorovna, direttrice didattica)
Inserito il 28/01/2024.
Otar Ioseliani (1934-2023).
Fonte della foto: https://encrypted-tbn0.gstatic.com/images?q=tbn:ANd9GcQnQtHT-CR-rLSHkk_0vb6Ta9ZiDMl3EF7JxVS3lDxz90GLcYkyUO_mzu2rfmS2uOKzQlE&usqp=CAU
Dal quotidiano «il manifesto»
Cinema georgiano
Otar Ioseliani, grande regista georgiano
di Silvana Silvestri
Scompare a 89 anni Otar Ioseliani. In Unione Sovietica fu uno dei più famosi registi, e rappresentava una delle massime espressioni del cinema georgiano. Naturalmente non gli mancarono problemi con la censura, ma la sua richiesta di cittadinanza alla Francia, dove già lavorava, nel 1984 sancì una rottura morbida, senza dichiararsi esule politico, e proprio in quell’anno si vide riconosciuto il titolo onorifico di “Artista del popolo della RSS di Georgia”.
Le sue critiche politiche più aspre il regista le riservò a Putin e alle guerre che la Russia post-sovietica mosse nel Caucaso, in Cecenia e in Georgia, appunto.
Si potrebbe pensare alla produzione cinematografica della Georgia sovietica come a un fenomeno culturale periferico, ma sarebbe un errore. In Unione Sovietica per quel che riguarda gli ambiti culturali, e in particolare il cinema e la letteratura, non si poteva parlare di un centro (magari sdoppiato in Mosca-Leningrado) e di una periferia, ma di molteplici centri di irradiazione di tendenze e correnti: uno di questi centri era sicuramente Kiev, un altro, non meno influente, era Tbilisi (o Tiflis), capitale georgiana. Otar Ioseliani fu a pieno titolo protagonista di questo centro culturale.
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Otar Iosseliani, il metodo del contrappunto
di Silvana Silvestri
CINEMA. Scompare a 89 anni il regista georgiano, autore di C’era una volta un merlo canterino e Briganti. L’umorismo, la trasgressione dei ’70, le censure del regime e la vita da esule, il male della modernità.
«Ci sono i georgiani dell’est e quelli dell’ovest. Quelli dell’est (dove è nato Stalin) sono più rozzi e pesanti, quelli dell’ovest sono più gai e leggeri. Ma una cosa unifica la Georgia, il sentimento che bisogna viverla la vita perché non dura a lungo». In questa definizione di Otar Iosseliani, scomparso domenica scorsa a 89 anni, c’era parecchio del suo umorismo, la sua caratteristica principale. Era un umorismo dalle tonalità differenti rispetto ad altri non meno caustici giovani registi provenienti dai paesi comunisti insofferenti a rigide regole e conformismo, ma molto più rilassato come si conviene a un artista del sud, di antichissima cultura, con secoli di tradizioni letterarie.
“Una cosa unifica la Georgia, il sentimento che bisogna viverla la vita, perché essa non durerà a lungo. Lo si fa cantando, bevendo e pensando, cioè con una tristezza artistica”
Un gesto ce lo ricorda, come a scoprire uno scrigno prezioso, a sintetizzare il suo stile di lavoro: per parlare di un suo prossimo film srotolò la sceneggiatura su un tavolo, un foglio arrotolato lungo alcuni metri, allestito come spartito musicale, non solo a indicare immagini e sonoro, ma una misteriosa composizione ritmica arricchita da una quantità di elementi.
Prima di essere un regista Iosseliani infatti era un musicista, diplomato in pianoforte, composizione e direttore d’orchestra, poi aveva fatto studi di matematica e solo dopo si era diplomato (nel 1961) al celebre Vgik, la scuola di cinema di Mosca.
È stato uno dei giovani trasgressivi del cinema degli anni Settanta, con il cognome neanche russificato come succedeva a tanti altri (e scritto con due esse come traslitterava lui stesso dall’alfabeto georgiano) più o meno tollerato dalle autorità sovietiche perché la sua specialità era la commedia, e in più quella tipica che proveniva dalla Georgia alla periferia dell’impero.
L’effetto di novità assoluta lo fece il suo primo lungometraggio C’era una volta un merlo canterino (1970), dove il giovane Guia gironzola per Tbilisi andando per lo più al bar con gli amici e dietro alle ragazze. Era un personaggio che potevamo associare ai tanti altri coetanei delle nuove onde dei paesi dell’est, alle margheritine di Chytilova, all’Andrzej di Skolimowski, in Rysopis, perfino a Belmondo o Antoine Doinel in giro per Parigi, ma la differenza era che Guia un impiego fisso lo aveva, in un regime dove essere senza lavoro era considerato fuori legge, era suonatore di timpani in un’orchestra, dove arrivava sempre in ritardo, proprio alla fine del concerto perché tanto doveva intervenire solo nel finale. E mentre se ne va in giro per la città incontra una società molto simile a tutte quelle mediterranee, piuttosto incuranti delle regole.
Ancora di più in Pastorale (1975), dove un’orchestra di città arriva in un villaggio a fare le prove e senza che succeda quasi nulla, o che i sofisticati musicisti metropolitani incrocino le loro abitudini con quelle dei paesani, tanto da provocare gli strali della censura per il caustico comportamento dei paesani incuranti di permessi e burocrazia, e soprattutto del potere centrale.
Solo qualche anno dopo si vide al festival di Torino Ghisa, presentato come il suo saggio di diploma, che in realtà era stato il censurato Aprile, storia di un amore che finisce quando agli sguardi teneri dei due si inseriscono via via gli oggetti che riempiono il loro appartamento. Ghisa è una sintesi di fantastico humour, cortometraggio sulla «classe operaia in una fonderia» – così lo aveva presentato alla commissione di censura –, ma in realtà era quasi tutto girato al momento delle pause di lavoro, con gli operai intenti a cuocere spiedini sulle piastre di ghisa rovente e asciugare le camicie vicino ai forni accesi. Il regista raccontava la sua stessa esperienza: infatti aveva preferito entrare lui stesso in una fabbrica metallurgica invece di girare a vuoto proponendo sceneggiature non accettate. Ma poiché il regime non amava le cose lasciate a metà, era potuto poi rientrare nei ranghi.
Non tanto a lungo, però; infatti gli fu impedito di viaggiare quando veniva invitato in occidente. Come quando, invitato alla grande rassegna «Ladri di cinema» a Roma, gli fu «sconsigliato il viaggio» dalla commissione cinema e mandò una lettera che girò fotocopiata a tutto il pubblico, dove commentava che non sarebbe mancata in seguito l’occasione di incontrarsi, parlare di cinema e bere un bicchiere di vino (con il vino, dono degli dei, i georgiani brindano a tutto, anche alla morte, aiuta a non prendere niente sul serio).
“Sono un rappresentante della cultura mediterranea che ha le sue radici nell’antichità. A dispetto dei cambiamenti dell’era sovietica, questa tradizione continua”
Nel frattempo si presentava: «Per darvi un’idea di me vi dirò che sono alto, magro, calvo, ho i baffi, di solito sono triste, ma qualche volta molto allegro, non ho una grande opinione del mio mestiere, penso che sia semplice e faticoso».
Quando le autorità cominciarono a non inviare più i suoi film in occidente decise di stabilirsi in Francia, pur senza mai prendere lo status di esule politico, in modo da poter tornare nel suo paese: infatti, raccontava, quando negli ultimi anni poté tornare a girare a Tbilisi, la location fu la sua stessa casa, con tutti gli arredi rimasti intatti. Per la televisione francese gira l’episodio Euskadi, facente parte di una serie girata da autori stranieri, dove mette in evidenza similitudini con il suo paese, [come] la consuetudine di danzare e cantare insieme, un elemento, sosteneva, che indica l’alto livello culturale di un paese, come metterà in scena più di una volta nei suoi film successivi.
Con I favoriti della luna (1984) inizia a osservare le società del nord Europa, a coglierne con pericoloso acume gli elementi di una lenta dissoluzione, le assurdità di vita quotidiana contemporanea o tramandata nel tempo. Dal microcosmo di un quartiere parigino dove si incontrano anarchici, clochard, gendarmi. Arriva poi a filmare cinque monaci nella loro vita quotidiana in Un piccolo monastero in Toscana, girato nell’abbazia di Sant’Antimo a Castelnuovo dell’Abate (Montalcino), perfetto esempio di forma musicale impiegata nella costruzione del montaggio cinematografico.
Imprevedibilmente è un villaggio africano al centro di Un incendio visto da lontano (1989), dove la vita scorre tranquilla, i rituali sono pieni di significato finché non arrivano le multinazionali a distruggere tutto, sintetizzati dalla struggente scena delle divinità lignee vendute a poco prezzo sui marciapiedi parigini. In fondo è sempre di un villaggio in Georgia che ha continuato a parlare, lo affermava lui stesso, raccontare la sparizione delle tradizioni e dei costumi antichi rispetto all’omologazione che si coglie in tutti i paesi occidentali. Sarà così anche in Caccia alle farfalle (1992), dal titolo démodé come l’ambientazione: questa volta sono i giapponesi a mettere gli occhi su un castello nella provincia francese.
Dopo diciassette anni Iosseliani torna in Georgia a filmare Briganti (1996), gioco di potere che rimane invariato nei secoli, con una parte giocosa, ma dove la parte seria prende per la prima volta il sopravvento, sfociando inevitabilmente nella feroce guerra civile.
Più lirici gli ultimi film da Addio terraferma a Lunedì mattina, con un continuo gioco di rimandi, popolati dai più stravaganti personaggi (e animali) come in Giardini in autunno e Chant d’hiver, a indicare ancora una volta che tutto è vanità, ma deve essere raccontato con grazia.
Silvana Silvestri
(Tratto da: Otar Iosseliani, il metodo del contrappunto, in «il manifesto», Anno LIII, n. 299, 19 dicembre 2023; abbiamo rispettato la scelta dell’autrice di trascrivere il cognome del regista con la doppia -ss- «Iosseliani», anche se sarebbe più corretto «Ioseliani»).
Inserito il 20/12/2023.
Una filmografia di fantasia apolide
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1934: Nasce a Tbilisi, in Georgia. 1958: Aquarel, il suo primo cortometraggio, realizzato all’interno del corso di cinema al VGIK di Mosca, dove approda dopo gli studi di matematica e di pianoforte. 1961: Aprile. 1966: Falling Leaves, il debutto nel lungometraggio, a cui seguono C’era una volta un merlo canterino (1970) e Pastorale (1975), che provocano molti conflitti con le autorità e la censura sovietica, portando Iosseliani alla decisione di lasciare l’Urss per la Francia. 1983: I favoriti della luna, è il primo film francese del regista, nel quale «ricostruisce» la sua personale Georgia a Parigi insieme agli amici francesi conosciuti in Unione Sovietica, tra cui il regista Pascal Aubier, lo storico del cinema e critico Bernard Eisenschitz, Mathieu Amalric che allora ha 19 anni ed è al suo primo film, figlio del corrispondente di «Le Monde» a Mosca. Il film viene presentato alla Mostra di Venezia come il successivo Un incendio visto da lontano (1989) vincendo con entrambi il Leone d’argento. 1999: Addio terraferma viene presentato fuori concorso al Festival di Cannes.
Per conoscere il cinema di Iosseliani : Ioseliani secondo Ioseliani. Addio terraferma, a cura di Carlo Hintermann, Luciano Barcaroli, Daniele Villa (Ubulibri).
(Scheda tratta da «il manifesto», 19 dicembre 2023).
Il mito sovietico nel PCI in Toscana
Quando in Toscana spirava il vento dell’Est…
🔴 di Leandro Casini 🔴
È singolare scoprire che ti stanno studiando, che rientri in una categoria sottoposta a una ricerca storica e a uno studio antropologico. Ormai ingrigito, sulla soglia dei sessant’anni, capisci che facevi (e ancora fai) parte di una varietà antropologica in via d’estinzione. Come la tigre siberiana, per così dire.
Chi mi conosce da più tempo non può non convenire che il titolo del volume che presentiamo qui investe la mia storia personale, così come quella di molti altri comunisti del Novecento. Non solo la storia politica, ma anche quella degli affetti, dei sentimenti, delle aspirazioni, dei sogni, delle speranze, delle illusioni, delle delusioni, delle vittorie politiche e delle sconfitte epocali. Infatti, io stesso, nel mio piccolo, ho cercato di contribuire a perpetuare o a rilanciare il “mito” rivoluzionario dell’Unione Sovietica e dei Paesi del “socialismo reale” all’interno del mio partito e fuori. Certo, quando io mi sono affacciato alle soglie dell’attività politica si era già innestata tra i comunisti italiani la parabola discendente dell’apprezzamento del sistema sovietico e delle sue capacità di attrattiva come modello alternativo a quello capitalistico, eppure ho cercato di far cogliere aspetti socio-culturali, storici, letterari, che allora erano considerati da noi esotici ma che si sostanziavano in un sistema che per settant’anni aveva comunque fatto convivere in pace e più o meno in armonia più di cento nazionalità ed etnie diverse nella costruzione di un Paese passato in pochi anni dalla servitù della gleba alla collettivizzazione dei mezzi di produzione. Di un Paese che era stato in grado di sconfiggere il nazi-fascismo sacrificando 27 milioni di propri figli. Di un Paese che non c’è più ma dalla cui storia non si può prescindere se si vuole valutare oggettivamente il progresso dei popoli liberatisi dal colonialismo e le conquiste di diritti da parte del movimento operaio, anche di quello occidentale (non è un caso che proprio dagli anni Novanta, con la fine di quell’esperienza, il mondo del lavoro in Occidente sia tornato indietro non di poco quanto a diritti, a potere d’acquisto, ecc.).
L’album fotografico Il mito sovietico nel PCI in Toscana, da cui traiamo alcune foto e di cui proponiamo parte del saggio introduttivo del curatore Andrea Borelli, studia e riporta alla luce quel pezzo importante di storia dei militanti del PCI toscano che in vari modi, nelle varie fasi, hanno portato avanti una bandiera che consideravano – consideravamo – bandiera di emancipazione, di riscatto, di uguaglianza, di solidarietà, di liberazione.
Leandro Casini
Nelle foto tratte dal volume:
1. «Toscana Nuova», n. 46, 18 dicembre 1949. 70° compleanno di Stalin [in realtà Stalin era nato nel 1878, ma la biografia ufficiale datava la sua nascita al 1879, ndLC].
2. Pistoia, 1° maggio 1961. Manifestazione sindacale.
3. Firenze, febbraio 1988. Partita amichevole Firenze Ovest – Unione Sovietica.
Pistoia – La ricerca in un album fotografico
Il mito sovietico nel PCI in Toscana
a cura di Andrea Borelli*
Riportiamo l’Introduzione al volume Il mito sovietico nel PCI in Toscana, edito dall’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia e curato dallo storico Andrea Borelli, docente dell’Università di Pisa, che per la realizzazione si è avvalso della valida collaborazione di Emanuele Russo e Daniela Faralli, ricercatori dell’Istituto pistoiese.
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Introduzione al volume Il mito sovietico nel PCI in Toscana
di Andrea Borelli*
L’Italia repubblicana fu caratterizzata dalla presenza di un vero e proprio mito dell’Unione Sovietica capace, nonostante il passare del tempo, di resistere in una certa misura tra un buon numero di militanti del Partito Comunista Italiano fino al 1991. Questo fenomeno interessò anche la Toscana, che delle regioni italiane è stata una delle principali per radicamento e consenso elettorale raccolto dal PCI durante la sua parabola storica.
Alla diffusione, al radicamento e alla interiorizzazione del mito sovietico in Toscana da parte dei comunisti contribuirono almeno due elementi. Il primo fu un “orientamento naturale” legato alle condizioni materiali vissute da gran parte della popolazione in seguito alla fine della Seconda guerra mondiale, condizioni tali per cui si andarono cercando modelli utopistici a cui aspirare per compensare la devastazione lasciata in eredità dal fascismo. Di conseguenza, il mito dell’URSS assunse fin da subito una “dimensione sentimentale”, cioè contribuì a creare simboli e riti attraverso cui le povere genti toscane tendevano a soddisfare desideri collettivi di rivalsa.
Il secondo motivo fu politico, ovvero fu il frutto di una concreta strategia propagandistica messa in campo dal PCI a livello locale per facilitare il proprio radicamento territoriale. Il partito si presentava, infatti, di fronte all’elettorato italiano come il portatore di una modernità “superiore”, già realizzata nell’Unione Sovietica di Stalin, alternativa al capitalismo e accessibile grazie all’eventuale trionfo elettorale del PCI.
Questo era vero nonostante fin dalla “svolta di Salerno” Palmiro Togliatti avesse chiarito l’impossibilità di “fare come in Russia” e da lì in avanti avesse teorizzato la necessità di trovare una via italiana al socialismo. Ciononostante, seppure il precedente sovietico non sarebbe servito come modello per la transizione al socialismo in Italia, Mosca funse da meta ideale e da polo di attrazione per i sogni, le speranze e le passioni dei comunisti. I “successi” dell’URSS rappresentarono per milioni di italiani delle solide certezze intorno a cui fondare il proprio impegno politico quotidiano per costruire un possibile e desiderato cambiamento in senso socialista dell’Italia post-bellica. Questo era vero, subito dopo la fine della guerra, soprattutto perché in un primo momento nell’opinione pubblica italiana erano diffusi giudizi positivi verso Mosca alla luce del contributo dato dall’URSS alla vittoria sul nazi-fascismo.
Sarà poi dall’autunno del 1947 che il mito sovietico assumerà i caratteri di una vera e propria “fede” con il proprio “catechismo”. Nella stagione politica segnata dalla contrapposizione bipolare tipica della Guerra fredda, il mito dell’URSS divenne strumento indispensabile nella lotta del PCI per l’egemonia politico-culturale, nonché elemento distintivo dei comunisti rispetto a tutte le altre comunità politiche che andarono consolidandosi nell’Italia repubblicana. Nella contrapposizione tra “noi” e “gli altri” il filo-sovietismo divenne un discrimine e un catalizzatore di passione politica: con la fondazione del Cominform nel 1948 il mondo comunista dovette compattarsi intorno all’Unione Sovietica per condurre una lunga guerra di posizione contro, e nel caso italiano “dentro”, il mondo capitalistico guidato dagli Stati Uniti.
In altre parole, i comunisti toscani parteciparono alla costruzione e al radicamento del mito sovietico in maniera sia emotiva, sia politico-programmatica. Ammirare l’URSS era una dimostrazione di fedeltà verso il movimento comunista internazionale e di affetto verso il Paese che aveva favorito la sconfitta del nazi-fascismo; un modo per rivendicare la propria specificità e distinguersi dalle altre identità politiche della Guerra fredda; uno strumento per guadagnare consensi alla luce della credibilità goduta dal Cremlino nell’opinione pubblica.
A ben vedere, il mito sovietico si configurò come insieme di tanti miti, alcuni più longevi, altri meno.
Il primo a strutturarsi dopo il 1945 fu quello di Stalin, basato sull’idea che quest’ultimo fosse guida infallibile teorica e pratica del comunismo. La mitizzazione del dittatore raggiunse l’apice nel 1949, in occasione del suo 70° compleanno, e poi subito dopo la sua morte. La figura del “piccolo Padre” fu preponderante per tutta la fase acuta della Guerra fredda, anni in cui il PCI sposò la piattaforma propagandistica proposta da Mosca secondo cui sostenere l’Unione Sovietica significava sostenere la pace. Al mito di Stalin si accompagnò quindi quello dell’URSS in quanto “potenza di pace”, nonché società superiore rispetto a quelle capitalistiche. In maniera naturale a questo racconto sull’Unione Sovietica staliniana si accompagnò il mito palingenetico di Lenin e della Rivoluzione russa.
A favorire l’emergere di questi miti furono inizialmente i “vecchi compagni”, che avevano esperienza dei decenni precedenti e trascorso brevi o lunghi periodi a Mosca. Proprio in URSS questi ultimi avevano assorbito il culto di Stalin, di Lenin e della Rivoluzione russa, un culto che doveva essere tramandato ai “nuovi compagni”, i militanti del partito di massa togliattiano.
Fu poi dopo il 1956, accantonato Stalin, che la figura di Lenin riprese smalto, in particolare negli anni Sessanta-Settanta, quando accanto ai faccioni dei nuovi leader terzomondisti non era inconsueto trovare durante le manifestazioni quello del padre della Rivoluzione. Idealizzato e quasi decontestualizzato dal proprio significato storico-politico, Lenin divenne ben presto un volto su una maglietta, un disegno stilizzato su un tazebao ecc. Divenne insomma un “prodotto pop” tipico della cultura comunista italiana, un feticcio molto simile alla grande mole di simboli fagocitati dall’opinione pubblica nell’Italia consumistica del post-boom economico.
A questo proposito è importante notare che le mitologie intorno all’Unione Sovietica non vennero meno con il XX Congresso del PCUS e la condanna del “culto della personalità” di Stalin pronunciata da Nikita Chruščëv. Anzi, paradossalmente la denuncia dei crimini di Stalin fu uno strumento per addossare al dittatore le responsabilità per le “storture” presenti nel regime e rilanciare le tesi della superiorità sovietica. Negli anni di Chruščëv (1953-64) il PCI presentò l’URSS in quanto Paese della felicità e del progresso scientifico, con particolare riguardo alle conquiste spaziali. L’epopea dello spazio sembrò per un breve periodo confermare le previsioni sul trionfo del socialismo e sulla caducità delle società occidentali in confronto all’Unione Sovietica.
In realtà, all’inizio degli anni Settanta il progetto sovietico di sorpassare il mondo occidentale sul piano tecnologico e del consumo collettivo/individuale poteva dirsi ampiamente fallito. Proprio in quegli anni, infatti, di fronte allo sviluppo della società dei consumi, dell’informatizzazione e della terziarizzazione dell’economia dell’Europa occidentale, l’URSS segnò il passo e si avviò verso un periodo di decadenza mitigato dall’impennarsi del prezzo degli energetici, di cui i sovietici erano grandi esportatori.
Oltre a ciò, il soffocamento della primavera di Praga nel 1968, molto più della repressione ungherese del 1956, insieme all’emergere di nuovi miti terzomondisti legati a figure come Ho Chi Minh e Che Guevara, finirono per oscurare la stella sovietica tra i comunisti italiani. Il legame con l’URSS e il suo mito divenne gradualmente un punto di debolezza di fronte all’opinione pubblica per il PCI che, con il segretario Enrico Berlinguer, aveva inteso emanciparsi da ogni accostamento al PCUS. Rispetto ai decenni precedenti, infatti, dagli anni Settanta in poi l’elettorato italiano trovò poco o nulla convincente per una forza politica rivendicare la propria vicinanza identitaria alle detestabili dittature europee di stampo sovietico.
In questo processo di “raffreddamento” del mito sovietico in Italia giocò un certo ruolo la diffusione del mito americano, che alla lunga si rivelò più dinamico e coerente con i desideri e le ambizioni degli italiani. Tuttavia, sarebbe errato pensare che il PCI fu obbligato a costruire una narrazione mitica dell’Unione Sovietica per rispondere all’emergere di mitologie incentrate sugli USA. La mitizzazione dell’URSS era, invece, una componente essenziale della politica e dell’identità comunista a prescindere dagli stimoli esterni, nonché una pratica già affermatasi subito dopo la Rivoluzione d’ottobre, in particolare sotto lo stalinismo.
Il mito americano, piuttosto, costrinse quello sovietico a cimentarsi in un confronto su un terreno simbolico e culturale inedito, a partire dalla diffusione in Italia del consumismo di massa. Si trattò di una lotta impari, perché i prodotti culturali provenienti dagli Stati Uniti trovavano una loro “naturale” diffusione in un Paese simile per struttura economica e politica agli USA. Man mano che l’Italia andò integrandosi tra quei Paesi euro-atlantici capaci di costruire un benessere generalizzato legato a società di consumo di tipo capitalistico, l’URSS sembrò sempre più una meta esotica.
In questo senso la propaganda intorno ai risultati conseguiti dalla società sovietica, inizialmente utile a diffondere il mito della “superiorità socialista”, lasciò gradualmente il campo ad un interesse quasi “etnografico” per una realtà lontana e affascinante, non più intesa neanche dai comunisti italiani come traguardo da raggiungere per l’Italia repubblicana.
Sono, ad esempio, i viaggi compiuti dai comunisti toscani in URSS a spiegare con efficacia questa parabola. Infatti, mentre in un primo momento le visite in Unione Sovietica vennero svolte dai dirigenti o dai militanti principalmente per vedere le fabbriche, le aziende agricole (il famoso kolchoz), le università, i politecnici, con il passare del tempo questi viaggi divennero delle vere e proprie gite turistiche. Come le agenzie di promozione turistica, infatti, anche l’Associazione Italia-URSS cominciò a proporre itinerari che andavano dalle visite guidate al Cremlino o all’Ermitage, ai pernottamenti in Crimea o nei Paesi Baltici.
Negli anni Ottanta probabilmente nessuno desiderava vivere in URSS o scambiare la condizione sociale e lavorativa vissuta in Italia con quella presente in Unione Sovietica. Eppure la terra dei Soviet continuò ad attrarre i comunisti toscani e a esercitare il proprio fascino grazie ad un legame sentimentale e identitario stabilitosi tra i militanti e la patria della Rivoluzione. I sovietici erano come dei “lontani parenti“ la cui “strada” si era separata da quella dei comunisti italiani, eppure si trattava pur sempre di “familiari” con cui molti vollero mantenere un rapporto di affetto reciproco coltivato nei decenni precedenti. Quest’ultimo era stato costruito anche grazie alle numerose visite, ufficiali e non, compiute dai sovietici in Toscana durante la Guerra fredda. Tantissimi, infatti, erano stati i calciatori, gli scienziati, gli astronauti, i dirigenti o i sindacalisti provenienti dall’Unione Sovietica che avevano passato periodi più o meno lunghi a Firenze, Pisa, Siena ecc.
In altre parole, il mito dell’URSS come strumento politico-ideologico perse col tempo caratteristiche di mobilitazione politica, anche alla luce dei clamorosi disastri sovietici, ma conservò l’altra componente che lo aveva da sempre caratterizzato: quella passionale-sentimentale.
Nonostante di li a poco l’Unione Sovietica sarebbe entrata nella sua crisi terminale, resistette sino alla fine in parte dei comunisti toscani una visione “positiva” di un Paese ritenuto sempre in lotta per cambiare in meglio la società e il mondo; una rappresentazione edulcorata dell’URSS che era entrata nelle coscienze e nell’identità politica di milioni di italiani attraverso le passioni della Guerra fredda.
Si spiega così la capacità del PCI di allontanarsi dal PCUS, ma l’impossibilità per una buona fetta dei suoi militanti di cancellare dalla propria “vita politica” i riti e i simboli legati all’Unione Sovietica.
Basti pensare alle feste dell’Unità organizzate in Toscana, che in modo continuativo negli anni videro la presenza di affollati stand dell’associazione Italia-URSS, di ospiti sovietici, illustri e meno illustri, e di padiglioni dedicati al Paese dei Soviet. Mentre i miti più politicizzati legati a Mosca andarono gradualmente dissolvendosi (come quello di Stalin), e altri vennero reinterpretati con sfumature pop (come quello di Lenin), i più “orizzontali” e spontanei si dimostrarono longevi.
È questo il caso del calcio sovietico, approfondito dal ricercatore Emanuele Russo, che ancora negli anni Ottanta veniva visto in Toscana con occhi pieni di ammirazione. Questo aspetto può sembrare paradossale, soprattutto se pensiamo che proprio durante il periodo di Gorbačëv i calciatori sovietici riuscirono a farsi riconoscere lo status di professionisti da lungo tempo invidiato ai colleghi occidentali. Al contrario, in Toscana gli sportivi sovietici furono accolti fino alla fine come rappresentanti di un “calcio popolare” più genuino e vicino al popolo, non inquinato dalle leggi del mercato capitalistico.
La resistenza di alcune mitologie costruite intorno all’URSS spiega un effimero revival del mito sovietico negli anni di Gorbačëv, quando Mosca venne presentata ancora una volta da molti comunisti toscani come paladina della pace.
Inoltre, ad attestare la lunga durata del legame politico-sentimentale esistito, e per certi versi sopravvissuto, tra i toscani e l’Unione Sovietica sono i tanti cimeli e souvenir ritrovati durante la nostra ricerca. In particolare quelli rintracciati dalla ricercatrice Daniela Faralli sono confluiti nella sezione “Cimeli e Souvenir” e in quella de “I sovietici in Toscana”.
Si tratta di materiale conservato o scovato in vecchi scatoloni presso privati cittadini o nei luoghi che furono tra i più frequentati nel secondo dopoguerra dai comunisti.
Come il lettore potrà costatare, il materiale proposto in questo libro fotografico è vario almeno quanto le istituzioni e i protagonisti che lo hanno prodotto. Si tratta per lo più di materiali a stampa (volantini, manifesti, opuscoli, libretti ecc.), diari personali, delibere di partito e soprattutto fotografie in grado di testimoniare i tanti eventi politici, ludici o privati avvenuti in Toscana e collegati all’Unione Sovietica. A produrre questa mole impressionate di documenti storici hanno contribuito nel tempo le segreterie federali, le diverse sezioni, i singoli militanti, i giornali di partito, l’Associazione Italia-URSS, la FGCI e il mondo sindacale. La loro consultazione è stata possibile grazie allo sforzo di chi, privati cittadini e/o istituzioni pubbliche, ha prima conservato e poi custodito meritoriamente le tracce della storia politica e sociale del Novecento in Toscana.
[…]
Andrea Borelli*
* Andrea Borelli (Catanzaro, 1986) è ricercatore di Storia dell’Europa Orientale presso l’Università di Pisa e ha insegnato Storia della Russia all’Università degli Studi di Firenze e all’Università degli Studi della Tuscia. Si occupa di storia del comunismo e storia della Russia. Ha pubblicato Nella Russia di Putin. La costruzione di un’identità postsovietica (Roma, 2023) per i tipi di Carocci.
(Tratto da: Andrea Borelli, Introduzione al volume: Andrea Borelli (a cura di), Il mito sovietico nel PCI in Toscana, Pistoia, I.S.R.Pt Editore, 2023, pp. 8-11).
Inserito il 28/10/2023.
Pistoia – Il convegno
Il PCI in Toscana e il mito dell’URSS
In un convegno di presentazione del volume Il mito sovietico nel PCI in Toscana, tenutosi il 26 ottobre 2023 a Pistoia, i curatori hanno parlato della storia di questo fenomeno politico, sociale e culturale insieme al docente di Antropologia culturale dell’Università di Pisa Fabio Dei e allo storico dell’Università di Roma Tor Vergata Gianluca Fiocco, autore di una recente biografia di Palmiro Togliatti.
È possibile seguire qui la registrazione integrale del convegno.
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Calcio sovietico in Toscana
di Emanuele Russo
Il forte legame dei comunisti toscani con l’Unione Sovietica nel secondo dopoguerra investì anche ambiti inattesi, tra i quali lo sport. Le delegazioni e le squadre sovietiche ricevevano ovunque manifestazioni di affetto; le amministrazioni locali rosse e le case del popolo si impegnavano per creare attorno ad esse un’atmosfera di calorosa accoglienza.
Il dott. Emanuele Russo, ricercatore dell’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia e docente dell’Istituto Tecnico e Professionale “Paolo Dagomari” di Prato, ha ricostruito i contesti in cui si svolsero alcuni soggiorni e incontri di squadre di calcio sovietiche di club e nazionali in Toscana in decenni diversi e li ha presentati al convegno “Il mito sovietico nel PCI in Toscana”, tenutosi a Pistoia il 26 ottobre 2023. Nella sezione “Sport e classe” riportiamo la trascrizione della sua relazione al convegno.
Dean Reed (1938-1986).
Fonte della foto: https://www.svoboda.org/a/166579.html
Dal quotidiano «il manifesto»
Musica e rivoluzione
Dean Reed, l’«Elvis rosso»
di Dimitri Papanikas
Le tante vite e la strana fine di Dean Reed, l’«Elvis rosso» che lasciò gli Usa per diventare rockstar al di là del Muro di Berlino. Passando per il Cile di Allende e il western all’italiana.
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Dean Reed, l’«Elvis rosso»
«Elvis rosso», lo chiamavano. Qualcosa a metà tra Forrest Gump e un Manchurian Candidate. Eroe americano, traditore, disertore, cowboy redento, patriota, agente segreto… insomma, un puzzle difficile da decifrare.
Da Mosca a Pechino, tutti conoscevano questo yankee che si era pentito di essere yankee. Nato in Colorado, finì per scegliere il mondo dall'altra parte della cortina di ferro. Dove non potevano avere i Beatles, Frank Sinatra, Elvis Presley. Ebbene, avevano la loro copia. Forse più economica, meno affascinante, ma non importava. Lui ha rinunciato a tutto per diventare un profeta del rock dall'altra parte del muro di Berlino.
Dean Reed nasce il 22 settembre 1938, lo stesso giorno in cui Hitler e il premier britannico discutono il destino dell'Europa. Nasce a Wheat Ridge, periferia di Denver, il cuore più tradizionalista, cristiano, omofobo, anticomunista e conservatore dell'America profonda di quegli anni. L'America del Better Dead than Red («meglio morti che rossi»). Suo padre, insegnante di liceo, sogna di vederlo in uniforme militare. Niente di più lontano dalle sue intenzioni. Come molti della sua generazione, sogna di diventare una star del cinema e alla prima occasione parte per Hollywood. La Capitol Records prova a trasformarlo in un idolo per adolescenti. Alto, atletico, biondo, insomma, il ragazzo di buona famiglia, un po' ingenuo, che arriva in città.
Ma non funziona. Proprio quando sta per tornare alle sue lezioni di meteorologia all'università, accade qualcosa di inaspettato. Our Summer Romance riscuote un enorme successo in America Latina. Quanto basta per prendersi un passaporto, comprare un biglietto e andare a vedere… È la primavera del 1962 e Dean Reed atterra a Santiago del Cile.
L'America Latina è per lui una scoperta affascinante. È l'anno della crisi dei missili di Cuba. In realtà Reed non ha la più pallida idea di dove si trovi quest'isola esotica o chi siano questi ragazzi con barba e fucile chiamati Fidel Castro e Che Guevara. Ma c'è qualcosa in loro che affascina questo ragazzo dai capelli biondi e con sorriso smagliante da attore di soap opera. Bisogna cambiare l'ordine del mondo, combattere l'ingiustizia. È ciò che il giovane Dean impara dal suo viaggio in America Latina. I suoi amici cileni gli parlano di Karl Marx e di una cosa chiamata socialismo. Decide quindi di stabilirsi in Cile. Una scelta che cambierà la sua vita per sempre.
Incontra Neruda, si unisce entusiasta alla campagna elettorale di Salvador Allende nel 1964 e conosce Victor Jara. Per Reed, questo incontro sarà come una illuminazione, che si trasforma presto in identificazione totale. Nel frattempo il Partito comunista cileno lo spedisce in Argentina per una tournée. Tutti si innamorano di lui. Nel 1965 viene inviato come delegato al Congresso mondiale per la pace di Helsinki. Un americano socialista che pensa ai diritti dei popoli e alla pace… Il delegato sovietico non si lascia scappare l'occasione e lo invita a Mosca. Al suo ritorno in Argentina il clima politico è cambiato. La dittatura di Juan Carlos Onganía lo etichetta come «agente sovietico», invitandolo ad abbandonare il Paese.
È il 1968. Mentre le strade di Parigi si riempiono di studenti, mentre Praga cerca di vivere la sua effimera primavera, mentre l'uomo (bianco e americano) sta per andare sulla luna, Dean Reed e sua moglie Patricia si trasferiscono a Roma, dove nasce la loro figlia Ramona «Guevara». In Italia, in un paio d'anni, Dean Reed partecipa a otto film: instant movie, polizieschi, qualche commedia, ma soprattutto "spaghetti western". Interpreta ogni tipo di ruolo. Dal domatore di cavalli al cacciatore di taglie, passando per il cercatore d'oro, il pirata, il vecchio rapinatore di diligenze e banche, il pistolero e il giustiziere. Tra questi: Buckaroo (Il winchester che non perdona), I nipoti di Zorro (con Franco e Ciccio), Indio Black, sai che ti dico: sei un gran figlio di… (con Yul Brynner) e Storia di karate, pugni e fagioli.
Nel 1970 torna in Cile per sostenere la nuova campagna di Allende. Arrivato a Santiago, convoca la stampa davanti all'ambasciata statunitense. Si presenta con una bandiera americana e un secchio d'acqua, per lavarla pubblicamente a favore di telecamera. Viene arrestato. Lo rilasceranno, secondo quanto racconterà lo stesso Reed, grazie all'aiuto di Pablo Neruda.
Reed passerà tutta la vita a ricordare questo evento come l'atto fondante della sua nuova vita di rivoluzionario. Torna a stabilirsi in Cile, ma dopo l'11 settembre 1973, come molti altri, è costretto ad abbandonare il Paese.
Inizia così la sua seconda vita. Impara il tedesco, si innamora, si sposa (finirà per sposarsi tre volte), recita in altri 15 film. In uno di questi interpreta il soldato che, pentito per i massacri degli indiani, sceglie di andare a vivere con i nativi (Fratelli di sangue, 1975). Dopo la morte di Víctor Jara, assassinato dalla dittatura di Pinochet, farà di tutto per proclamarsi suo erede. Nel 1978 scrive, dirige e interpreta El cantor, improbabile biopic dedicato alla vita del cantautore cileno. Presentato al Festival dell'Avana, il film, pieno di bulgari biondi che interpretano cileni cantando slogan in tedesco, vede Reed nel ruolo di Víctor Jara. La vedova di Jara non lo perdonerà mai. Al tempo stesso produce 13 album e va a cantare in una trentina di paesi del mondo socialista. I russi lo adorano. Canta di tutto, da Bella Ciao a We Shall Overcome, dall'Inno alla gioia a El pueblo unido jamás será vencido.
Dean Reed è gentile, bello, persino rivoluzionario, quanto basta per affascinare tutti. E sa anche cantare. Un cowboy romantico che parla di rivoluzione e pace. Era come avere Elvis o i Beatles, senza sentirsi in colpa per aver tradito uno Stato che li considerava un intrattenimento effimero, frivolo, piccolo borghese. Disporre di questo americano, che aveva deciso di lasciare il suo Paese, proprio come il soldato che lascia l'esercito per vivere tra gli indiani, li mandava in visibilio. In cambio dei suoi servizi al Partito (tournée infinite, interviste e diversi film) Dean Reed avrà tutto: casa, denaro e quella libertà di viaggiare che agli altri era vietata.
Ma con il passare del tempo, le cose cambiano. All'inizio degli anni ’80 Reed si ritrova bloccato in un sogno che sembra già un po’ anacronistico. La Piazza Rossa inizia timidamente ad aprirsi. Il mondo che Dean Reed rappresenta non è più così esotico. La Perestrojka, Gorbaciov, l’arrivo del rock…
Reed farà di tutto per recuperare il mondo che lo ha nutrito fino ad allora. Va ovunque per difenderlo, anche nel cuore del nemico, cioè casa sua. Viene invitato a partecipare a “60 Minutes”, uno dei talk show più popolari della Cbs. L'anno è il 1986. Quei 60 minuti si convertiranno in un boomerang. Nell'intervista difende l'occupazione sovietica dell'Afghanistan, il Muro di Berlino, equipara Reagan a Stalin, si fa vedere con i sandinisti in Nicaragua, con una chitarra in una mano e un kalašnikov nell'altra, sempre sorridente. Un disastro. È un traditore.
Ne valse la pena? In realtà, la storia di Dean Reed può essere vista da un altro lato: non rinunciò mai alla cittadinanza Usa, non prese mai neppure la tessera del Partito socialista e non c'è stato un solo anno in cui il cittadino Dean Reed non abbia presentato la dichiarazione dei redditi negli Stati Uniti. Chi lo conosceva sapeva che non aveva mai perso il sogno di tornare a casa. Aveva organizzato tutto per anni, doveva essere un ritorno trionfale, il suo ultimo atto, l'ultimo paradosso di un uomo che per tutta la vita non ha fatto altro che inseguire il successo e cercare di ottenere l'approvazione di un padre deluso.
Ma il 17 giugno 1986 alla periferia di Berlino Est una donna si imbatte nel cadavere di un uomo che galleggia in un lago. Dean Reed è morto. Aveva 47 anni. Incidente, dice la polizia. Ma molti iniziano a dubitarne. Sei mesi dopo spunta una lettera d'addio che le autorità avrebbero trovato nella sua auto. Suicidio. 15 pagine in cui chiede scusa a tutti. Alla moglie, alla famiglia, al segretario del Partito, per le sue azioni che avrebbero potuto dare una cattiva immagine della Ddr. Troppo facile. Chi penserebbe di suicidarsi a pochi giorni da realizzare il sogno di tornare a casa dopo venti anni di assenza? Cominciarono così a circolare voci e teorie su un possibile complotto. Secondo alcuni, Dean Reed era stato per tutta la vita un agente della Cia, secondo altri della Stasi, secondo altri ancora del Kgb.
Si parlò di tutto. Anche di una cassetta di sicurezza con tenente circa 300 mila dollari che Reed avrebbe custodito segretamente a Berlino Ovest. Altri ancora sostennero che era a conoscenza di segreti sullo scandalo Iran Gate (sulla vendita di armi statunitensi all'Iran e poi vendute ai Contras in Nicaragua). La sua terza moglie, l'attrice tedesca Renate Blume, finirà per credere al suicidio. C'erano problemi con il film, sembra che alla fine non sarebbe stato realizzato. La coppia era in crisi, perché Dean voleva tornare negli Stati Uniti. Anche la sua biografa Reggie Nadelson, in un bel libro intitolato Comrade Rockstar (“Compagno rockstar”), finirà per credere al suicidio. Ad altri, sostenitori del complotto, piace credere che, come Elvis, Hitler, gli evasi da Alcatraz, l'Eternauta ed ET, sia ancora vivo, sotto falso nome, in qualche fattoria sperduta alla fine del mondo.
Dimitri Papanikas
(Tratto da: Dimitri Papanikas, Volevo essere Victor Jara, in «il manifesto», Anno LIII, n. 190, 12 agosto 2023).
Inserito il 20/08/2023.
Per approfondire
Un documentario su Dean Reed
Mentre l’articolo di Papanikas ricostruisce il percorso biografico politico, musicale e cinematografico di Dean Reed basandosi in special modo sulla prima parte della sua vita, passata tra Stati Uniti e America Latina, questo documentario russo del 2009, sottotitolato in italiano, si concentra in particolare sui rapporti del cantante e attore americano con l’URSS e la DDR e sugli anni passati in questi due paesi, fino alla tragica morte, tuttora avvolta nel mistero, nelle acque del lago Zeuthener See, nei dintorni di Berlino.
Evgenij Evtušenko (1932-2017).
Autore della foto: Savostyanov, Mastyukov/TASS
Fonte della foto: https://it.rbth.com/cultura/85684-evtushenko-e-i-poeti-del-disgelo
Evgenij Evtušenko
Babij Jar
«Le mie poesie nascono se amo molto qualcuno o qualcosa oppure quando mi vergogno di qualcosa. Amo moltissimo la Russia e non riesco a immaginare la vita senza il mio paese, ma a volte me ne vergogno. Così ho scritto Babij Jar. Quando arrivai a Kiev sapevo che migliaia di ebrei erano sepolti lì, alla periferia della città, ma non avevo idea di quanti fossero. Andai in quel triste luogo e vidi i camion che vi si fermavano: riversavano mucchi di immondizia nei fossi in cui erano state scaricate migliaia di persone denudate, vecchi e giovani e bambini. Il luogo in cui i nazisti avevano ucciso almeno 70.000 persone era stato trasformato in una discarica.
Provai una tale vergogna che appena entrato nella mia stanza d’albergo scrissi la poesia Babij Jar. È vero che poi è cominciata tutta una saga per la la sua pubblicazione, ma quando è stata stampata ho ricevuto circa 10.000 lettere. Non dimenticherò mai il momento in cui mi chiamò Šostakovič, che ha poi creato un’incredibile 13ª sinfonia basata sui miei versi».
(Tratto da: Elena Danilevič, Evgenij Evtušenko: «Stichi roždajut ljubov’ i styd» [Evgenij Evtušenko: «L’amore e la vergogna fanno nascere i versi»], in «Argumenty i fakty», 23/12/2015; https://spb.aif.ru/society/people/evgeniy_evtushenko_stihi_rozhdayut_lyubov_i_styd).
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Babij Jar
Sul Babij Jar non ci sono monumenti.
Un dirupo scosceso come rozza pietra tombale.
Ho paura.
Son tanti oggi i miei anni
come quelli del popolo ebreo.
Mi sembra ora
di essere un giudeo.
Ecco, peregrino per l’antico Egitto.
Ed ecco, muoio, sulla croce crocifisso,
e ancora porto il marchio dei chiodi.
Mi sembra che Dreyfus
sono io.
Il filisteismo
mi è delatore e giudice.
Sono dietro le sbarre.
Sono accerchiato.
Braccato,
coperto di sputi,
calunniato.
E le signore benpensanti in pizzo di Bruxelles,
stridendo, con gli ombrelli mi colpiscono sul viso.
Mi sento
un ragazzo di Białystok.
Il sangue scorre, spandendosi sul pavimento.
Commettono eccessi i caporioni
dei banconi delle mescite
e puzzano d’un misto di vodka e cipolla.
Io, gettato da parte con un colpo di stivale, sono impotente.
Invano supplico i massacratori.
Con un riso sgangherato:
«Dagli ai giudei, salva la Russia»
il mercante di granaglie violenta mia madre.
Oh, mio popolo russo!
Lo so,
tu
sei per natura internazionalista.
Ma spesso chi aveva le mani impure
faceva risuonare il tuo nome purissimo.
Io conosco la bontà della mia terra.
Da infami,
facce di bronzo,
gli antisemiti pomposamente si facevano chiamare
«Unione del popolo russo»!
Mi sembra
d’essere Anna Frank,
esile
come un ramoscello d’aprile.
Ed io amo.
Non ho bisogno di parole.
Mi basta
che ci guardiamo negli occhi.
Come c’è poco da vedere
e poco da odorare!
Né le foglie,
né il cielo sono per noi.
Ma molto, molto possiamo:
teneramente
abbracciarci nella camera buia.
Vengono?
Non temere: sono i suoni
della primavera
che arriva.
Avvicinati.
Dammi più presto le labbra.
Sfondano la porta?
No, è il disgelo…
Sul Babij Jar passa il sussurrio delle erbe selvatiche.
Gli alberi guardano minacciosi,
come giudici.
Qui tutto grida tacendo,
e, tolto il cappello,
sento
che lentamente incanutisco.
E io stesso sono
un grido ininterrotto, senza suono,
su migliaia e migliaia di sepolti.
Io sono
ogni vecchio
qui fucilato.
Io sono
ogni bambino
qui fucilato.
Nulla in me
potrà più dimenticare!
Che rimbombi
l’Internazionale,
quando per sempre sarà ormai seppellito
l’ultimo antisemita sulla terra.
Non scorre sangue ebreo nelle mie vene.
Ma sono odiato con rabbia retriva
da ogni antisemita,
come un ebreo.
Perciò
sono un vero russo!
1961
Evgenij Evtušenko
Бабий Яр
Над Бабьим Яром памятников нет.
Крутой обрыв, как грубое надгробье.
Мне страшно.
Мне сегодня столько лет,
как самому еврейскому народу.
Мне кажется сейчас —
я иудей.
Вот я бреду по древнему Египту.
А вот я, на кресте распятый, гибну,
и до сих пор на мне — следы гвоздей.
Мне кажется, что Дрейфус —
это я.
Мещанство —
мой доносчик и судья.
Я за решеткой.
Я попал в кольцо.
Затравленный,
оплеванный,
оболганный.
И дамочки с брюссельскими оборками,
визжа, зонтами тычут мне в лицо.
Мне кажется —
я мальчик в Белостоке.
Кровь льется, растекаясь по полам.
Бесчинствуют вожди трактирной стойки
и пахнут водкой с луком пополам.
Я, сапогом отброшенный, бессилен.
Напрасно я погромщиков молю.
Под гогот:
«Бей жидов, спасай Россию!» —
насилует лабазник мать мою.
О, русский мой народ! —
Я знаю —
ты
По сущности интернационален.
Но часто те, чьи руки нечисты,
твоим чистейшим именем бряцали.
Я знаю доброту твоей земли.
Как подло,
что, и жилочкой не дрогнув,
антисемиты пышно нарекли
себя "Союзом русского народа"!
Мне кажется —
я — это Анна Франк,
прозрачная,
как веточка в апреле.
И я люблю.
И мне не надо фраз.
Мне надо,
чтоб друг в друга мы смотрели.
Как мало можно видеть,
обонять!
Нельзя нам листьев
и нельзя нам неба.
Но можно очень много —
это нежно
друг друга в темной комнате обнять.
Сюда идут?
Не бойся — это гулы
самой весны —
она сюда идет.
Иди ко мне.
Дай мне скорее губы.
Ломают дверь?
Нет — это ледоход...
Над Бабьим Яром шелест диких трав.
Деревья смотрят грозно,
по-судейски.
Все молча здесь кричит,
и, шапку сняв,
я чувствую,
как медленно седею.
И сам я,
как сплошной беззвучный крик,
над тысячами тысяч погребенных.
Я —
каждый здесь расстрелянный старик.
Я —
каждый здесь расстрелянный ребенок.
Ничто во мне
про это не забудет!
«Интернационал»
пусть прогремит,
когда навеки похоронен будет
последний на земле антисемит.
Еврейской крови нет в крови моей.
Но ненавистен злобой заскорузлой
я всем антисемитам,
как еврей,
и потому —
я настоящий русский!
1961
Евгений Евтушенко
Inserito il 01/08/2023.
Babij Jar: breve storia letteraria di un burrone
🔴 di Leandro Casini 🔴
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Babij Jar: breve storia letteraria di un burrone
Babij Jar è un burrone, un’ampia e lunga depressione del terreno poco distante da Kiev. Nel corso della Seconda guerra mondiale, con l’Ucraina occupata dai nazisti sostenuti dalle milizie collaborazioniste di Stepan Bandera, questo burrone, che di solito veniva popolarmente utilizzato come discarica, cominciò a diventare fossa comune per tutti coloro che non rientravano nei canoni politici o razziali del regime nazifascista allora imperante in quelle terre. Nei giorni 29 e 30 settembre 1941 i soldati nazisti e i poliziotti ucraini massacrano in quel luogo 33.771 ebrei. Nel corso dei due anni successivi, fino alla liberazione da parte dell’Armata Rossa, migliaia di rom, disabili, oppositori, partigiani, nazionalisti ucraini antinazisti, comunisti furono massacrati nel fossato. Si calcola che tra i 70.000 e i 90.000 civili siano stati in quei due-tre anni sepolti qui.
Nel 1961 Evgenij Evtušenko, allora poeta di punta della generazione del disgelo seguito al XX Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, visitò Kiev e si recò sul luogo in cui sapeva essere stato consumato l’eccidio nazista del 1941 nei confronti di più di 33.000 ebrei di Kiev. Con sua grande sorpresa vide il burrone utilizzato come discarica, e nessun monumento, nessuna lapide a ricordare il tragico evento.
La sua poesia infatti inizia con «Sul Babij Jar non ci sono monumenti»: già da qui era esplicita l’accusa alle autorità ucraine e sovietiche di voler rimuovere una pagina nera di antisemitismo. Non erano stati i sovietici a uccidere, ma l’odio razziale antiebraico che aveva mosso i nazisti e i fascisti non era estraneo alla cultura russa: a ciò, alla permanenza dell’antisemitismo nella società sovietica di allora, egli legò la volontà dei russi di non ricordare.
La poesia Babij Jar, che, come succedeva allora, veniva declamata di fronte a decine di migliaia di spettatori avidi di ascoltare i nuovi poeti, trovò qualche difficoltà nella sua pubblicazione, e ci furono inviti al poeta almeno a modificare in qualche parte il testo. Si sottolineava in particolare il fatto che Babij Jar non era un luogo di sepoltura solo per gli ebrei trucidati, ma anche per decine di migliaia di altre vittime del nazifascismo hitleriano-banderista, e che porre l’attenzione sulle vittime dell’antisemitismo appariva come una provocazione nei confronti dei russi, degli ucraini, della politica dell’Unione Sovietica. Evtušenko si oppose a ogni modifica e, con una discreta dose di coraggio, il direttore della «Literaturnaja gazeta» pubblicò integralmente la poesia nel settembre 1961, a vent’anni esatti dall’eccidio di Babij Jar. In Italia comparve qualche mese dopo su «Il Contemporaneo», inserto letterario della rivista del PCI «Rinascita».
Successo e polemiche furono tutt’uno. Ma alla lunga è rimasto il successo. L’anno seguente il compositore Dmitrij Šostakovič chiese ad Evtušenko il permesso di comporre una sinfonia sull’aria del componimento poetico: nacque così la 13ª sinfonia.
La stessa poesia dette la spinta allo scrittore Anatolij Kuznecov di scrivere un romanzo-documento sullo stesso tema, intitolato anch’esso Babij Jar: Kuznecov aveva assistito direttamente, da bambino, alle repressioni naziste. Il romanzo, pieno di critiche al potere sovietico, non ebbe vita facile: rimase nei cassetti della censura per un anno, poi venne pubblicato dalla rivista «Junost’» tagliato di tutte le parti scomode per il potere. La versione integrale vide la luce nel 1970 a Londra quando lo scrittore vi emigrò.
Negli anni Settanta cominciarono a sorgere i monumenti in quella fossa del Babij Jar cantata da Evtušenko: oggi ce ne sono molti, ognuno per ogni comunità o categoria di vittime di quella fase di repressione nazifascista. Spicca su tutti il monumento alle vittime sovietiche e ai prigionieri dell’Armata Rossa trucidati: fu a suo tempo criticato per la mancanza di riferimenti alle vittime ebree, ma si tendeva a rispondere che tutte le vittime, indipendentemente dalla loro lingua ed etnia, ebrei o tatari, ucraini o russi, rom o uzbeki, erano cittadini sovietici.
Nel 1991 fu elevato il grande candelabro a sette bracci della tradizione ebraica. Tra i monumenti non manca oggi un carro, simbolo del nomadismo rom.
L.C.
Inserito il 02/08/2023.
Monumento alle vittime sovietiche del nazifascismo (1976).
Fonte della foto: https://image.arrivalguides.com/1230x800/14/beafc4a8cbd403b75679754ee4ca25c1.jpg
Monumento alle vittime rom di Babij Jar (2016).
Fonte della foto: commons.wikimedia.org
La Menorah, monumento ai caduti ebrei, inaugurato il 29 settembre 1991 nel 50° anniversario dell’eccidio.
Fonte della foto: commons.wikimedia.org
Avanguardie musicali e rivoluzione
Arsenij Avraamov e le sirene della rivoluzione
Un ritratto del musicista e compositore sovietico Arsenij Avraamov, il quale ha fatto della rivoluzione il tema centrale della sua produzione artistica, mescolando musica, cinema, poesia, occupandosi di etnologia musicale e inventando nuovi strumenti.
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Arseny Avraamov e le sirene della rivoluzione
di Marina Angelino1
«Le note compongono il tema dell’Internazionale. Lunačarskij si gira verso Bogdanov, la bocca nascosta dal palmo della mano. Ricordi, bisbiglia, quando mi chiesero di bruciare tutti i pianoforti del paese? Bogdanov annuisce. Accadde nel foyer di un teatro, chissà quale, durante l’intervallo di uno spettacolo, chissà di chi. Che anno era? Il 1921? Tempo e luogo sono ormai dimenticati, ma non il disagio di Anatolij di fronte all’autore della proposta. Quella che in bocca a chiunque altro sarebbe stata una battuta scherzosa, sulle labbra di Arsenij Avraamov era invece una richiesta serissima. L’uomo che aveva diretto il porto di Baku come un’orchestra, maneggiando due torce segnaletiche, armonizzando la sinfonia delle sirene antinebbia con i cori del pubblico e le mitraglie, poteva ben concepire lo sterminio dei pianoforti, per liberare i russi dal giogo secolare dell’accordatura ben temperata»2.
Tra i tanti meriti di Proletkult, splendido libro scritto dai Wu Ming, c’è quello di aver rievocato Arsenij Avraamov, e di averlo rievocato in tutta la sua potenza.
Proviamo a chiedere a un musicista che abbia concluso gli studi al Conservatorio, o a un cultore di musica, se conosce la musica di Šostakovič. Questi vi dimostrerà di conoscere le sue composizioni e, forse, vi ricorderà anche che la seconda sinfonia (in si maggiore, op. 14) venne composta ed eseguita nel 1927 per il decimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. Non farà la stessa cosa per Arsenij Avraamov, anche se ha scritto e diretto a Baku la Sinfonia delle sirene per commemorare, nel 1922, il quinquennio della Rivoluzione d’Ottobre!
Arsenij Avraamov, figura poliedrica, dai tanti nomi veri o falsi, dalle tante passioni e utopie, dagli innumerevoli mestieri per necessità o per vocazione, dai molti amici ma anche detrattori, non lo si potrà descrivere senza dire che è stato: un militare, un sovversivo, un marinaio, un circense, un critico musicale, un teorico della musica, un inventore di strumenti musicali, un docente, un compositore, un direttore d’orchestra, un direttore di coro, un etnologo musicale, un militante di partito, un esperto di cinema, un poeta, uno scienziato ma, tutto questo «agito» con un solo leitmotiv che potremmo definire «tema della rivoluzione».
Dagli studi militari a rivoluzionario
Avraamov Arsenij Mikhailovič nasce nell’aprile del 1886 nel distretto di Rostov sul Don, nella famiglia di un colonnello cosacco; ancora adolescente intraprende la carriera militare prima presso il Corpo dei Cadetti del Don e successivamente alla Scuola di artiglieria Michailovskij dove, non trovandosi a suo agio, fa il possibile per farsi espellere preparando un discorso nel quale critica sia lo stato delle due scuole sia il sistema militare in generale. Attenzionato dalla polizia come pericoloso rivoluzionario interrompe la sua carriera militare a favore di campagne per il comunismo e la socialdemocrazia di cui si fa portavoce frequentando anche l’organizzazione studentesca Sorveglianza pubblica. Dopo il 1904 si trasferisce in Ucraina, dove studia presso il Politecnico di Kiev che viene chiuso per disordini studenteschi il 15 gennaio 1905, in seguito all’occupazione alla quale partecipa armato di manichette e bombe chimiche fatte in casa. Disordini che si concludono quando il 17 ottobre lo zar Nicola II firma un Manifesto per il miglioramento dell’ordine pubblico. È in questo periodo che un terrorista armeno gli dona un fucile Mauser che conserverà per molti anni e i compagni di partito un passaporto falso (sotto il nome di Dimitrij Ivanovič Donskoj) con annessa moglie finta. A novembre del medesimo anno a Kiev scoppia un’insurrezione armata e Arsenij deve fuggire in seguito al ritrovamento, nel suo appartamento, di materiale per fabbricare armi. Non ha ancora vent’anni ma dalle armi della caserma è passato a quelle del rivoluzionario e ha già incontrato il suo secondo nome.
Rivoluzionare la scala musicale: il ritorno alla natura
Tornando in Russia nel 1906, decide di accantonare l’impegno politico per dedicarsi alla musica studiando teoria musicale nella Società Filarmonica di Mosca con i professori Il’ja Protopopov e Arsenij Koreščenko. Privatamente studia anche composizione con Sergej Taneev e pubblica articoli di critica musicale con lo pseudonimo di Ars. Nel 1912, arrestato e imprigionato per propaganda, mentre si trova nella divisione militare cosacca, fugge dal carcere e cerca rifugio in Norvegia, dove lavora prima come marinaio sul mercantile Malm Land e, in seguito, come dzhigit-equestre, acrobata e musicista-clown in un circo itinerante. Nel 1913 si trasferisce a San Pietroburgo con una lettera di presentazione nella quale il compositore Nikolaj Roslavec scrive a Nikolaj Kublin pregandolo di prendersi cura di questo «abile musicista e giornalista propagandista della scala naturale (basata sulle armoniche) e inventore dei corrispondenti strumenti musicali»3.
È proprio qui a San Pietroburgo che, tra il 1914 e il 1916, dopo essersi rifiutato di arruolarsi per non andare in guerra, troviamo Avraamov nei comitati editoriali delle riviste «Muzykal’nyj Sovremennik» (Rivista musicale contemporanea) e «Letopis’» (La cronaca), mentre parallelamente scrive una serie di articoli per la rivista «Muzyka» di Mosca4 dove espone la teoria della musica microtonale «ultracromatica» basata sulla scala enarmonica5. In questa scala che procede per quarti di tono i diesis non coincidono con i bemolli come nelle tastiere costruite secondo la teoria di Andreas Werckmeister del «buon temperamento» (Musicalische Temperatur, 1691) «adottata» dalla musica occidentale di cui ne è esempio il «Clavicembalo ben temperato» di J.S.Bach6.
Avraamov non ha ancora trent’anni ma ha già firmato con il suo terzo nome e il mondo lo ha già conosciuto come militare, rivoluzionario, carcerato, marinaio, circense, critico musicale, teorico musicale e inventore.
Dal passato un’idea rivoluzionaria: la «Società Leonardo da Vinci»
Tra il 1916 e il 1917 i suoi interessi scientifici lo conducono ad insegnare acustica musicale al Conservatorio Pressman nella città di Rostov sul Don. È del 1916 infatti uno dei suoi articoli in cui si occupa, per la prima volta, dell’analisi, dell’elaborazione e della sintesi dei suoni7 anticipando quello che sarà, poi, lo sviluppo dei sintetizzatori. Ma ciò che rende peculiare questo articolo è la «chiamata» rivolta a scienziati e musicisti per «unire gli sforzi di chi crede nell’importanza delle conoscenze scientifiche per sostenere la teoria della musica». Infatti, anche come conseguenza di questa «chiamata», nel 1917 Avraamov fonda, con l’inventore Evgenij Šolpo e il matematico e musicologo Sergej Djanin la «Società Leonardo da Vinci» allo scopo di produrre una rivoluzione nella teoria musicale e nelle tecniche basate sulla connessione incrociata delle arti e delle scienze. Non più solo l’opera d’arte totale (Gesamtkunstwerk) di wagneriana memoria ma l’incrocio delle arti con il sapere scientifico. Fulcro della ricerca è un’idea nata dalle riflessioni futuristiche8 di Velimir Chlebnikov della musica non esecutiva che utilizza la tecnica del suono disegnato e prodotto tecnologicamente.
Così come aveva cercato nell’antichità un ritorno alla natura con la scala enarmonica, ora Avraamov trae ispirazione dalla figura di Leonardo per risvegliare un passato che diventa rivoluzionario.
Il rivoluzionario Revarsavr
Nella notte tra il 6 e il 7 novembre 1917 (24 e 25 ottobre del calendario giuliano), mentre al Teatro Bol’šoj di Mosca è in corso la rappresentazione del Don Carlos di Verdi9, il primo Comitato rivoluzionario dei Soviet assalta il Palazzo d’Inverno di Pietrogrado. È del giorno seguente la creazione, sotto la direzione di Anatolij Lunačarskij, del Commissariato del popolo per l’istruzione pubblica (priorità assoluta per Lenin), il Narkompros, che era già stato concepito nel 1908, quando, in esilio, a Capri, Lunačarskij aveva incontrato Alexandr Bogdanov (suo vero nome Malinovskij)10. Lunačarskij, personalità eclettica e fantasiosa che conosce e apprezza l'arte moderna, promuove nuovi approcci culturali nella Russia bolscevica, caratterizzati da tolleranza e audacia verso i molti movimenti d'avanguardia. Bogdanov assume, invece, la direzione del Proletkult, organismo del quale fa parte anche Avraamov, che ha lo scopo di fornire le basi di una vera arte proletaria; un'arte creata dai proletari per i proletari, priva di tutte le vestigia della cultura borghese.
Ed ecco che ora possiamo chiarire l’incipit di questo scritto che ci descrive, tramite i Wu Ming, il colloquio tra Lunačarskij e Bogdanov a proposito della richiesta di Avraamov di distruggere tutti i pianoforti.
Chissà quanti lo avranno preso per pazzo quando ha proposto a Lunačarskij un progetto per bruciare tutti i pianoforti in Russia! In verità questa «strana proposta» è solo la diretta conseguenza della volontà di inventare nuovi strumenti musicali in grado di combinare la scala temperata con quella naturale che non provoca l’alterazione negli intervalli di terza. Alterazione che già nel 1709 il filosofo e matematico Leibniz dava come avvertibile «ma solo ai musicisti e alle orecchie più sensibili». I pianoforti che Avraamov vorrebbe bruciare sono quelli che abituano il popolo ad accontentarsi di un suono non naturale. In questo è assolutamente congruente con il futurista Luigi Russolo11 che, però, non ci risulta abbia mai teorizzato falò di pianoforti. Ma Avraamov che adesso incontriamo come Revarsavr ([acronimo] di Rivoluzionario Arsenij Avraamov) uno dei suoi nomi più conosciuti, ora è un rivoluzionario del Proletkult e sente il dovere di proteggere e rieducare la percezione uditiva del popolo sovietico.
E quanto avrà contato, dopo la Rivoluzione d’Ottobre, nel suo desiderio di eliminare i pianoforti, la consapevolezza che questo è, per eccellenza, lo strumento della borghesia?12
La Rivoluzione vede i principali fautori, da Lenin a Trotskij, favorire le arti in senso avanguardista e in chiave sperimentale. Sono questi gli anni (1917-1927) del decennio delle utopie13, durante i quali, almeno fino alla morte di Lenin (nel 1924), le avanguardie conoscono grande libertà di espressione14 e Avraamov ne approfitta come scrittore, politico, docente, etnologo, compositore, inventore, scienziato e direttore d’orchestra e di coro. La firma di Avraamov la si trova, ad esempio, nel giugno del 1921 sotto il manifesto degli Immaginisti15, che, teorizzando il verso libero e la sperimentazione ritmica e metrica, desta non poco scalpore16. Come politico, tra il 1918 e il 1919 lo troviamo a capo del dipartimento artistico del Narobraz (comitato per l’educazione) a Kazan’ e durante la guerra civile curatore culturale nel Dipartimento politico dell’Armata Rossa. Come docente ancora al conservatorio di Rostov sul Don (dove è anche redattore del quotidiano «Na revoljucionnom postu» [A guardia della rivoluzione]), ma questa volta sulla cattedra di etnologia fino al 1920. Questo interesse per l’etnologia musicale lo porta, tra il 1921 e il 1922, a prendere parte, come folklorista musicale, a una spedizione scientifica dell’Accademia delle Scienze russa che si reca nel Caucaso per osservazioni etnografiche. Osservazioni che gli consentono di verificare la presenza, nel canto popolare, dei microintervalli dei modi antichi. Al rientro lo troviamo, dal 1922 al 1923, a Baku (Azerbaigian) dove insegna al liceo del Partito Comunista e, nel frattempo, realizza strumenti musicali ultracromatici che suona nelle sue esibizioni tra le quali una performance a Mosca, nel 1923, con l’utilizzo di quattro armonium riaccordati e pianoforti preparati che necessitano, per essere suonati, di piccoli rastrelli fissati alle mani17. I rastrelli alle mani non avranno un seguito e non lo renderanno famoso; ciò che lo farà ricordare, invece, e che sarà esemplare della libertà espressiva del «decennio delle utopie», sarà la performance organizzata proprio nel porto di Baku la mattina del 7 novembre 1922 quando dirige la Sinfonia delle sirene.
Una sinfonia con gli strumenti della rivoluzione
Dato l’intento celebrativo più che una sinfonia questa composizione soddisfa la forma del poema sinfonico, in un solo movimento, su ispirazione di una poesia di Aleksej Gastev. L’orchestra, fatta di sirene di fabbrica, due batterie di cannoni d’artiglieria, un certo numero di reggimenti di fanteria, idrovolanti, mitragliatrici, clacson di varia natura, cinquanta fischietti a vapore controllati da 25 musicisti, locomotive da manovra e sirene da nebbia dell’intera flotta del Mar Caspio comprende anche cori che eseguono l’Internazionale e la Marsigliese. Dal tipo di sonorità questa è un’orchestra che rispetta, in tutto e per tutto, l’estetica musicale futurista18 che trova uno strumento di propaganda nell’esaltazione della macchina.
Se l’intento è quello di celebrare il quinquennio della Rivoluzione d’Ottobre, Avraamov ci riesce nei primi 30 secondi. I 27 minuti che seguono li possiamo considerare come uno sviluppo delle prime due immagini sonore. Il colpo di cannone iniziale che, in dissolvenza, prepara un suono «interminabile» di una sirena di fabbrica celebra istantaneamente sia la presa del potere dei soviet sia la guerra civile che si è appena conclusa con la caduta di Vladivostok. I 5 secondi che separano la cannonata dal suono della sirena creano, nell’ascoltatore sgomento, l’attesa di altri suoni bellici che, per il momento tacciono, per lasciar spazio a quello che, per tutto il Novecento, ha gestito il sonno e la veglia delle fabbriche: la sirena. E perché, tenuta così a lungo? Per ben 26 secondi di orologio? Forse per dare il tempo all’ascoltatore di immaginare il flusso delle operaie e degli operai figli della rivoluzione e del sol dell’avvenire? Ciò che segue, l’Internazionale e la Marsigliese che si incrociano e si scambiano le parti, la marcia dei soldati, le urla del popolo, i colpi di pistola, lo sferragliare dei treni e le sirene da nebbia della flotta del porto sono suoni che, inequivocabilmente, raccontano sia la rivoluzione sia l’utopia che la alimenta. Non a caso, l’opera si conclude con l’Internazionale seguita da una polifonia di sirene. Il cannone ha perso la sua voce. È rimasta quella della fabbrica a testimoniare che questa composizione è un inno al lavoro operaio.
Non esiste una registrazione di questa esecuzione ma, fortunatamente, la precisione della partitura ha permesso a due studiosi Miguel Molina Alarcón e Leopoldo Amigo di ricrearla elettronicamente evitando loro l’arduo compito di dirigerla alla guisa di Avraamov19 «dall’alto di una torre ricorrendo a torce, banderuole segnaletiche e colpi di pistola per ottenere l’avvicendamento degli strumentisti e dei proletari chiamati ad eseguire l’Internazionale e la Marsigliese»20.
Con la Sinfonia delle sirene Avraamov raggiunge il massimo della sperimentazione compositiva e della popolarità. Gli anni che seguono lo vedono, prima nel Daghestan e poi a Mosca dove partecipa alla realizzazione dei primi film sonori sovietici e, in seguito, a dirigere il laboratorio sonoro presso l’Istituto di ricerca cinematografica. Nel 1935 viene inviato a Nal’čik dove, dopo l’osservazione e la raccolta di musiche dei popoli del Caucaso settentrionale, compone brani ispirandosi a queste. Dal 1941 al 1943 dirige il Coro popolare russo che era stato fondato da P.G. Jarkov. Nel novembre del 1943 termina la sua biografia per il Comitato Centrale e scrive all’allora capo della polizia segreta Lavrentij Berija i suoi progetti futuri tra cui quello di comporre un nuovo Inno della Vittoria. A questa lettera sembra che Berija abbia risposto: «C’è una guerra in corso, non impegnarti in sciocchezze». Sei mesi dopo Arsenij Avraamov muore e viene sepolto nel cimitero di Danilovskij. La posizione della sua tomba è sconosciuta. Negli ultimi anni la sua pensione non era sufficiente a sfamare la famiglia e quindi possiamo supporre una semplice sepoltura senza una lapide. Lapide che avrebbe dovuto essere molto grande per contenere un epitaffio in grado di celebrare la complessa personalità di questo rivoluzionario che ha vissuto alimentato dalle sue mille utopie.
Marina Angelino
(Tratto da «Machina-DeriveApprodi»: https://www.machina-deriveapprodi.com/post/arseny-avraamov-e-le-sirene-della-rivoluzione.
L’articolo è qui riprodotto con alcuni interventi della redazione di spaziocollettivo.org: le trascrizioni fonetiche dei nomi russi sono state modificate per togliere loro la base anglosassone come nell’articolo originario, e abbiamo tradotto in italiano nomi di istituzioni, organizzazioni o riviste russe e sovietiche che nell’articolo venivano date con dicitura inglese – cosa che troviamo inconcepibile –, come Donskoy Cadet Corps, On the Guard of Revolution, ecc.; in definitiva, il presente articolo risulta essere una rielaborazione e in più punti una traduzione di un articolo in lingua inglese a firma Andrey Smirnov, reperibile al seguente link: https://daily.redbullmusicacademy.com/2017/07/revolutionary-arseny-avraamov).
Note
1 Marina Angelino, docente di musica.
2 Wu Ming, Proletkult, Einaudi, Torino 2018, pp. 24-25.
3 A. Smirnov, Sound in Z. Experiments in sound and Electronic Music in Early 20th Century Russia, London 2013. Il capitolo dedicato a The Symphony of Sirens si trova a pp. 30-31.
4 «Tout talent exceptionnel ainsi détecté était amené à Moscou ou à Leningrad pour y devenir – et souvent y rester – une sorte de heros, travailleur de l’art [… ]» in Frans C. Lemaire, La musique du XX siècle en Russie et dans les anciennes Républiques soviétiques, Fayard, 1994, p. 9.
5 In teoria musicale, una scala enarmonica è «una progressione [immaginaria] graduale per quarti di tono». Più in generale, una scala enarmonica è una scala in cui (usando la notazione standard) non esiste un'esatta equivalenza tra nota diesizzata e nota bemollizzata a cui è correlata enarmonicamente, come nella scala dei quarti di tono. Ad esempio, Fa ♯ e Sol ♭ sono equivalenti in una scala cromatica (lo stesso suono è scritto in modo diverso), ma sono suoni diversi in una scala enarmonica. https://readitaliano.com/wiki/it/Enharmonic_scale
6 Il titolo di Clavicembalo ben temperato deriva dal proposito che Bach si prefiggeva di mostrare i vantaggi del «temperamento equabile», cioè dell'accorgimento che sostituisce al sistema musicale pitagorico per quinte naturali, un sistema in cui l'ottava risulta divisa in dodici semitoni uguali.
7 «Conoscendo il modo di registrare le trame sonore più complesse per mezzo di un fonografo, dopo aver analizzato la struttura curva del solco sonoro, dirigendo l’ago della membrana risonante, si può creare sinteticamente qualsiasi suono, anche il più fantastico realizzando un solco con una forma, una struttura e una profondità adeguate…», in Upcoming Science of Music and the New Era, in The History of Music.
8 Non dimentichiamo che il manifesto futurista di Marinetti venne pubblicato in russo già nel 1909.
9 In Russia, in seguito alla prima messa in scena, nel 1868, del Don Carlos in italiano, l'opera fu abbandonata per un lungo periodo a causa della censura. Nel 1917 Fëdor Shaliapin ottenne il permesso per una produzione di Don Carlos al Teatro Bolshoi di Mosca. https://balletandopera.com/opera/mariinsky_Don_Carlo_five_acts/info/sid=GLE_1&play_date_from=27-Nov-2012&play_date_to=02-Dec-2012&playbills=29254
10 Frans C. Lemaire, La musique du xx siècle en Russie, cit., p. 43.
11 Dunque l’orecchio è sensibile anche a queste differenze molto piccole, se istintivamente le adopera. Infine si prova generalmente maggior piacere nell’udire uno strumento a intonazione libera. Così per esempio tutti ammettono che il violino ha più fascino, canta meglio del pianoforte e stanca meno di questo. Questo fatto che tutti percepiscono e di cui pochi si rendono conto è dovuto a ciò: che il violino ha possibilità di enarmonismo, mentre il pianoforte (che è il più temperato degli strumenti) non ne ha affatto https://www.memofonte.it/files/Progetti/Futurismo/Manifesti/I/49.pdf.
12 «La musica in casa e la musica in salotto sono due manifestazioni tipiche della cultura musicale dell’Ottocento. Per il ceto borghese la musica rappresenta un’occasione di affermazione sociale, non solo nell’ambito del concerto pubblico, ma anche in quello della prassi musicale privata. Nel corso del secolo cresce dunque il numero dei dilettanti, mentre il pianoforte diventa arredo indispensabile del salotto borghese», in https://www.treccani.it/enciclopedia/la-musica-in-salotto-e-in-casa_%28Storia-della-civilt%C3%A0-europea-a-cura-di-Umberto-Eco%29/
13 Frans C. Lemaire, La musique du xx siècle en Russie, cit., p. 43.
14 In particolare in campo letterario possiamo rintracciare nel futurismo il fenomeno più produttivo, anche grazie allo status assunto da Majakovskij, suo principale esponente, https://www.musicoff.com/strumenti/storia/la-musica-nell-unione-sovietica/.
15 Movimento letterario fondato dal poeta S. Esenin e dallo scrittore e drammaturgo Mariengof.
16 L’«Immaginismo» («Имажинизм») è la corrente letteraria russa, attiva agli inizi degli anni 1920, che assumeva l’immagine a principio costitutivo della poesia. I rappresentanti della corrente dichiaravano che lo scopo dell’attività poetica consiste in creazione dell’immagine. Il mezzo importante degli «immaginisti» russi è la metafora. La caratteristica precipua degli «immaginisti» è la provocazione e i motivi anarchici. Lo facevano per scandalizzare la gente (con intento provocatorio). Sull’Immaginismo russo e sul comportamento dei suoi rappresentanti aveva influenza il futurismo russo. http://www.arcarussa.it/forum/viewtopic.php?t=9724
17 A. Smirnov, Sound in Z. Experiments in sound and Electronic Music in Early 20th Century Russia, London 2013, pp. 148-153.
18 Abbiamo già detto che in Russia si sviluppò un movimento futurista autonomo che ebbe all’inizio una connotazione prevalentemente letteraria.
19 https://www.youtube.com/watch?v=Kq_7w9RHvpQ
20 Si veda G. Fucile, La sinfonia delle sirene, in «quadernidaltritempi.eu», n. 24-2010.
Inserito l’8/5/2023.
Memorie della transizione
C’era chi lottava per una Ddr diversa
di Ingo Schulze*
Entusiasmo, delusione, presa di coscienza. Le memorie e le riflessioni di uno scrittore tedesco sulla caduta del Muro, su come poteva andare e su come è poi andata davvero.
«All’Est mancava la libertà politica e ideologica, c’erano però degli spazi di libertà di cui ci si è resi conto solo nel momento in cui non c’erano più: nessuno allora pensava al denaro e al lavoro».
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Credevo di non avere molto da spartire con la Ddr1. Nessuno nella mia famiglia né fra gli amici e i conoscenti di mia madre, con la quale sono cresciuto, era nella Sed2 o in uno dei cosiddetti partiti di blocco3. E comunque essere in un partito di blocco era ancora più imbarazzante che essere nella Sed. Mia madre e mio zio mettevano in conto senza lamentarsi il fatto di essere esclusi dalle posizioni ai vertici; la carriera, per così dire, non aveva luogo. Mio zio andava sempre soltanto a congressi in Unione Sovietica, nel vasto mondo occidentale ci andavano altri con i suoi risultati scientifici. Mia madre, aiuto primario in un ospedale distrettuale, svolgeva di fatto il lavoro di un primario ed era contenta così.
Io andavo a catechismo, raramente in chiesa, ricevetti la confermazione civile senza che festeggiassimo, arrivai al grado di scuola superiore che mi avviava alla maturità, fui cresimato e in quell’occasione ci fu una piccola festa. Per qualche mese accarezzai persino l’idea di farmi prete e considerai seriamente di rifiutare il servizio militare per via della mia fede, poi però non lo feci, perché a diciassette anni quella fede l’avevo persa.
Il nostro insegnante di educazione civica diceva: «Il socialismo reale è il solo piede che ad oggi siamo riusciti a infilare nella porta del capitalismo». Nessuno oltre a lui descriveva la nostra situazione alla fine degli anni Settanta in modo altrettanto drammatico. La vittoria del socialismo non era forse inevitabile? Nonostante la mia distanza (opportunisticamente flessibile) dalla Ddr ufficiale, ero convinto che il socialismo/comunismo avrebbe vinto. Era infatti – chi mai l’avrebbe contestato – un fatto scientificamente provato: la contraddizione fra il carattere sociale della produzione e l’appropriazione privata del profitto richiedeva una soluzione. Era così più o meno per noi tutti, a prescindere da quanto fossimo scettici nei confronti dello status quo. Così, mi figuravo il giorno in cui anche le cittadine e i cittadini della Svizzera si sarebbero strofinati gli occhi stupefatti, perché quel mattino si erano svegliati nel socialismo. E comunque credevo che il socialismo alla Svizzera avrebbe fatto solo bene, rendendola ancora più bella. Svizzera e socialismo: probabilmente il migliore dei mondi possibile.
«Gli anni Settanta ce li siamo aggiudicati noi», soleva dire poi il nostro insegnante di educazione civica. «Ma non è ancora chiaro a chi andranno gli anni Ottanta». Ciò cui si riferiva non aveva niente a che vedere con la mia quotidianità e con quel che pensavo. Anche il pronome “noi” lo intendevo molto diversamente da lui. Il mio compagno di banco, il nostro primo della classe, dopo il biennio superiore dovette lasciare la scuola perché aveva scelto di rifiutare il servizio militare.
Prima che potessi fare la maturità a spese dei lavoratori e dei contadini della Ddr, la Stasi4 s’interessò a mia madre e me, perché credevano, sbagliandosi, che volessimo squagliarcela. Quel che ci toccò sentire fu istruttivo. Ma dopo due giorni la faccenda fu chiusa come se niente fosse.
I miei diciotto mesi di servizio militare obbligatorio nella Nva5 capitarono nel periodo della crisi provocata da Solidarność6. Nel 1981 noi soldati avevamo paura di dover invadere la Polonia. Una paura non infondata, come venni a sapere un quarto d’ora dopo l’arruolamento. La questione “servizio militare sì o no” si era trasformata da riflessione puramente teorica a questione immediatamente pratica.
Con la rabbia della naia nella pancia, alle manifestazioni dei Kirchentag litigai con gli inviati della Cdu7. All’università di Jena, dal 1983, mi confrontai anche con le prime dimostrazioni “illegali” e vidi che non avevano possibilità di successo, a meno che uno non volesse catapultarsi di persona nell’Ovest. Il fatto di non voler diventare ufficiale riservista mi creò qualche difficoltà. Con Gorbaciov la nostra vita divenne più facile, i socialisti “ufficiali” si misero sulla difensiva, la mia espulsione dall’università fu scongiurata e io divenni un “eroe bonsai”. Quando, in occasione di non so più quali elezioni, mi presentai al seggio un’ora dopo l’apertura, fu uno scandalo. Invece, che votai nella stessa cabina con altri due, e che in tutto ci furono tre voti negativi, non interessò a nessuno.
Il motto ufficiale «Il socialismo è buono se noi lo rendiamo buono» a me appariva semplicemente cinico. Io non ero fra quelli che credevano che bisognasse entrare nel partito (voglio dire nella Sed) per cambiare qualcosa. Ma da quando c’era Gorbaciov questa strada sembrava percorribile, forse l’unica realistica. La riforma era un fatto, la rivoluzione invece rimaneva una parola astratta. Gli altri non avevano forse ragione? Non bisognava forse rompere questa società dall’interno?
Al denaro e al lavoro nessuno ci pensava veramente. Io non sapevo assolutamente che esistesse un diritto al lavoro. Trovare un lavoro era la cosa più facile. Se si arrivava alla laurea, l’università era obbligata a procurare un impiego ai suoi diplomati. E se non ci riusciva, doveva assumerci lei. Noi questo non lo volevamo, non era un’idea allettante. Nella scelta della professione il denaro non era importante.
Io mi candidai per un posto di direttore artistico teatrale e potei scegliere fra tre offerte. Come direttore artistico non guadagnavo meno di un medico e neanche molto più di un operaio specializzato. Al teatro di Altenburg nel 1989 non interessava a nessuno se sarei andato a votare. Provai pena per gli assistenti elettorali che in preda all’afflizione suonarono alla nostra porta per chiederci come mai non ci andassimo. Ma non vollero entrare a bere un caffè.
Al teatro facevamo di tutto perché i nostri spettacoli venissero proibiti. Volevamo essere presi ancor più sul serio. Ma nulla veniva più proibito. In qualità di direttore artistico mi scrissi da me i permessi per accedere all’“armadio dei libri proibiti” della Biblioteca tedesca di Lipsia, ma rimasi deluso, perché ci trovai a stento qualcosa che non conoscessi già. La letteratura neonazista non mi interessava. Le Illustrierte Sittengeschichte (Storia illustrata degli usi e costumi) di Eduard Fuchs, in odore di pornografia, la possedevo in edizione tascabile, così come Solženicyn e Rudolf Leonhard. I miei articoli di giornale con le anticipazioni dei nostri spettacoli a volte venivano accorciati di qualche frase. Io protestavo. Mi si chiamava a discuterne, mi si diceva che avevo una visione pessimista.
Nell’agosto dell’89, quando ritornammo in macchina dalla costa bulgara del Mar Nero, ci stupì la noncuranza con cui i doganieri della Ddr ci lasciarono rientrare nel Paese, senza mettersi a cercare i libri occidentali e i dischi acquistati a Budapest. Quando nel settembre 1989 fu inaugurata la nuova stagione teatrale, ci guardammo intorno: chi c’era, chi mancava. Chi se ne andava adesso, mancava in modo particolare. E stranamente non era un problema ottenere i documenti legali per andare in Ungheria. E chi era in Ungheria, dal 10 settembre era nell’Ovest.
Firmai per il Neues Forum8. Percorsi cinquanta chilometri per arrivare a Lipsia il 2 ottobre, la mia prima volta a una “manifestazione del lunedì”. Adesso il motto era: «Noi restiamo qui!». Ebbi paura. Poi venne il 9 ottobre. Avevamo ancora più paura. Poi però accadde il miracolo: niente polizia e neppure altri “organi armati”, potevamo fare e non fare ciò che volevamo. Per la prima volta la manifestazione percorse l’anello intorno al centro di Lipsia. Questo fatto ebbe una forza simbolica quasi biblica. Da quel momento in poi, fu davvero una rivoluzione pacifica.
L’ultima volta che ebbi paura della violenza di Stato fu il 18 ottobre. Avevamo appena comunicato alla polizia il preavviso di una manifestazione per i diritti e le libertà garantite dalla nostra Costituzione (ne aveva fatto richiesta per il 4 novembre molta gente di teatro in diverse città del Paese; lo stimolo era giunto dall’avvocato Gysi durante un incontro nel Deutsches Theater il 15 ottobre), quando venimmo a sapere che Egon Krenz era appena stato eletto nuovo segretario generale del partito. Egon Krenz aveva applaudito i compagni cinesi per il massacro di piazza Tienanmen, era successo solo quattro mesi prima. Alcuni presentivano già lo sferragliare dei carri armati. Ma non accadde nulla. Krenz visitò aziende e ascoltò le lamentele dei lavoratori.
Adesso la realizzazione del nostro sogno non era forse inevitabile? Che altro ci sarebbe stato se non un socialismo dal volto umano? La caduta del muro fu un fatto poco più che accidentale. Naturalmente il muro doveva sparire, tutti i muri dovevano sparire: Visafrei bis Shanghai!, «senza visto fino a Shanghai!».
Fino a quel momento le elezioni non erano state elezioni, un confine era stato più di un confine, un viaggio a Budapest non era necessariamente un viaggio a Budapest, un partito non era semplicemente un partito, ecc. La realizzazione del sogno significa anche che la nostra quotidianità sarebbe diventata più reale. Le cose avrebbero meritato il nome che portavano. Un ponte sarebbe tornato a essere un ponte. E, per la prima volta, adesso vedevo persone di cui potevo credere che fossero per la Ddr reale. Quando il nostro corteo a metà novembre raggiunse la piazza del mercato di Altenburg, lì c’erano già cento o duecento donne – erano quasi solo donne – che agitavano bandiere rosse e della Ddr. Molte avevano le lacrime agli occhi. Su di loro si abbatté un concerto di fischi.
Il 6 dicembre occupammo il palazzo locale della Stasi, l’ultimo bastione che ostacolava il nostro sogno. Non riuscivo a distinguere gli uni dagli altri i collaboratori della polizia giudiziaria, della procura di Stato e della Stasi che si erano raccolti lì dentro, perché si davano del tu e quelli che rispondevano alle nostre domande non erano quelli cui noi avevamo voluto porle. Lo stesso giorno riuscimmo a mettere in piedi una dimostrazione con volantini ciclostilati stampati in tutta fretta. Quella sera udii per la prima volta di persona le grida Deutschland einig Vaterland, «Germana patria unita», un verso dell’inno nazionale della Ddr. Ero senza parole. Che diamine significava? Chi erano e da dove venivano questi confusionari?
Un po’ alla volta aziende, scuole, università, teatri eccetera cercarono di eleggere ai loro vertici coloro di cui si fidava la maggioranza. Era questa la vera rivoluzione, questa era democrazia. Che il denaro e le vecchie prebende non avessero nessuna importanza in tutto ciò, era scontato.
Assieme ad alcuni amici all’inizio del 1990 fondai un giornale che usciva settimanalmente, composizione a piombo, formato da vecchio foglio aziendale, 260×325 mm; erano molte, tutt’a un tratto, le potenzialità inutilizzate. Volevamo accompagnare e promuovere la democratizzazione del Paese. A metà febbraio uscì il primo numero. Non avevamo bisogno di un capitale di partenza, poiché l’intera tiratura fu venduta molto prima della scadenza della fattura di stampa. Agli annunci inizialmente volemmo rinunciare, lo spazio ci occorreva per cose più importanti.
La sera del 18 marzo, il giorno delle elezioni della Camera del Popolo, ridemmo delle prime proiezioni. Gli occidentali non capivano proprio niente! A poco a poco tuttavia s’insinuò in noi la verità. Il 2,9 per cento al Neues Forum nel risultato definitivo fu uno shock. Adesso potevamo anche chiudere il giornale. Ma in qualche modo dovevamo pur guadagnare dei soldi e tutti ci eravamo già licenziati due mesi prima. L’aspetto più penoso era che adesso erano proprio i “flauti dolci” dei partiti di blocco a festeggiare la vittoria9. Non erano forse stati i peggiori leccapiedi? Il nuovo segretario Lothar de Maizière non aveva forse parlato, ancora in febbraio, di un «socialismo più caloroso»?
Presto non seppi più cosa scrivere. La maggioranza aveva deciso. La logica dei numeri era diversa da quella delle parole. E cosa potevano le parole contro i numeri? Sempre e ovunque era esclusivamente una questione di numeri! E di soldi. Nella primavera del 1990 riflettei per la prima volta sul denaro. Era divertente guadagnare soldi come imprenditore, e per i miei parametri era una quantità di denaro inverosimile. Per un altro verso, avevo paura di indebitarmi fino alla fine dei miei giorni e dover spedire venti dipendenti all’ufficio di collocamento.
Con l’unione monetaria10 del 1° luglio 1990 fondammo un giornale di annunci. Invece di battermi per la democrazia, presto ebbi a che fare soltanto con mobilifici di nuova apertura e concessionarie di automobili. Annunci a cadenza settimanale, venti per cento di sconto, per lei un altro dieci per cento, buona collocazione, anzi ottima. Dovevo cercare di soppiantare i cosiddetti concorrenti, che avevano assunto la nostra segretaria e possedevano la nostra banca dati clienti, della quale invece noi sentivamo la mancanza. Li odiavo, tutti quei “concorrenti”, perché puntavano a minare la nostra esistenza professionale, anzi la nostra esistenza tout court – come noi la loro.
Fino a poco prima avevamo manifestato a voci spiegate: «Democrazia, ora o mai!», «Libere elezioni!», «Libertà di movimento!», «Stasi in miniera!», «SÌ all’educazione popolare, NO a educazione militare, alzabandiera a Margot Honecker!»11. Nell’autunno 1989 avevo fatto esperienza di come rivendicazione e prassi potessero combinarsi. Si trattava, come ho detto, del volto umano della società, quindi della dignità di noi tutti, di un mondo migliore. Ma che aspetto aveva il mio volto, adesso? Deformato dalla rabbia? In preda al panico? Perplesso? Braccato? Quel che facevo, giorno dopo giorno, non era forse contrario a ciò che ritenevo buono e giusto? Mi ero mai contorto davanti a un funzionario come facevo adesso davanti al proprietario del più grande mobilificio della regione? Che all’improvviso era diventato il re della regione, nella quale, come praticamente ovunque nell’Est, le grandi aziende avevano dichiarato fallimento, perché, come c’era da aspettarsi, non erano in grado di pagare salari e stipendi in nuovi marchi.
La cosa più strana di tutta la faccenda, però, è che allora non avrei potuto dirlo come lo sto descrivendo adesso. La narrazione della “svolta” andò diversamente. Si parlò di autoliberazione, di democrazia anziché dittatura, libertà anziché muro, economia di mercato anziché pianificata eccetera. E non era forse vero? Chi sollevava un qualsiasi dubbio, o era un inguaribile passatista e/o era privo di senso della realtà. Uno sguardo verso est, nei Paesi fratelli di un tempo, era pur sufficiente a vedere quanto indicibilmente bene ce la passassimo noi tedeschi orientali. E il mondo intero non voleva e non vuole forse vivere come noi? C’era o c’è ancora una qualche alternativa apprezzabile alla nostra way of life? E non aveva forse ragione Francis Fukyama con la sua ristampa de La fine della storia?
L’importanza del biennio 1989-90 risiede per un verso nel mutamento dei rapporti di potere nel mondo. La miglior sintesi di questo processo è nella frase che Helmut Kohl12, stando a quanto riferito dall’allora sottosegretario alla Difesa Willy Wimmer, disse dopo aver viaggiato negli Stati Uniti: «Loro hanno vinto la terza guerra mondiale!». Vale a dire che i vertici Usa coltivavano un’immagine di sé come vincitori assoluti. Per altro verso, e questo mi appare ancor più gravido di conseguenze del mutamento di potere, vi sono le condizioni che in seguito al 1989 sono sorte come qualcosa di “normale” e che forgiano il nostro presente. “Normale” è qualcosa su cui più nessuno riflette, che guida il nostro pensare, sentire e agire, e questo avviene in modo tanto più inesorabile quanto più inconsapevolmente e privi di distacco ci abbandoniamo ad esso.
I rapporti di forza nel mondo sono mutati dal 1989-90. Le “normalità” di allora, tuttavia, si sono globalizzate e in tal modo consolidate. Esse condizionano e cambiano il mondo ininterrottamente, sono più efficaci della fine del conflitto fra i due blocchi.
Una di queste “normalità” è un economicismo pervasivo, il cui mezzo e il cui fine possono essere individuati nella privatizzazione e nel profitto privato. Da ciò dipende tutto il resto, che ne è guidato e subordinato. Pensare qualcosa che non “renda”, che non serva alla crescita, che si sottragga al principio di McKinsey e alle quote, è un’opzione risicata e marginale. E tutto ciò viene interpretato come fine delle ideologie, come avvento di una politica conforme al mercato e orientata ai vincoli esistenti. Le mire di profitto private sono considerate normali, si ritiene cioè che abbiano un fondamento nella natura umana.
Un’altra “normalità”, connessa alla prima, è la coscienza di aver vinto. L’Occidente è il vincitore! Noi siamo i buoni!
*
Da parecchi anni torno sempre a raccontare la mia storia, ma ogni volta mi viene un po’ diversa.
In passato, ad esempio, non avevo mai menzionato l’episodio con il mio insegnante di educazione civica – o lo raccontavo alla stregua di una barzelletta. Ma più mi rendo conto di cosa significhi vivere in un mondo che non ha nemmeno un piede infilato nella porta del capitalismo, più quell’episodio mi sembra interessante.
Ripensando a quanto io stesso mi sia lasciato abbindolare da questo economicismo, la cosa mi diverte o mi spaventa, a seconda; credevo di essere passato da un mondo costruito sulle parole a uno fatto ormai soltanto di numeri. E su questa base avevo tentato di descrivere l’impressione che ormai nella avrebbe dovuto legarmi al mondo a parte il denaro. Tutto il resto era subordinato al denaro (o alla crescita o al Pil o al valore azionario), poiché sembrava che con il denaro si potesse fare tutto, nel bene e nel male.
Come giovane imprenditore nel 1990 ricevetti benevole pacche sulle spalle: anche tu ce la puoi fare se ti ci metti d’impegno e ti rimbocchi le maniche. Ma fare cosa? Arrivare in alto, ai soldi e al riconoscimento! Mi sentivo rigettato nella felicità privata, mentre si sarebbe dovuto trattare della felicità di tutti. L’idea, se non addirittura la pretesa, che la mia felicità fosse legata alla felicità altrui, che non potessero darsi indipendentemente l’una dall’altra, era contraddetta dalla mia pratica quotidiana. La mia felicità era l’infelicità degli altri. E la felicità degli altri era la nostra infelicità. Quella nostra lotta, tuttavia, che cos’era? La felicità dei mobilifici e delle concessionarie? E non approfittavamo forse noi stessi della concorrenza fra le tipografie? Non volevamo scegliere anche noi la migliore di tutte? Insomma, questo sistema non è forse il migliore per tutti?
Assolutamente no! Basta anche solo la constatazione per cui il sessanta per cento dei danni ambientali provocati dalla popolazione della Svizzera si trova al di fuori dei confini di quel Paese. Per la Germania non sarà tanto diverso.
Se compriamo un computer o un cellulare, di solito conserviamo la confezione oppure smaltiamo il polistirolo nel bidone giallo e il cartone in quello blu, e prima o poi il computer finisce in quello arancione. Ma ciò che è stato necessario per ottenere le varie materie prime per questi oggetti, ciò che è occorso per raccoglierle, assemblarle ecc., tutto questo si sottrae al nostro sguardo, come anche il percorso degli stessi oggetti una volta richiuso il coperchio del bidone.
Questo significa: sì, abbiamo paesaggi floridi perché abbiamo chiuso e rottamato o venduto i nostri vecchi impianti industriali più inquinanti. Non siamo più noi a dover inghiottire lo sporco, ce lo possiamo permettere, adesso lo inghiottono altri. Per questo la nostra aspettativa di vita è anche più elevata, se poi si è benestanti lo è ancora un po’ di più. […]
A volte è sufficiente prendere coscienza delle condizioni in cui vengono prodotti i nostri alimenti. Da lì si può proseguire considerando le condizioni di produzione del cotone della mia camicia e quelle in cui viene cucito il tessuto – per non parlare delle materie prime e dei prodotti di cui necessita la nostra way of life giorno dopo giorno, ora dopo ora. Il bel mondo della nostra merce è sorretto nel profondo da un lavoro massacrante e non troppo diverso dal lavoro schiavile. Basta grattare un poco la superficie – a volte di più, a volte di meno – ed ecco che inizia il viaggio all’inferno.
Se oggi dovessi nominare una delle nuove contraddizioni fondamentali del capitalismo, senza considerare superate quelle esistite finora, forse la definirei il fenomeno dell’89: credersi i vincitori indiscussi della Storia, benché in tutto il pianeta si producano condizioni insostenibili.
Le pratiche di una società che assume come ultima ratio il profitto privato e la sua moltiplicazione continua ed esponenziale non sono forse contrarie al bene comune e alla sopravvivenza del genere umano?
È la ricchezza di una minoranza sempre più invisibile – se paragonata alla popolazione terrestre – a guidare le sorti del mondo. Nel 2010 il patrimonio finanziario globale ammontava a 210mila miliardi di dollari americani, a fronte di un prodotto sociale globale di 59mila miliardi. La pretesa, da parte dei detentori di questi patrimoni, di farne fruttare gli interessi (e chi mai si accontenta di un uno o due per cento?) conduce alla riduzione dei salari, alle privatizzazioni dei beni pubblici, allo sfruttamento smisurato della natura e all’indebitamento di famiglie, imprese, Stati.
A volte, mi sembra che il senso di eserciti e tribunali risieda soprattutto nel preservare l’accettazione di questi numeri “magici”, ai quali ormai corrispondono a malapena dei beni materiali.
Il senso di quei numeri è unicamente nella loro ulteriore e rapida moltiplicazione. Ciò non sarebbe poi così allarmante se questo denaro virtuale, con il suo imperativo di moltiplicarsi, non dettasse al mondo reale quel che deve fare e non fare. Più la ricchezza privata cresce, più è distruttivo il suo effetto sulla collettività e sulla coesione sociale degli Stati. La democrazia diviene il paravento di un’oligarchia di fatto. […]
***
Prossimità e distanza
Estratto da un dialogo pubblico (Libera Università di Bolzano, 8 aprile 2014)
Stefano Zangrando – Vorrei tentare di combinare l’aspetto letterario della bellezza con l’aspetto umano. Per farlo citerò la prefazione che un critico – di parte, bisogna riconoscerlo – scrisse nel 1981 presentando ai lettori italiani un libro di Rolf Schneider, il cui titolo in traduzione è Un amico e un sacco a pelo.
Era un libro per ragazzi, e questo critico militante presentava il libro ai giovani lettori in questa maniera:
Questo libro viene dalla Repubblica Democratica Tedesca, governata dai comunisti, e ci parla a lungo della Polonia, anch’essa governata dai comunisti. Non si ha l’impressione che l’autore abbia voluto descrivere questi Paesi abbellendoli, facendo della agiografia, non sono certo dei paradisi terrestri. Ma è forse proprio questa obiettività dello sguardo dello scrittore che fa trasparire, forse a sua insaputa, alcuni tratti di un sociale diverso rispetto ai nostri Paesi dell’Occidente. Volendo esprimere ciò che si ricava da Un amico e un sacco a pelo, direi che quanto emerge in primo piano è una minor tensione, una minor competitività. Ciò determina, a sua volta, a livello individuale, una palese gentilezza, un rispetto reciproco, una assai meno esplicita aggressività in tutti i rapporti interpersonali.
Questo ovviamente non significa che nella Ddr fossero tutti gentili e che l’Occidente fosse popolato unicamente da bruti, ma ci parla di una tensione utopica, probabilmente comune a molti autori di quel mondo, che si orientava anche al quotidiano, al comportamento umano, che tendeva insomma a ciò che questo critico chiama “gentilezza”.
Ora, questo brano mi ha colpito perché l’imbarbarimento dei costumi, delle relazioni e dei comportamenti è qualcosa che abbiamo vissuto negli ultimi decenni, in Italia ovviamente, ma non solo in Italia. E allora mi chiedo, ti chiedo se, anche attraverso la scrittura, la letteratura, la poesia, sia possibile trasmettere questo, trasmettere cioè un orizzonte umano diverso, più cooperativo, più gentile appunto; un orizzonte umano che mi pare comprenda, nella pratica quotidiana, anche quella bellezza che la letteratura restituisce poi in altri modi.
Ingo Schulze – È un’osservazione molto bella. Se uno viene dall’Est non osa neppure citarle, simili cose. C’era bisogno – io almeno ho avuto questo bisogno – di fare un po’ di esperienza dell’Ovest per poter vedere esattamente che cosa c’era stato nella Ddr. E, naturalmente, bisogna dire che sotto l’aspetto politico e ideologico non c’era davvero libertà, l’Ovest in questo senso era molto più progredito, e se non fosse caduto il Muro oggi non sarei neppure seduto qui. Ma è naturalmente interessante capire quali altre libertà vi fossero invece nell’Est, delle quali oggi non si parla ormai quasi più.
Io, per esempio, solo nella primavera del 1990 ho riflettuto per la prima volta sul denaro. Non che nella Ddr uno non avrebbe gradito guadagnare più soldi, ma il denaro non rivestiva alcun ruolo, ad esempio nella scelta della professione. Io ho studiato lingue antiche, latino e greco, e mio padre, che era nell’Ovest, mi disse sprezzante che la mia era Brotlose Kunst, un’attività che non dà da vivere. Non compresi affatto cosa intendesse, o perché non avrebbe dovuto darmi da vivere: l’università era obbligata a procurare un lavoro ai suoi laureati. A prescindere da cosa avrei ricevuto, dunque, sapevo che non avrei guadagnato meno di altri. E anche il fatto di avere una bella abitazione non dipendeva dal denaro. Non voglio idealizzare nulla, c’erano semplicemente degli spazi di libertà di cui ci si è resi conto solo nel momento in cui non c’erano più.
Quando oggi racconto agli studenti di questo obbligo che aveva l’università di trovarci un lavoro, pensano che sia pazzo. Semmai eravamo noi all’epoca a percepire questo come una minaccia, avremmo piuttosto voluto trovarci noi un lavoro prima che fosse l’università a procurarcelo, ma era comunque chiaro che l’avremmo trovato. Di lavoro ce n’era in abbondanza, la richiesta superava la disponibilità, il che, al limite, era spiacevole per chi di lavoratori aveva bisogno, ma per chi lavorava era ovviamente un’incredibile occasione d’indipendenza, poiché in questo senso si era ben poco ricattabili.
Si tratta però di cose che si possono descrivere davvero bene, o in modo adeguato, credo anche proprio attraverso la letteratura, perché con un’immagine o una storia lo si può fare in modo molto più esaustivo di quanto non si riesca enumerando semplicemente aspetti e dovendo nominare subito l’opposto, l’altra faccia della medaglia rispetto a questi fenomeni positivi. Ma c’era comunque spazio di libertà, perlomeno se consideriamo gli anni Ottanta, in sostanza si poteva fare molto di ciò che si voleva.
Mio cugino, ad esempio, era musicista e a mezzogiorno per due ore consegnava il pranzo a domicilio agli anziani, pagandosi così l’affitto e le cose ordinarie, e poi si dedicava alla musica. Dopo l’89 o si aveva un lavoro, guadagnando bene ma senza avere più tempo per la musica, o non lo si aveva e allora non ci si poteva neppure pagare l’affitto.
Del passaggio del 1989-90 mi interessa molto questo mutamento di dipendenze, e mi interessa dalla prospettiva odierna, perché credo che la letteratura debba mettere in discussione queste cose che consideriamo normali. Sono cioè cose che normali non erano, ma che lo sono diventate sotircamente, e per questo si tratta di distanziarsi un po’ da quello che siamo; l’Occidente ha bisogno di trovare questa distanza da sé stesso, senza porsi come il migliore a priori. Proprio come in passato il blocco orientale, il socialismo/comunismo, si considerava la realizzazione di tutti i desideri e non si interrogava neppure sui mezzi necessari a raggiungere un qualche obiettivo.
Ingo Schulze
(Brani tratti dal volume: Ingo Schulze, La felicità dei mobilifici, a cura di Stefano Zangrando, Bologna, Marietti Editore, 2021, pp. 17-36, 44-49).
* Ingo Schulze (n. 1962) è uno dei maggiori scrittori tedeschi. Tra i suoi libri tradotti in italiano segnaliamo: Trentatré attimi di felicità, Semplici storie, Vite nuove, Arance e angeli, La rettitudine degli assassini.
Note
1 Deutsche Demokratische Republik (Repubblica Democratica Tedesca), Stato socialista esistito dal 1949 al 1990, anno in cui si è verificata la riunificazione con l’annessione dei territori dell’est come nuovi Länder nell’ambito della Repubblica Federale di Germania [ndr].
2 Sozialistische Einheitspartei Deutschlands (Partito Socialista Unificato di Germania), sorto nel 1946 come risultato della fusione del Partito Socialdemocratico di Germania e del Partito Comunista di Germania attivi nei territori sottoposti all’occupazione sovietica [ndr].
3 Gli altri partiti riuniti con la Sed nel Fronte Nazionale: l’Unione Cristiano-Democratica (Cdu), il Partito Democratico Rurale di Germania (Dbd), il Partito Liberal-Democratico di Germania (Ldpd) e il Partito Nazional-Democratico di Germania (Ndpd) [ndr].
4 Stasi (da Staatssichernheits, Sicurezza Statale) era il nome con cui era conosciuta la polizia segreta tedesco-orientale, che faceva capo al Ministero per la Sicurezza Statale [ndr].
5 Nationale Volksarmee (Esercito Popolare Nazionale) [ndr].
6 Sindacato autonomo anticomunista fondato in Polonia nel settembre 1980, che ebbe un ruolo di primo piano nel determinare la crisi politica dell’ordinamento socialista del Paese fino alla sua caduta [ndr].
7 Christlich Demokratische Union Deutschlands (Unione Cristiano-Democratica di Germania) [ndr].
8 Il Neues Forum nacque come movimento di cittadini ed esponenti del mondo della cultura della Repubblica Democratica Tedesca in opposizione al ruolo del Partito socialista Unificato di Germania al potere [ndr].
9 Nelle elezioni del 18 marzo 1990 alla coalizione di centro-destra guidata dalla Cdu andò il 48, 04% dei voti, mentre il Partito Socialdemocratico della RDT ottenne il 21,88% e il Partito del Socialismo Democratico (erede della Sed) il 16,4% [ndr].
10 Il Trattato sull’unione monetaria, tra i due Stati tedeschi prevedeva un tasso di conversione tra marco dell’est e marco dell’ovest di 1 a 1 per le partite correnti e di 2 marchi dell’est per un 1 marco dell’ovest per patrimoni e debiti [ndr].
11 Margot Feist (1927-2016) era la moglie del presidente della RDT Erich Honecker; fu ministro dell’Istruzione Popolare della RDT dal 1963 al 1989 [ndr].
12 Helmuth Kohl (1930-2017) fu cancelliere della Germania dal 1982 al 1998 [ndr].
Inserito il 14/1/2023.
Memorie della transizione
Nessuna nostalgia per l’Unione Sovietica, eppure…
«Nella Lituania sovietica la gente viveva accomunata da un segreto»
di Marius Ivaškevičius*
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Marius Ivaškevičius – Quando avranno pescato gli amur bianchi
[…] È strano, ma il passato regime ha in certo qual modo influito perfino sulle caratteristiche nazionali dei lituani. Le due feste di maggio (quella in onore dei lavoratori e quella della vittoria nella seconda guerra mondiale), oltre ai cortei di novembre per l’anniversario della Rivoluzione d’ottobre, accomunavano la gente in una specie di generale e immotivata allegrezza, visto che per i lituani le feste in sé non significavano quasi niente oppure suscitavano riflessioni di tutt’altro genere.
Ciononostante, il forzato ottimismo [che veniva] imposto […] riusciva ugualmente a creare un certo piacere. Mai e poi mai mi sarebbe venuto in mente che i lituani fossero un popolo triste. Adesso le feste sono molto più numerose e non sono neanche obbligatorie, ma traboccano di sconfinata tristezza. Certune portano addirittura il nome di “Giorni di lutto”, quando si legano fasce nere sulle bandiere nazionali. Le vere feste non dovrebbero comportare nastri funebri: da noi invece prevale un’atmosfera di tristezza. […] Perfino il Giorno della madre, subentrato alla Giornata internazionale della donna di pretta marca sovietica, è più la giornata delle madri morte che di quelle ancora tra noi. Probabilmente solo il tempo potrà dire se la tristezza delle nostre feste nazionali sia una reazione all’ottimismo sovietico o se siamo così di natura.
La stabilità: ecco qualcosa di cui ci capita di aver nostalgia. Molta gente sente di aver perso il treno che essa stessa ha messo sui binari. Bancarotta e inflazione – cose a cui l’Occidente ha ormai fatto il callo – da noi si sono manifestate in forma selvaggia, cogliendo di sorpresa una popolazione ingenua e impreparata. Quella che una volta era la quotidianità è diventata un lusso, e viceversa: oggi l’automobile si compra con due stipendi, senza liste d’attesa decennali. Persone che prima erano nude, ma sazie, si ritrovano improvvisamente vestite ma affamate. Il diritto al lavoro è stato sostituito dalla possibilità di essere disoccupati, l’ingresso nell’ex “sconfinata” patria è notevolmente più difficile che visitare Parigi, e via di seguito. Il dover riflettere su ogni passo da compiere – dopo la perdita del sistema protettivo di una volta – ha fatto perdere l’equilibrio a più d’uno. L’acqua stagnante si è trasformata in un torrente impetuoso dove non tutti possono tuffarsi.
In passato noi lituani, lettoni ed estoni eravamo cittadini di prima categoria nell’immenso paese dei soviet, di cui rappresentavamo sotto ogni rispetto la punta più occidentale. Oggi siamo diventati l’Est dell’Europa, un continente al quale dobbiamo continuamente spiegare chi siamo e da dove veniamo. […]
La Lituania sovietica era un paese in cui la gente viveva accomunata da un segreto. Ognuno di noi sapeva in cuor suo di poter vivere meglio ed essere più laborioso di così. Si sarebbe detto che i lituani risparmiassero le forze in attesa del momento opportuno e dessero di sé solo lo stretto necessario richiesto. Era questo il segreto che li univa. Ma quando finalmente il segreto fu svelato e risultò che le riserve non erano affatto grandi come tutti credevano, subentrò un generale senso di delusione. Prendiamo per esempio il campo artistico e, in particolare, quello letterario. Lo scrivere “tra le righe” era considerato il punto di forza della nostra letteratura, anche se ignoro fino a che punto costituissimo un’eccezione nei paesi sovietici. Comunque eravamo tutti convinti che, una volta libero, lo scrittore lituano avrebbe avuto molto da dire. Invece non è stato così. La letteratura “alta” è in crisi, perché coloro che scrivevano “tra le righe” non hanno imparato a scrivere diversamente, e nel frattempo non sono emersi nuovi scrittori.
La crisi non riguarda solo l’arte, ma anche i vecchi autori che hanno perso i privilegi e la considerazione di una volta. Oggi lo scrittore che pubblica un libro non solo non riceve casa e automobile, ma è costretto ad accontentarsi di una tiratura di poche migliaia di copia e a ricordare con le lacrime agli occhi le centinaia di migliaia di esemplari di una volta. Il settimanale “Letteratura ed Arte”, che oggi sopravvive a stento, era uno dei più letti. Perfino i miei genitori, studenti in medicina, si facevano un punto d’onore del comprarlo tutti i sabati.
Non baratterei una sola riga di quel che scrivo con le centinaia di metri quadri spettanti una volta agli scrittori in auge: comunque devo ammettere che non ho mai goduto dell’interesse di cui erano oggetto gli artisti dell’era sovietica. Forse anch’io diventerei un nostalgico se, cinquantenne, caduto in miseria e incapace di adattarmi alla nuova vita, errassi per le strade di Vilnius riandando con la memoria alla mia situazione di vent’anni fa.
Il fatto che in un paese di appena tre milioni di abitanti la narrativa raggiungesse tirature di varie centinaia di migliaia di copie non era un fenomeno normale. Oggi si comincia a distinguere tra coloro che compravano quei libri per leggerli e coloro che li compravano per puro snobismo, tanto per allinearli sullo scaffale. Anche la diffusione del settimanale letterario non dimostra con assoluta certezza un autentico interesse per la letteratura: la ragione vera è che quello era l’unico giornale in cui di tanto in tanto un pensiero più coraggioso riuscisse a sfuggire alle maglie della censura. Comunque, non c’è dubbio che prima l’interesse per l’arte era molto maggiore. La mancanza di una letteratura d’evasione costringeva la gente – compresi gli odierni fanatici delle soap opera e dei romanzi rosa – a rivolgersi verso opere più impegnate, per quanto intrise di ideologia. Era una violenza culturale, e in quanto tale inaccettabile: ma tra tutte le violenze possibili era certo la meno pericolosa.
Benché l’impero fosse, o dovesse essere, governato dal proletariato, la cultura era una questione di prestigio. Sembra un paradosso, ma dopo l’eliminazione di quella che veniva considerata il nemico di classe numero uno, ossia l’intellighenzia lituana tra le due guerre (una parte “partì” per la Siberia, una parte si rifugiò all’Ovest e quella rimasta in Lituania venne ridotta alla ragione), le autorità sovietiche allevarono una nuova generazione di intellettuali favorevoli al regime, che poi si rivelarono gli affossatori dei propri mecenati. A costo di farmi dei nemici, devo dire che tale rinnovamento ebbe un risvolto positivo. Non so che cosa sarebbe oggi la Lituania senza la bufera della seconda guerra mondiale e del periodo postbellico. Ammesso che la schiera di circa un milione di emigrati negli Usa e nell’Europa occidentale sia l’erede dell’intellighenzia di un tempo e ipotizzando di poter trovare nell’odierna Lituania, senza la parentesi sovietica, la loro stessa mentalità e capacità creativa, allora devo dire che la vita dietro i fili spinati ha formato in noi qualità migliori di quelle precocemente invecchiate nella libera (per quanto riguarda i diritti dell’uomo) emigrazione. […]
Marius Ivaškevičius
(Tratto da: Marius Ivaškevičius. Quando avranno pescato gli amur bianchi, in AA.VV., Nostalgia. Saggi sul rimpianto del comunismo, Milano, Paravia Bruno Mondadori Editori, 2003, pp. 119-122).
* Marius Ivaškevičius (n. 1973) è uno scrittore, drammaturgo e regista lituano.
Inserito il 8/1/2023.
Cina, una storia di conflitti e contraddizioni
di 闯 Chuǎng*
Presentiamo qui di seguito la Prefazione all’edizione italiana e l’Introduzione al volume Il sorgo e l’acciaio. Il regime sviluppista socialista e la costruzione della Cina contemporanea, del collettivo 闯 Chuăng (Torino, Porfido Edizioni, 2022): si tratta di una ricostruzione storica ed economica della Repubblica Popolare Cinese che tenta di spiegare anche l’attuale percorso intrapreso da quel grande paese, di analizzarne le contraddizioni e i conflitti di classe.
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Il sorgo e l’acciaio
Prefazione all’edizione italiana
闯 Chuǎng: L’immagine di un cavallo che sfonda un cancello.
Significato: Liberarsi; attaccare, caricare; sfondare, forzare l’entrata
o l’uscita; agire con impeto. 闯关 (chuǎngguān): fare un blocco. 闯
座 (chuǎngzuò): partecipare a un banchetto senza essere invitati1
La presente edizione introduce il pubblico italiano al lavoro del collettivo comunista internazionalista Chuǎng, gruppo anonimo i cui membri si distribuiscono attualmente fra la Cina e gli Stati Uniti. Da alcuni anni le pubblicazioni sull’omonima rivista e la serie di articoli, traduzioni ed interviste ospitate sul blog chuangcn.org, rappresentano una delle fonti di informazione ed analisi più attente e pertinenti sulle dinamiche e le traiettorie delle trasformazioni sociali e del conflitto di classe nella Cina contemporanea.
Originariamente pubblicato sul primo numero della rivista, Il sorgo e l’acciaio rappresenta la prima parte di un progetto in corso di pubblicazione sulla storia economica della Cina: una retrospettiva che, con taglio dichiaratamente materialista, punta “ad indagare il passato per comprendere il momento presente”, smarcandosi tanto da una letteratura a sinistra sostanzialmente monopolizzata negli anni dalle varie correnti ideologiche “maoiste”, quanto da un certo specialismo da sinologia accademica. Come sottolineato dagli autori in una recente intervista: “ripercorriamo lo sviluppo materiale della società cinese per evitare di rimanere invischiati nelle battaglie ideologiche del passato. Qua non si tratta di difendere una tradizione di sinistra contro un'altra. Anzi, a differenza della maggior parte delle ricostruzioni, la nostra serie storica de-enfatizza intenzionalmente i dibattiti ideologici e il ruolo dei leader, compresi quelli di Mao e Deng. Non siamo qui per riportare in vita i morti o per far rivivere le glorie del passato. Anche nel nostro lavoro di ricostruzione storica, il focus resta totalmente orientato al presente. Ripercorriamo gli sviluppi materiali della società cinese per tracciare le possibili aperture politiche del nostro tempo”2.
Il sorgo e l’acciaio si concentra sul periodo che va dalla fondazione della Repubblica Popolare fino agli anni della Rivoluzione culturale. A partire dalla ricostruzione del contesto economico e sociale in cui matura il progetto rivoluzionario cinese (qui costantemente inteso nella sua dimensione collettiva di fenomeno di massa), Chuǎng ci guida nei meandri del processo di costruzione di quello che viene definito “regime sviluppista socialista”, vero assemblaggio in itinere di pratiche, sistemi produttivi, metodi di inquadramento e disciplinamento della forza lavoro ed estrazione del surplus agricolo, definito costantemente dal rapporto dialettico fra Partito Comunista Cinese e base sociale della rivoluzione. Un progetto dai connotati sperimentali, quindi, scandito ad ogni passaggio da lotte, resistenze e spinte dal basso, e attraverso il quale, per la prima volta, prende forma in maniera compiuta una vera e propria economia nazionale cinese. E’ fra i meandri di questo processo che vediamo emergere tutti gli elementi che andranno a definire i contorni dell'attuale conflitto sociale in Cina: l’irrisolto divario fra città e campagna, la sovrapposizione fra strutture partitiche e apparati dello Stato, la graduale formazione di una classe dirigente di “ingegneri rossi” da un lato, e di un semi-proletariato a cavallo fra mondo contadino e sfruttamento urbano, dall’altro. “Uno dei più imponenti slanci verso lo sviluppo nella storia dell’umanità”: un sistema, come ci illustra Chuǎng, crollato sotto il peso delle proprie contraddizioni e del contesto storico ed internazionale in cui viene a maturare, ma che nondimeno sedimenta gli elementi strutturali che, a partire dalla successiva fase di “riforma ed apertura”, porteranno alla piena integrazione della Cina nella “comunità materiale del capitale”.
“[…] L’unico modo per comprendere la Cina contemporanea e le sue contraddizioni è indagare la creazione della “Cina” in quanto tale”, scrive Chuǎng. Approcciarsi ad una comprensione della Cina contemporanea appare oggi compito non più procrastinabile. La rapida mutazione dello scenario internazionale, le linee di faglia che vanno ad approfondirsi, i tamburi di guerra totale sempre più incalzanti che fanno da sfondo a questa fase di transizione del capitalismo globalizzato, rendono ormai imprescindibile dotarsi di una cassetta degli attrezzi analitica e teorica “di parte”, che provi a sottrarre la “questione” della Cina tanto al tifo per un fantomatico “socialismo con caratteristiche cinesi”, che assumerebbe sempre più i tratti di faro alternativo per una parte consistente di periferia del mondo, quanto, soprattutto, alle sirene di una sinofobia occidentale sempre meno strisciante, substrato ideologico e narrativo dello scontro inter-imperialistico a venire.
La Cina degli ultimi decenni non ha rappresentato solo l’ancora di salvezza per un’economia globale scossa da una crisi ancora irrisolta3, ma ha costituito anche il teatro di una vivace, quanto in parte misconosciuta, conflittualità sociale e di classe, protagonista una giovane e massiva classe operaia cinese. Le sue lotte ricalcano in parte le caratteristiche e i limiti del ciclo di conflittualità globale dell’ultimo decennio, anche se, considerata la posizione strutturale del Paese, hanno, e non potranno che avere anche in futuro, un’eco e una portata mondiale.
Dissipare quanto possibile il “miraggio” che la Cina ancora oggi rappresenta: il lavoro di analisi e di collegamento portato avanti dai compagn* di Chuǎng costituisce un prezioso ponte in questa direzione.
Buona lettura.
* Il collettivo 闯 Chuǎng è costituito da comunisti che vivono tra Cina e Stati Uniti e che preferiscono restare nell’anonimato.
Introduzione
Transizioni
Alla fine del XVI secolo, uno dei primi resoconti in forma estesa sulla vita in “Cina” venne pubblicato in Europa per mano di un mercenario portoghese di nome Galeote Pereira, combattente contro i Birmani per conto del Regno di Ayutthaya nella prima guerra moderna dell'Asia orientale. Divenuto in seguito pirata, saccheggiò le province costiere che si affacciavano sul Mar Cinese Meridionale, all'alba di quella che sarebbe diventata una secolare ondata di pirateria favorita dalla crescita del mercato globale. La dinastia Ming rispose con la sua Campagna di Sterminio della Pirateria, e Pereira fu catturato nel Fujian ed esiliato nell'interno, riuscendo a fuggire solo anni dopo in Europa grazie alla corruzione e all'aiuto di alcuni mercanti portoghesi a Guangzhou. Il resoconto di tale esperienza, edito e pubblicato con l'aiuto dei Gesuiti, fu uno dei rari racconti di prima mano sulla "Cina" disponibili dai tempi di Marco Polo. Ma se Marco Polo era giunto da un'Europa arretrata e provinciale per osservare dall’interno la civiltà allora più avanzata del mondo, incarnata della dinastia Yuan (mongola), Pereira, d'altro canto, arrivava da un'Europa ormai trasformata approdando in una "Cina" altrettanto mutata, entrambe alle porte di un grande caos. Si trattava di una congiuntura agli albori del mondo capitalista caratterizzata dalla totale incertezza. Il dado era tratto, ma il quadro non appariva ancora stabilizzato. Con la più grande marina, la tecnologia più avanzata ed una produttività agricola senza precedenti, la dinastia Ming rimaneva la struttura politica più estesa e potente del mondo. Eguagliava e superava l’Europa ad ogni livello, e la questione della “fallita” transizione della Cina al capitalismo (nota come “Problema di Needham”) sarebbe diventata una sorta di enigma iniziatico per i futuri studiosi della regione. L’arrivo di Pereira si situava nel mezzo del declino Ming, causato in parte dall’esplosione dell’industria dell’argento portoghese e spagnola e dalle nuove reti commerciali, di cui lo stesso Pereira era un prodotto. Ma la caratteristica più sorprendente del rapporto di Pereira non era tanto la storia in chiaroscuro del suo autore né le descrizioni del ricercato quanto efficiente sistema giudiziario Ming. Piuttosto, il fatto curioso che, tra tutti i “cinesi” con cui egli fosse entrato in contatto, nessuno avesse mai sentito parlare di “Cina”, né di nessuno dei suoi presunti corrispettivi locali (varianti del termine Zhongguo – il Paese o i paesi “centrali” o “di mezzo”). Pereira stesso viaggiò esclusivamente in quella che oggi è la Cina meridionale, attraversando le province di Fujian, Guangdong, Guangxi e Guizhou. Queste regioni ospitavano una miriade di “dialetti” locali, la maggior parte dei quali tra loro incomunicabili (tanto quanto le diverse “lingue” europee), sovente espressione di legami locali sviluppatisi lungo le reti commerciali che collegavano le regioni costiere al Sud-Est asiatico. Queste province, fra l’altro, non erano state colonizzate esclusivamente dall’etnia “Han” – categoria la cui esistenza stessa è stata recentemente messa in discussione4. Al contrario, la regione risultava abitata da popolazioni Hui, Baiyue, She, Miao-Yao, Zhuang e numerosi altri gruppi etno-linguistici.
La “Cina” era un prodotto dell’immaginario occidentale. Gli interlocutori interpellati da Pereira avevano persino difficoltà a comprendere la richiesta di definire il proprio “Paese”, poiché non vi erano chiari corrispettivi autoctoni di questo concetto. In ultima istanza veniva riconosciuta l’esistenza di un solo sovrano, ma alla guida di molti Paesi, ciascuno con la propria antica denominazione. La loro combinazione costituiva il “Grande Ming”, ma ciascuno di essi restava profondamente ancorato alla propria specificità locale. Questo dettaglio non rappresentava che una mera curiosità ai tempi della pubblicazione del rapporto, in un’Europa che aveva stabilito la “Cina” come sua antica e oscura controparte – non tanto il nome di un Paese quanto la designazione dei confini esterni della prima espansione capitalista e coloniale. Un’espansione che tendeva però ad arenarsi nell’Asia orientale continentale: qui si era consolidata un’estesa rete commerciale di beni e di argento, senza tuttavia una vera incorporazione nella nuova economia globale. La Cina costituiva una sorta di sbarramento, una minacciosa eccezione alle nuove regole stabilite in Occidente5.
Oggi, in un’economia globale scossa dalla crisi, la Cina viene ancora una volta definita dalle sue eccezioni. La sua sbalorditiva ascesa sembra promettere una fuga quasi messianica da decenni di declino dei tassi di crescita: il miraggio di una nuova America, corredata da un “Sogno Cinese” e dallo zelo morale del puritanesimo confuciano del Partito Comunista Cinese. Per l’economista occidentale, questo miraggio assume la forma di un sino-keynesismo dalla mano ferma, che attraverso nuovi progetti infrastrutturali avviati da istituzioni finanziarie globali più filantropiche come la China Development Bank, promettono la salvezza delle ultime remote periferie del mondo. Nel discorso ufficiale dello Stato cinese, tutto questo non rappresenta altro che la lenta transizione verso il comunismo, con una lunga sosta nella fase del “socialismo con caratteristiche cinesi”, in cui la meccanica capitalista è utilizzata per sviluppare le forze produttive, fino al raggiungimento del benessere generale.
In entrambe le narrazioni, nonostante la sua completa incorporazione all’interno dell’economia globale, la Cina rimane un’eccezione oscura e un po’ minacciosa. Percepita in qualche modo come esente dalle regole generali, accompagnata dalla vaga percezione che, con una popolazione così estesa, un governo così potente, una concentrazione così massiccia di capitale fisso etc., essa costituisca una sorta di deus ex machina nel dramma dell’attuale declino economico globale. Il problema di una tale lettura è lo stesso affrontato da Pereira secoli fa: l’oggetto stesso dell’indagine si rivela illusorio. Il mercenario entra nel cuore dell’impero solo per scoprire che l’impero non esiste.
Uno degli obiettivi principali di Chuang è quello di dissipare questo miraggio. Vorremmo poter guardare alla Cina con chiarezza e intento comunista. Ma l'unico modo per comprendere la Cina contemporanea e le sue contraddizioni è indagare la creazione della “Cina” in quanto tale. La nostra ricostruzione non affonda le sue radici in una presunta storia ancestrale (cara tanto agli storici occidentali quanto a quelli cinesi), né parte dalla fascinazione per il progetto rivoluzionario cinese, a sinistra alternativamente glorificato o demonizzato.
La “Cina” è, ed è sempre stata, una categoria economica. Il miraggio occidentale dell’“Estremo Oriente” è sorto per designare l’ostinata persistenza di vari modi di produzione non capitalistici in Asia orientale. Dopo che l’ “apertura” della Cina ebbe mostrato l’incoerenza di fondo dell’impero Qing, i nazionalisti tardo-imperiali, spesso educati in Occidente, riscrissero la storia della regione per costruire la narrazione di uno Stato-nazione cinese omogeneo, risalente ai tempi antichi. Progetto presto proseguito da liberali, anarchici e comunisti. Sorta nel bel mezzo di una paralisi dell’impero, governato di diritto da una forza “straniera” (i Manciù) e di fatto da un’altra forza (l’Occidente), una delle caratteristiche chiave della nuova nazione “cinese” così immaginata era quella di essere fondata sulla repressione della cultura e dell’identità etnica Han. L’opposizione ai Qing assunse da subito il carattere di una restaurazione del dominio Han, e le neonate organizzazioni di resistenza, come le società segrete, furono percepite come partigiane di questa essenza nazionale perduta. Il loro slogan: Fan Qing Fu Ming – ”Opporsi ai Qing, Restaurare i Ming”.
Ma cos’era il “Ming” che questi primi nazionalisti cercavano di riportare in auge? In un certo senso, una tale rivendicazione richiamava quella fondamentale indeterminatezza – quando il dado della storia, ancora sospeso, sembrava rendere possibile per il Grande Ming, piuttosto che per l’Europa occidentale, poter emergere come la culla del capitalismo, con tutto il suo carico di sangue e gloria. Allo stesso tempo, “Restaurare i Ming” rappresentava una sorta di promessa, quella di uno sviluppo secondo canoni occidentali, la creazione di una “Cina” come entità comparabile, su un piano di parità, a quelle nazioni occidentali responsabili della riduzione della regione ad un ammasso di accordi commerciali e trattati portuali. Era questa la promessa che si sarebbe realizzata nel XX secolo.
La storia qui presentata illustra la secolare costruzione della Cina come entità economica. A differenza dei nazionalisti, non è nostra intenzione riportare alla luce un lignaggio perduto fatto di cultura, lingua o etnia che giustifichi il carattere unitario della Cina di oggi. A differenza di molte sinistre, non cerchiamo nemmeno di tracciare il “filo rosso” della storia, per scoprire dove il progetto socialista “sarebbe andato storto” e cosa si sarebbe potuto fare per instaurare il comunismo in qualche universo parallelo6. Puntiamo invece ad indagare il passato per comprendere il momento presente. Cosa presagisce l’attuale rallentamento della crescita cinese per l’economia globale? Quale speranza, se possibile, rappresentano le lotte contemporanee in Cina per un futuro progetto comunista?
Il nostro obiettivo a lungo termine è rispondere a queste domande – comporre una prospettiva comunista coerente sulla Cina, non infangata dal romanticismo delle rivoluzioni passate o dall’isteria dei rapidi tassi di crescita. Di seguito presentiamo la prima parte di una storia in tre volumi sull’emergere della Cina fuori dagli imperativi globali dell’accumulazione capitalista. In questa prima parte analizziamo la fase esplicitamente non capitalista di questa storia, l’era socialista ed i suoi prodromi, durante la quale vide la luce la prima infrastruttura industriale moderna dell’Asia orientale. Il secondo volume coprirà la “Riforma e l’Apertura” avviate alla fine degli anni ’70, per giungere alla cosiddetta distruzione della “ciotola di riso di ferro” durante l’ondata di deindustrializzazione degli anni ’90. La sezione finale, che coprirà il terzo volume, illustrerà il periodo successivo a questa fase di deindustrializzazione ancora in corso, ivi inclusa la trasformazione capitalista dell’agricoltura e la creazione del proletariato cinese contemporaneo.
Questa periodizzazione non è arbitraria. Nel suddividere questa storia ci siamo basati da un lato sulla periodizzazione globale suggerita dal collettivo comunista anglofono Endnotes, dall’altro abbiamo ripercorso i passaggi chiave dell’incorporazione della regione agli imperativi dell’accumulazione globale. Questa prima sezione copre il periodo non-capitalista, durante il quale il movimento popolare guidato dal Partito Comunista Cinese (PCC) riuscì allo stesso tempo ad abbattere il vecchio regime e ad arrestare la transizione al capitalismo, lasciando la regione in una stasi contraddittoria concepita all’epoca come “socialismo”. Il sistema socialista, al quale qui facciamo riferimento come “regime sviluppista”, non fu né un modo di produzione né una “fase di transizione” tra capitalismo e comunismo, tantomeno tra modo di produzione tributario e capitalismo. Non costituendo un modo di produzione propriamente detto, esso non rappresentò nemmeno una forma di “capitalismo di Stato”, nel quale gli imperativi capitalisti potessero essere perseguiti sotto l’egida dello Stato, con una classe capitalista semplicemente sostituita nella forma, ma non nella funzione, da una gerarchia di burocrati governativi.
Il regime sviluppista socialista designò invece la rottura di qualsiasi modo di produzione e la scomparsa dei meccanismi astratti (siano essi tributari, filiali o di mercato) che governano i modi di produzione in quanto tali. In queste condizioni, solo forti strategie di sviluppo a trazione statale furono in grado di guidare lo sviluppo delle forze produttive. La burocrazia dilagò perché non poté farlo la borghesia. Dato l’alto tasso di povertà e la posizione ricoperta dalla Cina lungo l’arco dell’espansione capitalistica, solo i programmi di industrializzazione “big push” di uno Stato forte, associati a resilienti configurazioni di potere locale, consentirono l’edificazione di un sistema industriale. Ma tale realizzazione non coincise con una transizione di successo ad un nuovo modo di produzione.
Questo sistema industriale non fu immediatamente o “naturalmente” capitalista. La storia è fondamentalmente contingente. Nell’era socialista non esistevano mercati, né in forma simile a quella assunta durante il precedente sistema imperiale, né con le modalità con cui si sarebbero sviluppati in futuro. Il denaro esisteva nominalmente, ma non era soggetto agli imperativi mercantili del modo di produzione tributario né agli imperativi del valore del sistema capitalista; rappresentava invece il mero riflesso meccanico della pianificazione statale, che non veniva calcolata in base ai prezzi ma in base alla pura quantità di prodotto industriale. Il denaro non poteva funzionare come equivalente universale. Nelle campagne la rendita veniva estratta sotto forma di grano, attraverso il sistema della “forbice dei prezzi”, ma questo prelievo non rispecchiava quello del sistema di tassazione imperiale, né si realizzava come espropriazione dei contadini e privatizzazione delle terre agricole. Fatto più importante, forse, mai in nessuna delle fasi precedenti della storia cinese la massa contadina era rimasta così ancorata alla terra. La divisione fra campagna e città che emerse in questi anni sarebbe diventata una caratteristica fondamentale del regime sviluppista. Sotto il socialismo non si verificò alcuna sostanziale urbanizzazione, a parte quella causata dall’immediata ricostruzione post-bellica o quella legata all’andamento naturale, e la transizione demografica (che vede la crescita dei lavoratori urbani impiegati nell’industria e nei servizi soppiantare la popolazione rurale) non ebbe luogo.
Allo stesso tempo, non v’era evidenza alcuna di una transizione verso il comunismo, che rimaneva un orizzonte puramente ideologico. La forza lavoro si espanse, l’orario di lavoro tendeva ad aumentare, e la socializzazione della produzione creò unità produttive locali autarchiche ed atomizzate: una vita collettiva su piccola scala, lontana però dalla nuova società comunitaria promessa. La libertà di movimento diminuì con il proliferare delle crisi, presero forma due distinte classi di élite, il divario rurale-urbano si ampliò, e gli ultimi decenni del periodo videro l'emergere di una nuova classe di lavoratori diseredati. Ondate di scioperi ed altre forme di agitazione culminarono nella "breve" Rivoluzione culturale del 1966-1969, la cui repressione avrebbe condotto infine alla transizione capitalista vera e propria.
Facciamo riferimento a tutto il periodo rivoluzionario, fino alla fine degli anni ’50, come a un “progetto comunista”. Questo progetto fu incredibilmente vario, e mantenne sempre un carattere di massa, profondamente radicato nella popolazione. Agli albori, il suo fondamento teorico e la sua direzione strategica erano prevalentemente di stampo comunista-anarchico. Col tempo, la particolare visione e strategia del PCC avrebbero conquistato l’egemonia, incorporando però al proprio interno l’eterogeneità del movimento, sotto forma di fazioni interne (e conseguenti epurazioni). Non si trattò, tuttavia, di un’egemonia imposta dall’alto: costituiva il risultato di un mandato popolare, derivante dall’autorevolezza guadagnata dal partito nella formazione dell’esercito contadino e nell’organizzazione del movimento operaio clandestino durante gli anni dell’occupazione giapponese. Nei primi anni del dopoguerra, il PCC fu in grado di mantenere l’egemonia sul progetto comunista grazie alle campagne ridistributive nelle aree rurali e la ricostruzione delle città. I fallimenti della fine degli anni ’50 (carestia nelle campagne e scioperi nelle città costiere), non solo misero in discussione il mandato popolare del partito, ma segnarono l’inizio del processo di ossificazione del progetto comunista stesso. Con l’evaporarsi della partecipazione popolare seguita a questi fallimenti, quello che era stato un progetto comunista di massa si ritrovò ridotto ai suoi mezzi: il regime sviluppista. Questo stesso regime necessitava per il suo mantenimento dell’intervento sempre più esteso del partito, destinato così a fondersi con lo Stato (come apparato amministrativo burocratico de facto) e a recidere i legami con il progetto originale. Anche all’apice di tale differenziazione, tuttavia il progetto mantenne comunque una particolare prospettiva comunista, frutto della combinazione fra movimento operaio europeo e millenaria storia di rivolte contadine della regione. Oggi, questo orizzonte comunista non esiste più. Non ha senso “prendere posizione” su queste questioni storiche, semplicemente perché non esiste simmetria tra passato e presente: nonostante il perdurare delle crisi fondamentali del capitalismo, le condizioni materiali (rapida espansione industriale, grande periferia non capitalista, ecc.) che strutturavano questa precedente prospettiva sono oggi del tutto assenti. Non ha senso domandarsi se i comunisti di oggi si troveranno ad affrontare lo stesso ordine di problemi – questo non avverrà. Resta soltanto la questione di come il comunismo e la strategia comunista possano essere concepiti al di fuori di tale orizzonte.
Ai comunisti di oggi, tra i quali ci collochiamo, la pratica, la strategia e la teoria del PCC (così come quella di altre formazioni all’interno di questa corrente storica) appaiono nel migliore dei casi estranee e, nel peggiore, aberranti. Nonostante i duri limiti materiali dell’epoca, possiamo affermare chiaramente come molte delle azioni introdotte dal PCC siano semplicemente ingiustificabili. Altre appaiono oscure o incomprensibilmente presuntuose. Ma questo genere di giudizi di valore ha scarsa utilità analitica. Esistono già numerosi resoconti che si prodigano a dipingere i fatti nei termini di un tradimento da parte di “falsi” comunisti, o semplicemente come prodotto dell’azione di una leadership avida e zelante. La storia qui esaminata non è una storia della morale. In accordo con il nostro approccio materialista, le questioni del tradimento o della rettitudine non costituiscono che fattori di minima rilevanza. Il progetto comunista cinese è stato fenomeno collettivo, frutto dello sforzo e del sostegno di milioni di persone. In questa sede tenteremo di scrivere una storia di tale progetto, e del suo fallimento.
A tal fine, nostro obiettivo resta inoltre quello di analizzare l’era socialista cinese, piuttosto che affrontare in generale le questioni del socialismo del XX secolo. Studi comparativi sui diversi progetti rivoluzionari sarebbero certamente utili, ma richiederebbero adeguati parametri di confronto. Oggi la letteratura sulla Cina e su altri stati socialisti tende ad essere fortemente appiattita sull’esperienza russa. Una delle nostre tesi fondamentali è come semplicemente la Cina non fosse la Russia. Anche se influenzati dall’esperienza sovietica, i tentativi cinesi di emulazione non furono mai completi, comunque sempre applicati in un contesto fondamentalmente differente. Ancor più importante, il punto di riferimento risultava esso stesso in costante mutamento, ed i cinesi, nel progettare le proprie forme di gestione e pianificazione industriale, spesso attinsero da periodi divergenti della storia russa.
Al di là di questo, la geografia dell’influenza sovietica non fu uniforme. Al di fuori del cuore industriale del Nord-Est, la produzione cinese fu fortemente modellata su altri sistemi di gestione aziendale, pianificazione economica ed amministrazione statale. Assunta la Russia come modello, i cinesi attinsero anche dall’esperienza dell’epoca imperiale, del regime nazionalista del periodo repubblicano, dai giapponesi e dalle imprese occidentali nelle città costiere. Tutte queste influenze furono combinate nel tentativo consapevole di creare una nazione distintamente “cinese”, con una propria economia nazionale unitaria. Il risultato fu un sistema molto più decentralizzato e frammentato di quanto apparisse dalla propaganda dell’epoca. Un’altra delle nostre tesi fondamentali è come esistesse una netta discrepanza tra quanto la Cina socialista affermasse e quanto realmente attuasse.
Troppa della letteratura odierna (sia di stampo accademico che prodotta a sinistra) utilizza dati inattendibili, tratti da fonti poco affidabili7. Si basa su prove obsolete raccolte in un’epoca con troppi interessi politici in ballo fra le varie “correnti” (ad esempio nella lettura di eventi come la Rivoluzione culturale). I metodi di base utilizzati in tale letteratura risultano intrisi di idealismo. La propaganda viene esaminata come se si trattasse di una descrizione fattuale del sistema industriale. Le fabbriche modello vengono descritte come specchio della realtà. Il mito del socialismo cinese sembra corrispondere, senza esclusioni, alla composizione reale della società. La Cina assumeva in tal modo ancora una volta il carattere di miraggio, questa volta riformattato sulle nuove coordinate della Guerra fredda. Il risultato era una versione da Villaggio Potemkin della Cina socialista, da un lato vilipesa, dall’altro sostenuta come uno dei pochi flebili bagliori fra le tenebre di un secolo perduto.
Oggi non c’è più alcuna contesa in ballo, su nessun fronte. L’unica posta in gioco all’orizzonte è quella segnata dal nostro momento presente: una Cina che ricopre un ruolo centrale per l’economia globale ma resta soggetta alle sue crisi, una crescita che rallenta, una popolazione lacerata tra un futuro assente ed un passato irraggiungibile. Se questa è la vera posta in gioco, allora necessita di un’analisi storica all’altezza. Nostro obiettivo è quello di utilizzare gli strumenti più concreti ed affidabili a disposizione per narrare una storia materialista della Cina. La mitologia socialista rappresentata nella propaganda, nelle cerimonie popolari e nel costume quotidiano non viene qui ignorata, ma relegata al suo reale significato: quello di un progetto ideologico che assume i connotati resilienti di una religione, capace di esprimere certe speranze, paure e verità sociali, ma incapace di descrivere l’economia odierna. La nostra attenzione si concentra qui su dati concreti, su nuove evidenze non classificate e su una serie di etnografie e progetti di ricerca d’archivio più affidabili.
Il risultato, ci auguriamo, è quello di fornire un’immagine della Cina socialista il più aderente possibile alla realtà: né una steppa totalitaria, né il paradiso in terra. La nazione che descriveremo qui di seguito non è in alcun caso “la Cina di Mao”, ma un progetto cui contribuirono milioni di persone, il cui esito ultimo (benché non storicamente determinato) ci appare essere la Cina contemporanea – la Cina che tiene assieme l’economia globale nelle sue stesse pericolanti fondamenta. Una Cina di cui ci auguriamo la demolizione ad opera di altri milioni di cinesi, mentre miliardi di individui di innumerevoli altre nazioni saranno intenti a distruggere le proprie, e con esse, questa mostruosa economia che ci tiene incatenati gli uni agli altri nella stessa misura in cui ci tiene divisi.
Note
2 https://positionspolitics.org/dirty-work/
3 A tal proposito, si veda tra gli altri Raffaele Sciortino, I dieci anni che sconvolsero il mondo: Crisi globale e geopolitica dei neopopulismi. Asterios, 2019.
4 Si veda: Will Fletcher, “Thousands of genomes sequences to map Han Chinese genetic variation”, Bionews, 596 (30 novembre 2009), <http://www.bionews.org.uk/page_51682.asp>
5 Si veda la relazione originale di Pereira, qui inclusa: Charles Ralph Boxer; Pereira, Galeote; Cruz, Gaspar da; Rada, Martín de (1953), South China in the sixteenth century: being the narratives of Galeote Pereira, Fr. Gaspar da Cruz, O.P. [and] Fr. Martín de Rada, O.E.S.A. (1550-1575), Edizione 106 di Opere pubblicate dalla Hakluyt Society, Stampato per la Hakluyt Society. Per una panoramica più ampia si veda anche il saggio di Arif Dirlik sulla creazione della “China/Zhongguo”: Arif Dirlik, “Born in Translation, ‘China’ in the Making of ‘Zhongguo’”, Boundary2, 29 luglio 2015. <http://boundary2.org/2015/07/29/born-in-translation-china-in-the-making-of-zhongguo/#sixteen>
6 Per una panoramica su questa tendenza nella storia della sinistra, si veda: Endnotes 4, Unity in Separation, ottobre 2015, Bell & Bain, Glasgow, pp. 73-75.
7 Per esempi recenti fra i più citati, si veda: Chino, “Bloom and Contend: A Critique of Maoism”, Unity and Struggle, 2013, e Loren Goldner, “Notes Toward a Critique of Maoism”, Insurgent Notes, Issue 7, October 2012.
Inserito il 23/12/2022.
Anatolij Grebnev
«Un Marx sconosciuto entra nella mia vita»
Nel suo libro Appunti dell’ultimo sceneggiatore (Zapiski poslednego scenarista), Anatolij Borisovič Grebnev (1923-2002), autore della serie biografica in sette puntate Karl Marx. Gli anni giovanili (1980), ne racconta la genesi e la realizzazione tra Unione Sovietica e Repubblica Democratica Tedesca.
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Anatolij Grebnev - Un Marx sconosciuto entra nella mia vita
Prima parte
Karl Marx è apparso nella mia vita, si potrebbe dire, per caso, grazie a una dirigente del Comitato statale per la cinematografia dell’URSS (Goskino) che non mi piaceva affatto. Ecco la strana catena degli eventi. Un giorno sulla scrivania di questa dirigente arrivarono tre dei miei copioni. Ricordo che uno dei tre aveva trascorso due anni alla Lenfilm, un altro un anno agli Studi Gor’kij, e il terzo era appena stato consegnato: non si poteva immaginare una situazione peggiore. Tutti noi, in un modo o nell’altro, eravamo visti dalle autorità come persone che si guadagnano il pane troppo facilmente. Loro invece avevano poco tempo, non erano loro ad aver scritto quelle cose e potevano tirarla in lungo con le nostre opere. La signora in questione aveva, inoltre, una certa età e un brutto carattere. Gli scrittori e i registi, di cui essa per dovere di servizio decideva il destino, si dividevano nettamente ai suoi occhi in favoriti e antipatici, e purtroppo io risultavo tra questi ultimi: tre sceneggiature tutte insieme provocarono subito una reazione violenta, uno scandalo, come un palese tentativo di rapinare la cassa. In quell’occasione prese indignata la risoluzione di stabilire quanti contratti avessi con i diversi studi cinematografici, e allo stesso tempo decise di controllare su questo punto anche Nagibin e Špalikov. Poveretto, anche Evgenij Špalikov risultava nel gruppo dei non amati, Nagibin invece era tra gli eletti, probabilmente in quanto il più prolifico.
Come al solito, tutti e tre venimmo a saperlo il giorno successivo da funzionari di rango inferiore, il segreto professionale da noi non dura mai a lungo. Per qualche ragione, questa decisione mi impressionò. Tutte e tre le sceneggiature erano state messe nel limbo insieme al loro autore. Il primo pensiero che viene in mente in questi casi è di mandare tutto al diavolo e buttare via tutto. E il secondo pensiero, dopo il primo: “Beh, l’hai buttato, hai sbattuto la porta, e poi?”.
Fu in questo stato d’animo un po’ sconvolto che il mio vecchio amico e collega Boris Dobrodeev mi trovò, presentandomi proprio quella stessa sera una proposta inaspettata. Se fosse comparso il giorno prima, avrei detto “no” subito, perché da tempo ormai avevo fatto voto di non impegnarmi in lavori su commissione, di scrivere cose mie e non quelle di qualcun altro, indipendentemente da chi fosse il proponente. Borja Dobrodeev era a quel tempo autore di famosi documentari. Ciò che aveva concepito stavolta apparteneva al genere del documentario-fiction o, al contrario, della fiction-documentario, e non ho mai capito che differenza ci fosse tra i due; in poche parole, aveva bisogno di un coautore che venisse dal cinema, e lo propose a me. Borja indicò subito il regista pronto ad accettare il suo progetto, Lev Kulidžanov, una figura più che degna. Il film era per la televisione, molto probabilmente in sedici puntate. Quest’ultima circostanza era la più allettante: la televisione voleva dire non avere niente a che fare con il Goskino. Avrei avuto una reale possibilità di allontanarmi per un anno o due, o, meglio ancora, per diversi anni, dalle fastidiose signore del cinema; con la televisione, grazie a Dio, esse non avevano nessuna relazione. Diversi anni di vita tranquilla, soldi decenti e, soprattutto, una buona compagnia, Borja e Lëva, entrambi miei amici a Tbilisi. Nel frattempo, avrei potuto scrivere qualcosa di mio con tutta calma! Immaginai questa vita di lusso e dissi subito di sì. Per qualche motivo, nei momenti decisivi della mia vita non ho mai esitato: ho scelto senza guardare, senza pensare. Ci ho pensato in seguito.
Così avvenne anche quella volta. Non restava che chiedere di cosa effettivamente parlasse il film. Nella foga del momento, in qualche modo avevo perso per strada questa domanda.
Nel sentire la risposta per poco non mi strozzai. Il soggetto era Karl Marx.
“No, no”, Dobrodeev venne rapidamente in mio aiuto. “Non è quello che pensi. Nessuna politica. Cronache familiari. La saga dei Forsyte! Ecco, immagina qualcosa del genere!”.
Disse ancora più decisamente: “E senza seccature!”.
Così, un bel giorno del 1973 (se non vado errato) la mia vita subì un rivolgimento con conseguenze imprevedibili, e ciò fu il risultato di alcune coincidenze, per così dire, fatali, come spesso mi è successo.
Dirò subito: ciò che facemmo non aveva niente del docu-fiction, né sarebbe potuto uscire un docu-fiction dal nostro lavoro. E alla fine non abbiamo fatto sedici puntate, ma solo sette. Per di più non ci vollero due anni, ma addirittura sette, durante i quali, però, riuscii comunque a scrivere anche qualcos’altro. Non ci fu nemmeno il tanto atteso arricchimento materiale; le voci su una sorta di grandi royalties televisive si rivelarono grossolanamente esagerate. L’unico premio tangibile fu il Premio Lenin, che ci fu in seguito assegnato per il nostro lavoro: a proposito, la parte in denaro del premio finì tutta nel banchetto; l’onore è sopravvissuto per qualche tempo…
Il film si chiamava, permettetemi di ricordarlo, Karl Marx. Gli anni giovanili. In effetti, ci fermammo alla giovinezza. Sette puntate, come già accennato. Per una settimana, sera dopo sera, questo film, la serie, come si dice ora, ha tenuto incollata davanti allo schermo la popolazione di un intero paese, come una popolare serie tv di oggi. Anche oggi oserei dire che questo è un buon film sotto tutti i punti di vista: una regia sottile, attori eccellenti, musica toccante e una trama interessante. E di sicuro, senza alcuna seccatura: questa è forse l’unica promessa che si è avverata. Durante tutti quei sette anni dissi ai miei conoscenti, per salvarmi la reputazione, che stavamo facendo una Saga dei Forsyte, niente di più; in risposta, sorridevano compassionevoli: “Lo sappiamo – dicevano – che tipo di saga sarà…”.
E, a proposito, sorridevano invano: si poteva dire tutto, ma non che il nostro film su Karl Marx potesse compiacere alle autorità. Per il semplice motivo che alle autorità di allora non piaceva affatto il nostro Marx, visto che l’atteggiamento che gli riservavano era improntato all’irritazione o, in qualche caso, al sarcasmo. Non c’è niente da fare, il grande fondatore del comunismo è stato a lungo una figura aneddotica nella coscienza di massa dei sovietici. Lui stesso ha scritto una volta che la tragedia, se ripetuta una seconda volta, suona come una farsa. La leggendaria barba dei ritratti, che ancora si conserva qua e là, evocava solo i malinconici ricordi dell’esame di marxismo-leninismo tra coloro che un tempo lo dovevano superare. I nostri governanti non facevano eccezione in questo caso. A giudicare da ciò che Brežnev disse a Kulidžanov quando lo chiamò dopo aver visto il film, i capi del PCUS avevano di Marx la stessa vaga idea che potevano averne i semplici mortali. Pare che nel paese non ci fosse più nessuno che lo prendesse sul serio, tranne noi tre, in virtù dei doveri affidatici, e il nostro consulente, un uomo di grande fascino, Georgij Bagaturija, studioso marxista, biografo e traduttore innamorato di Marx.
Come era d’uso in questi casi, iniziammo il nostro lavoro con un piacevole viaggio all’estero: Germania, Francia, Inghilterra, i paesi in cui aveva vissuto il nostro protagonista e dove dovevamo, in teoria, ricostruire le nostre scarse conoscenze, metterci a nostro agio con il materiale. Viaggiammo non senza utilità. Andammo agli indirizzi giusti. Le case in cui visse Marx sono ancora conservate in alcuni luoghi, talvolta con lo stesso numero civico. A Parigi, in rue Vanneau, siamo saliti nell’appartamento dove vivevano Marx e Jenny, ancora giovani sposi, all’inizio della loro emigrazione. Gli inquilini di allora, un panettiere e sua moglie, ne avevano sentito parlare vagamente. Sempre a Parigi, sui Grands Boulevards, è sopravvissuto anche il caffè “Régence”, in cui Marx ed Engels si erano incontrati per la prima volta, e prima di loro, a giudicare dai quadri alle pareti, c’erano stati anche Voltaire e Napoleone. Ora sedevamo anche noi a un tavolo dello stesso caffè. La nostra guida era il bisnipote di Marx, Jean-Robert Longuet, uno scialbo signore che sembrava essere un avvocato, il quale sapeva del suo bisnonno poco più che del nostro, ma raccontava con entusiasmo di come viaggiava ogni anno su invito in Unione Sovietica e che tipo di accoglienza riceveva, in particolare in Georgia, a Kakheti; questo però ce lo potevamo immaginare anche da noi. A Parigi, Jean-Robert era un pensionato sconosciuto, ma, cosa interessante, viveva in un appartamento che in passato era appartenuto a Balzac, così almeno dichiarò portandoci a casa sua. Naturalmente, non abbiamo trovato tracce del creatore della Commedia umana, così come non trovammo tracce di Marx laddove Marx aveva vissuto.
Gli eredi ideologici di Marx, i funzionari del movimento comunista, perlomeno quelli che abbiamo incontrato, somigliavano altrettanto poco al loro predecessore. A differenza dei nostri sovietici, erano comunque almeno un po’ istruiti, parlavano della lotta di classe nella fase attuale, ecc., ma non sembrava che le opinioni che professavano richiedessero loro sacrifici e privazioni. Negli anni ’70 del XX secolo – anzi, anche molto prima – l’odiata società borghese era in grado di nutrire tutti, compresi gli oppositori inconciliabili. L’autore del Capitale passò tutta la vita in una situazione di povertà, fino a cadere nella disperazione; scrisse lettere in lacrime a Engels, che sosteneva la sua famiglia. Gli odierni prosecutori della sua opera, combattenti per gli interessi della classe operaia, vivevano una vita prospera nella media borghesia e viaggiavano su buone macchine. E la stessa classe operaia, come abbiamo visto, ad esempio, a Manchester, ora viveva in comodi appartamenti, costruiti in stile inglese su due piani. Questo proprio a Manchester, la città delle fabbriche tessili descritta da Engels 120 anni fa nel suo famoso libro La condizione della classe operaia in Inghilterra. Là, ricordo, si parlava di tenebrosi ostelli, baracche con cuccette a due piani, qui invece a due piani erano gli appartamenti.
In Germania siamo andati in auto da Colonia a sud, a Treviri, la città natale di Marx, abbiamo ammirato le valli fiorite del Reno e della Mosella con i vigneti sulle pendici delle montagne, con innumerevoli città accoglienti lungo il percorso. Il pacifico e prospero territorio della Repubblica Federale Tedesca aveva vissuto la propria vita lontano da tempeste e rivoluzioni politiche, come su un altro pianeta. Nella stessa Treviri è sopravvissuta una casa a due piani dove, secondo la leggenda, ha vissuto per qualche tempo la famiglia Marx. Nessuno lo sa per certo, ma sembra che sia proprio quella, e ora c’è una farmacia al piano di sotto… Era praticamente tutto qui. Perciò ce ne andammo.
D’altra parte, c’era sorprendentemente molta letteratura su Marx, comprese diverse pubblicazioni degli ultimi anni. Sembra che l’interesse per questo personaggio in Occidente non sia svanito, anzi, si è intensificato. Lutz Graf Schwerin von Krosigk (così si scrive), ministro delle Finanze nel governo Hitler e poi in quello di von Papen, si rivelò essere il pronipote di Jenny Marx, nata Jenny von Westphalen, ed erede dell’archivio della famiglia Westphalen. Scontò sei anni in base al verdetto del tribunale di Norimberga e in prigione scrisse un libro sulla sua famosa nonna: Jenny von Westphalen. Amore e sofferenza all’ombra di Karl Marx. Il libro inizia con questa frase: «Due grandi persone, due personalità hanno determinato il corso della storia nel XIX secolo: Bismarck e Marx. Entrambi ebbero una vita familiare felice».
Se pensiamo al fatto che fino ad allora noi conoscevamo la biografia di Marx dall’unico libro a nostra disposizione, quello di Franz Mehring, che ha gettato in depressione più di una generazione di studenti sovietici, si può immaginare come ci siamo meravigliati dell’abbondanza di libri che ci si è presentata davanti. C’erano anche il lavoro del socialista tedesco Nikolayevsky e la monografia pubblicata a Londra sulla figlia minore di Marx, Eleanor, con molti fatti interessanti sulla vita della famiglia, e la ricerca freudiana di un certo Künstli, e molto altro ancora, inclusa una serie di pubblicazioni su “Stern” con il titolo generale Marx sconosciuto.
Il Marx sconosciuto era, ovviamente, molto più interessante di quello del libro di testo e non gli era inferiore in grandezza, sebbene a volte facesse qualcosa di inappropriato per i classici del marxismo.
Ad esempio, egli ebbe un figlio illegittimo dalla governante Lenchen Demuth, considerata come un’amica fedele e un leale membro della famiglia. Questo già lo sapevamo da fonti non verificate, poi la faccenda si è rivelata vera. Graf Schwerin von Krosigk scrive di ciò in un capitolo intitolato Ehekrise (“crisi matrimoniale” o, meglio, “crisi coniugale”) con il massimo tatto e, direi, con modestia, non senza un tono polemico nei confronti di un filisteo, fregandosi le mani alla vista del genio peccatore. Qui l’autore (come si può intuire, assolutamente non marxista!) non vuole accontentare i gusti della folla, anzi, ci introduce alle circostanze della vita in cui questa crisi, come scrive rispettosamente, è diventata possibile e spiegabile.
È noto che il fedele Engels prese su di sé il peso del peccato dell’amico. Lenchen servì ancora devotamente i Marx, rimanendo nella loro casa e condividendo con loro tutte le fatiche dell’emigrazione. Il bambino venne mandato da dei parenti in campagna, a volte da ragazzo veniva dalla madre in città, ma, come succedeva allora, non gli era permesso oltrepassare la cucina. Negli anni diventò sempre più simile a Marx e giunse il momento in cui il rapporto non si poteva più nascondere; il biografo indovina la disperazione di Jenny da noiosi accenni in una delle sue lettere, confrontando le date. Qui ci mette di nuovo in guardia contro il volgare moralismo. Proprio come Puškin in una lettera a Vjazemskij: «Lascia la curiosità alla folla e sii tutt’uno con il genio». E nella stessa lettera, poco più in là: «Mentite, mascalzoni, lui è piccolo e disgustoso in modo diverso da come lo siete voi».
Engels mantenne il segreto fino agli ultimi giorni della sua vita. Egli sopravvisse a Marx di dodici anni. Sul letto di morte, convocò Louise Kautsky, la sua segretaria, ex moglie di Karl Kautsky, e le confessò la sua fittizia paternità. Disse che non voleva che i suoi compagni di partito avessero un’opinione sbagliata di lui: come poteva essere che, essendo scapolo, non volesse sposare per pregiudizi di classe la donna che gli aveva dato un figlio? Quindi, quello non era suo figlio, ma il figlio di Marx.
Louise, prosegue l’autore, ne parlò subito a Eleanor, la figlia più giovane di Marx, la quale si precipitò da Engels morente, indignata, in lacrime: “È vero?”. “È vero”, disse Engels. “E assomiglia a mio padre?”. “Ridicolmente simile (Lächerlich ähnlich)”, rispose Engels. «Scoppiò in lacrime sulla mia spalla», ricordò Louise. Frederick Demuth, figlio di Lenchen e Marx, non fu mai riconosciuto dalle sorelle. Da adulto, egli scrisse a sua sorella Laura e al marito Paul Lafargue a Parigi chiedendo di aiutarlo a ottenere un’istruzione. I Lafargue allora vivevano comodamente, in una casa di proprietà, con il denaro lasciato loro da Engels. Neanche risposero alla lettera. Frederick Demuth lavorò come idraulico e fabbro e visse, pare, fino al 1927 [probabilmente invece fino al 1929, stando a F. Wheen, autore di una biografia di Marx, ndt].
Marx, per sua sfortuna – o forse fortunatamente –, non visse in un tempo in cui la società richiedeva idee a filosofi ed economisti, anche i più estremisti, acquistandole per il proprio vantaggio, o anche solo come merce esotica. Non si sarebbe mai sentito dire che Marcuse, ideologo e dio della gioventù ribelle degli anni ’60 del XX secolo, morisse di fame, e gli stessi giovani che lo seguivano, in gran parte di famiglie benestanti, scelsero comode forme di protesta. È ormai impossibile immaginare l’autore del Capitale in un bilocale in Dean Street, in disperato stato di bisogno. In altri tempi avrebbe avuto almeno una cattedra a Cambridge, i suoi libri sarebbero andati a ruba; nel peggiore dei casi sarebbe comparso un ricco filantropo. Il Marx di allora invece pagò le sue opinioni con l’esilio per tutta la vita, la misera vita di un emigrante che svolge un incessante e fantastico lavoro. E condannò la propria famiglia alle difficoltà. A Londra, ogni mattina – giorno dopo giorno per anni e anni – andava al British Museum, in biblioteca, portando con sé un involto con dei sandwich, e lavorava fino a sera. La mole di ciò che ha letto e scritto in quegli anni è difficile da immaginare.
All’inizio dell’emigrazione, a Parigi, la vita era più divertente: lui e Jenny erano giovani, dopo cinque anni di attesa (di nuovo, inimmaginabili per una persona moderna) finalmente insieme, felici. E, cosa più importante, se non oggi domani, la rivoluzione sarebbe giunta in Germania, l’odiato regime prussiano sarebbe caduto e loro sarebbero tornati a casa. A rigor di termini, questa era la speranza in cui viveva l’intera emigrazione tedesca a Parigi a metà degli anni Quaranta. Vivevano lì, a dire il vero, non in modo amichevole, avevano conti in sospeso fra loro, come tutti gli emigranti di tutte le epoche. Heinrich Heine e Ludwig Berne si sfidarono a duello a causa di qualche piccola offesa; a Moses Hess non piaceva Marx, che lo ricambiava della stessa moneta. Tutti insieme, però, combattevano come meglio potevano contro la monarchia prussiana, mandando da laggiù, dall’estero, segnali d’incitazione ai loro connazionali. Un particolare interessante, non nascosto alla vista: tutti i menzionati erano ebrei di nascita, Marx fu battezzato all’età di sei anni. Sembrava che il tedesco della strada, rispettoso della legge, non udisse le loro chiamate rivoluzionarie. Ma il monarca prussiano, persa la pazienza, si rivolse a quello francese, e Luigi Filippo non si fece pregare: agli emigranti fu tolto il diritto d’asilo.
Di cosa vivevano? Heine, come emerse in seguito, riceveva un sussidio mensile segreto dal re di Francia: questi non mancava di offrire le sue attenzioni a un famoso poeta. Gli amici dell’esilio rimasero scioccati quando lo scoprirono. Essi si dispersero tutti in varie direzioni: Marx con la moglie e la piccola figlia Jenny si trasferì a Bruxelles. La rivoluzione era stata rinviata, la vita andava avanti.
E i Marx vivevano dei soldi che Engels mandava loro regolarmente, mese dopo mese, per molti anni, da Manchester, dove lavorava come dirigente nella fabbrica di suo padre. Era infatti – come si scriveva allora, ed è tutto vero – un ineguagliabile e incomprensibile esempio di amicizia ideologica. Ideologica, cioè consapevole, basata sulla comunanza di vedute e sulla fiducia dell’uno che l’altro, da vero genio, dovesse completare l’opera principale della sua vita per il bene dell’umanità: il libro Il capitale; e il suo dovere di amico era di aiutarlo in ogni modo possibile. Karl, va ammesso, accettava tranquillamente questo denaro, e nei momenti difficili non si faceva problemi a chiedere al suo amico Fred di inviarne altro.
C’è stato, a quanto pare, un unico momento in cui i due amici e collaboratori furono sull’orlo di una rottura irreparabile. In una delle sue lettere a Marx a Bruxelles, Engels racconta all’amico di un suo grande dolore: la morte di Mary Burns. Mary era la moglie non sposata di Engels; essi vissero insieme per molti anni. Semplice lavoratrice, irlandese, era la sua fedele amica e il suo sostegno; solo la disparità sociale – un ostacolo che Engels non poteva superare – impediva loro di sposarsi ufficialmente. E così la poveretta, come scrive Engels all’amico, si spense sul letto di morte: «Ieri l’ho sepolta».
E che gli scrive Marx? «Mi dispiace per te, – scrive all’amico a Manchester. – Ma senti che sfortuna: Jenny e io, figurati, siamo di nuovo al verde, indebitati, senza niente per pagare l’appartamento. Insomma, Fred, manderesti altro denaro oltre a quello che hai inviato ieri?».
Engels: «Sapevo già, caro Karl, della tua insensibilità, ma, lo confesso, non avrei potuto immaginare che in un momento del genere della mia vita non avresti trovato neanche qualche parola di conforto. Mando i soldi».
Marx: «Mi dispiace, mi dispiace Fred, sono un maiale, non ho scuse. Ma credimi, sono agli estremi, impazzisco per le difficoltà della vita, potrei farlo! Comprendimi e perdonami!».
Engels: «Grazie, Karl, per queste tue parole, hai rimosso la pietra dalla mia anima. Pensavo di aver perso entrambi, Mary e te…».
Cito queste lettere a memoria, le lessi in tedesco. Non sono state pubblicate da noi, come molte altre.
Una o due volte durante la loro corrispondenza – dopotutto non si vedono per anni, vivendo in città diverse – Fred chiede delicatamente a Karl, al Moro, come lo chiama, di commisurare in qualche modo le sue spese con il suo, di Fred, stipendio, o almeno di avvisarlo in anticipo, poiché, dopotutto, lui stesso deve già chiedere gli stipendi in anticipo.
Le spese della famiglia Marx sono un argomento a parte, anch’esso interessante. I biografi, non senza malizia, notano che anche in condizioni di estrema povertà, la coppia non rinunciava ad alcune abitudini aristocratiche. Jenny ordinava biglietti da visita a Londra, Marx usava un monocolo, camminava con il bastone, preferiva vini costosi e aveva cani di razza. Di tanto in tanto venivano baciati dalla fortuna: ricevevano un’eredità dalla Germania o dall’Olanda (la madre di Marx apparteneva alla ricca famiglia di ebrei olandesi Philips, proprio quelli!). In una delle lettere all’amico Fred il Moro racconta una buona notizia: «Un altro zio, secondo alcune indiscrezioni, è gravemente malato e sta per morire. Quando questo vecchio cane spirerà (come si dice), Jenny e io potremo finalmente respirare per un po’. Nel frattempo, caro Fred, aiutami, visto che abbiamo di nuovo finito i soldi».
A proposito di aristocrazia. Si sa che l’amico e sostentatore Engels venne a Bruxelles con la sua Mary, ma lei non fu ricevuta a casa Marx, né conobbe mai Jenny. Così andavano le cose.
Quanto ai bisogni e alle avversità, notiamo che differiscono da come ce li immaginiamo oggi. Per esempio, ecco uno dei momenti più disperati di quando vivevano a Londra: Marx è minacciato di essere dichiarato debitore insolvente con le dovute conseguenze, vale a dire il reinsediamento in un appartamento condiviso con altre famiglie e l’impiego delle sue figlie come governanti, o anche peggio. La punizione non potrebbe essere più terribile e Marx ne scrive con orrore all’amico a Manchester, e per l’ennesima volta riceve denaro.
Ecco l’ironia del destino: pochi anni dopo la morte di Marx, le sue opere e quelle di Engels trovarono subito degli editori, la situazione cambiò drasticamente ed Engels morì nel 1895 da uomo ricco, lasciando in eredità, come già ricordato, molti soldi ai Lafargue, cioè a Laura Marx e a suo marito.
Non so se i lettori di questi miei appunti sanno che gli stessi Lafargue, Laura e Paul, si suicidarono di comune accordo, per non essere di peso a nessuno in vecchiaia, prendendo del veleno insieme. Al loro funerale a Parigi nel 1911 fece l’orazione il socialista russo Ul’janov-Lenin.
La più giovane delle sorelle, Eleanor, era morta prima e anch’essa di sua spontanea volontà, così ha voluto il destino delle figlie di Marx. Eleanor fu sfortunata nel matrimonio, e non senza colpa di suo padre. All’inizio egli mandò all’aria senza tante cerimonie il matrimonio programmato di sua figlia con un fidanzato socialista a causa di divergenze ideologiche: il socialista si era rivelato un rinnegato. Poco dopo, Eleanor si legò a Edward Aveling, un uomo probabilmente più degno in termini politici, e prese il suo cognome, sebbene non fossero formalmente sposati: Aveling aveva una famiglia. Dopo la morte della sua legittima moglie, Aveling avrebbe potuto e dovuto, come sperava Eleanor, legalizzare il suo rapporto con lei, ma lui, a quanto pare, aveva cambiato idea, la tradì e fuggì. Eleanor, in preda alla disperazione, si uccise. Il giorno del suo funerale, aggiunge il biografo, Aveling fu visto a una partita di calcio…
Tutti questi eventi, ovviamente, avrebbero richiesto un film biografico su Marx e, in linea di principio, per quanto strano possa sembrare, avrebbero potuto trovarvi il loro posto anche con la nostra censura. Se avessimo voluto, per esempio, mostrare il rapporto complicato con Engels o anche, di più, la delicata storia sul figlio illegittimo, sarebbe stato possibile, ne sono certo; almeno qui, a Mosca, mentre non posso garantire per i nostri partner tedeschi. Per quel che riguarda i vigili dirigenti di Mosca, questa volta, fortunatamente, essi non volevano avere niente a che fare con noi e con il nostro, in realtà con il “loro”, Marx, già assolutamente alieno e ultraterreno. Più tardi parleremo dei dirigenti di Berlino.
Ma, come già detto, ci limitammo a sette puntate, agli anni giovanili; ad essere onesti, non c’era abbastanza polvere da sparo per il seguito, e ci siamo fermati. Il “Marx sconosciuto” restava così fuori dai confini della nostra narrazione.
È vero, anche nel nostro giovane Marx si poteva intuire il genio del Marx maturo con tratti umani che sarebbero risultati scomodi per dei pittori di icone. Nelle lettere inviate dal padre a Karl studente abbiamo trovato una frase, e in seguito l’abbiamo persino “espressa” in un dialogo diretto: il vecchio Heinrich Marx incolpa il figlio per la sua indomabile testardaggine e riluttanza a fare i conti con la realtà, scrive del “demone dell’ossessione” che si è insediato nella sua anima, tristemente predice che questo potrebbe portare sfortuna ai suoi cari. La stessa storia del fidanzamento con Jenny – segretamente dai suoi genitori – su cui il giovane Marx ha insistito prima di partire per studiare a Berlino, parla del suo carattere: lui aveva diciotto anni, lei ventidue, e lui la condannò a cinque anni di attesa e separazione… (A proposito, non c’erano ostacoli sul terreno dell’appartenenza di classe o di nazionalità, il che è persino sorprendente oggi. Il consigliere privato von Westphalen e il modesto avvocato, ebreo battezzato, Heinrich Marx erano senza problemi amici intimi. Karl era solo troppo giovane, doveva ottenere un’istruzione e farsi una posizione sicura nella vita. Sposarsi da studente era fuori questione). Neanche anni dopo il giovane Marx, diventato ormai marito e padre, si addomesticò, non volle vivere adattandosi alle circostanze per limitare le sofferenze dei propri cari, giustificando pienamente le cupe previsioni di suo padre.
È interessante che in età avanzata, avendo tre figlie adulte, guarderà la propria situazione con occhi diversi. Si conserva una sua lettera a Paul Lafargue che gli aveva chiesto la mano di Laura. Il padre preoccupato, a sua volta, chiede al fidanzato di sua figlia in uno spirito del tutto borghese: “Di che mezzi disponete, in sostanza, in questo momento, e in che modo intendete mantenere mia figlia? A suo tempo - spiega Marx - mi sono sposato senza pensare a questo aspetto della vita e ho condannato la mia famiglia a un’esistenza difficile; confesso che non vorrei la stessa sorte per Laura”.
Certo, un giovane di quel tempo, pieno d’amore e di passione, preso dalla battaglia senza quartiere per raggiungere lo scopo che si era prefissato, per il quale poteva sacrificare se stesso e gli altri senza neanche pensarci, suscitava simpatia piuttosto che rifiuto. È più forte di noi, i fanatici sono ancora cari ai nostri cuori. Eppure non si trattava di un’immagine piacevole e conciliante, non era un ottimo studente autore di scusabili scherzi infantili, ma di un altro, oserei dire, sconosciuto Marx.
Più tardi, quando la sceneggiatura sarà scritta, questo ruolo troverà un interprete adeguato: un giovane attore bulgaro, Ventsislav Kisëv.
Ma è ancora presto. Ci vorrà molto tempo – due o anche tre anni – prima che i primi episodi scaturiscano dalla penna. Parlo per me: le scene a me assegnate le scrissi con grande difficoltà. Una persona che scrive per professione sa che tormento è quando ti siedi davanti a un foglio di carta bianco e non hai la forza di spremere nemmeno una riga da te stesso. Sembra che tutto sia stato letto, pensato, discusso di qua o di là. Sembra facile farlo parlare. Ma lui tace, non vuol proprio parlare.
È il tuo eroe. Ma qualsiasi cosa tu gli faccia fare, lui non vuole.
Alla fine ho capito che fatica e che sfortuna sia scrivere sulle grandi personalità. Sto parlando, ovviamente, della mia esperienza. Ho capito: non ne ricaverai niente finché ci sarà una barriera tra lui e te. Finché non sarai entrato nella sua pelle, cioè tu stesso non sarai diventato grande, o meglio, ti sarai dimenticato della sua grandezza. Solo alla pari, come con un amico, ce la farai. Reincarnato in lui, ascoltando lui in te stesso.
Questo non è affatto misticismo. Alla fine, a interpretare lo stesso Marx, o Puškin se il film è su Puškin, è un artista di oggi, un uomo con un proprio nome e cognome, con il proprio volto, spesso già conosciuto dal pubblico sul palcoscenico o sullo schermo, e tuttavia lo spettatore è pronto a vedere in lui Marx o Puškin. Non è così anche nella nostra attività di scrittura? Se diamo per scontato che l’attore si esprima nel ruolo di un personaggio storico – e come potrebbe essere altrimenti? –, allora perché l’autore contemporaneo non dovrebbe anch’egli esprimersi attraverso un personaggio, sia pure storico?
Tali riflessioni sorsero molto più tardi, e invece in quel momento io ancora soffrivo sulla pagina bianca, misurandomi con i personaggi in un modo e nell’altro, a partire, in particolare, dalla stilizzazione, cosa che mi ha fatto star male: le parole mi erano estranee, i discorsi inventati mi erano estranei. Non sapevo neanche in quale lingua parlasse alla fin fine il nostro protagonista, ma la cosa sicura era che parlava. E poi si è pensato a un artificio generale: il film iniziava, secondo il progetto, con un primo piano di Marx già in età avanzata, con la classica barba e con le sue parole: “Io, tal dei tali, sono nato il tal giorno nella città di Treviri sulla Mosella; eravamo otto fratelli e sorelle, e nostro padre, che ai suoi tempi aveva sperimentato povertà e privazioni, desiderava con ardore che ognuno di noi figli ricevesse una buona educazione e occupasse un posto degno nella società…”. E così via. Cioè, era come se lo stesso Marx raccontasse la propria vita. Tutti questi erano tentativi di avvicinarci al nostro eroe, di avvicinare il pubblico a lui, abbandonando una volta per tutte l’ufficialità. Il classico esce dal ritratto, vivo e accessibile, e racconta se stesso alla gente del nostro secolo, a noi e a voi. E poi appare ancora in alcuni momenti nel corso dell’azione e, per così dire, commenta ciò che sta accadendo da un’epoca lontana. Che c’è di male?
Ma a questo punto incontrammo inaspettatamente e inopinatamente l’opposizione dei nostri partner tedeschi.
(1/2. Segue)
Anatolij Grebnev
(Traduzione di Leandro Casini)
(Brano tratto dal volume: Anatolij Grebnev, Zapiski poslednego scenarista, Moskva, Algoritm, 2000).
Inserito il 07/12/2022.
Anatolij Grebnev
«Un Marx sconosciuto entra nella mia vita»
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Anatolij Grebnev - Un Marx sconosciuto entra nella mia vita
Seconda parte
I compagni tedeschi si esprimevano cortesemente, come si conviene agli europei. Erano tutti sorprendentemente istruiti, con una buona proprietà di linguaggio, a differenza dei nostri capi che, come si sa, hanno problemi con la propria lingua madre, mentre le lingue straniere non le conoscono affatto. Loro invece se la cavavano anche in inglese, e sapevano addirittura un po’ di russo.
“E così, in sostanza il punto ovviamente non sta propriamente nel metodo che avete proposto. Il mezzo in sé può essere buono, anche se, ovviamente, non è nuovo. Ma in questo caso – come dire? – evoca tristezza e malinconia, il che, in generale, è inappropriato. Il vecchio ricorda la sua giovinezza e, come dite voi, con un sorriso nostalgico. Ma, in questo modo, non ne verrà fuori un film troppo pessimista?”.
Alla cortesia europea si aggiunse la correttezza diplomatica, poiché, dopo tutto, essi vedevano in noi il loro fratello maggiore. Il fratello minore, con tutte le cautele del caso, accusava noi, il maggiore, di alcune – come dire? – deviazioni dalla nostra comune ideologia. Non c’è il rischio, in diverse scene, di sminuire l’immagine, sacra per i comunisti, di un maestro e di un rivoluzionario, abbassandolo al livello dei sentimenti e dei sentimentalismi propri di un filisteo?
Discutemmo, sforzando il nostro tedesco e migliorandolo (i traduttori invitati, come sempre, si confondevano, non conoscendo l’argomento). Lo spettatore di oggi - sostenemmo con ardore - non ha nulla a che fare con le verità esposte nel libro Il capitale, che nessuna persona normale ha letto. E va raccontata la storia di una vita, non la storia delle idee. Un fidanzamento segreto, ecco ciò che interessa alla gente. E quell’improvvisa partenza su insistenza di suo padre. Il vecchio Heinrich Marx, conoscendo il carattere di suo figlio, lo manda da Treviri a Berlino, per così dire, via dal peccato. Un mondo lontano per quei tempi. E si oppone persino alle sue visite durante le vacanze. Perché? Tutto per la stessa delicata ragione: per proteggerlo dalle tentazioni. Ahimè, invano. Come si può intuire da alcuni accenni nelle lettere, i nostri giovani eroi riuscivano comunque a peccare.
Lo sviluppo filosofico del giovane Marx è, ovviamente, un argomento degno e persino necessario, ma lo spettatore probabilmente ci perdonerà se lo lasciamo un po’ come tra parentesi, beh, in un certo senso come un sottinteso. Altra cosa è che durante la sua crescita filosofica un giovane, e poi un marito maturo, non si sia preso le sue responsabilità nei confronti dei propri cari, rimanendo in questo senso invidiabilmente spensierato, come si conviene a un genio. Altrimenti, forse, oggi non parleremmo di lui.
No, i nostri colleghi tedeschi decisamente non accettavano un simile Marx. I sentimenti che poteva evocare, spingendo a preoccuparsi del suo rapporto con Jenny o a simpatizzare con il loro destino di vagabondi e cose simili, erano sentimenti tipicamente borghesi. Riuscii anche a notare che il pubblico tedesco è generalmente estraneo al melodramma, cioè, per qualche motivo, non versa una lacrima, a differenza del nostro. E piangere per Marx sarebbe stato perdipiù inaccettabile, quand’anche fosse possibile. I sentimenti borghesi non erano in alcun modo adatti all’arte del socialismo.
All’inizio, ascoltando tutte queste argomentazioni, io, sbagliandomi, dubitavo della sincerità dei nostri oppositori. Alla fin fine, qualcosa del genere sarebbe potuto venir fuori in qualche occasione, un po’ per caso, anche se non in modo così duttile, e magari qualche redattore se ne sarebbe andato, ma allo stesso tempo ammiccando leggermente, cioè facendo intendere che lui stesso non la pensa così: “Mi dispiace, vecchio mio, non chiedermi perché, il lavoro è lavoro”. Da noi questo si chiamava “una persona capisce tutto”.
Tutti capivamo tutto e la pensavamo alla stessa maniera, o almeno così sembrava. Nei primi anni di libertà, quando smettemmo di nascondere i nostri pensieri, scoprimmo che la pensavamo diversamente. Ex amici e persone che la pensavano allo stesso modo si ritrovarono improvvisamente su fronti opposti.
Ma allora, negli anni ’70, era difficile immaginare che una persona appartenente al mondo della cultura discutesse seriamente delle idee progressiste del realismo socialista, o dell’ottimismo sociale, o di qualcosa del genere. E non si trattava di riunioni stenogrammate, ma di conversazioni private, guardandosi negli occhi, davanti a un bicchiere di vodka. Non può essere, i ragazzi ci stanno prendendo in giro. Oppure sono cauti oltre misura, sebbene noi, da parte nostra, non gliene abbiamo fornito nessuna ragione.
Invece no, non ci stavano prendendo in giro. E non ammiccavano. A differenza di noi, che avevamo assimilato il doppio pensiero [concetto corrispondente al doublethink di Orwell, ndt], i tedeschi dicevano sinceramente quello che pensavano. O meglio, pensavano ciò che dicevano, che era anche ciò che dovevano dire e pensare. Che pena doveva essere per loro, poveretti, sentirci prendere tutte quelle libertà politiche: infatti allora non eravamo più tanto timidi! Essi proseguivano il dialogo con cautela, a volte annuivano, ridacchiavano, ma non appena il discorso cadeva su cose serie, sul lavoro, continuavano a insistere sulle proprie posizioni.
Nonostante tutto ciò, la loro vita non era affatto male, incomparabilmente migliore della nostra vita nella nostra metropoli di cui andavamo tanto fieri. C’era persino una certa ambiguità nel fatto che, da un lato, noi eravamo i messaggeri del paese vittorioso, la roccaforte e l’avamposto del progresso mondiale, e per di più avevamo nostre truppe sul loro territorio, e, dall’altro lato, noi stessi correvamo con la lingua di fuori nei loro negozi, perché nel primo paese del socialismo era impossibile comprare anche un semplice paio di mutande. Gli amici tedeschi, devo dire, si presero cura di noi con premura e pazienza da questo punto di vista, mostrando in qualche modo anche rispetto per le nostre difficoltà e sacrifici nella lotta contro il capitalismo in fase di decadenza.
Invece per i polacchi, per loro no, non avevano assolutamente rispetto. Intraprendenti cittadini polacchi, avendo libero accesso a Berlino, inondavano i negozi locali, soprattutto chissà perché i negozi di scarpe, dove si sentiva parlare solo polacco. Su questo argomento venivano fuori anche delle barzellette, di solito innocue, non offensive.
In generale, non ho notato alcuna manifestazione di xenofobia o intolleranza tra i tedeschi di allora e di oggi. Come se niente fosse successo in precedenza. Persone tranquille e dal buon carattere. Entrano nell’ascensore e salutano. Alla porta ti lasciano il passo. Nei primi giorni – cosa insolita e strana – tutti sono accoglienti. Allora ti ci abitui. Veramente sono questi i figli di coloro che alzavano il braccio gridando “Heil”? O addirittura sono essi stessi?
All’inizio, lo confesso, ogni tanto vestivo mentalmente una delle mie nuove conoscenze con un’uniforme grigia delle SS, gliela misuravo addosso, per così dire. Poi mi sono ripreso. Che i miei amici mi perdonino. In fin dei conti, con mia sorpresa, non c’erano tracce del passato da nessuna parte, in nessuno, in niente. I bambini della scuola dove una volta sono stato portato cantarono in coro con fervore una canzone sull’amicizia sovietico-tedesca, e i loro occhi brillavano. Bene, che dire di più, come te lo spieghi?
E – miracolo! – nessun senso di inferiorità e nessun risentimento nazionale rintracciabile con evidenza in qualcosa o da qualche parte, né un senso di sofferenza per la patria smembrata, per la capitale mostruosamente recintata dal famigerato Muro, tanto che il filo spinato corre lungo il canale della Sprea, dividendo anche il fiume in due parti. E il fatto che là, dall’altra parte (da drüben, come si dice qui), abbiano parenti che vivono meglio e possono viaggiare in ogni parte del mondo qui sembra accettato come cosa scontata. Che farci, ineluttabilità storica. Ho anche sentito dire che la divisione della Germania è un vantaggio per essa e per il mondo. Giudicate voi stessi, la Germania era stata unita solo per circa settant’anni, da Bismarck a Hitler, e questi furono per essa stessa anni sfortunati; molto meglio e più sicuro per tutti quando è divisa.
Quest’idea l’ha sviluppata nel dettaglio il mio amico berlinese Manfred Krause. Un tempo egli si ritrovò tra coloro che eressero il Muro con le proprie mani. Quella notte, mi racconta, loro, i membri della Gioventù comunista, furono mobilitati con urgenza, vennero date loro pale e lettighe da cantiere, fu preparata l’armatura, fu portato il cemento; in una parola, al mattino, con i berlinesi che se la dormivano tranquillamente, il Muro si ergeva lungo tutto il perimetro del confine.
Con il Muro Manfred aveva un suo rapporto. Se fosse comparso due anni prima, la sua vita sarebbe andata in modo completamente diverso. Studiava a Mosca, al VGIK [Istituto Statale di Cinematografia di tutta l’Unione, ndt], nel laboratorio di Dovženko, compagno di corso di Otar Ioseliani e Larisa Šepitko, che in seguito ci ha presentato. Un giorno, durante le sue vacanze estive a Berlino, Manfred e i suoi amici andarono al cinema per vedere un film americano. Non c’era ancora il Muro, ma il confine esisteva, e non era consigliato andare dall’altra parte; peccato però che questo film era da drüben. Uno dei ragazzi fece la spia e il povero Manfred fu immediatamente espulso, al terzo anno; in pratica, non gli fu permesso di tornare a Mosca. Non ha mai ricevuto un diploma, ha lavorato come aiuto regista [in russo “secondo regista”, corrispondente all’inglese 1st assistant director, ndt] alla DEFA, e in questo ruolo è stato invitato a lavorare al nostro film; prima ancora aveva collaborato con i coniugi Thorndike alla realizzazione del loro famoso Miracolo russo [1963].
Da Mosca, dall’ostello del VGIK, Manfred aveva conservato la sua amata lingua russa, così come una cerchia di amici moscoviti, ai quali faceva visita non di rado, sedendo con loro fino a dopo mezzanotte come si usa a Mosca, e i quali riceveva a Berlino con la stessa allegria moscovita. In una parola, Manfred era “dei nostri”, già completamente rovinato dai vizi della nostra bohème, fatta di interminabili conversazioni confidenziali in cucina e di tutto ciò che è così caro al cuore di un uomo occidentale ben educato che viene a trovarci. Ciò non gli impediva per il momento (ma non per sempre – vedi sotto) di rimanere un convinto sostenitore del sistema socialista e del Muro che lo proteggeva.
Egli viveva a Berlino, anche se si trattava di Berlino Est, in modo del tutto borghese, in un appartamento spazioso e ben arredato sulla Karl-Marx-Allee: erano lui, sua moglie, due figlie e un figlio, e c’era abbastanza spazio per tutti, compresi gli ospiti che facevano loro visita di continuo. Con gli anni poi si trasferirono in una villa in un prestigioso sobborgo di Berlino; qui agli ospiti era già assegnato un intero piano o – a loro scelta – una dépendance in giardino. Era, a quanto capisco, lo standard di vita di un intellettuale occidentale, quasi inaccessibile a un nostro confratello in URSS. Manfred, come ho già detto, lavorava agli studi cinematografici, sua moglie Iskra, bulgara, guadagnava con la traduzione simultanea, i bambini studiavano.
Anche nelle altre case che ho visitato le famiglie vivevano bene, con gusto, anche se non sempre in modo agiato. I tedeschi, contrariamente alla credenza popolare, sono ospitali e per niente avari quando vi invitano a casa loro, e loro stessi vanno sempre in visita recando un regalo. Un’altra cosa, a loro piace l’ordine: sei invitato a pranzo, per favore, vieni all’una del pomeriggio; e se a cena, per favore arriva entro le sette.
Questo standard di vita, ovviamente, era oscurato dall’impossibilità di trascorrere una vacanza da qualche parte nel Mar Mediterraneo: dalla RDT non si andava oltre Sofia e Budapest. Ma, a quanto pare, si erano abituati, non si lamentavano. Forse era questa l’incarnazione del socialismo in solo paese, come ci veniva insegnato? Solo che poi questo paese era tagliato fuori dal mondo esterno. Il benessere borghese non interferiva affatto con l’ideologia proletaria, tutto ciò si combinava miracolosamente. Dallo stesso Manfred appresi – e presto me ne sono convinto e ne sono rimasto persino impressionato – che i loro comunisti, compagni di partito, osservavano una propria etica di partito, ad esempio, si rivolgevano l’un l’altro con il “tu” indipendentemente dal grado e dall’età… “Tu, compagno Krause”. “Tu, compagno Honecker”, se devo parlare con il segretario generale.
E tutti gli altri sono “signori”. Il signor tal dei tali, ecc. Sia al lavoro, sia nella vita di tutti i giorni, sia con i vicini, ci si dà del “lei”. A me piaceva anche questo. Il rispetto per l’individuo da noi è quasi sconosciuto. No, che dire, avevano una vita abbastanza dignitosa: tutti avevano un’occupazione, tutti uno stipendio per vivere, prestazioni sociali, negozi dove potevi facilmente caricare un carrello con la spesa per una settimana in quindici minuti. Quando, un giorno di una calda domenica estiva, Manfred, i suoi genitori ed io siamo andati fuori città – Berlino, scoprii, è circondata da laghi – e ho visto la loro spiaggia tedesca, bambini in costume, giovani e vecchi, adulti sotto tende colorate, e poi un caffè accogliente dove ci aspettava il pranzo – un tavolo per noi era stato riservato per telefono –, quando per una volta ho vissuto una vita così civile, volevo davvero entrare nel loro socialismo con tutte le comodità.
Quell’estate Manfred ed io abbiamo fatto un lungo viaggio in macchina in autostrada – da Berlino alla Sassonia, a Dresda, da lì alla Turingia – e Manfred mi ha mostrato con orgoglio il suo paese, piccolo, ben curato e laborioso. Ricordo un episodio particolare a Weimar. Siamo andati in un negozio di articoli sportivi e lì a Manfred sono piaciuti dei pantaloni. Non aveva con sé contanti, ma aveva un libretto d’assegni, e questo era sufficiente: compili l’assegno e ottieni il tuo acquisto. Ero curioso di sapere che tipo di ordine fosse, perché il libretto non indicava l’importo del deposito. “E se hai solo pochi penny in deposito e compri per mille marchi?” – “Ma perché dovrei comprare per mille, se ho, come dici tu, pochi penny?” – “Ma loro non lo sanno!” – “Ma lo so io!”.
Non riuscivo a capacitarmi di ciò. Torturai di domande il mio amico tedesco. “E se l’acquirente fosse una persona disonesta?” – “Ma prima o poi verrebbe scoperto.” – “E poi che succede?”.
Qui si grattò la testa a lungo. E quello che mi disse dopo mi impressionò. Disse che né i colleghi né i vicini avrebbero stretto la mano a uno così. Sarebbe stato evitato.
Per un attimo mi immaginai una situazione simile da noi. E poi, ricordo, dissi che finalmente avevo capito chi ha inventato il socialismo e per chi. I tedeschi, per i tedeschi, per chi altro? In quale altro luogo puoi trovare persone così oneste e rispettabili? “Da ciascuno secondo le sue capacità” – questi sono, ovviamente, i tedeschi!
Scoppiammo a ridere. Manfred apprezzò lo scherzo. Tuttavia, lui aveva preso sul serio il socialismo.
Nonostante il fatto che loro vivessero nell’ordine e nella prosperità, e noi fossimo disordinati e confusi, con il nostro modo di vivere eternamente instabile, qualcosa tuttavia li solleticava e li attirava verso di noi a Mosca, e per qualche motivo tutti loro, e non solo i tedeschi, amavano alla follia venire da noi e vivere nei nostri hotel dove il personale sbraita dietro la porta fin dal mattino, mangiare salsicce rivestite di cellophane, in fila al buffet, e la sera venire a trovarci e poi prendere un taxi per tornare in albergo. C’era qualcosa in tutto ciò che li attraeva. È come l’invidia che uno studente eccellente prova per un fannullone incallito. Io ho il massimo dei voti in tutte le materie, e questo qui salta le lezioni, cosa che io non mi sono mai permesso di fare. Ma ecco che mi chiedo che cosa faccia lui quando marina la scuola. Ah, se mi portassi con te almeno una volta!
Con uno di questi “invidiosi” siamo diventati amici intimi, avevamo stretto amicizia coinvolgendo le rispettive famiglie molto prima di Marx, già durante i miei primi viaggi in RDT. Alfred Schrader, a differenza dell’energico e intraprendente Manfred Krause (che, tra l’altro, ci aveva fatto conoscere), era un tipo da scrivania, esteta e appassionato lettore di libri; lavorava come redattore – drammaturgo lo chiamavano da loro – alla radio, talvolta al cinema, viveva in un caseggiato, una specie di “chruščoba” [caseggiati a blocchi prefabbricati tipici dei tempi di Chrušchëv, ndt] berlinese, in un appartamento angusto con sua moglie e sua figlia, guidava una Trabant, la loro Zaporožets, i soldi non abbondavano, anche se la famiglia sbarcava il lunario, come tutte le famiglie tedesche. Era più vecchio di Manfred, aveva fatto la guerra. Magro, agile, con la testa un po’ all’indietro, con gli occhi miopi dietro gli occhiali spessi, il tipico intellettuale occhialuto, conoscitore di Goethe e Schiller, egli stesso un meraviglioso stilista, arguto interlocutore (cos’altro ho dimenticato?), diventava improvvisamente un ortodosso inflessibile quando si trattava dei fondamenti dell’ideologia. A un certo punto mi rivolse un timido rimprovero: “Tolja, das ist doch Pessimismus!” a proposito di alcuni testi che gli erano stati dati in lettura, ed era impossibile smuoverlo. Credeva in ciò che diceva.
Quando, alla fine degli anni ’80, a cavallo di due epoche, lascerà in modo eclatante il partito, lo farà con convinzione, esponendo dettagliatamente le sue ragioni in una lettera dallo stile raffinato – me la mostrò. Non rinunciava ai suoi precedenti ideali; al contrario, riteneva che il partito e la sua dirigenza avessero rinunciato senza scrupoli alle loro posizioni e lui non voleva essere un membro di un tale partito.
Ma tutto questo è di là da venire, così come la fuga di Manfred, di cui parlerò più avanti. Ora, al momento descritto, Alfred Schrader è un sincero patriota della RDT, un amico e apologeta dell’Unione Sovietica, cosa che è anche giustificata da alcuni fatti della sua biografia. Nel 1942, a diciassette anni, lui, una recluta, fu fatto prigioniero – e non in un posto qualsiasi, ma vicino a Sebastopoli –, dopo aver combattuto esattamente per un solo giorno. Ricorda gli anni di prigionia con un sentimento nostalgico: qui ha conosciuto e, come dice, si è innamorato per sempre del nostro Paese. La popolazione trattava i prigionieri senza malanimo, le compassionevoli donne russe li nutrivano, «i ragazzini li rifornivano di machorka [tabacco da fumo di scarsa qualità, ndt]», come dice una vecchia canzone di prigionia. Tutto questo sembrava ancora impressionare Alfred. Inoltre, veniva loro impartita un’educazione di base in delle speciali scuole politiche. Di una di queste scuole, mi pare dalle parti di Karaganda, mi raccontò Andrew Thorndike, quello del Miracolo russo. Anche lui era prigioniero e lasciò la scuola – parole sue – da comunista convinto e amico della Russia. Eccoli i miracoli.
Di sera la città si faceva scura, le strade diventavano deserte; alle nove di sera potevi essere quasi l’unico passeggero della metropolitana, come è successo a me. La RDT non aveva carburante proprio, comprava carbone dai polacchi, petrolio da noi o dai rumeni; per le strade i lampioni emettevano una pallida luce, nelle case l’elettricità veniva risparmiata tramite un relè che accendeva la luce delle scale per un minuto esatto in modo da farti salire in fretta. Ma in tutti gli appartamenti in quelle ore erano accesi i televisori: i tedeschi dell’est, tutti quanti, guardavano le trasmissioni dell’altra parte, i disturbatori per la televisione non erano ancora stati inventati. Molto probabilmente è per questo motivo che la televisione della RDT cercava di tenere il passo di quella dell’Occidente, trasmettendo dei polizieschi assolutamente decenti, non peggiori dei “loro”, e addirittura si permetteva un certo rilassamento nei costumi mostrando le relazioni intime dei personaggi. Da questo punto di vista erano più liberi che da noi. Nei loro film si denudavano tranquillamente e andavano a letto. Ricordo una scena in cui i coniugi, facendo l’amore, parlano nelle pause, per così dire, su argomenti relativi alla produzione. Lei dice a lui: “Non dimenticare che non sono solo una donna, ma anche una funzionaria del partito, investita di responsabilità su questo e quest’altro”. In un altro film si racconta di due amici omosessuali che vivono ai lati opposti del Muro e che soffrono fortemente il dramma della separazione. Tuttavia, in questo caso si trattava di film, mi pare, non per la televisione, ma destinati al noleggio.
In tutto il resto, e in verità in ogni cosa, c’era una regolamentazione rigida e indistruttibile: si può / non si può. E non era un grosso peso per i nostri amici registi, da quanto ho potuto osservare. Se puoi, puoi; se non puoi, non puoi. Comunque io non ho mai sentito parlare di un solo film rimasto da loro sullo scaffale. Tali film loro non li giravano. Forse questo era il prezzo per una vita generalmente prospera? Per dei compensi che noi non ci saremmo mai sognati? Per i negozi dove puoi comprare tutto ciò che desideri strappando un pezzo di carta dal tuo libretto degli assegni? È un tacito contratto, un gentlemen’s agreement tra gli artisti e il potere?
Neanche nel nostro paese nessuno scriveva o girava un film per lo scaffale. Scrivevamo e giravamo un film con la speranza: e se poi invece passa? E dopotutto passava, e scivolava via inosservato! Il loro socialismo – qualunque cosa tu dica – era scientifico, con le sue rigide regole. E, soprattutto, con esecutori coscienziosi. Da noi, fortunatamente, non c’era neanche l’odore. Da noi c’era il caos, da loro l’ordine. E una volta ho fatto anche questa scoperta: tale situazione aiuta loro e nella stessa misura fiacca noi quando si tratta di industria e agricoltura. Ma viceversa, nel campo della cultura e dello spirito, abbatte loro e aiuta noi: da loro “non si può”, mentre da noi, vedi, qualcosa passava. Di questo riuscivamo a vivere.
L’inizio delle riprese fu organizzato con tutta la solennità del caso. Eravamo a Potsdam, alla DEFA. I padroni di casa organizzarono un banchetto per la troupe cinematografica. Tavoli con i segnali di dove ognuno dovesse sedersi. Posti a sedere secondo la catena di comando. Sul piatto l’immagine di Karl Marx e il nome dell’ospite. L’orchestra suonava Moscow Nights. 1977, marzo.
Per il resto, tutto si svolgeva come sempre, come per tutti gli altri film. Un mio amico sceneggiatore, con il quale una volta abbiamo assistito a delle riprese per le strade di New York, si rallegrò quando vide che loro avevano gli stessi nostri inconvenienti: i passanti irrompono nell’inquadratura, la polizia li allontana pigramente, il regista – e questo era il famoso Schlesinger – si precipita ad urlare nel megafono. “Guarda, succede anche da loro!”, e il mio amico si fregò le mani dalla soddisfazione. Il cinema, infatti, è internazionale non solo nel linguaggio, ma anche nei metodi di creazione, nelle abitudini e nei costumi delle persone che fanno parte della confraternita cinematografica, che sono pronte a capirsi al volo. E lì, e qui, ovunque le persone si riuniscono per un breve periodo, ma come fosse per sempre, tanto intensa è la vita in comune quanto è, in genere, fugace.
Abbiamo vissuto tutti insieme a Potsdam, in un hotel, poi per qualche tempo ci trasferimmo tutti a filmare negli studi di Mosca. Il nostro affascinante giovane Marx – Slava Kisëv – divenne la mascotte di tutti noi. Fu Manfred Krause a scovare Slava a Sofia dopo lunghe ricerche, e fu un grande successo. Allegro, intraprendente, e anche istruito, oltretutto. La sua partner sullo schermo – l’attrice di Dresda Renate Blume – era dolce, impeccabile, con quel suo bel sorriso rivolto a tutti e a nessuno (oh, queste donne europee, dannazione, potessi almeno sapere qualcosa di te!…).
La nostra polemica con la parte tedesca continuava ancora, con l’inizio delle riprese essa non si era placata, forse anzi si era addirittura intensificata. Ci avrebbero volentieri mandato al diavolo già da molto tempo: “Fai quello che vuoi!”, ma sarebbe stata da parte loro una grave negligenza riguardo ai doveri ufficiali, a cui i compagni tedeschi non potevano arrivare. Inoltre, erano, ovviamente, feriti dalla nostra caparbietà, vedendovi l’arroganza del fratello maggiore impenitente.
Bene, che ci puoi fare, a loro non piaceva né il nostro copione, né il girato, e neanche gli attori. “Attraktiv, sympatisch, Mann für eine Nacht, aber warum denn Marx?” - me lo sono appuntato sentendo le parole di un redattore molto attivo. Questo discorso, ovviamente, riguardava il nostro Slava Kisëv. “Attraente, bello, un uomo per una notte, ma che ha a che vedere con Marx?”.
E poi, naturalmente, c’era questo pessimismo che ci ha perseguitato dal primo all’ultimo giorno. Sembrava che il pessimismo a loro non si addicesse per niente, perché loro, i fortunati, guardavano con fiducia al futuro. E noi?
Forse qui c’è qualcosa di tipicamente nostro, che deriva dalle nostre tradizioni, dalla nostra mentalità, come si dice adesso? (Dov’erano prima queste nuove parole? Sono appena nate o si nascondevano nei dizionari, inosservate?) Ecco, se ci fate caso, alla domanda “Come va?” nessuna persona normale risponderà: “Bene”. Saresti considerato uno stupido. O, peggio ancora, un opportunista, un mistificatore. E a chi altri potrebbero andar bene le cose? A quale persona perbene?
Era nei nostri anni di scuola, sotto Stalin, che ci veniva raccontata una vita felice e gioiosa, e allora quasi ci credevamo, come in quella barzelletta orientale sull’halvà [cibo dolce consistente in una dura massa di noccioline e semi tritati, ndt], solo al contrario: gridavamo “è dolce” così forte, che sentivamo davvero dolcezza nella nostra bocca. Poi, al tempo di Chruščëv, fu lanciato lo slogan che l’attuale generazione sarebbe vissuta nel comunismo. Ma dubito che qualcuno ci credesse, allora non credevamo più agli slogan. Il tono riflessivo ed elegiaco delle nostre opere era una risposta alla propaganda ufficiale così piena di energia. Non dicevamo nulla contro di essa. Ce ne stavamo tristi in silenzio, raccolti in noi stessi.
Ai giorni nostri, quell’ottimismo del vitello, come è stato definito, viene considerato un segno di cattivo gusto, mentre il tono triste e riflessivo, elegiaco, persino, si potrebbe dire, malinconico ha permeato la nostra arte, o almeno la parte migliore e onesta di essa. Era, se volete, un marchio di qualità.
Era impossibile lottare, per quanto ci provassimo. Per favore, un finale felice, un lieto fine, happy end, tutto doveva finire bene per tutti, il vizio andava sconfitto e l’eroe vinceva; da dove venivano invece quel nostro inestirpabile gusto per l’amaro, quella triste increspatura della fronte o – per quanto tu ti sforzassi di respingerli – quei pensieri sull’imperfezione del mondo? E quel nostro classico “riso insieme alle lacrime”?
È questo, naturalmente, ciò che più irritava i nostri colleghi redattori tedeschi, poiché era presente e si notava anche nella nostra narrazione su Marx. Quello stato d’animo era difficilmente individuabile, eppure c’era. Il pessimismo.
E poi i sottotesti. Ecco un’altra cosa divenuta un problema nei nostri rapporti. A lungo non hanno osato dirlo, molto probabilmente non hanno nemmeno capito subito che cosa non gli piaceva così tanto nei dialoghi che avevamo scritto. Erano abituati a trattare testi in cui tutto viene detto direttamente, senza sottintesi: se ti amo, allora ti amo, e se ti odio, allora ti odio. A quanto ho capito, anche il cinema di Hollywood non riconosce le allegorie o i significati nascosti. Se è una notte di luna, dev’essere una notte di luna, e non «sulla diga brilla il collo di una bottiglia rotta», come nel Gabbiano di Čechov nel ragionamento di Trigorin.
Ecco, ora finalmente veniva pronunciata questa parola che avevamo cercato a lungo: Čechov! Ciò che ci faceva accigliare, ma che non riuscivamo a definire, fu finalmente rivelato da questo nome. Chi al nostro posto non ne sarebbe stato orgoglioso?! Il nome di Čechov suonava come una parola d’ordine. Come un segno che proprio noi tre, gli sceneggiatori e il regista, amavamo l’arte e che, quindi, in qualche modo eravamo riusciti a esprimerlo in un materiale così distante e alieno per noi. In ciò che ci era estraneo abbiamo messo del nostro. Voi ci avete visto Čechov? Grazie.
Fino a quel momento tutta la nostra polemica sia a Berlino sia a Mosca si era svolta in riunioni pacifiche davanti a una tazza di caffè e si era conclusa con amichevoli strette di mano. Addestrati a tali battaglie, noi autori sovietici, con espressione pensierosa, come sempre, promettemmo di “pensarci sopra”. A dire il vero, le discussioni più accanite non erano avvenute tanto tra gli autori e i redattori, quanto piuttosto tra i consulenti storici: il nostro Georgij Aleksandrovič Bagaturija, gliene va dato atto, tenne fermamente la posizione, cercando di persuadere i suoi colleghi tedeschi. Alla fine i nostri colleghi non ressero più e scrissero un reclamo. Ecco una parola che sicuramente non può essere facilmente tradotta in tedesco [“telega” in russo significa sia “carro, carretto” che “reclamo, denuncia”, ndt]. Il reclamo arrivò direttamente a Mosca, al nostro Comitato Centrale. Lì, in dieci pagine, punto per punto, vennero elencati e descritti i nostri peccati, e lì i tedeschi ci accusarono di agire in pieno, e anche intenzionalmente, a favore della propaganda borghese, sminuendo l’immagine di Marx e i suoi insegnamenti. L’Istituto di marxismo-leninismo della RDT, da cui era stato inviato il messaggio, proponeva di sottoporre la sceneggiatura a una revisione approfondita e, nel frattempo, di sospendere le riprese.
All’inizio ci preoccupammo. Ma, scoprimmo presto, senza motivo. I marxisti tedeschi, ovviamente, sopravvalutarono la coscienziosità del fratello maggiore. Essi si erano rivolti ai nostri marxisti. Ma non ne trovarono. Fecero appello ai nostri dirigenti, ma i nostri dirigenti a quel tempo erano già abbastanza stanchi dei tanti anni di zelante vigilanza, non volevano impicciarsi di Marx, e giustamente, dal momento che Marx non lo si poteva capire senza un mezzo litro. Il reclamo fu trattato in modo tradizionale: fu messo da una parte. Ne ho ancora una copia da qualche parte.
Alla fine i tedeschi rinunciarono e si calmarono. Forse devono aver pensato tra sé: abbiamo proprio bisogno di prendercela così tanto se a loro non interessa?
È improbabile che questo film venga trasmesso di nuovo. Almeno per il prossimo futuro. Anche se, credo, non ci sia nulla di contrario agli ideali della democrazia. A meno che non lo sia l’odioso nome del nostro eroe. Posso immaginare la reazione se d’un tratto sui programmi di tutta una settimana comparisse una riga con il titolo del nostro film. A che serve? Non staranno tornando al potere i comunisti?… Così, meglio lasciarlo stare sullo scaffale… Stavo per scrivere: fino a tempi migliori. No, non serve!
Anche se, ripeto, non c’è niente di male. Si tratta di un film decente, sotto tutti gli aspetti: una buona regia di Lev Kulidžanov, buon gusto e senso delle proporzioni che non cambia in nessun fotogramma, la fotografia impeccabile di Vadim Jusov, le meravigliose scene di Pëtr Paškevič e i costumi di Ella Maklakova, buoni attori e ottima musica. Senza nessuna falsità, credo, senza pasticci, che di per sé è una rarità per un quadro storico in costume.
E poi abbiamo comunque creato uno spettacolo affascinante, costringendo milioni di persone (milioni in senso letterale, non simbolico) a seguire sera dopo sera una trama non così facile da capire. Io stesso ho assistito a una scena in cui il pubblico si racconta a vicenda il contenuto degli episodi mancanti. A Bol’ševo, in fila a un’edicola (ora è persino difficile immaginare che la gente facesse la fila per i giornali), una vecchietta raccontava a un’altra come Marx – “ieri” – fosse stato convocato in una stazione di polizia di Parigi e come fossero rimasti lì ad aspettare insieme a Bakunin e qualcun altro, e un uomo si intromise: “Quello – disse – non è affatto Bakunin, ma Heine, il famoso poeta”. “Ma c’era anche Bakunin!” – intervenne qualcun altro della fila. L’autore della serie era lì, non riconosciuto e, di certo, si divertiva un sacco.
L’era di Santa Barbara era appena iniziata.
Si può facilmente capire che cosa rappresentasse il nostro Marx per queste persone: il protagonista di una serie televisiva. E la sua stessa vita, fatta di grandezza e di sofferenza, usata come soggetto per i mass media, consumata come cibo – spirituale, ovviamente. Come affrontare questa situazione?
Ma, d’altra parte, dei film come questo, non solo sono di buona qualità, non offendono il gusto, sostengono, checché se ne dica, il livello culturale della società, ma contribuiscono anche ad ammorbidire le rigidità dei principi morali, non è vero? In fondo, se il fondatore [del comunismo] non è un giudice inflessibile, un dogmatico, uno che pretende sacrifici da tutti noi in nome di un’idea, ma una persona viva, impulsiva, comprensibile e accessibile, allora significa che possiamo anche liberarci dall’ascetismo e vivere più liberamente.
Che giudizio possiamo dare di ciò? Questa è la dialettica: due verità.
Ovviamente non avevamo affatto sovvertito i fondamenti del marxismo. E fummo felici di ricevere per il nostro lavoro il Premio Lenin, certo non lo rifiutammo. E chi avrebbe rifiutato?
A dire il vero, a quell’epoca questi premi erano diminuiti di valore. Alla fine degli anni ’50, quando apparvero i premi Lenin – al posto degli aboliti premi Stalin –, venivano assegnati con una selezione molto più accurata e solo una volta, allora sì che avevano un grande valore. Ricordo come ci congratulammo con i nostri compagni Čukhrai e Ežov, premiati per la Ballata di un soldato, e che festa ci fu. I loro “vicini” nell’elenco dei vincitori erano, mi pare, Ulanova e Richter.
I premi Stalin furono presto ripristinati, chiamandoli di Stato e sostituendo i distintivi. Gli ex vincitori stalinisti, credo, fecero capire alle autorità che era meglio non toccarli. Per quanto riguarda i nuovi premi, c’erano molti candidati e già due anni prima di noi ci furono venti documentaristi insigniti contemporaneamente per un’epopea sulla guerra.
La delicatezza della situazione risiedeva nel fatto che a quel tempo nessuna persona sana di mente nella nostra cerchia stimava coloro che ci governavano. Trattavamo con ironia quelle onorificenze, quelle “spillette” con cui incoronavano se stessi e noi. E allo stesso tempo, nessuno esitava a prendere dalle loro mani e appendersi al petto la meritata “spilletta”. Inoltre, molti si offendevano se venivano esclusi dall’ennesima onorificenza o dal distintivo di vincita di un concorso.
Nella RDT i nostri compagni di lavoro si offesero. Loro, poveretti, non furono premiati come speravano. Il successo del film in URSS non aveva riconciliato i nostri severi oppositori con il Marx sconosciuto. Come si è poi scoperto, a Honecker il film non era piaciuto. Lo confermava il silenzio quasi totale della stampa. Il film venne trasmesso dalla televisione di Berlino una sola volta in orario diurno.
Il nostro leader si rivelò più generoso. Si capiva che lui, a differenza del segretario generale tedesco, Marx non l’aveva studiato e quindi era molto più indulgente nelle sue valutazioni. “Pensavo che sarebbe stato di una noia mortale, un Capitale”, confessò ingenuamente a Lev Kulidžanov in una conversazione telefonica. “E invece si scopre che è interessante, eccome! Accetti le mie congratulazioni!”.
Così è stato.
***
Quell’epoca stava finendo, e senza neanche avvisarci. Nel 1989 il Muro crollò. Tre anni prima Manfred Krause era fuggito in Occidente. Il mio racconto sarebbe incompleto senza Manfred e la sua storia.
Manfred era andato con una troupe cinematografica in viaggio di lavoro a Bonn. Un bel mattino i suoi compagni non lo trovarono nella camera d’albergo; l’addetto alla reception disse loro che il signor Krause era partito di notte, chiedendogli di consegnare queste lettere. Due, una ai colleghi, l’altra al segretario dell’organizzazione del partito. In esse Manfred spiegava i motivi del suo atto. Perché scrivere al segretario del partito se hai già deciso di mandare tutto al diavolo e sparire? Lo capirà soltanto chi conosce i tedeschi.
La fuga era stata preceduta da un complesso intrigo, per così dire, una combinazione di più mosse. Lui e sua moglie Iskra avevano divorziato per dare a lei l’opportunità, in quanto cittadina bulgara, di partire con i bambini per la sua patria, visto che da lì l’ingresso nella RFT era libero. Fecero tutto questo, vendettero la casa, si separarono, e dopo un po’ avrebbero dovuto ricongiungersi. Ma è andata diversamente: il divorzio fittizio si è trasformato in uno vero, succede anche questo. “Qualcosa in noi si era spento”, mi spiegò Manfred anni dopo, a Monaco, dove lo rintracciai. È diventato un uomo d’affari, ha messo su un’impresa e anche un po’ di chili. Il ragazzo del VGIK così carino, che parlava in russo quasi senza accento, il nostro uomo, era diventato qualcosa di diverso. Ci siamo seduti in un caffè, entrambi avevamo un’ora di tempo. Mi ha raccontato della sua fuga: “Con molta difficoltà ho organizzato questo viaggio di lavoro a Bonn, ero terribilmente preoccupato per la frontiera, se mi avessero costretto a svuotare le tasche avrebbero trovato il libretto di lavoro, avrebbero chiesto perché l’avevo con me, e tutto sarebbe crollato. Per fortuna non è successo niente”. Notai come tremavano le sue mani mentre raccontava. E il libretto di lavoro non era necessario, lavoro non ce n’era. Fu preso in un grande magazzino di Monaco per interpretare Babbo Natale durante le vacanze di Natale, trenta marchi al giorno. Ora ha una società di intermediazione, un’auto Audi, un appartamento. La moglie è una donna con una buona professione, un medico. La figlia è sposata, il figlio Bobby è uno studente, vive dalla sua ragazza. Anche Iskra ha riorganizzato la sua vita. A volte si sentono per telefono…
Questo fu il nostro incontro a Monaco, passato seduti in un caffè conversando da vecchi amici. Pagando al cameriere, Ober, chissà perché chiese una copia dello scontrino, e se la mise distrattamente in tasca. Qualcuno gli paga il conto lì, o cosa?
Sulla vita passata, sugli amici comuni, sul cinema… non una sola parola. Come se ci avesse dato un taglio. In effetti, era come se non ci fosse niente. Da qualche parte ora le cassette con il nostro Marx staranno raccogliendo la polvere, saranno ancora intatte?…
Ritornando a Berlino ho trovato frammenti del Muro ancora in piedi, completamente coperti di scritte. All’ex valico di frontiera sulla Friedrichstrasse, il famoso “Charlie”, ora liberato dalle barriere, è stato aperto un museo unico nel suo genere, davvero originale: il Museo del Muro. Qui, in un edificio a due piani, vengono mostrati reperti relativi all’esistenza del Muro e ai tentativi di superarlo, saltarlo, scavalcarlo: aerei fai-da-te, auto con posti per una persona che si poteva nascondere sotto il sedile, con armature sopra i vetri – che cosa non ha inventato la fantasia umana. Per anni una coppia di sposi ha cucito un pallone di tessuto di seta, l’ha riempito con il gas di alcune bombole, su questo dispositivo poi è decollata ed è riuscita ad atterrare dall’altra parte; un altro ingegnoso artigiano si era costruito un paracadute… C’erano anche fotografie di vittime: le guardie di frontiera della RDT sparavano a colpo sicuro…
Mi è venuta persino in mente una trama: tutti i membri di una famiglia si preparano al volo-fuga, cuciono un pallone aerostatico, dedicano a questo piano tutta la loro esistenza, anche le relazioni interpersonali si basano su questo: con gli anziani genitori, coi figli, coi vicini di casa. E ora, quando, a prezzo di sforzi incredibili, tutto è finalmente sistemato e l’obiettivo è così vicino, arriva l’epilogo: il Muro crolla, la frontiera viene aperta. E resta quel pallone, l’opera di tutta una vita.
Ho pensato di poterla scrivere, una storia così allettante. Il titolo del mio copione sarebbe stato Il Muro. Ma la mia idea fu inaspettatamente raffreddata da un uomo molto intelligente, un produttore di Berlino a cui raccontai questa storia. Tra dieci anni, mi disse, sarebbe interessante. Ma non ora. Adesso è troppo attuale. Le persone vogliono dimenticare il prima possibile. Il tempo passerà, loro ricorderanno e apprezzeranno.
(2/2. Fine)
Anatolij Grebnev
(Traduzione di Leandro Casini)
(Brano tratto dal volume: Anatolij Grebnev, Zapiski poslednego scenarista, Moskva, Algoritm, 2000).
Inserito il 07/12/2022.
Karl Marx. Gli anni giovanili
(URSS-RDT, 1980)
Serie biografica su Karl Marx in 7 puntate. Regia di L. Kulidžanov, sceneggiatura di A. Grebnev e B. Dobrodeev, interpretato da V. Kisëv, R. Blume, A. Safronov.
Versione sottotitolata in italiano disponibile integralmente su YouTube, a cura di Leandro Casini.
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Karl Marx. Gli anni giovanili. Si tratta di uno sceneggiato biografico in sette puntate frutto di una coproduzione tra Unione Sovietica e Repubblica Democratica Tedesca. Andò in onda nel 1980 ed ebbe un grande successo in URSS, dove gli sceneggiatori e il regista furono insigniti del premio Lenin.
Minore risonanza ebbe nella RDT, dove fu trasmesso in orario pomeridiano per non dar risalto a un'opera che Erich Honecker in persona aveva in qualche modo cercato di boicottare perché rappresentava un'idea di Marx non corrispondente all'immagine che se ne tratteggiava nelle biografie ufficiali.
Titoli originali:
Карл Маркс. Молодые годы
Karl Marx. Die jungen Jahre
Interpreti principali: Ventseslav Kisëv (attore bulgaro, 1946-2014, Karl Marx), Renate Blume (attrice tedesca orientale, n. 1944, Jenny von Westphalen), Aleksandr Safronov (attore sovietico, n. 1950, Friedrich Engels).
Sceneggiatura: Anatolij Grebnev e Boris Dobrodeev.
Regia: Lev Kulidžanov.
La versione sottotitolata in italiano disponibile su YouTube è stata curata da Leandro Casini.
L.C.
Inserito il 7/12/2022.