Sport e classe
Ansu Fati e il sindaco comunista di Marinaleda Juan Manuel Sanchez Gordillo.
Fonte della foto: https://forocoches.com/foro/showthread.php?t=9212467
Dal programma di Rai Radio1 «Numeri Primi»
Ansu Fati e il sindaco di Utopia
di Francesco Graziani
Esproprio, milioni, Barcellona, Che fare?… È arrivato dall’Africa, è cresciuto in un paese dove il mutuo per la casa ha rate da 15 euro al mese e dove il lavoro ti viene assegnato dall’Assemblea cittadina. A Marinaleda, in Spagna, tutti dividono quello che hanno. E ora che farai dopo che hai firmato il tuo primo contratto milionario con il Barcellona? Questa è la storia di Ansu Fati.
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Ansu Fati e il sindaco di Utopia
di Francesco Graziani
Come titolo Vladimir Il’ič Ulj’anov aveva scelto una piccola domanda: Che fare? Erano i primissimi anni del Novecento e quello che la storia avrebbe conosciuto come Lenin aveva appena raccolto in questo volume la sua teoria su organizzazione e strategia della rivoluzione socialista. Che fare? voleva essere allora il manuale del perfetto proletario impegnato nella conquista del potere. Nella testa di Lenin il progetto era ben chiaro anche se era solo il 1902 e la rivoluzione appariva ancora lontanissima, forse addirittura una utopia. Ma questo Che fare? era pensato come strumento per fare di quella utopia una realtà, anche se la costruzione di questa casa sarebbe stata lenta, addirittura mattone su mattone. Lenin la pensava così.
A dirla tutta però il termine “utopia” arrivava da più lontano: l’aveva coniato Tommaso Moro, Lord cancelliere della Corona d’Inghilterra che sarebbe finito sul patibolo perché di fronte alla Riforma protestante si era schierato dalla parte del papa di Roma. Era stato Tommaso Moro a parlare di un’isola chiamata Utopia, letteralmente “luogo che non esiste”; sì, perché da grande politico e da buon cristiano, che un giorno addirittura sarebbe diventato anche santo, Tommaso Moro era certo che nemmeno la politica e nemmeno la religione avrebbero potuto edificare la perfezione su questa terra, ma allo stesso modo il desiderio di quella perfezione e di quella giustizia avrebbe continuato ad abitare la testa e il cuore dell’uomo.
Ora, al di là di Lenin e di Tommaso Moro, possiamo dire che la domanda “che fare?” interroga ciascuno di noi quando ci mettiamo in viaggio per raggiungere un luogo più giusto di quello che abitiamo, e il signor Bori Fati, nato in Guinea Bissau, alla sua personale domanda su cosa fare di fronte alla guerra civile aveva risposto mettendosi in viaggio. E così dall’Africa era arrivato in Portogallo. È l’anno 2001.
L’idea di Bori Fati è molto semplice: raggranellare qualche cosa con quello che sa fare meglio e che meglio viene pagato in Europa; poi, facendo il calciatore non gli interessa di diventare ricco, si tratta solo di rimediare l’indispensabile. Un’utopia senza troppe pretese, ma anche una utopia che per Bori Fati sarebbe rimasta un luogo impossibile da raggiungere. Per questo, quando Bori Fati sente parlare di Marinaleda si mette in viaggio; anche solo a piedi sono pochi giorni di cammino, e la prima parola che avrebbe letto all’ingresso del paese sarebbe stata proprio questa: Utopia; anzi: Terra Utopia.
Bori Fati forse è proprio arrivato. Ha scelto Marinaleda perché qui l’utopia del motto “la terra a chi lavora” è diventata un fatto: qui c’è lavoro per tutti perché i campi sono stati espropriati e adesso appartengono alla Municipalità. Qui a Marinaleda c’è una casa per tutti a prezzi che non ci credi, e non una casa in affitto, ma una casa tua, tutta tua, bianca con rifiniture gialle, tre stanze e un patio di 100 metri: a Marinaleda te la costruisci da solo la casa; la terra però mica la paghi, visto che è quella tolta ai latifondisti; il Comune poi ti mette a disposizione un geometra per il progetto e un muratore per tutto quello che ha bisogno di una mano del mestiere. A Marinaleda poi tutto è tranquillo e la polizia municipale non esiste. Davvero Terra Utopia.
Marinaleda si trova nel sud della Spagna, dalle parti di Siviglia, meno di 3.000 abitanti. Quando Francisco Franco è morto e con lui se n’è andata anche la sua dittatura, è stato eletto sindaco Juan Manuel Sanchez Gordillo. Bori Fati comincia qui racimolando qualche cosa per vivere fin quando – in un posto piccolo accade subito – non incontra il sindaco: «Ho cominciato a lavorare in municipio, ero autista di Juan Manuel Sanchez Gordillo. Appena ha potuto mi ha aiutato a portare in Spagna tutta la mia famiglia, è stato lui a farsi garante».
La versione del sindaco è un filo differente perché, se costruisci la tua utopia con i mattoni dell’uguaglianza sociale, dire che hai l’autista per girare in un paese di tremila anime suona male: «Bori era ed è un brav’uomo, però non era il mio autista; semplicemente facevamo le stesse cose, dove andavo io veniva pure lui e quello che mangiavo io mangiava anche lui. Poi, è vero, ho pagato i biglietti a tutta la sua famiglia per farla arrivare in Spagna, ma senza chiedere nulla in cambio. La solidarietà non si scrive col denaro».
Sì, Marinaleda è il posto dove la solidarietà non si scrive con il denaro, e così arriva anche il piccolo Ansu, che era ancora nella pancia di mamma quando papà Bori era partito alla ricerca della sua utopia. Il presente della famiglia Fati è in una delle case bianche con rifiniture gialle che a Marinaleda si costruiscono tutte uguali una accanto all’altra. Del resto qui le cose cambiano poco visto che da quel 1979, in cui per la prima volta la Spagna ha eletto liberamente le sue Municipalità, sono passati quasi vent’anni e in questi vent’anni le elezioni le ha sempre vinte il candidato del Colectivo de Unidad de los Trabajadores Juan Manuel Sanchez Gordillo, che intanto è diventato un signore con i capelli ed un barbone sale e pepe. Del suo lavoro gli anni più difficili, o come lui direbbe, quello formidabili, sono stati i primi, visto che Immediatamente dopo le prime elezioni ha guidato una occupazione delle terre che sarebbe durata 12 lunghi anni; poi, nel 1991, i 1.200 ettari della tenuta “El Humoso”, di proprietà del duca de l’Infantado, erano stati espropriati dalla Giunta regionale dell’Andalusia. Qualcuno dice che la terra sia stata pagata a prezzi di mercato, altri che sia stata scippata. Adesso però il latifondo è affidato a cooperative per la coltivazione dei campi che rispondono alle decisioni delle assemblee pubbliche: ci si riunisce un paio di volte a settimana e si vota per alzata di mano su tasse, case e, soprattutto, sulla distribuzione del lavoro. È il cuore di questa rivoluzione senza rivoluzione, finanziata però dalle casse della Giunta regionale dell’Andalusia.
Anche qui ci si chiede: “che fare?”. E la risposta è che tutti devono avere qualcosa da fare. Poi vattelappesca se davvero il lavoro è redistribuito in parti uguali e se anche la ricchezza raggiunge tutti gli angoli di questa Terra Utopia; dati ufficiali non ce ne sono e questo produce qualche sospetto, però le case per tutti sono lì, sotto il sole e sotto gli occhi, e, visto che costano un pezzo di pane, qui arriva gente anche da molto lontano, come lontana è la Guinea Bissau, paese di Bori Fati, che a portare qualche mattone – potete scommetterci – ci ha messo anche il piccolo Ansu Fati.
Del resto a Marinaleda le case si costruiscono in famiglia: si chiama “programma di autocostruzione”. A parte la terra, il geometra e il muratore che, lo sapete, sono tutti offerti, ci sono i materiali: per calce e tutto il resto nei primissimi anni 2000 a Bori Fati servono circa 20.000 euro, e allora ecco di nuovo la Giunta dell’Andalusia che anticipa tutto. Sì, la stessa Giunta che ha espropriato la terra su cui si costruisce. A questo punto olio di gomiti e chi vuole la casa la costruisce nel fine settimana o dopo l’orario di lavoro. Terminato l’edificio, si comincia a restituire il prestito. Allora facciamo i conti: costo terreno zero, costo progettazione zero, costo realizzazione zero, mentre per i famosi materiali la Giunta dell’Andalusia accetta di rivedere i suoi 20.000 euro – sentite qua – in rate da 15 (ripeto: quindici) euro al mese, 15,50 se ci mettiamo anche la commissione bancaria. Per chiudere i conti servono 111 anni; solo allora sarà prodotto il documento che attesta che la casa è tua, così non te la puoi vendere e non cadi nella tentazione della speculazione. Utopia.
Ora capite perché sulla facciata del Municipio di Marinaleda c’è un graffito grande così di Ernesto Che Guevara, mentre qua e là si possono leggere a caratteri grandi così frasi tipo “Marinaleda lotta per la pace” oppure “Spegni la tv e accendi la tua mente”: i muri bianchi rifiniti in giallo servono anche a questo, è evidente. Dal 1979 anche i nomi delle strade sono tutti cambiati: Plaza Francisco Franco ora è Salvador Allende e ci arrivi passando per Calle Federico García Lorca. È in questi vicoli che il piccolo Ansu Fati, secondo di una nidiata di figli che intanto è arrivata a quota 5, si fa notare mentre gioca a pallone con gli amici. Il sindaco di Utopia Juan Manuel Sanchez Gordillo, l’uomo che prima ha dato un lavoro al padre Bori Fati, che poi ha pagato di tasca sua il biglietto per fare arrivare in Spagna tutta la sua famiglia, del piccolo Ansu dirà: «Quando aveva sei-sette anni si capiva perfettamente che sarebbe potuto diventare un grande calciatore, nessuno riusciva a togliergli il pallone, tutti pensavamo che presto sarebbero arrivate grandi squadre». Forse dovremmo dire «le più grandi squadre» perché, è vero che Ansu Fati entra subito nelle giovanili del Siviglia, ma poi bussano Real Madrid e Barcellona: il Real offre più denaro, il Barça più futuro. La scelta tocca a papà Bori, che non serve dire quali e quanti pensieri vede passare per la sua mente mentre deve fare una scelta per certi versi così facile e per altri così complicata. Sì, perché Bori Fati – lo sapete – davvero ha conosciuto il peso della povertà e poi la gioia della solidarietà. Bori Fati ha sperimentato che vivere di lavoro redistribuito e di un mutuo da 15 euro al mese è possibile e soprattutto bellissimo. La sua scelta però non è accecata dal primo gruzzoletto che gli viene fatto ciondolare davanti agli occhi e il piccolo Ansu Fati prende la strada per la Catalogna. Così, il ragazzo cresciuto nel paese dove tutto si decide nell’Assemblea dei cittadini, dove ognuno ha il diritto di dire la propria sulla redistribuzione del lavoro, il paese dove se non hai una casa te la costruisci, il paese dove la rata del mutuo è di 15 euro al mese, entra in uno dei club di calcio più ricchi del mondo.
A Marinaleda però non tutti si riconoscono nel modello di Utopia, qualcuno ti parla di “piccola dittatura”, qualcun altro si lamenta perché sulla redistribuzione del lavoro anche qui c’è qualcuno che è più uguale degli altri; poi è vero che in Assemblea tutti hanno diritto di parola, ma se vai contro il sindaco passi per un incompetente, e i giovani, soprattutto quelli nati dopo l’occupazione e l’esproprio delle terre, quelli che hanno trovato tutto fatto, rischiano di sentirsi estranei. E anche a Marinaleda, provincia di Siviglia e capitale di Utopia, si annida quel germe che il sindaco chiama “consumismo”. Però, attenzione, anche quando Ansu Fati viene tesserato per il Barcellona Juan Manuel Sanchez Gordillo continua a vincere le sue elezioni amministrative grazie alla maggioranza assoluta di chi invece lo considera un padre oppure un maestro.
Il 25 agosto 2019 Ansu Fati fa il suo esordio tra i professionisti giocando contro il Betis Siviglia: ha 16 anni e 298 giorni. A dicembre segna anche il suo primo gol in Champions League nella vittoria del Barcellona a Milano sull’Inter, diventando il più giovane marcatore nella storia del torneo per club più prestigioso del mondo. Il suo presidente allora lo convoca di corsa in sede ed è subito rinnovo di contratto che, riguardando un minorenne, ha sì delle limitazioni ma fino a un certo punto: l’intesa Infatti prevede che a 18 anni scatti una clausola rescissoria da 400 milioni di euro, il prezzo che il Barcellona avrà il diritto di chiedere a chi volesse portarselo via.
Insomma soldi, tanti soldi, tantissimi soldi, soprattutto perché riguardano un ragazzo cresciuto in una casa da 15 euro al mese e che per anni ha mangiato grazie al lavoro che il sindaco di Marinaleda aveva offerto a suo papà, un sindaco che a sue spese lo aveva fatto venire in Spagna dalla Guinea Bissau, lo stesso sindaco che, una volta finito il franchismo, aveva espropriato le terre della nobiltà per farne in parte cooperative agricole e in parte suolo edificabile, lo stesso sindaco che adesso ha 67 anni ed è ininterrottamente a capo del paese da 40, lo stesso sindaco che il giorno dell’esordio di Ansu Fati è in altre faccende affaccendato: «Beh, vederlo giocare con la maglia del Barcellona potete immaginare che emozione abbia proprio provocato. Ho ripensato a quando lui e la sua famiglia sono arrivati a Marinaleda senza nulla. Io posso dargli solo un consiglio: sei giovane, fai molta attenzione con i milioni, e quello che porti a casa dividilo con gli altri».
Già, l’utopia pretende questo, che la ricchezza sia redistribuita. Non è stato così sin dal 1979 a Marinaleda? E non è stato grazie a questo che la famiglia di Ansu Fati ha trovato lavoro, casa e dignità? E allora è naturale che tu sia chiamato a dividere il tantissimo che la vita improvvisamente ti consegna dopo il poco e il niente che ti aveva riservato prima. È naturale aspettarsi una gratitudine meccanica e clamorosa da parte di chi ha trovato la vita a Marinaleda, però… Però resta una domanda: ma questa gratitudine clamorosa e meccanica avrebbe senso a Marinaleda? Questo non è il posto dove restituisci il debito della casa pagando 15 euro al mese? Allora Marinaleda è il luogo che ti insegna che il debito di riconoscenza c’è, ma le sue forme fortunatamente non sempre sono quelle imposte dall’economia. Anzi, è vero proprio il contrario, perché il debito non c’è, il debito è cancellato, compreso il debito di Ansu Fati. E poi il problema non è se tu metti o no i tuoi milioni in comune, ma come usi quei milioni. In fondo, per la vita di Marinaleda è stata decisiva la Giunta regionale dell’Andalusia che ha usato le casse pubbliche prima per espropriare le terre e poi per finanziare la costruzione di case da ripagare al ritmo di 15 euro al mese. Perché la prima lezione di Marinaleda Utopia è proprio che la gratitudine non si misura in banca. Del resto, cosa aveva detto il sindaco raccontando di avere pagato di tasca propria il biglietto aereo per fare arrivare dall’Africa la famiglia del suo tuttofare Bori Fati? Aveva detto così: «La solidarietà non si scrive con il denaro». E su questo tutti possono essere d’accordo.
E allora, buona libertà di scelta, Ansu Fati!
Francesco Graziani
(Trascrizione della trasmissione «Numeri Primi» di Rai Radio1, condotta da Francesco Graziani, del 10 settembre 2020, disponibile in podcast al link: https://www.raiplaysound.it/audio/2020/09/NUMERI-PRIMI-6b88807a-650f-412f-b0ae-2eee6606c317.html).
Inserito il 27/06/2024.
La “partita del secolo”
Inghilterra-Ungheria: 3-6
A Wembley nel 1953 crolla il mito dell’imbattibilità interna degli inglesi
A Wembley nel 1953 crolla il mito dell’imbattibilità interna degli inglesi
Il 25 novembre 1953, per la prima volta nella storia del calcio, l’Inghilterra viene battuta in casa. A compiere l’impresa è la squadra nazionale ungherese condotta dal grande capitano Puskás, con un risultato di 6 a 3 che sciocca gli inglesi. Un duro colpo, cui ne seguì un altro. Infatti, l’anno successivo i magiari concessero la rivincita ricevendo l’Inghilterra a Budapest: il 23 maggio 1954 l’Ungheria sancì la propria superiorità imponendosi sugli avversari con un umiliante 7-1.
Nel primo dei due articoli che presentiamo, tratto da «Alias», inserto settimanale de «il manifesto», Paolo Bruschi ricostruisce la fase d’oro della Nazionale magiara.
Il secondo articolo risale invece a due giorni dopo la “battaglia” di Wembley: il cronista sportivo de «l’Unità», organo del PCI, nel suo commento esalta le qualità degli sportivi dilettanti ungheresi che hanno dato una lezione di sport e di vita ai professionisti del football inglese.
25 novembre 1953: il capitano dell’Inghilterra Billy Wright (a sinistra) e Alf Ramsey osservano ansiosi il portiere Gil Merrick mentre fronteggia un attacco ungherese durante la partita in cui l’Inghilterra fu battuta per 6 a 3.
Autore della foto: Dennis Oulds/Hulton Archive/Getty Images.
Fonte della foto: https://ilmanifesto.it/cdn-cgi/image/width=1200,format=auto,quality=85/https://static.ilmanifesto.it/2023/11/25pg10af01-2.jpg
Dal settimanale «Alias»
La partita del secolo
di Paolo Bruschi
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La partita del secolo
In Il secolo breve lo storico Eric Hobsbawm scrive che il football è stato il dono che la Gran Bretagna ha fatto alla cultura popolare mondiale. Se le cannoniere e i commerci di ogni tipo consentirono di fondare ed espandere l’impero britannico, la diffusione del calcio ai quattro angoli del globo assecondò e fortificò il processo. Il declino iniziò dopo la Seconda guerra mondiale, nel clima della Guerra fredda e dell’impetuosa de-colonizzazione. Nell’autunno 1956, si registrò il definitivo tramonto del potere imperiale: Londra cedette al diktat congiunto di Washington e Mosca e si ritirò dal Canale di Suez, che aveva occupato insieme a francesi e israeliani dopo la nazionalizzazione disposta dal presidente egiziano Nasser.
Tre anni prima, il primato dell’isola era stato simbolicamente demolito a Wembley, quando la nazionale ungherese aveva inflitto un umiliante 6-3 ai tronfi maestri del calcio. Fu la prima sconfitta interna della nazionale dei Tre Leoni, o come scrisse l’autorevole «The Times», la prima violazione del «saldo suolo inglese da parte di un invasore straniero».
Non si trattò di un fulmine a ciel sereno, per quanto gli inglesi attendessero con la consueta superbia il ben presto battezzato «match del secolo», euforici per la recente conquista dell’Everest da parte di Edmund Hillary e la concomitante incoronazione di Elisabetta II. Dall’altra parte infatti si ergeva la fenomenale Aranycsapat, la «squadra d’oro» del tecnico Gusztáv Sebes, in serie positiva da trentatré partite e orgoglio di un popolo che si trovava in una situazione ben diversa. L’Ungheria aveva sofferto l’occupazione della Wehrmacht, collaborando assai con i nazisti, e poi quella dell’Armata Rossa, che si era conclusa con la completa stalinizzazione del paese sotto la guida di Mátyás Rákosi.
Persino il più oppressivo dei regimi anela a una sorta di legittimazione popolare e, come accaduto in Unione Sovietica e nelle altre Repubbliche popolari, il governo di Rákosi allungò i propri tentacoli sullo sport e in particolare sul calcio. I leader comunisti ricercarono l’associazione con la formidabile generazione di Puskás, Hidegkuti e Kocsis, al fine di beneficiare dell’adorazione che il pubblico riservava ai calciatori.
Il calcio si prestava allo scopo per una serie di motivi: in quegli anni cupi, mancavano altre forme di svago e intrattenimento; andare allo stadio era uno dei pochi modi per assaporare brandelli di libera espressione del pensiero e delle emozioni; il calcio era una delle poche vie di ascensione sociale, dato che ai campioni era concesso un più alto tenore di vita, benché dovessero sempre comportarsi come impeccabili modelli di fedeltà politica e fossero perciò soggetti all’occhiuta sorveglianza della polizia segreta.
Questa sorta di convergenza di intenti fra l’alto e il basso fece del calcio un’ideale strumento di propaganda. Dopo l’oro alle Olimpiadi di Helsinki del 1952, gli uomini di Sebes conobbero un periodo di ineguagliato fulgore, che il partito non tardò ad attribuire all’efficienza delle azioni di governo e alla generale supremazia del socialismo sul liberalismo capitalista. Il resoconto giornalistico delle ripetute vittorie ottemperava anche allo scopo di avvicinare all’ideologia dominante quella parte di opinione pubblica apolitica, neutrale o addirittura ostile. Per la stampa di regime passava inoltre l’incessante accostamento fra i fuoriclasse degli stadi e i «maestri del lavoro», ossia gli operai che il governo esaltava per i loro straordinari contributi (sovente del tutto inventati) al conseguimento dei traguardi di produzione fissati dai pianificatori economici. Dopo la vittoria di Londra, i minatori di Balinka si offrirono di raddoppiare le quantità di carbone estratto e il noto stakanovista József Igaz lanciò i turni di lavoro «6-3», durante i quali prometteva di eccedere i già irrealistici obiettivi produttivi, incoraggiando tutti i lavoratori a fare altrettanto per mostrarsi degni della nazionale di calcio.
Ovviamente il governo sfruttò i successi calcistici anche per accrescere la propria reputazione internazionale. Prima della prestigiosa amichevole in Inghilterra, Aranycsapat fu di scena a Roma per l’inaugurazione dell’Olimpico e l’ambasciata ungherese colse l’occasione per organizzare un lauto ricevimento, al quale parteciparono oltre 200 invitati, incluso il presidente del Coni Giulio Onesti. Gli Azzurri subirono «un rovescio catastrofico» per una rete di Hidegkuti e una doppietta di Puskás, il quale rivolse poi un appello al popolo ungherese per invitarlo a «votare bene» alle imminenti elezioni generali. Dopo la gara, Sebes e i giocatori visitarono il segretario della CGIL Giuseppe Di Vittorio e, come dimostrato da un fotografia comparsa sulla prima pagina de l’Unità il 20 maggio 1953, incontrarono i dirigenti del PCI Pietro Secchia e Giancarlo Pajetta, i quali «brindarono ai successi della nazionale magiara nei campi della pace, del progresso e del socialismo».
Infine, alle ore 16.45 del 25 novembre 1953, Inghilterra e Ungheria scesero sul regale prato di Wembley. I padroni di casa sghignazzarono per gli insoliti scarponcini indossati dagli avversari e per gli inequivocabili segni di adipe sotto la maglietta di Ferenc Puskás, salvo incassare la prima rete di Hidegkuti dopo meno di un minuto. Alla mezz’ora, gli ospiti si issarono sul 4-1, per arrivare a sei quando non erano ancora scoccati i due terzi di gara. Fino al novantesimo, fecero mera accademia.
Come riportato dal cronista del «Guardian», i magiari si erano dimostrati inarrivabili per velocità, controllo di palla e acume tattico. La posizione arretrata del centravanti Hidegkuti, primo falso nueve della storia del gioco, mandò in confusione l’intera retroguardia britannica, mentre la fitta rete di passaggi brevi, l’inedita interscambiabilità dei ruoli e i continui movimenti negli spazi vuoti costituirono un rompicapo irrisolvibile per il sorpassato tecnico inglese Walter Winterbottom.
Paolo Bruschi
(Tratto da: Paolo Bruschi, La partita del secolo, in «Alias», inserto settimanale de «il manifesto», anno XXVI, n. 47, 25 novembre 2023).
Inserito il 17/01/2024.
Da «l’Unità» del 27 novembre 1953
Mai vista una squadra più bella!
di Martin
«Allo stadio di Wembley erano a confronto due scuole, due sistemi: ha trionfato il dilettantismo, l’entusiasmo e la poesia dello sport».
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Mai vista una squadra più bella!
LONDRA, 26. Lo Stadio di Wembley sembra veramente una fortezza. I muri di cinta sono di cemento non tinteggiato, grigi, chiazzati dall’umidità: alte torri quadrate o cilindriche si alzano ai quattro lati della costruzione. Per giungere ai posti più elevati, si devono salire scalette a chiocciola, percorrere corridoi stretti e bassi, scarsamente illuminati.
Lo stadio di Wembley è stato, per anni e anni, il più ampio del mondo: qui, durante i novant’anni del dominio calcistico inglese, sono passate decine di squadre nazionali, senza mai riuscire a sconfiggere lo squadrone dei «bianchi». L’Inghilterra si era permessa il lusso di non presentarsi ai campionati del mondo e di essere considerata ugualmente la migliore del globo: nessuna «nazionale» che si è fregiata del titolo di campione del mondo, è mai passata vittoriosamente sul terreno di Wembley.
Ebbene, la «nazionale» di calcio ungherese ha espugnato la fortezza di Wembley, l’orgoglioso castello del calcio inglese, ed oggi – permettetemi di usare questa frase logora e retorica – sui torrioni grigi dello stadio sventola la bandiera della Federazione calcio magiara, al posto dell’ammainata insegna della Football Association.
Quella di ieri non è stata una delle solite partite che lasciano il tempo che trovano. Erano di fronte i migliori giocatori delle due scuole calcistiche, nessun fattore contingente ha influito sul risultato ed il punteggio parla chiaro; gli ungheresi valgono il doppio degli inglesi.
Gli sportivi britannici hanno accolto la sconfitta con rassegnazione e con malinconia: essi hanno visto perdere i «bianchi» con lo stesso animo di una bella donna che, all’improvviso, si scopre le prime rughe attorno agli occhi e capisce che la vecchiaia è vicina.
Gli inglesi sanno che la loro organizzazione calcistica è costruita in modo tale che non potranno mai più averе una squadra capace di battere atleti di altra stoffa, di altra statura, di altra scuola come gli ungheresi, cioè, come i dilettanti ungheresi.
In Inghilterra esiste il professionismo, un professionismo indubbiamente più serio del nostro, ciarlatanesco e ridicolo, ma pur sempre professionismo.
I giocatori professionisti inglesi sono legati tra di loro da una specie di massoneria, e i vecchi difendono le loro posizioni con le unghie e i denti, e appoggiandosi vicendevolmente. Il giovane che entra in squadra viene boicottato, isolato, perché i vecchi devono giuocare e percepire lo stipendio. Non è un caso che la squadra inglese che è scesa Wembley fosse composta da quasi tutti sopra i trent’anni. Inoltre, dove non c’è nobile, profonda, semplice entusiastica passione, non ci sono inventiva ed immaginazione. Il giuoco degli inglesi è forte, lineare, ma monotono, in un certo senso stantio. Ben altra vivace freschezza, ben altro brio, ben altra poesia è nel giuoco ungherese. E poi, chi non sa che il calcio è uno sport fatto per i giovani, per chi ha i muscoli elastici, scattanti?
Mortensen, Matthews, Ramsey, Wright, ecc. sono vecchi e non corrono. Si fanno facilmente battere nell’anticipo. Sono logorati da mille e mille partite. Matthews era commovente: questo quarantenne che si batte ancora come un leone, sfruttando tutte le astuzie di decine di anni di mestiere, quasi strappava le lacrime. Ma le leggi dello sport non tengono conto dei fattori sentimentali.
Facevano quasi pena quei tifosi che, appena Lorant si avvicinava a Matthews, si mettevano ad urlare ed imprecare come se l’ungherese stesse commettendo un delitto di lesa maestà.
E non si accorgevano che il vecchio commetteva innumerevoli scorrettezze: spingeva con le mani, si appoggiava all’avversario, lo sgambettava, lo tratteneva per la maglia.
Gli inglesi hanno perso perché sono stati battuti, prima di tutto in velocità. Pareva che i «rossi» di Sebes fossero trenta e non undici: erano in tutti i posti, intercettavano tutte le palle, erano primi sui lanci alti, si piazzavano con rapidità sorprendente, marcavano e si smarcavano con più prontezza degli avversari.
Gli inglesi hanno un gran mestiere nelle gambe: stoppano altrettanto bene degli ungheresi, colpiscono bene la palla, ma eseguono essenzialmente gli esercizi che insegna il manuale, magari alla perfezione, ma niente altro. Se si trovano in una situazione nuova, in una posizione imprevista – ciò che accade innumerevoli volte durante una partita – si trovano a disagio, anche perché sono vecchi e hanno perso l’agilità e la prontezza di riflessi che sono pertinenti alla bella età.
Lentezza e schematicità, insomma, ecco i due grandi difetti dei bianchi. Inoltre, i pochi giovani della squadra erаno decisamente mediocri, perché in clima professionistico è difficile per un giovane imparare a divenire qualcuno.
Di contro, ecco gli ungheresi: sono dilettanti, che lavorano durante il giorno e si allenano nelle ore libere. I loro istruttori sono dei vecchi atleti, ex nazionali, che lo Stato Socialista ha mandato alle Università sportive, negli istituti di ricerche scientifiche. Sono tecnici che con la sapienza, col loro onesto entusiasmo, col loro poetico amore per lo sport, hanno saputo scoprire, allenare, portare in nazionale innumerevoli giocatori, che crescono e vivono sportivamente con lo stesso nobile animo dei loro maestri.
Ecco Sebes, l’idealista, come lo chiama il nostro direttore tecnico Czeizler. Sebes è un ex operaio che ha conosciuto l’esilio e la prigione, un ex nazionale che ha giocato innumerevoli partite con la maglia rosso-granata d’Ungheria; adesso Sebes è il vice ministro dello sport ungherese e il Commissario Tecnico della Nazionale. Tios è anche egli un grande campione. Questi sono gli uomini che educano i calciatori magiari.
Nel 1936 gli inglesi, a Wembley, sotterrarono gli ungheresi con il punteggio di sei reti a due; ieri, Puskas e compagni hanno vinto per sei a tre. Tutti hanno detto che una squadra come questa non c’è stata mai.
È difficile descrivere come giocano gli ungheresi, perché è come voler descrivere la danza di una grande ballerina classica. Nella cronaca abbiamo elencato i venti e più passaggi consecutivi, perfetti, gli stop pennellati, i colpi di testa con la nuca, i lanci volanti da una parte all’altra del campo, i prodigi da giocoliere di Hidegkuti, Puskas, Bozsik, Csibor, Kocsis, la forza e la prontezza di Lantos, Lorant, Zakarias, la velocità nell’attaccare e la rapidità degli avanti nel ritornare a dar man forte ai difensori.
Tutto questo i lettori sportivi l’hanno letto, ma è impossibile esprimere con parole la bellezza dello spettacolo nel suo insieme. Veramente, una squadra come questa non c’è stata mai: ogni azione aveva dentro un’idea nuova, e le manovre, le triangolazioni si sviluppavano con un ritmo pieno d’armonia. Sembrava che i calciatori si muovessero al ritmo di una misteriosa musica che solo loro intendevano. Solo una vera nobile passione sportiva può esaltare le qualità chiuse in un atleta. Solo chi ama veramente lo sport sa allenarsi e prepararsi con tanta serietà.
Ritorneremo ripetutamente su questa partita, sulla «partita del secolo». Ora vi dirò brevemente che cosa hanno scritto i giornali londinesi dopo l’incontro. «Dopo novanta anni, una sinfonia ungherese» è il titolo col quale il Daily Express annuncia ai suoi lettori la grande sconfitta di Wembley. Ed il giornale pubblica questa commovente dichiarazione di Ernest Blyth, un vecchio campione di 72 anni: «Non so se potrò mai vedere un’altra partita, ma oggi, almeno so che cosa è la perfezione».
Ecco il Times: «I centomila spettatori hanno assistito al “crepuscolo degli dei”. L’Inghilterra è stata battuta su tutti i punti, in ogni settore, nel giuoco rasoterra e in quello a volo, nella tattica. A Wembley, gli inglesi si sono sentiti stranieri in un mondo straniero, un mondo di spiriti rossi volanti, che tali sembravano gli ungheresi quando si muovevano con un ritmo infernale, con superba abilità e potente tocco finale».
«Una sconfitta e una lezione per l’Inghilterra », scrive il Daily Mail, il quale afferma che gli ungheresi «hanno mostrato la via che il nostro calcio dovrà seguire in futuro».
E il Manchester Guardian, che dedica all’avvenimento un editoriale – come, del resto, fanno altri giornali – ammette che la vittoria ungherese si deve, in gran parte, alla superiore organizzazione sportiva della Democrazia Popolare.
Il grande, vecchio campione Charles Buchan, che è oggi il commentatore sportivo del News Chronicle, scrive: «La squadra inglese era praticamente la migliore che noi potessimo mettere insieme, ma si trovava di fronte un avversario infinitamente superiore. Gli inglesi hanno giuocato tanto bene quanto è stato loro permesso».
E Finney, che per una indisposizione fu escluso all’ultimo momento dalla squadra «bianca», dichiara: «Abbiamo avuto una lezione che non dovremo permettere vada perduta». Dello stesso parere è il presidente della Football Association: «I nostri ragazzi cercheranno di assimilare lo stesso stile di giuoco che gli ungheresi ci hanno tanto meravigliosamente mostrato oggi».
Lo scettro del calcio, come riconferma questa frase, è passato ufficialmente da Londra a Budapest.
Martin
(Tratto da: Martin, Mai vista una squadra più bella!, in «l’Unità», Anno XXX (nuova serie), n. 327, 27 novembre 1953).
Inserito il 17/01/2024.
Una delegazione della Nazionale di calcio sovietica, con alla testa il leggendario portiere Lev Jašin, viene ricevuta al Comune di Prato il 12 febbraio 1979.
Fonte della foto: https://www.facebook.com/photo/?fbid=135904726060673&set=pcb.135904772727335
Il mito sovietico nel PCI in Toscana
Calcio sovietico in Toscana
di Emanuele Russo
Il forte legame dei comunisti toscani con l’Unione Sovietica nel secondo dopoguerra investì anche ambiti inattesi, tra i quali lo sport. Le delegazioni e le squadre sovietiche ricevevano ovunque manifestazioni di affetto; le amministrazioni locali rosse e le case del popolo si impegnavano per creare attorno ad esse un’atmosfera di calorosa accoglienza.
Il dott. Emanuele Russo, ricercatore dell’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia e docente dell’Istituto Tecnico e Professionale “Paolo Dagomari” di Prato, ha ricostruito i contesti in cui si svolsero alcuni soggiorni e incontri di squadre di calcio sovietiche di club e nazionali in Toscana in decenni diversi e li ha presentati al convegno “Il mito sovietico nel PCI in Toscana”, tenutosi a Pistoia il 26 ottobre 2023 (vedi la sezione Vento dell’Est). Riportiamo qui sotto la trascrizione della sua relazione al convegno.
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Calcio sovietico in Toscana
di Emanuele Russo
Buonasera a tutti.
Ho cercato le fonti negli archivi per trovare tracce del mito sovietico in Toscana nelle sue varie manifestazioni. Ho trovato forme un po’ più classiche, vie un po’ più battute, e poi mi sono imbattuto in qualcosa di molto originale. All’Archivio Lazzerini di Prato, dove ho fatto prevalentemente lavoro di ricerca, nei documenti del Fondo Giovannini (del sindaco di Prato dal 1948 al 1965) ho trovato tracce di viaggi in URSS di cittadini pratesi, fiorentini, pistoiesi con la loro raccolta di cimeli ma anche di memorialistica, ho trovato episodi ed eventi culturali di vario ambito (teatrale, letterario, cinematografico), ho trovato tracce di manifestazioni pubbliche che venivano svolte nelle varie città, magari a sostegno di certe decisioni di politica estera dei sovietici, e poi ho trovato viaggi di delegazioni sovietiche nel territorio toscano. Si trattava di viaggi di vario tipo, un mondo molto variegato veniva in Toscana: c’è traccia di una delegazione di donne, una delegazione prettamente femminile, che fa un tour a Firenze, poi viene data loro la possibilità di tenere un comizio in Piazza della Signoria al termine del quale scambiano parole con la popolazione. C’è un viaggio che viene fatto dai dirigenti del Partito Comunista Sovietico a Prato, di cui molti pratesi ancora si ricordano, per osservare il settore del tessile che caratterizza il tessuto economico di questa città.
Proprio su questo filone si colloca il ritrovamento di una foto che ha aperto una pista inizialmente insperata: è una foto che si trova negli annuari del Comune di Prato del 1979 e che ritrae l’allora sindaco Landini in compagnia di Lev Jašin. Per chi non lo sapesse, Lev Jašin è stato forse uno dei simboli sovietici più importanti: a parte gli uomini politici, dopo il cosmonauta Jurij Gagarin forse Lev Jašin era l’uomo più popolare in Russia e all’estero. Si era presentato a Prato in occasione di una partita che l’URSS aveva giocato proprio in città nel 1979. Mi sono ritrovato a cena con degli amici raccontando il ritrovamento di questa partita, per me inaspettata, e il padre di uno di questi miei amici mi fa presente: «Guarda che io l’URSS l’ho vista giocare anche a Brozzi». Ora, per chi non lo sapesse, Brozzi è una piccolissima frazione periferica di Firenze, un quartiere piccolo, oggi di edilizia popolare, che è accanto al quartiere delle Piagge, e il campo del Firenze Ovest era allora letteralmente un campo di patate. Restai un po’ sbalordito per questa cosa, e in seguito ho voluto verificare: sono andato alla Polisportiva Firenze Ovest e un gruppo di tifosi un pochino più anziani si ricordava perfettamente che era vero, la rappresentativa sovietica aveva giocato a Brozzi.
Quindi c’erano già due tracce importanti; ho cercato di ricostruire un po’ se effettivamente ci fosse una presenza un pochino più continua dell’URSS e delle delegazioni sportive sovietiche in Toscana e in Italia, ed effettivamente era proprio così. Succedeva che le squadre sovietiche durante il periodo invernale sospendevano le attività sportive per via del freddo, cosa che adesso la FIFA non permette più, e quindi oggi continuano a giocare: all’epoca invece si fermavano i campionati, si fermavano le competizioni, e queste squadre dovevano svernare da qualche parte. Dove? Ci sono due spiegazioni sul perché l’Italia era uno dei Paesi più quotati per questi ritiri. Un motivo è calcistico, e anche filosofico, volendo: in quegli anni in Italia si stava sviluppando un sistema di gioco, figlio del sistema olandese del “Calcio Totale”, che coincideva molto con la filosofia sovietica. Perché? Perché nel “Calcio Totale” c’è l’assenza di individualità, è un sistema di gioco in cui i ruoli non sono ben definiti e gli attaccanti e i difensori si alternano in base al momento di gioco. Non mi viene in mente niente che sia più sovietico che l’alternarsi di tutti questi ruoli, di questa assenza di individualità a favore del collettivo.
Quindi c’è questa spiegazione più calcistico-filosofica e poi, a mio avviso, c’è una spiegazione più politica. Non erano molti i Paesi con amministrazioni pronte ad accogliere di buon grado e con tutti gli onori del caso una delegazione sovietica: di certo non sarebbero potuti andare in Spagna, di certo non sarebbero potuti andare in Inghilterra, le trasferte in Sudamerica – altro modello calcistico – non erano così logisticamente fattibili come quelle in Italia, e quindi Coverciano, e di conseguenza la Toscana. Coverciano perché c’è il Centro Tecnico Federale dove sia la squadra dell’Unione Sovietica sia i club spesso soggiornavano.
Fondamentalmente, uno studio comparativo della documentazione dell’organizzazione di queste partite ci potrebbe dire tanto. È un termometro importante, secondo me, per capire il prestigio dell’URSS in Italia, il tipo di relazioni diplomatiche e politiche tra i due Paesi, e anche la percezione dell’importanza culturale del fenomeno. Una volta che vi avrò elencato le tre partite in questione, l’idea che ho in testa risulterà ben chiara.
La prima partita di cui ho trovato traccia è una partita che è stata disputata a Firenze nel settembre del 1955 tra la Fiorentina e la Dinamo di Mosca. La Dinamo di Mosca è una squadra fortemente connotata politicamente, è la squadra che rappresenta la Čeka, la polizia politica, e in presidenza ha avuto anche Berija, quindi una squadra su cui il partito punta molto fortemente. È una squadra che è stata mandata in tournée in Inghilterra dopo la Seconda guerra mondiale ed è la squadra che in quel periodo sta dominando il campionato sovietico. In quella squadra gioca proprio Lev Jašin. Per capire l’importanza di Lev Jašin sono importanti due riconoscimenti che questo portiere ottiene: uno è il Pallone d’oro nel 1963, il massimo riconoscimento individuale per un calciatore, ottenuto da un giocatore che è al di là della “cortina di ferro”, e poi anche un riconoscimento importante che è l’ordine di Lenin nel 1967. Quindi c’è una grande aspettativa sulla prestazione di questo portiere eccezionale e a Firenze in quell’occasione c’è veramente il pubblico delle grandi occasioni: c’è una mobilitazione da parte delle case del popolo che fanno sì che la Dinamo Mosca non dico giochi in casa, ma comunque giochi in un clima molto amichevole, e al Franchi ci sono 60.000 spettatori. Quando la Dinamo di Mosca arriva a Firenze viene accolta da una massa di persone festanti che accolgono i giocatori con mazzi di garofani (abbiamo qualcosa, anche nella pubblicazione ci sono diverse immagini che arrivano da un reportage de «Il Nuovo Corriere»: sono diverse pagine che raccontano benissimo l’episodio); appunto, vengono accolti con tutti gli onori del caso, mazzi di garofani, Grand Tour, visita a Palazzo Vecchio, alloggiano al Grand Hotel, giocano in un clima di festa, e poi è un evento significativo anche dal punto di vista sportivo, perché quella Fiorentina è la Fiorentina del 1955, è la Fiorentina che alla fine dell’anno vincerà il suo primo scudetto, e anche in quella occasione riesce a fermare la Dinamo di Mosca con il punteggio di 1–0.
La seconda partita è quella della foto. La foto è del febbraio del 1979 quando l’URSS – quindi la nazionale e non più un club – viene ospitata dal Prato per disputare una partita amichevole. È curioso il fatto che «La Nazione» ci racconta che questa partita è stata fortemente voluta dalla dirigenza del Prato per attirare l’attenzione dell’amministrazione cittadina e dei pratesi; quindi la squadra sovietica viene utilizzata per cercare di attirare le attenzioni pubbliche sul problema della società calcistica, quindi si ha già una rilevanza politica diversa. E comunque questo mito sovietico c’è e viene anche utilizzato. Tra l’altro, in occasione di quella partita la nazionale dell’URSS fa anche un allenamento a Cavriglia, a Castelnuovo dei Sabbioni, dove nel ’78 era stato inaugurato un parco intitolato a un partigiano sovietico, Bujanov. Quindi anche qui viene ogranizzata una trasferta, viene organizzato un ritiro, però la politica c’entra eccome.
L’ultima partita, forse la più particolare, è proprio quella col Firenze Ovest. Siamo nel febbraio del 1988, l’URSS è a Coverciano e non solo, questa volta è anche in Garfagnana (quindi il ritiro non è più soltanto a Coverciano, e anche questo secondo me è significativo); disputa varie amichevoli in preparazione degli Europei che la vedranno arrivare addirittura in finale quindi è una squadra fortissima, in cui c’è Blochin che un Pallone d’oro, c’è Lobanovskij che è colui che ha perfezionato il calcio totale in URSS vincendo più di 30 titoli in carriera, quindi è una nazionale mostruosa. Questa nazionale a fine febbraio deve disputare un’amichevole con l’Italia di Gianluca Vialli a Bari, quindi per l’occasione è in Italia e cerca di disputare una serie di amichevoli, ma la FIGC mette un veto sugli incontri con squadre professionistiche. Di fatto, una nazionale come quella dell’URSS, che era stata già osteggiata diverse volte nel corso dei decenni, si trova a dover disputare amichevoli con squadre dilettantistiche. C’è un’amichevole non di cartello ma comunque un minimo competitiva con il Pontassieve, e poi i dirigenti sovietici si ritrovano a fare un appello e a cercare disperatamente un campo dove giocare.
Ho avuto la fortuna di intervistare l’allora presidente del Firenze Ovest e mi ha raccontato che loro provarono a dare la propria candidatura dicendo: «Noi abbiamo il campo disponibile, se siete interessati potete venire», dando per scontato che i dirigenti della squadra sovietica non avrebbero accettato. Invece, con massimo piacere e massima sorpresa, i dirigenti sovietici accettarono di disputare una partita in un campo in terra battuta, quindi un campo veramente pericoloso a livello atletico.
Si gioca dunque questa partita nel campo del Firenze Ovest. C’è la folla delle grandi occasioni, chiaramente in un numero molto limitato rispetto ai 60.000 del Franchi, però le persone sono molto contente di vedere una nazionale maggiore giocare sotto casa. Tutto ciò però per la stampa non passa inosservato, e «La Nazione» titola:
Clamorosa gaffe della FIGC,
l’URSS costretta a giocare a Brozzi
(Secondo me c’è da analizzare meglio il perché ci si ritrova dal giocare al Franchi con 60.000 spettatori a giocare a Brozzi).
La partita viene disputata, l’URSS ovviamente vince a mani basse, e le testimonianze si concentrano sull’atteggiamento di Lobanovskij, che si comporta da vero generale: durante la partita non permette ai giocatori di guardare nessuno, si entra in campo senza scambiare cenni di saluto, si fa la partita e si torna negli spogliatoi. Poi inizia la parte più conviviale, però è veramente un atteggiamento rigido, da generale.
Dopo la partita c’è una celebrazione: i dirigenti del Firenze Ovest portano a cena fuori la squadra nazionale sovietica, c’è un taglio della torta con metà bandiera della Polisportiva Firenze Ovest e metà bandiera dell’URSS. Tutti si sbellicavano dal ridere nel raccontarmi che quella sera si spaventarono particolarmente perché, mentre erano fuori a fumare, sentirono un gran frastuono, un gran fruscìo tra i cespugli: sicché, spaventati, andarono a controllare e videro che erano diversi giocatori dell’URSS che si nascondevano da Lobanovskij per poter bere Coca-Cola e vino. Ecco, secondo me anche questo è un episodio molto simpatico ma anche significativo.
Vi ringrazio per l’attenzione.
Emanuele Russo
(Trascrizione della relazione presentata dal dott. Emanuele Russo al convegno “Il mito sovietico nel PCI in Toscana” tenutosi a Pistoia il 26 ottobre 2023, a cura dell’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia).
Inserito il 25/11/2023.
Sergej Mosjagin e Valerij Lobanovskij.
Fonte della foto: https://www.altaisport.ru/post/21999
Lev Jašin.
Fonte della foto: social media V Kontakte.
Firenze, febbraio 1988: amichevole Firenze Ovest – Unione Sovietica.
Fonte della foto: Andrea Borelli (a cura di), Il mito sovietico nel PCI in Toscana, Pistoia, I.S.R.PT. Editore, 2023.
Firenze, febbraio 1988: amichevole Firenze Ovest – Unione Sovietica.
Fonte della foto: Andrea Borelli (a cura di), Il mito sovietico nel PCI in Toscana, Pistoia, I.S.R.PT. Editore, 2023.
Bari, Stadio della Vittoria, 20 febbraio 1988. La Nazionale sovietica di calcio posa prima dell’incontro amichevole Italia-Unione Sovietica, vinto dagli Azzurri per 4-1.
Fonte della foto: https://it.wikipedia.org/wiki/File:Nazionale_di_calcio_dell%27URSS,_1988.jpg
Bari, Stadio della Vittoria, 20 febbraio 1988. La Nazionale italiana di calcio posa prima dell’incontro amichevole Italia-Unione Sovietica, vinto dagli Azzurri per 4-1.
Fonte della foto: https://it.wikipedia.org/wiki/File:Nazionale_di_calcio_dell%27Italia,_1988.jpg
Dal quotidiano «il manifesto»
Pallone e politica
dall’impero zarista all’Urss di Jašin
dall’impero zarista all’Urss di Jašin
Il portiere! Prototipo dell’eroe bolscevico… L’arte del calcio sovietico di Carles Viñas (il Saggiatore), a dispetto del titolo, ricostruisce «dall’inizio» il rapporto tra sport e società russa
di Francesco Baucia
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Pallone e politica dall’impero zarista all’Urss di Jašin
L’uomo sovietico, secondo Trockij, doveva sopravanzare l’Homo sapiens, non solo emendandone l’individualismo, ma guarendo la sua pigrizia, anche con l’attività fisica. Se però è vero che, tra tutti gli sport, il calcio ci riconnette con «la preistoria dei nostri movimenti» – poiché esclude dal gioco le mani e le braccia, gli arti più «teoretici», secondo Vladimir Dimitrijevic – allora sembra quanto di più distante dalla tensione al futuro propria del comunismo. Eppure, la storia testimonia che un abbraccio tra la disciplina «sistematizzata» da Thomas Arnold, all’università di Rugby, nella prima metà dell’Ottocento e la dottrina politica elaborata da Marx ed Engels nello stesso giro d’anni, c’è stato, eccome.
Negli albi è certificato da due eventi simbolici: la vittoria dell’Urss ai campionati europei del 1960, in piena Guerra fredda, e il Pallone d’oro assegnato al suo portiere Lev Jašin (trionfi a cui aveva fatto da ouverture la medaglia d’oro olimpica a Melbourne 1956). È noto che, a oggi, Jašin è l’unico portiere premiato con il riconoscimento di «France Football», e forse non è un caso che venisse da oltre cortina: nell’Occidente dell’egoismo capitalista è l’attaccante o l’inventore di gioco a mettersi in luce, mentre nel mondo sovietico l’eroe è il portiere: baluardo del socialismo, «ultima difesa» contro gli inganni delle società borghesi.
Eppure, le cose non sono così semplici. Lo dimostra L’arte del calcio sovietico (il Saggiatore, traduzione di Simone Cattaneo, pp. 186, € 16,00), libro dal titolo italiano un po’ fuorviante, che ammicca ai lettori di Osvaldo Soriano ed Eduardo Galeano, o a quelli di Dimitrijevic (fondatore delle edizioni L’Âge d’Homme e cultore dello sport; sua la raccolta di divagazioni e memorie apparse nel 2000 da Adelphi con il titolo La vita è un pallone rotondo). Il volume di Carles Viñas – storico dell’Università di Barcellona attento ai rapporti tra sport e società – è invece tutt’altro che una fantasmagoria letteraria sul calcio nella Russia comunista, come si potrebbe essere indotti a pensare. Si tratta, al contrario, di una documentata ricostruzione dei suoi esordi tra la fine dell’epoca zarista e il consolidarsi del regime sovietico negli anni venti. Per arrivare a Jašin e alla finale di Parigi del 1960 c’è un balzo di tre decenni che il libro abbozza soltanto, nell’epilogo. È però proprio nelle ultime pagine che Viñas disegna il profilo del portiere come prototipo dell’eroe sovietico: una figura che, retrospettivamente, ci aiuta a capire le origini dello sport alla fine del secolo precedente. Soprattutto se si pensa a quanto, sull’allure del portiere, scriveva un grande russo che di bolscevismo non voleva neanche sentir parlare: Vladimir Nabokov. Per lui, l’estremo difensore è l’«aquila solitaria, l’uomo del mistero» che si distingue nel vestiario dai compagni e che in seduzione «gareggia con il matador e con l’asso dell’aeronautica». Nabokov, di famiglia liberale, agiata e anglofila, difendeva la porta a Cambridge, durante gli studi al Trinity College, dopo aver passato notti insonni a comporre versi (così scrive nell’autobiografia). Il suo ambiente di provenienza rappresenta l’esempio perfetto di quello strato sociale della popolazione russa in cui, in un primo momento, attecchì il gioco del calcio. Con la concessione all’ingresso di capitali stranieri, il regime zarista, alla fine dell’Ottocento, sperava di modernizzare l’economia: portatori di innovazione, non soltanto nel campo dell’industria, furono soprattutto colonie di inglesi (provenienti in gran parte dal Lancashire e tifosi del leggendario Balckburn Rovers), che diffusero lo sport. Da pratica circoscritta ai club elitari delle città (San Pietroburgo in particolare), a moda che suscitava le diffidenze del clero ortodosso, il calcio fu introdotto nelle fabbriche dove gli inglesi lavoravano come dirigenti per un preciso progetto: guarire i lavoratori dall’alcol e distrarli dall’attivismo politico e dalla sedizione. Tale progetto naufragò, perché l’alcol continuò a essere consumato anche a bordo campo e l’aggregazione sportiva favorì la solidarietà di classe tra gli operai, ma quel che è certo è che il calcio mise le radici nel popolo.
Già in questa fase emergeva la domanda a cui il potere, sia zarista che sovietico, cercò poi sempre con inquietudine di trovare una risposta: il calcio è uno strumento adattabile a strategie politiche e militari (un mascherato allenamento alla battaglia, o alla lotta di classe) o una forza di dissoluzione? A differenza di molti bolscevichi, per esempio, Lenin aveva praticato diversi sport e li apprezzava, anche quelli competitivi come il calcio (ma il suo favorito erano gli scacchi): ne intuiva il potere emancipatorio, auspicando la partecipazione delle donne in vista di un orizzonte di eguaglianza tra i sessi. Negli anni venti, tra la classe dirigente sovietica, si accese un dibattito tra due concezioni dello sport – l’igienista e la proletkultista – che aveva al centro proprio l’idea di competitività e di rifondazione della cultura proletaria: l’intransigenza proletkultista verso gli sport borghesi ne uscì sconfitta (anche se non mancarono persecuzioni di esponenti dell’uno e dell’altro schieramento), e i vertici della politica sovietica si attestarono su una posizione di arcigno realismo. La fizkultura (l’educazione fisica promossa dallo Stato, con il calcio come punta di diamante) era preparazione permanente alla guerra e all’efficienza industriale, e la nazionale sovietica il primo strumento per spezzare l’isolamento diplomatico del Paese dopo la Guerra civile. Poco importava che, davanti a una facciata di specchiato dilettantismo (poiché il professionismo sportivo era proibito), le squadre intavolassero un mercato nero di giocatori non troppo diverso da quello delle odiate nazioni capitaliste. E che, sugli spalti, i tifosi si accendessero contro il Cska (la squadra dell’esercito) e soprattutto contro la Dinamo Mosca – la «spazzatura» (musor) nel gergo dei piccoli criminali: la squadra della polizia e del ministero dell’Interno voluta dall’inquisitore Dzeržinskij, e prediletta dalla nomenklatura.
In Intransigenze, Nabokov racconta che l’ultima volta in cui giocò in porta era ormai un esule in Germania. Si risvegliò in infermeria, dopo aver ricevuto un colpo alla testa durante un’azione, con il pallone ancora stretto saldamente al corpo. Quell’abbraccio – ripensando alla ricostruzione storica di Viñas e, all’estremo opposto, all’esperienza corrente di uno sport ultracapitalista, dominato dalla finanza – ci appare come il simbolo della resistenza del calcio a ogni uso politico, o piuttosto come il segno della sua velenosa complicità con qualsiasi sistema di potere?
Francesco Baucia
(Tratto da: Francesco Baucia, Pallone e politica dall’impero zarista all’Urss di Jašin, in «Alias domenica», inserto culturale domenicale de «il manifesto», 10 settembre 2023; disponibile anche su: https://ilmanifesto.it/carles-vinas-pallone-e-politica-dallimpero-zarista-allurss-di-jasin).
Inserito il 26/09/2023.
Olimpiadi di Città del Messico, 1968. Sul podio dei 200 m piani: 1. Tommie Smith; 2. Peter Norman; 3. John Carlos.
Fonte della foto: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/3/3e/John_Carlos%2C_Tommie_Smith%2C_Peter_Norman_1968cr.jpg
Olimpiadi di Città del Messico 1968
Tre uomini liberi, due pugni in guanti neri
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Un’immagine-simbolo del 1968, l’anno in cui i continenti europeo e americano conobbero le più grandi contestazioni giovanili e progressiste del Novecento.
La gara dei 200 m piani non fu certo una passeggiata, ma quel che successe sul podio, in diretta tv mondiale, fu inaudito, tanto da comportare conseguenze “tombali”, dal punto di vista sportivo, per i tre atleti.
Nella finale dei 200 m Tommie Smith precedette il compagno di squadra John Carlos, superato a sorpresa anche dall’australiano Peter Norman. Già in semifinale i due americani avevano battuto il record mondiale, ma in finale il tempo di Smith scese, per la prima volta nella storia, sotto i 20 secondi (19''83); gli ultimi dieci metri li corse con le braccia alzate in segno di vittoria, altrimenti la prestazione sarebbe stata ancora migliore.
Nel giorno della premiazione i tre vincitori delle medaglie olimpiche si presentarono sul podio con in bella evidenza sulla tuta la spilla rotonda bianca che simboleggiava il movimento Olimpic Project for Human Rights (OPHR, Progetto olimpico per i diritti umani), un’organizzazione che lottava perché agli atleti afroamericani fosse concesso il diritto alle borse di studio per attività sportive che venivano assegnate ai colleghi bianchi.
All’attacco dell’inno nazionale, i due americani abbassarono la testa e alzarono il pugno guantato di nero: la patria della libertà e dei diritti umani negava ancora agli afroamericani diritti elementari.
Il gesto di Smith e Carlos provocò la loro immediata espulsione dal villaggio olimpico e l’esclusione dalla rappresentativa olimpica statunitense. Ai due non fu più permesso di praticare l’atletica, e Smith “si riciclò” come giocatore di football americano.
In patria i due furono minacciati di morte, e la moglie di Carlos si suicidò perché non resse il peso del clima di odio che circondò la sua famiglia.
Dal punto di vista sportivo non andò meglio al loro compagno di podio, Peter Norman. Questi, per aver solidarizzato con l’OPHR, fu condannato dai mass-media australiani e boicottato dai vertici sportivi del suo paese: pur qualificatosi per i 100 e i 200 m per le Olimpiadi di Monaco di Baviera del 1972, la Federazione Olimpica australiana non lo incluse nella squadra olimpica e rinunciò addirittura a presentare velocisti per quell’edizione dei Giochi olimpici.
Quando nel 2006 Peter morì per un infarto, a sorreggere il feretro per l’ultimo viaggio furono i suoi compagni Tommie Smith e John Carlos.
L.C.
Inserito l’08/06/2023.
Dal sito storiedicalcio.altervista.org
Bill Shankly, che fece grande il Liverpool:
«Sono un uomo del popolo»
«Sono un uomo del popolo»
Lo sport come riscatto dal disagio sociale
Anche lui, come altri due leggendari allenatori britannici, Matt Busby e Jock Stein, era nato in un villaggio minerario, Glenbuck, ai confini fra le regioni dell’Ayrshire e del Lanarkshire. Fu sempre fedele alle sue umili origini e molto vicino ai ragazzi della Kop, la mitica gradinata dei tifosi del Liverpool, per lo più composta da membri della working class che ogni giorno conoscevano la fatica del lavoro nelle fabbriche o nei cantieri navali della città inglese. «Sono un uomo del popolo» amava ricordare, «solo il popolo mi interessa».
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Bill Shankly: l’immortale eroe di Anfield Road
II Liverpool era un club in fase di forte picchiata nel 1959 quando i dirigenti della Merseyside decisero di affidare le loro speranze di ripresa a uno scozzese che rispondeva al nome di William Shankly. Erano passati tredici anni dall’ultimo trionfo nella massima serie (il quinto in assoluto) e i Reds navigavano nella mediocrità della Division Two (la nostra Serie B) da cinque stagioni, deludendo il loro appassionato pubblico. Shankly, un po’ come aveva fatto Herbert Chapman con l’Arsenal, cambiò totalmente il corso della storia del Liverpool, rendendo il club di Anfield una delle squadre più forti e titolate d’Europa. Rivoluzionò completamente la squadra cedendo ventiquattro giocatori in meno di un anno, gettando le basi dello squadrone leggendario che avrebbe fatto incetta di titoli. È diventato una leggenda, Bill Shankly. Un uomo dal senso dell’umorismo straripante, dalle grandi capacità tattiche e tecniche, un grande comunicatore e un motivatore di uomini.
Passione di famiglia
Anche lui, come altri due leggendari allenatori britannici, Matt Busby e Jock Stein, era nato in un villaggio minerario, Glenbuck, ai confini fra le regioni dell’Ayrshire e del Lanarkshire. Fu sempre fedele alle sue umili origini e molto vicino ai ragazzi della Kop, la mitica gradinata dei tifosi del Liverpool, per lo più composta da membri della working-class che ogni giorno conoscevano la fatica del lavoro nelle fabbriche o nei cantieri navali della città inglese. «Sono un uomo del popolo» amava ricordare, «solo il popolo mi interessa».
Il calcio era nel sangue della famiglia Shankly non meno del pulviscolo provocato dalle miniere di carbone che tutti i giorni gli abitanti del piccolo villaggio scozzese dovevano respirare. Bill aveva infatti quattro fratelli (e cinque sorelle) tutti giocatori di calcio e due zii con precedenti esperienze di pallone. Cominciò dunque fin da bambino a giocare a calcio. La sua prima squadra fu il Glenbuck Cherrypickers, mentre a livello professionistico il primo club a dargli fiducia fu il Carlisle United, nel 1932. L’annata successiva venne ingaggiato per 500 sterline dal Preston North End, con il quale divenne titolare nel ruolo di mediano destro e vinse la F.A. Cup del 1938, nello stesso anno in cui ottenne la prima chiamata nella Nazionale scozzese.
Nel dopoguerra rientrò per qualche stagione al Preston North End, prima che nel 1949 il Carlisle gli offrisse il ruolo di allenatore della squadra. Cominciò lì la sua carriera di manager che si sarebbe evoluta velocemente attraverso formative tappe intermedie (Grimsby, Wortkington e Huddersfield), prima della chiamata che cambiò la sua vita e la storia del Liverpool.
Con l’Everton in testa
A metà dell’ottobre 1959 il presidente dei Reds Tom Williams e il dirigente Harry Latham viaggiarono al di là dei monti Pennini fino a Cardiff, per vedere all’opera l’Huddersfield di Shankly contro i gallesi padroni di casa, in un match di Division Two. Al termine dell’incontro avvicinarono il tecnico scozzese e gli chiesero se gli sarebbe piaciuto allenare il Liverpool. Shankly non se lo fece ripetere due volte e dopo le dimissioni di Phil Taylor, l’allora tecnico dei Reds, l’1 dicembre del 1959 avvenne l’annuncio ufficiale della firma per 2.500 sterline l’anno. Il suo incarico era risollevare le sorti del Liverpool, che ormai viveva nell’ombra dell’Everton.
Bill era un uomo che amava sdrammatizzare le situazioni, aveva uno spiccato senso dell’umorismo pur essendo molto professionale sul lavoro. Un giorno, appena arrivato a Liverpool, andò dal barbiere che gli chiese: «Anything off the top?» (“Devo toglierle qualcosa dalla testa?”, cioè quale taglio di capelli desiderasse). «Ay, Everton», fu la risposta del tecnico. Dopo il primo incontro di campionato che vide il Liverpool soccombere 4-0 di fronte al Cardiff City, Shankly si convinse che erano necessari dei correttivi alla rosa e stilò una lista di 24 giocatori che non rientravano nei suoi piani. In meno di un anno tutti avrebbero lasciato Anfield.
Il paradiso riconquistato
Nel corso del suo primo anno Shankly lanciò diversi giovani molto interessanti tra cui Roger Hunt, un attaccante di 19 anni destinato a fare la storia del Liverpool. Segnò ben 21 reti nella sua stagione d’esordio. Piano piano il grande progetto di “Shanks” cominciò a prendere forma: «Il Liverpool era fatto su misura per me e io ero fatto su misura per il Liverpool. Anfield è il mio monumento», avrebbe ricordato. Era un maniaco della preparazione fisica («Quando morirò, voglio essere l’uomo più in forma di tutto il cimitero») e sottoponeva i suoi ragazzi ad allenamenti massacranti, che però davano ampi frutti sul campo. Dopo Roger Hunt, lanciò in prima squadra un altro giovane promettente, Ian Callaghan ma c’era ancora molto lavoro da fare, la ricostruzione era appena iniziata e necessitava almeno di un paio d’anni. Il tecnico riempì la squadra di giovani ignorati dai grandi club e cominciò a lavorare su di loro. Sfiorata la promozione nel 1961, il Liverpool finalmente salì fra i grandi un anno dopo, grazie all’inserimento nell’organico di Ian St John e Ron Yeats.
Liverpool capitale
L’uomo decisivo per la risalita fu comunque Roger Hunt che timbrò il cartellino del gol per ben 41 volte. In tre anni Shankly era riuscito a riportare i Reds in Division One. Dopo un’annata di ambientamento nella massima serie condusse il Liverpool al titolo, il primo dal 1947. I Reds giocavano un calcio divertente e veloce, un mix di passaggi corti e scorribande sulle fasce tipiche del gioco britannico, e riconquistarono il pubblico, che tornò a affollare Anfield. A metà degli anni ’60 Liverpool era sulla cresta dell’onda: i Beatles erano un fenomeno musicale di portata mondiale e i Reds si accingevano a imporre la loro legge in Inghilterra e in Europa. La prima esperienza in Coppa Campioni fu esaltante: il Liverpool si fermò solo in semifinale contro la Grande Inter di Herrera. La conquista della stagione fu la FA Cup, la prima nella storia dei Reds, nella finale di Wembley contro il Leeds (2-1).
Sognando l’Europa
Questo successo determinò la definitiva consacrazione di Bill Shankly, ormai il padrone di un club il cui sogno proibito divenne allora la conquista dell’Europa. Nella stagione 1965-66 l’obiettivo fu quasi centrato, ma la finale di Coppa delle Coppe a Glasgow vide il Liverpool sconfitto dal Borussia Dortmund. In campionato gli uomini di Shankly centrarono invece un nuovo titolo e Roger Hunt si dimostrò ancora bomber implacabile con 30 reti che gli valsero il titolo di capocannoniere e gli spianarono la strada della Nazionale per il vittorioso Mondiale del ’66 (in squadra c’erano altri due Reds, Gerry Byrne e Ian Callaghan).
Molti giocatori di quel Liverpool stavano però cominciando la parabola discendente della carriera. Shankly ricorse così al mercato nella stagione 1966-67 che non portò alcun successo ai Reds, cominciando una sorta di seconda ricostruzione. Ancora una volta il manager individuò i giocatori giusti. Su tutti arrivarono Emlyn Hughes ( 19 anni) e il grande portiere Ray Clemence. La politica di rinnovamento andò avanti per altri anni, durante i quali il Liverpool rimase all’asciutto. Ma Shankly sapeva quello che stava facendo, la squadra andava rinnovata per tornare ai vertici e rimanerci.
King Kevin Keegan
Fu necessario attendere la stagione ’72-73 per vedere nuovamente i Reds vincitori del campionato. Un anno prima era arrivato ad Anfield Kevin Keegan, ingaggiato dallo Scunthorpe United per 35.000 sterline e destinato a essere il miglior giocatore inglese della decade. Nel 1972-73 il Liverpool si aggiudicò l’ottavo titolo della sua storia e Keegan fu il protagonista assoluto della stagione. Oltre al campionato, però, quella stagione coronò finalmente il sogno di Shankly, regalandogli il trionfo europeo. I Reds si aggiudicarono la Coppa Uefa sconfiggendo in finale il Borussia Mönchengladbach e facendo di Shankly il primo manager a condurre una squadra inglese al successo in campionato e in Europa nella stessa stagione.
L’ultima cavalcata
“Shanks” era quasi giunto al capolinea della carriera: nel 1974 i Reds conquistarono nuovamente la FA Cup battendo in finale il Newcastle per 3-0 (doppietta di Keegan e acuto di Heighway) al termine di un incontro a senso unico. «Il Liverpool è la miglior squadra d’Inghilterra e probabilmente del mondo» disse Shankly ai giornalisti. Quando rientrò negli spogliatoi, i giocatori stavano festeggiando a champagne. Lui si sedette silenzioso in un angolo e meditò la decisione che avrebbe sconvolto il calcio inglese.
Il 12 luglio 1974 durante una conferenza stampa, Shankly prima annunciò l’acquisto di Ray Kennedy dall’Arsenal, poi lasciò la parola al presidente John Smith che lesse un comunicato: «E con grande rammarico che devo informarvi che mister Shankly ci ha avvertito che intende ritirarsi dalla carica di allenatore». I giornalisti presenti pensarono all’ennesimo scherzo di “Shanks”, ma era tutto vero. Era ormai una leggenda vivente, l’uomo che aveva creato quella sensazionale squadra dal nulla: «Certe persone pensano che il calcio sia questione di vita o di morte» disse una volta; «si sbagliano: è molto più di questo». Dopo il ritiro il Liverpool non gli offri una carica dirigenziale nonostante avesse ancora molto da dare. Lui se ne rammaricò ma non scatenò polemiche, rimase fuori dai giochi e non smise mai di tifare per i Reds, cosi come i tifosi mai lo dimenticarono. Nel settembre del 1981 si ammalò e il 29 dello stesso mese morì, gettando nello sconforto un’intera città che lo credeva immortale e che lo adorava quasi come una divinità.
Inserito il 12/2/2023.
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