Maksim Gor’kij

Maksim Gor’kij (1868-1936).

Fonte della foto: Wikimedia.

«È giunto per voi il momento di rispondere alla domanda: da che parte state voi, “maestri di cultura”? State dalla parte della forza lavoro della cultura per la creazione di nuove forme di vita, oppure siete contro questa forza, per la conservazione di una casta di predatori irresponsabili, una casta che è marcia dalla testa ai piedi e continua ad agire solo per inerzia?».

Maksim Gor’kij (Da che parte state voi, “maestri di cultura”? Risposta ai corrispondenti americani, 1934)

Pagine di letteratura

La pena del lavoro nella Russia dell’800 

Un brano dal racconto Come ho studiato

di Maksim Gor’kij

Il racconto Come ho studiato fu pubblicato per la prima volta nel 1918 col titolo Sui libri nel giornale diretto dallo stesso Gor’kij «Novaja žizn’» («Vita nuova»). In esso l’autore ripercorre i propri ricordi d’adolescente alla scoperta dell’importanza dei libri e della lettura per la propria crescita e acquisizione di consapevolezza della vita e del mondo.

La scena che riportiamo ce lo presenta come servitore di una famiglia piccolo-borghese di una città di provincia intento a osservare la vita degli sterratori che vivono nei bassifondi del suo stabile; in realtà si tratta di contadini portati a lavorare in città da un appaltatore senza scrupoli e privo di un minimo senso di umanità. L’amarezza del ragazzo osservatore si percepisce in modo evidente quando egli si rende conto che gli schiavi scaricano la propria rabbia e il proprio senso di impotenza sociale su altri schiavi.

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Come ho studiato


[…] Imparai a leggere con consapevolezza quando ebbi quattordici anni. A questa età mi attraeva ormai non più solo l’intreccio del libro, lo sviluppo più o meno interessante degli avvenimenti rappresentati, ma anche la bellezza delle descrizioni, e cominciavo a riflettere sui caratteri dei personaggi, a indovinare confusamente gli scopi che l’autore del libro si era prefisso, e sentivo angosciosamente la disparità fra ciò di cui parlava il libro e ciò che mi suggeriva la vita.

Difficile era la mia vita, in quell’epoca; avevo per padroni dei piccoli borghesi inveterati, per i quali il piacere principale era mangiare molto, e l’unica distrazione la chiesa, ove essi si recavano vestendosi pomposamente, come ci si abbiglia per andare a teatro o a un pubblico passeggio. Lavoravo molto, fin quasi all’istupidimento, e i giorni di festa e di lavoro erano egualmente sovraccarichi di una fatica minuta, insensata e inutile.

La casa in cui vivevano i miei padroni apparteneva a un «appaltatore di lavori di sterro e di pavimentazione stradale»: un piccolo contadino tarchiato di Kliazma. Era un uomo dalla barbetta aguzza e dagli occhi grigi; malvagio e rozzo, aveva una sua crudeltà particolarmente tranquilla. Teneva alle sue dipendenze trenta operai, tutti contadini di Vladimir, che abitavano in una cantina scura con un pavimento di cemento e delle piccole finestre al di sotto del livello stradale. La sera, massacrati dal lavoro, dopo aver cenato con una minestra di cavoli fermentati puzzolenti e di frattaglie di carne salata, essi uscivano fuori, nel sudicio cortile, ove crollavano sfiniti dalla stanchezza: nell’umida cantina c’era un’aria soffocante e fumosa a causa della enorme stufa. L’appaltatore compariva alla finestra della sua stanza e gridava:

Ehi, voi, diavoli, di nuovo siete venuti in cortile? Si sono sdraiati i porci! Nella mia casa vive della gente perbene: è forse uno spettacolo piacevole, vedervi?

Gli operai allora scendevano docilmente nella cantina. Erano tutti tipi tristi, che ridevano di rado, che non cantavano quasi mai e parlavano brevemente e malvolentieri; sempre imbrattati di terra, mi sembravano dei defunti, risorti contro la loro volontà per essere tormentati ancora un’intera vita.

In quanto alla «gente per bene» – ufficiali, accaniti giocatori di carte e ubriaconi –, essa batteva a sangue gli attendenti e le amanti: donne vistosamente abbigliate che fumavano sigarette. Quest’ultime, poi, si ubriacavano anch’esse e schiaffeggiavano gli attendenti, che a loro volta bevevano e si sborniavano a morte.

Di domenica, l’appaltatore usciva sul terrazzino e sedeva sulla scala, con un lungo libro stretto in una mano e un pezzo di matita nell’altra; gli sterratori gli si accostavano in fila indiana, l’uno dopo l’altro, come dei mendicanti. Parlavano a voce bassa, facendo inchini e grattandosi, ma l’appaltatore riempiva di urla il cortile:

D’accordo! prendi un rublo d’argento! Che cosa? Vuoi che ti picchi sul muso? Ne ho piene le tasche di voi! Va’ via… Presto!

Sapevo che fra gli sterratori ce n’erano alcuni dello stesso villaggio dell’appaltatore, altri che erano suoi parenti, ma egli era ugualmente crudele e rozzo con tutti. E gli sterratori erano anche essi crudeli e rozzi fra di loro, e in modo particolare con gli attendenti. Quasi ogni domenica, nel cortile si accendevano delle risse sanguinose, saliva fino al terzo piano una sporca bestemmia. Gli sterratori si azzuffavano senza cattiveria, come adempiendo un obbligo che li annoiasse; quello che era stato picchiato a sangue si allontanava o scivolava da una parte e lì, in silenzio, esaminava le sue graffiature, le sue ferite, e si stuzzicava con le dita sporche i denti vacillanti. Un viso pesto, o gli occhi gonfi dai colpi, non suscitavano mai la compassione dei compagni, ma se qualche camicia rimaneva strappata, tutti allora ne provavano rincrescimento, e il padrone della camicia che era stato picchiato si adirava tetramente e talvolta piangeva.

Queste scene suscitavano in me un sentimento indicibilmente penoso. Avevo compassione degli uomini, ma la mia era una compassione fredda che non mi faceva mai dire una parola affettuosa a uno qualsiasi di loro, o aiutare in qualche modo coloro che erano stati picchiati, anche se davo loro l’acqua affinché lavassero il denso e ripugnante sangue rappreso, mescolato con il sudiciume e la polvere. In sostanza, non li amavo, li temevo un poco e pronunciavo la parola «contadino» allo stesso modo dei miei padroni, degli ufficiali, del cappellano di reggimento, del cuoco vicino a casa e perfino degli attendenti, che parlavano tutti con disprezzo dei contadini.

Aver compassione della gente mi riusciva penoso, ma intanto si prova sempre il desiderio di amare gioiosamente qualcuno, e non c’era nessuno da poter amare. Tanto più ardentemente, quindi, presi ad amare i libri.

C’erano ancora molte altre cose sudicie e crudeli, che davano un acuto senso di repugnanza, ma non ne parlerò perché voi stessi conoscete questa vita infernale, questo ininterrotto sfruttamento dell’uomo sull’uomo, questa morbosa passione di tormentarsi l’un l’altro che è il piacere degli schiavi. E così, in questa maledetta situazione, per la prima volta cominciai a leggere dei buoni, seri libri di scrittori stranieri. […]


Maksim Gor'kij


(Tratto da: Maksim Gorki, Come ho studiato, in: Maksim Gorki, Opere, vol. XII, Il padrone, Roma, Editori Riuniti, 1957, pp. 296-298).


Inserito il 09/10/2023.

“La madre” di Gor’kij e il socialismo come religione

🔴 di Leandro Casini 🔴

«La prima espressione letteraria che possiamo considerare paradigmatica della funzione religiosa del socialismo di Gor’kij è rappresentata da La madre. La simbologia religiosa vi è immessa in modo talmente esplicito, che alcuni critici hanno definito quest’opera “il Vangelo di Maksim”».

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La madre di Gor’kij e il socialismo come religione


Le opere di Maksim Gor’kij (pseudonimo di Aleksej Maksimovič Peskov, 1868-1936) sono sempre meno presenti nelle antologie di letteratura in Russia. Fu uno scrittore che percorse i sentieri del successo dall’ultimo decennio del XIX secolo fino agli anni Novanta del XX; autodidatta, proveniente dai bassifondi della provincia russa, portò sulla scena letteraria, descrivendoli dall’interno dei loro ambienti, personaggi mai visti prima, i bosjaki (‘vagabondi, straccioni’), mendicanti che camminavano a piedi nudi e trovavano ripari di fortuna, orfani ladruncoli che vivevano in malsani e maleodoranti tuguri in mezzo al fango, disperati e diseredati sì, ma che in molti casi preferivano la vita randagia e libera al lavoro da schiavi nei campi o nelle prime fabbriche che facevano la loro comparsa qua e là per lo sterminato Paese.

Poi, con la scomparsa dell’Unione Sovietica, il nome dello scrittore ha cominciato a eclissarsi, in quanto era considerato il “padre” del realismo socialista, e in Russia, così come in Occidente, non lo si è più molto studiato e ripubblicato come succedeva prima. E prima succedeva – anche a chi scrive – che l’opera più famosa di Gor’kij, La madre (Mat’), venisse portata a esempio come classico della letteratura socialista, una delle opere più rappresentative del filone marxista della letteratura russa e mondiale. Invece, una lettura più attenta di questo romanzo (ma per alcuni critici e secondo alcune lettere dello stesso scrittore si trattava di una povest’, quindi, secondo i criteri russi, uno scritto appartenente a un genere che possiamo definire come ‘romanzo breve’ o ‘racconto lungo’) può portare il lettore accorto a vederne più le differenze con le teorie classiche del marxismo che i punti di contatto.

L’incontro di Aleksej Peškov con le opere di Karl Marx avvenne nel penultimo decennio del secolo scorso, nell’ambito dei circoli intellettuali populisti che allora il giovane autodidatta frequentava assiduamente.

La traduzione russa del Capitale era avvenuta proprio ad opera dei populisti, i quali, secondo lo studioso Andrzej Walicki, «rimasero talmente impressionati […] dalla descrizione delle atrocità dell’accumulazione primitiva, che decisero di scongiurare con ogni mezzo lo sviluppo capitalistico della Russia»1. Anche in questo caso si ebbe una decisa volontà dell’intelligencija russa di seguire strade alternative a quelle imboccate in Occidente. Se è vero che il populismo ebbe le sue origini dalle elaborazioni occidentaliste di Vissarion Belinskij, Konstantin Kavelin e Aleksandr Herzen, dalla fine degli anni ’60 nel movimento si produsse una svolta in senso, per così dire, “slavofilo democratico”2: l’obiettivo era il socialismo, che poteva essere raggiunto puntando sui caratteri specifici della struttura sociale russa tradizionale, quale era l’obščina (la comunità contadina di villaggio).

Gor’kij non fu subito attratto dalle teorie di Marx, se nel 1897 scriveva a A.M. Skabyčevskij in questi decisi termini:


Io non sono marxista e non lo sarò mai, poiché considero una vergogna professare il “marxismo alla russa e alla tedesca”, poiché io so che sono gli uomini a creare la vita, e l’economia la influenza soltanto.3


All’alba del nuovo secolo l’atteggiamento dello scrittore cambiava radicalmente; la casa editrice «Znanie» («La conoscenza»), di cui era uno dei principali collaboratori, pubblicava La politica coloniale nel passato e nel presente di Karl Kautsky (1900) e Il materialismo storico di Eduard Bernstein (1901), cioè i testi degli interpreti e continuatori dell’analisi storico-materialistica promossa da Marx ed Engels. Nell’ottobre 1902 Gor’kij dichiarava di condividere il punto di vista dell’organo del Partito operaio socialdemocratico russo (POSDR) «Iskra» («La scintilla»), assicurandogli un sostegno economico di ben 5.000 rubli all’anno. Lo scrittore, deluso dal populismo e dall’intelligencija, cosciente dell’importanza del proprio ruolo ma anche dell’impossibilità di cambiare il mondo tramite la sola attività letteraria, era alla ricerca di un punto di riferimento politico, e si rivolgeva quindi alla classe operaia e alla sua avanguardia organizzata; nell’aprile 1903 scriveva al traduttore in tedesco delle sue opere A.K. Scholtz:


Le sarei molto grato se mi informasse su come accoglie il mio dramma [I bassifondi] la classe operaia, la cui opinione è per me più preziosa di tutte le altre opinioni messe insieme.4


Gor’kij si affiancò alla socialdemocrazia e, dopo la scissione del 1903, alla sua ala bolscevica, capeggiata da Lenin. La conoscenza personale tra i due avvenne il 27 ottobre 1905, nel corso di una riunione del Comitato Centrale bolscevico che si tenne proprio nell’appartamento dello scrittore a San Pietroburgo.

L’anno 1905 aveva segnato il passaggio di Gor’kij dalla condizione di osservatore degli eventi storici a quella di attivo partecipante ad essi: egli, animato dal romanticismo rivoluzionario, ammiratore della forza e dell’energia umane capaci di rivoltare i rapporti nel mondo e nella natura, sceglieva di far parte dell’organizzazione politica che riteneva più energica, coraggiosa e motivata.

Gor’kij nelle sue prime opere aveva cantato l’individualismo e lo spirito di libertà dei bosjaki, aveva esaltato quasi nietzschianamente l’Uomo creatore del proprio destino contro le forze celesti (lotta contro Dio) e terrene (lotta contro la natura), si era entusiasmato romanticamente per l’ardore folle di un eroe energico, capace di lanciare la sfida a qualsiasi legge naturale o convenzione sociale. Inoltre lo scrittore teorizzava la necessità dell’illusione per spingere gli uomini alla rigenerazione, al perfezionamento, al completo rinnovamento, alla trasfigurazione di sé e del mondo.

Ora ci troviamo dinanzi al compito di delineare il modo (contraddittorio) in cui quegli elementi del pensiero del primo Gor’kij si innestarono nella sua concezione del socialismo e della rivoluzione russa e come le interpretazioni gor’kiane del socialismo si rifletterono sulla sua opera letteraria più conosciuta.

Nell’estate 1905 Gor’kij scrisse una lettera al pope Gapon, l’eroe dell’anno rivoluzionario, colui che nel gennaio di quell’anno aveva guidato per le strade di San Pietroburgo la manifestazione operaia violentemente repressa dalla polizia zarista nella famosa “domenica di sangue”: lo scrittore esprimeva dissenso sul progetto di Gapon di fondare un partito puramente operaio, senza la presenza di rappresentanti dell’intelligencija, un evidente tentativo (concordato con i ministri dello zar al cui servizio il prete si era posto) di isolare i lavoratori dall’influenza dei partiti socialisti. Così argomentava Gor’kij il proprio dissenso:


Non un partito operaio indipendente, diviso dall’intelligencija, occorre fondare, ma bisogna far affluire nel partito la maggior quantità di operai coscienti, bisogna apportare al partito la nuova energia di quegli intelligenty-operai la cui ragione è libera da pregiudizi e la cui autocoscienza di classe si è sviluppata, è diventata manifesta, ha creato un uomo nuovo.5


Considerando il tentativo di Gapon «dannoso, poco ponderato e foriero di divisione delle forze del proletariato»6, lo scrittore si poneva dalla parte dell’intelligencija rivoluzionaria, entrava nelle sue fila iscrivendosi al partito di Lenin, convinto che l’unione di intellettuali attivi e di operai coscienti avrebbe portato alla rivoluzione e ad una costruzione sociale, il socialismo, in grado di determinare il rinnovamento totale dell’umanità.

L’Uomo cantato l’anno precedente nel poema omonimo si allontanava ora dal prototipo nietzschiano e assumeva dei lineamenti sociali e politici inediti: per andare cioè «avanti e più in alto»7 doveva tendere non ad isolarsi dal contesto, ma a condurre l’intera società verso la verità. La rivoluzione del 1905 dimostrava a Gor’kij che l’azione collettiva organizzata poteva far tremare la storia in modo più efficace di quanto non potesse l’azione isolata di un eroe ardito e sprezzante, come il protagonista del famoso Canto del Falco. Lo scrittore era stato scosso dall’attivismo di un «uomo nuovo, il rivoluzionario-proletario», e poneva ora in primo piano la «psicologia collettiva, che ai nostri giorni deve destare il massimo di interesse e vicinanza in ogni uomo che ragiona»8. L’«uomo che ragiona» e che deve sentirsi attratto dalla «psicologia collettiva» del proletariato è il nuovo tipo di intelligent, l’intellettuale rivoluzionario. Gor’kij, profondamente deluso dall’esperienza dell’intelligencija precedente (sia quella di matrice populista, sia quella idealista e reazionaria), così spiegava la sua ammirazione per questo intellettuale di nuovo tipo in un saggio “americano”, Il pope Gapon (Pop Gapon, 1906):


Io non posso definirmi un ammiratore dell’intelligencija russa in generale, ma l’intelligencija rivoluzionaria russa, cioè l’intelligencija dei partiti veramente rivoluzionari, è a mio avviso uno dei fenomeni spirituali più interessanti del mondo per il suo idealismo, per l’attività disinteressata e instancabile negli interessi non solo della propria nazione, ma di tutta l’umanità.9


Nel 1907 lo scrittore aderiva senza riserve alla definizione di Anatolij Lunačarskij, secondo cui l’intelligencija rivoluzionaria rappresentava un ponte tra la cultura e le masse popolari10.

Nella sopracitata lettera a Gapon del 1905 troviamo un elemento importante per comprendere la visione che Gor’kij aveva della rivoluzione e del socialismo: ancor prima di conoscere Lunačarskij e le sue teorie sul carattere religioso da far assumere alla dottrina politica e sociale teorizzata da Marx, Gor’kij scriveva che il socialismo «deve essere la religione degli operai»11. Nel 1906, dall’America, lo scrittore ribadiva negli articoli Sugli ebrei (O evrejach) e Sul “Bund” (O “Bunde”) il proprio concetto di socialismo come «religione delle masse»12, «contenente in sé lo spirito e la potente fiamma della religione»13. Nello stesso periodo scriveva ad una contessa britannica:


Tutto deve servire alla grande causa della rigenerazione della vita, alla causa della Rivoluzione Mondiale, che innalzerà le nazioni dalla schiavitù all’eguaglianza, alla fraternità, alla gioia della vita, che deve diventare una festa per tutti; e se non sarà così, allora si tratterà di una mostruosa commedia, e parteciparvi sarebbe una bassezza. Evviva questa nuova religione, che libera i poveri dalle catene della povertà e dell’ignoranza, e i ricchi dall’infame fardello dell’oro e dei pregiudizi.14


Il socialismo come religione: il carattere religioso da dare alla dottrina politica sembrava a Gor’kij il mezzo più efficace per spingere gli uomini alla progressiva e inevitabile creazione dell’uomo nuovo, l’Uomo che da anni lo scrittore sognava e teorizzava:


Il socialismo – scriveva nel novembre 1906 a Z.I. Gržebin – è un grande processo di riunione di coloro che sono isolati a causa dell’avidità, della volgarità, della menzogna, della cattiveria degli uomini, in un unico grande Uomo, bellissimo, interiormente libero, completo.15


Alla luce di ciò si deve concordare con lo studioso sovietico P. Basinskij, che non nota «niente di innaturale nel passaggio di Gor’kij dagli entusiasmi nietzschiani all’idea della “ragione collettiva”, […] il cui trionfo vide nell’idea del socialismo»16. Già Thomas Mann aveva visto nel percorso creativo dello scrittore russo «una specie di ponte tra Nietzsche e il socialismo»17. Un altro “ponte” russo tra Nietzsche e il socialismo, Lunačarskij, aveva scritto nel 1904 un libretto (I fondamenti dell’estetica positiva [Osnovy pozitivnoj estetiki]) in cui elementi tipicamente gor’kiani (attività, fede, lotta contro la natura) conducevano esplicitamente al “superuomo”:


La fede dell’uomo attivo – scriveva – è la fede nell’umanità del futuro, la sua religione è l’insieme di sentimenti e pensieri che lo rendono compartecipe della vita dell’umanità e anello di quella catena che si allunga verso il superuomo, verso un essere bellissimo e autoritario, verso un organismo perfetto in cui la vita e la ragione celebreranno la vittoria sulle forze della natura.18


La rivoluzione del 1905 aveva indotto Gor’kij a cambiare la sua concezione dell’Uomo, a collegare dialetticamente l’individuo al contesto collettivo, cosa decisamente distante ormai dalle visioni di Nietzsche. Scrive a questo proposito un ricercatore russo:


L’insurrezione delle masse, alle quali Nietzsche guardava con tanto scetticismo, e la diffusione dell’idea socialista, spostavano l’ideale di Nietzsche oltre i limiti del possibile: sembrava che nella vita trionfasse la concezione di Gor’kij, l’ideale dell’uomo che, trasformando se stesso e la realtà su nuovi principî, raggiungerà l’ambita concordia tra gli interessi individuali e quelli collettivi.19


Attribuire carattere religioso al socialismo non ha niente di marxista e di materialista, è oltremodo in aperta contraddizione con il costante richiamarsi dello scrittore alla forza della Ragione: fede e razionalità possono solo fare a pugni. Ma la religione si inquadra perfettamente negli atteggiamenti ideologici di Gor’kij. Quando lo scrittore si convinceva di un’idea, cominciava a professarla con lo spirito colmo di ardore fideistico.

Abbiamo già dato esempi della professione di fede antropocentrista dello scrittore risalenti al periodo a cavallo del secolo, fede nel senso strettamente religioso del termine, la sola fede che non abbandonò per la vita intera. Nel 1919, in una prefazione ai Racconti sull’Italia, Gor’kij scriveva che «l’uomo […] è la cosa più grande sulla terra»20; nel 1925 scrisse allo scrittore Čapygin:


Io «amo credere», come giorni fa mi ha rimproverato il poeta Chodasevič. Ed io credo solo nell’uomo. Solo in lui. Questa è tutta la mia religione, assai tormentosa, ma nella stessa misura anche gioiosa. È così.21


A partire dagli anni ’20, alla religione dell’Uomo si affiancò anche «la funzione civile e, per così dire, religiosa del lavoro che unisce tutti gli uomini»22. E non lontano da una visione fideistica è anche l’atteggiamento che Gor’kij talvolta esprimeva nei confronti della letteratura, come per esempio in una lettera del 1926:


Io, vede, non sono solo un artigiano-letterato, ma prima di tutto un uomo che crede nella letteratura e che – scusate la parola! – addirittura la adora. Un libro per me è un miracolo.23


Nessuna meraviglia quindi se nel 1907 poteva esprimere a Ladyžnikov la propria soddisfazione per «la diffusione del socialismo nella regione del Volga e per l’atteggiamento religioso verso di esso, cioè per un atteggiamento che si ha verso una dottrina religiosa»24. Ma c’è di più. L’atteggiamento religioso che Gor’kij ammirava non era semplicemente quello del credente, ma del vero e proprio fanatico25, non disdegnando egli stesso di atteggiarvisi, stando almeno a ciò che Plechanov scrisse di lui da Londra, dove lo aveva conosciuto durante il V Congresso del POSDR:


Ieri è venuto da me Gor’kij, anch’egli qui. Ho parlato con lui abbastanza a lungo. È una persona molto interessante. Odia i menscevichi con il fanatismo di colui che non capisce niente di politica.26


Ma a differenza di Plechanov, per Gor’kij non si trattava di politica, bensì di religione… tanto che nel 1934 Karl Marx sarebbe divenuto nel suo linguaggio il «vero Messia del proletariato»27.

Rientra nel quadro degli atteggiamenti fideistici di Gor’kij anche il suo continuo autodefinirsi “eretico”, la sua ammirazione per gli eretici di tutte le epoche o fedi, il suo inserire nelle opere letterarie (dai primi bosjackie rasskazy [‘racconti di vagabondi’] fino alla Vita di Klim Samgin) rappresentanti delle varie correnti settarie ed ereticali russe. Con il considerarsi un eretico, Gor’kij tendeva non tanto a combattere il dogmatismo (ché, semmai, spesso sono proprio gli “eretici” i più duri dogmatici), quanto ad affermare semplicemente il diritto ad una concezione individuale della religione che sceglieva in un dato momento di professare: quindi, eresia contrapposta all’ortodossia e a qualsiasi disciplina di partito.

La prima espressione letteraria che possiamo considerare paradigmatica della funzione religiosa del socialismo di Gor’kij è rappresentata da La madre. La simbologia religiosa vi è immessa in modo talmente esplicito, che alcuni critici hanno definito quest’opera «il Vangelo di Maksim»28.

La narrazione prende lo spunto da eventi realmente accaduti nel 1904 nel sobborgo di Sormovo. La protagonista, Pelageja Nilovna Vlasova, una donna «mite, triste, sottomessa»29, schiavizzata da un marito reso brutale dalla durezza della condizione proletaria, seguendo da vicino l’attività politica clandestina del figlio operaio Pavel, prende poco a poco coscienza della «verità» della «nuova fede» che i rivoluzionari stanno fondando; essa percepisce la nuova religione alla luce della propria fede cristiana, da ingenua casalinga si trasforma in attiva propagandista, e, pur con il dolore di una madre, accetta con orgoglio l’arresto e la deportazione del figlio, fino a sopportare lei stessa le pene derivanti dalla repressione zarista.

Con lo scorrere delle pagine la madre di Pavel diviene la madre di tutti i compagni del figlio, la sua fama di madre rivoluzionaria si universalizza; essa concepisce il proprio ruolo politico sia nel senso materiale della diffusione della propaganda, sia nel senso spirituale del proporsi come portatrice di affetto materno per tutti i giovani attivisti30, orfani in larga misura di una condivisione ideale con le generazioni dei propri padri.

Nei cammini diversi intrapresi da padri e figli sta una delle fondamentali chiavi di lettura del romanzo. Il sistema di produzione capitalistico, che ha nella fabbrica il suo tempio, riusciva a dividere e annichilire i padri, a rinchiudere il loro poco tempo libero nelle bettole, a renderli bruti e bestiali. Con la progressiva organizzazione politica del movimento operaio, quello stesso modo di produzione cambiava funzione: pur restando – e non potrebbe essere altrimenti – fattore di sfruttamento e di oppressione, il capitalismo ora univa i figli, affiancatisi ai padri in fabbrica, in un’unica volontà di rovesciamento del sistema. «Vengono su uomini nuovi»31, dice il vecchio operaio Sizov.

Le parole che la madre rivolge al popolo subito dopo l’arresto dei rivoluzionari, Pavel in testa, alla manifestazione del 1° maggio suonano come un appello ai padri a seguire la strada che i figli stanno tracciando:


La madre allargò le braccia…

– Sentite, in nome di Dio! […] Che hanno fatto di male i nostri figli? Loro, il nostro sangue, vanno per il mondo, cercano la verità… e nell’interesse di tutti! Per tutti voi, per i vostri piccoli, si sono messi su una strada di spine… in cerca di giorni migliori. Vogliono un’altra vita, verità, giustizia… vogliono il bene di tutti! […] Verranno i giorni felici… Ci sono oggi uomini cattivi, avidi, falsi che ci tengono prigionieri, ci legano, ci schiacciano. Contro tutto questo combattono i nostri figli, per amore di tutti, per amore della verità di Cristo! Miei cari, è per tutto il popolo che si sacrificano i nostri ragazzi, per tutta la gente che lavora!… Non li abbandonate dunque, non li lasciate soli nel loro cammino, sono il vostro sangue… Credete ai vostri figli, è dal loro cuore che è nata la verità e per la verità essi vivono. Credete a loro! […]

– Dio ha parlato! – gridò una voce commossa. – Dio ha parlato dalla sua bocca, buona gente!32


In questo «Vangelo secondo Maksim» la madre di Cristo, dopo il sacrificio del figlio, da discepolo si fa apostolo del suo insegnamento33.

Non è solo la madre ad interpretare in senso religioso l’idea socialista. Gli stessi membri del circolo rivoluzionario formato dal figlio, pur dichiarandosi atei, passano intere serate a discutere di teologia, tanto che la madre, ascoltando trepidante quei discorsi, «a volte, dietro le parole che negavano Dio, sentiva una fede robusta in quel Dio»34. Nelle primissime pagine del libro Pavel si presenta a casa con un quadro raffigurante Cristo risorto che si incammina con due discepoli verso Emmaus: insieme a Cristo risorge la speranza della liberazione di Israele35. E proprio all’immagine di Cristo sulla via di Emmaus la madre accosta gli uomini nuovi che frequentano la sua casa36. Il messaggio è chiaro: è risorta la speranza della liberazione, la fede nel nuovo dio della verità spezzerà le catene agli uomini.

Oltre ai libri proibiti, da strumento di propaganda per i rivoluzionari serve anche la Bibbia; Pavel si limita a leggerla, mentre Rybin, che ha scelto di diffondere la verità tra i contadini, dice:


– Per lo più lavoro con la Bibbia, se ne possono tirare tanti argomenti. È un libro rispettabile tant’è grosso, non è proibito, l’ha stampato il Sinodo e la gente si fida di più!37


Ancora Rybin, arrestato e percosso a sangue dai poliziotti in un villaggio, dopo esser stato liberato dalla folla di contadini, rivolge loro parole inequivocabilmente evangeliche:


– Ecco il mio sangue! Versato per amore della verità!38


In uno dei punti culminanti del racconto, durante la manifestazione del 1° maggio, l’ucraino Andrej Nachodka, compagno e ospite di Pavel, invita gli operai non tanto ad una semplice dimostrazione politica, ma ad «una processione nel nome di un Dio nuovo, del Dio della luce e della verità, del Dio della ragione e del bene!»39. Se una manifestazione politica può essere assimilata a una processione religiosa, allora anche una canzone rivoluzionaria può apparire come un canto liturgico40.

L’immagine che Gor’kij offriva dei rivoluzionari ben si adattava a quanto a quel tempo egli andava affermando sulla necessità di un atteggiamento addirittura fanatico verso il nuovo credo socialista. Sin dai primi tempi di impegno clandestino Pavel desta le preoccupazioni della madre per la sua «austerità monastica»41. La durezza rivoluzionaria pone in ombra gli affetti42, tanto che Andrej sembra voler emulare l’esempio biblico di Abramo:


L’ucraino lo guardò [Pavel] coi suoi occhi rotondi, guardò di sfuggita la madre e rispose triste ma risoluto:

– Per i compagni, per la causa, farei qualunque cosa! Potrei persino uccidere… si trattasse pure di mio figlio…

– Ohi, Andrjuša! – esclamò la madre.

Egli le sorrise e disse:

– Non c’è altra via! La vita è così!..

– Già… – fece Pavel lentamente. – La vita è così!..43


Anche le attiviste, nello sposare la fede rivoluzionaria, paiono aver messo da parte qualsiasi pretesa affettiva e familiare, riuscendo a soffocare nei limiti del possibile passioni ed emozioni44. Tutti i rivoluzionari del romanzo, si tratti degli operai dei sobborghi, dominati dal senso della volontà («io voglio»), o degli intellettuali di città, dominati dal senso del dovere45 («io devo», forse per farsi perdonare le proprie origini sociali, spesso nobiliari o alto-borghesi), sembrano in fin dei conti degli asceti votati al sacrificio di sé per la causa superiore della liberazione del popolo: risultano tutti troppo poco umani, troppo simili ai freddi terroristi dei Demoni di Dostoevskij e agli anarchici vagheggiati da Bakunin nel suo Catechismo del rivoluzionario46.

L’unico personaggio che dovrebbe essere dipinto con tratti umani è la madre47, attraverso il cui prisma psicologico sono vissute e sentite tutte le situazioni della narrazione; eppure, anche se tenta di inserire più cuore nella testa dei suoi “figli”, più emozione nella loro ragione, essa diviene una santa, cioè un essere disumano (o sovrumano).

Il cammino della madre dalla condizione di schiava a quella di martire della nuova fede è l’oggetto di questo romanzo che, per il contenuto, per le numerose tirate retoriche48, per la struttura narrativa che si svolge in un lineare crescendo, sembra a noi più un’agiografia che un romanzo politico-sociale. La madre diventa una santa della nuova Chiesa; la forza del suo esempio sta proprio nella semplicità della donna, che riesce a portare nella nuova religione i tratti più umanizzanti del cristianesimo. Per la diffusione dell’idea socialista Gor’kij si avvaleva dell’agiografia, cioè di uno strumento espressivo fatto apposta per gli strati inferiori delle masse popolari, da cui risultasse chiaramente da che parte stanno il bene e il male. La letteratura religiosa, sia nei mezzi espressivi, sia nei fini che persegue, non ha niente a che vedere con le belles lettres: l’utilità e la tempestività che Lenin riconobbe al libro non hanno nulla del giudizio critico-letterario, ma sono categorie appartenenti alla sfera puramente politica. E a tale sfera vanno riferite anche le parole di elogio che rivolse allo scrittore Karl Kautsky, che pure mascherava la propria valutazione con un velo critico-letterario, compiendo un confronto tra Gor’kij, Tolstoj e Balzac:


Balzac ci mostra – scriveva il leader socialdemocratico tedesco a Gor’kij nel 1907 – con più precisione di qualsiasi storico il carattere del giovane capitalismo dopo la Rivoluzione francese; e se, d’altronde, mi è riuscito in qualche modo di capire le vicende russe, lo devo non tanto ai teorici russi, quanto, forse in misura maggiore, agli scrittori russi, soprattutto a Tolstoj e a Lei. Ma se Tolstoj mi insegna a capire la Russia che fu, i Suoi lavori mi insegnano a capire la Russia che sarà; a capire quelle forze che vagheggiano una nuova Russia.49


Pur salvando la funzione propagandistica del romanzo, sarebbe stato lo stesso scrittore ad ammettere la propria insoddisfazione per il suo lato letterario. Nel luglio 1907 scriveva al critico V. L’vov-Rogačevskij che La madre «è una cosa riuscita male, non solo esteriormente, perché lunga, noiosa e scritta con negligenza, ma l’importante è che essa non è abbastanza democratica, non c’è abbastanza pathos, indispensabile per la letteratura democratica»50. Sfondava quindi una porta aperta Fedor Gladkov nel 1927 quando, indispettito perché Gor’kij non attribuiva importanza letteraria al suo romanzo Cemento (Cement, 1925), ma ammetteva solo un valore pedagogico-sociale, ricambiava la cortesia scrivendo all’autore della Madre:


Per quanto sia grande il significato «di servizio» di un libro, io non posso considerarlo un’opera artistica se non vi è l’ardente palpito della vita. Ecco perché non sono riuscito a leggere fino alla fine la Sua Madre. Il suo significato «di servizio», «pedagogico» è grande, ma anche adesso quel libro non mi piace: non è un’opera artistica.51


Per tutta risposta Gor’kij definiva «completamente giusta» la critica di Gladkov alla Madre, «un libro veramente brutto, scritto “in condizioni di irritazione e di risentimento”, con scopi di agitazione»52.

Altrove abbiamo accennato ai duri giudizi della critica idealistica del tempo, che avvertì nel romanzo il sintomo della fine di Gor’kij come letterato. In questo ambito, però, ci interessano di più le reazioni dei critici marxisti, anch’essi tutt’altro che indulgenti verso l’aspetto letterario dell’opera.

Il critico menscevico V.A. Kranichfel’d non parlava come noi di agiografia, ma comunque ironizzava sul carattere spiccatamente religioso dell’opera. Scriveva infatti in una recensione del 1907:


L’integrale virtù dei personaggi di Gor’kij soffoca il lettore. Nel romanzo non c’è la vita, al suo posto si compie davanti a voi un rito o una messa. Molta magnificenza, molto incenso, molto crisma, e nello stesso tempo sia la magnificenza sia il crisma sono particolari, sono socialdemocratici. Ma non per questo il lettore si sente meglio. E, estenuato dalla smisurata lunghezza della liturgia, non senza soddisfazione lascia l’opprimente tempio per rivolgersi di nuovo alle faccende del mondo, per sentire di nuovo la gioia delle sue emozioni ricche di varietà e di complessità.53


Lo scrittore Aleksandr Amfiteatrov, a quel tempo vicino ai socialisti-rivoluzionari, criticava nel 1908 la schematicità dell’opera, in cui il bene e il male sono troppo nettamente divisi tra membri del partito e non appartenenti ad esso. Sentiamo nelle seguenti parole di Amfiteatrov l’accusa politica di manicheismo e l’accusa letteraria di irrealismo verso l’autore della Madre:


Come tutte le opere schematiche che perseguono fini di didattica applicata, La madre è stata dall’autore liberata dalla complessità dei caratteri e delle condizioni, dalla varietà del disegno e dei colori. […] Oltre alle figure nere e bianche non ci sono passaggi e gradazioni di luminosità. [C’è] il bianco eroico degli operai del partito e il nero demoniaco di tutti coloro che non si sono quietati nel grembo del partito.54


Il padre del marxismo russo, eminente teorico e critico letterario, Georgij Plechanov, pur definendo Gor’kij «un artista eccellente e brillante»55, gli rimproverava il fatto di essersi occupato di teoria e di aver voluto far prevalere nelle sue opere “americane” (La madre fu scritta in America) il carattere pubblicistico su quello letterario56. Nella Madre, secondo Plechanov, Gor’kij non si rivelava né un buono scrittore, né un buon marxista57.

Un giudizio non accondiscendente sull’opera dello “scrittore proletario” venne pure dal bolscevico V.V. Vorovskij, che, oltre a dubitare della tipicità della figura di Nilovna, metteva in ombra anche la letterarietà del romanzo, definendolo «un buon materiale per la propaganda»58: un’affermazione di questo genere potrebbe apparire un complimento se pronunciata dalla bocca di un politico, ma se esce dalla penna di un critico letterario suona beffardamente come un giudizio estetico negativo.

Con La madre, in cui professava la religione collettivista, ovvero la fede nell’energia del collettivo operaio e nella sua capacità di creare una nuova vita, Gor’kij si era avvicinato alle tesi che andava contemporaneamente elaborando il filosofo empiriomonista Aleksandr Bogdanov, che vedeva la forza dell’uomo nella sua unione col collettivo, fino a una rivoluzione del popolo lavoratore unito in un’unica volontà. Ma qui si aprirebbe tutto un altro capitolo, che forse affronteremo in altre occasioni.


Leandro Casini


Note

1 A. Walicki, Socialismo russo e populismo, in AA.VV., Storia del marxismo, Torino, 1978-1982, 2, p. 360.

2 Continua Walicki: «Possiamo dunque affermare che il populismo russo non fu solo una reazione contro il capitalismo in Russia, e nemmeno soltanto una reazione contro l’“effetto dimostrativo” del capitalismo in Occidente, ma fu anche, e forse soprattutto, una risposta russa al pensiero socialista occidentale» (Ibid.).

3 Cit. in E.N. Nikitin, M. Gor’kij i marksizm. Novye materialy, in AA.VV., Gor’kovskie čtenija 1993 g., Nižnij Novgorod, 1994, p. 71. Gor’kij stesso avrebbe in seguito spiegato che il succo dell’analisi marxiana sull’alienazione e lo sfruttamento era stato da lui già assorbito dall’esperienza offertagli dalla vita. Scriveva infatti nel 1912 a R.V. Ivanov-Razumnik: «Lei dirà che io sono marxista! Sì, ma marxista non secondo Marx, ma perché così è stata conciata la pelle. Al marxismo mi hanno addestrato più e meglio dei libri, il panettiere di Kazan’ Semenov e l’intelligencija russa» (M. Gor’kij, Pis’mo R.V. Ivanovu-Razumniku, in Id., Sobranie sočinenij v 30 tomach, Moskva, 1949-1956, 29, p. 218); e nel 1933 a Romain Rolland: «Lo sa, io sono marxista non per aver letto Marx; a proposito, Le dirò: l’ho letto poco, e in generale nei libri io cerco non l’insegnamento, ma la delizia derivante dalla bellezza e dalla forza della ragione. La menzogna, l’ipocrisia, il turpe orrore del sistema classista li ho assimilati direttamente dai fenomeni della vita, dai fatti del vivere quotidiano» (Id., Pis’mo Romenu Rollanu, in Id., Sobranie sočinenij, cit., 30, p. 309).

4 Id., Pis’mo A.K. Šol’cu, in Id., Sobranie sočinenij, cit., 28, p. 283.

5 Cit. in L. Spiridonova, M. Gor’kij: dialog s istoriej, Moskva, 1994, p. 89.

6 V.I. Lenin i A.M. Gor’kij, Pis’ma, vospominanija, dokumenty, Moskva, 1969, p. 411.

7 M. Gor’kij, Čelovek, in Id., Sobranie sočinenij, cit., 5, p. 368.

8 Scriveva infatti Gor’kij alla fine del 1905 all’operaio, scrittore autodidatta M.G. Sibačev: «Lei per un qualche motivo evita quel tipo di operaio che nel modo più splendente illumina l’anima dell’uomo nuovo, il rivoluzionario-proletario. Per questo nei suoi lavori non c’è quella psicologia collettiva che ai nostri giorni deve essere la più interessante e vicina ad ogni uomo che ragiona» (Id., Pis’mo M.G. Sibačevu, in Id., Sobranie sočinenij, cit., 28, p. 403).

9 Id., Pop Gapon, in Id., Polnoe sobranie sočinenij. Chudožestvennye proizvedenija v 25 tomach, Moskva, 1968-1976, 6, p. 394.

10 Scriveva Gor’kij al suo compagno di partito: «Il Suo pensiero sui rivoluzionari come un ponte, l’unico capace di unire la cultura e le masse popolari, e sul ruolo frenante dei rivoluzionari, è un pensiero a me caro e vicino, esso da tempo mi preoccupa, ed io sono terribilmente contento che Lei lo esponga in modo così semplice e solido» (Archiv A.M. Gor’kogo, XIV, M. Gor’kij, Neizdannaja perepiska, Moskva, 1976, p. 20).

11 Cit. in L. Spiridonova, M. Gor’kij: dialog s istoriej, cit., p. 89.

12 Cit. in P. Basinskij, Logika gumanizma. Ob istokach tragedii Maksima Gor’kogo, in «Voprosy literatury», 1991, 2, p. 141.

13 Cit. in Ibid.

14 Cit. in L. Spiridonova, M. Gor’kij: dialog s istoriej, cit., p. 94.

15 Cit. in Ibid., p. 92.

16 P. Basinskij, Logika gumanizma, cit., p. 140.

17 Archiv A.M. Gor’kogo, VIII, Perepiska A.M. Gor’kogo s zarubežnymi literatorami, Moskva, 1960, p. 190.

18 Cit. in A. Gangnus, Na ruinach pozitivnoj estetiki, in «Novyj mir», 1988, 9, p. 154.

19 S.V. Zaika, Gor’kij i Nicše. Po materialam dooktjabr’skoj kritiki, in AA.VV., Gor’kovskie čtenija 1995 g. Maksim Gor’kij segodnja, Nižnij Novgorod, 1996, p. 45.

20 M. Gor’kij, Sobranie sočinenij, cit., 10, p. 516.

21 Literaturnoe nasledstvo, 70, M. Gor’kij i sovetskie pisateli. Neizdannaja perepiska, Moskva, 1963, p. 641. Corsivi nostri.

22 M. Gorki, Note di diario, in Id., Opere, cit., 13, p. 350. Corsivo nostro.

23 M. Gor’kij, Pis’mo K.A. Fedinu, in Id., Sobranie sočinenij, cit., 29, pp. 462-463.

24 Id., Pis’mo I.P. Ladyžnikovu, in Id., Sobranie sočinenij, cit., 29, p. 38. Corsivi nostri.

25 Gor’kij scriveva nell’agosto 1909 a S.Ja. Elpatevskij: «Serve un lavoro tenace, servono uomini che credono, fanatici, profeti» (Id., Pis’mo S.Ja. Elpatevskomu, in Id., Sobranie sočinenij, cit., 29, p. 93).

26 Cit. in G.P. Semenova, G.V. Plechanov i M. Gor’kij, in «Russkaja literatura», 1967, 3, p. 53. Corsivo nostro.

27 M. Gor’kij, Proletarskij gumanizm, in Id., Sobranie sočinenij, cit., 27, p. 238.

28 Cfr. P. Basinskij, Logika gumanizma, cit., p. 141, e M. Heller, Maksim Gor’kij, in AA.VV., Storia della letteratura russa, 3***, Torino, 1991, p. 57.

29 M. Gorki, La madre, in Id., Opere, cit., 6, p. 238.

30 Vd. Ibid., pp. 301, 336-337, 384, 406, 524.

31 Ibid., p. 291.

32 Ibid., pp. 391-392. Contemporaneamente alla stesura della Madre Gor’kij in questi termini si rivolgeva alla ex moglie, madre di suo figlio: «Ti prego, segui nostro figlio. Te lo chiedo non solo come padre, ma come uomo. Nella povest’ che sto scrivendo – La madre – la protagonista, vedova e madre di un operaio rivoluzionario – mi sono riferito alla madre di Zalomov – dice:

“– Per il mondo vanno i figli… vanno i figli verso un nuovo sole, vanno i figli verso una nuova vita… I nostri figli, che si sono votati al dolore per tutti gli uomini, vanno per il mondo. Non abbandonateli, non gettate il vostro sangue senza curarvene!”

In seguito, quando la giudicheranno per la sua attività, essa terrà un discorso in cui descriverà tutta l’evoluzione universale come una processione dei figli verso la verità. Dei figli, capiscilo!» (M. Gor’kij, Pis’mo E.P. Peškovoj, in Id., Sobranie sočinenij, cit., 28, pp. 434-435).

33 «– Sì, vado subito. Come sono contenta, se sapeste! Porterò con me la parola di mio figlio… È come un pezzo della mia anima» (M. Gorki, La madre, cit., p. 578).

34 Ibid., pp. 283-284.

35 Cfr. Lc. 24, 13 ss.

36 «Sempre più spesso, la sera, comparivano degli sconosciuti che discorrevano preoccupati, a mezza voce. […] Agli occhi della madre avevano tutti in pari misura un che di tenace e convinto e, benché ognuno avesse la sua propria fisionomia, tutti quei volti si fondevano per lei in uno solo: un volto scarno, pacatamente deciso, aperto, un volto animato dallo sguardo profondo degli occhi scuri, amorevole e severo ad un tempo, come quello di Cristo sulla via di Emmaus» (M. Gorki, La madre, cit., pp. 335-336).

37 Ibid., p. 361.

38 Ibid., p. 487.

39 Ibid., p. 381.

40 «Cantavano spesso [i militanti che frequentavano casa Vlasov] delle canzoni, canzoni semplici, note a tutti. Le cantavano allegramente, a voce alta, ma a volte ne intonavano nuove, con un loro senso speciale, su motivi non allegri e inconsueti. Le cantavano a mezza voce, in tono serio, come un canto liturgico. I volti dei cantanti impallidivano, si accendevano e nelle parole sonore si avvertiva una grande forza» (Ibid., p. 262).

41 Ibid., p. 264.

42 Pavel ad Andrej: «– Mettiamo che anch’essa ti ami […] e che vi sposiate. […] La vostra vita diventerà la vita per il pezzo di pane, per i figli, per pagare la pigione. Per il nostro lavoro non esisterete più. Né l’uno né l’altra!» (Ibid., p. 266). Ancora Pavel: «– L’affetto non deve diventare un ingombro nella vita. […] Non voglio un amore o un’amicizia che sia come una catena al piede…» (Ibid., p. 347). L’intellettuale Nikolaj Ivanovič alla protagonista: «– La vita di famiglia diminuisce l’energia del rivoluzionario, è sempre così. Vengono i figli, tocca lavorare di più per il pane. E il rivoluzionario invece deve sviluppare la propria energia senza mai fermarsi» (Ibid., p. 532).

43 Ibid., p. 354.

44 Vd. Ibid., pp. 258, 443, 565-566, 576.

45 Interessanti a questo proposito le notazioni del 1907 di V. L’vov-Rogačevskij in Id., Na puti v Emmaus, in AA.VV., Maksim Gor’kij: pro et contra, Sankt-Peterburg, 1997, p. 774.

46 Scriveva Bakunin: «I legami di parentela, l’amicizia, l’amore, la gratitudine, lo stesso onore, devono in lui [nel rivoluzionario] essere soffocati dalla sola, fredda passione per la causa rivoluzionaria» (cit. in A. Besançon, Les origines intellectuelles du léninisme, Paris, 1977, p. 162).

47 Una recensione apparsa nel 1911 sul giornale socialdemocratico «Zvezda» («La stella») poneva dei dubbi sulla verosimiglianza sociale del tipo letterario della madre. Gor’kij reagì fermamente in una lettera ad uno dei redattori del giornale: «In particolare, – notava lo scrittore – personalmente sono rimasto colpito dall’articolo di Orlovskij [pseud. di V.V. Vorovskij], [che] scrive a proposito della Madre: “Nilovna… rappresenta un tipo artificioso, poco verosimile”. Un giudizio così categorico appare sconveniente, se non viene argomentato. Perché compromettere il riconosciuto significato propagandistico della figura di Nilovna? E inoltre, tale giudizio è errato: Nilovna è il ritratto della madre di Petr Zalomov, condannato nel ’901 [sic! nel 1902] per la dimostrazione del 1° maggio a Sormovo. Lavorava nell’organizzazione, distribuiva, travestita da pellegrina, il materiale nella zona di Ivanovo-Voznesensk ecc. Essa non è un’eccezione. Ricordate la madre dei Kadomcev, processata a Ufa per aver portato al figlio in prigione le bombe con cui fu fatto saltare il muro durante l’evasione. Potrei fare una decina di nomi di madri processate insieme ai figli, in parte da me conosciute personalmente» (M. Gor’kij, Pis’mo N.I. Iordanskomu, in Id., Sobranie sočinenij, cit., 29, p. 154).

48 Eccone un esempio: «Le tornavano alla mente certe parole di preghiere dimenticate e, infiammandosi alla nuova fede, sprizzavano dal suo cuore come scintille.

– Portano l’amore i nostri figli, lo portano dappertutto e per ogni cosa, nel loro cammino sulle vie della verità e della ragione. Su ogni angolo della terra distendono nuovi cieli, accendono il fuoco che viene dall’anima, un fuoco che non si spegne. Nascerà una vita nuova dall’amore che i nostri figli nutrono per il mondo intero. E chi potrà spegnere quest’amore, chi? Esiste una forza più forte di questa? L’ha generata la terra, la forza dell’amore, ed è la vita stessa che vuole la sua vittoria, tutta la vita!» (M. Gorki, La madre, cit., p. 577).

49 Cit. in M. Gor’kij, Polnoe sobranie sočinenij, cit., 8, p. 481.

50 Ibid., p. 478.

51 Literaturnoe nasledstvo, 70, M. Gor’kij i sovetskie pisateli, cit., p. 87.

52 Ibid., p. 95.

53 Cit. in M. Gor’kij, Polnoe sobranie sočinenij, cit., 8, p. 491.

54 Cit. in Ibid.

55 G.V. Plechanov, O tak nazyvaemych religioznych iskanijach v Rossii, in AA.VV., Maksim Gor’kij: pro et contra, cit., p. 798.

56 Scriveva Plechanov nel 1909: «Non sono riuscite quelle opere in cui è forte l’elemento pubblicistico, per esempio i saggi di vita americana e il romanzo La madre» (Ibid.).

57 Così Plechanov negava che Gor’kij fosse un marxista: «Gor’kij si considera già un marxista; pure nel suo romanzo La madre era già apparso come predicatore delle opinioni marxiane. Ma quello stesso romanzo mostrò che per il ruolo di predicatore di quelle opinioni il sig. Gor’kij è completamente inadatto, dal momento che le opinioni di Marx non le capisce affatto» (Cit. in M. Gor’kij, Polnoe sobranie sočinenij, cit., 8, p. 492).

58 Cit. in Ibid., p. 494.


Inserito il 2/1/2023.