Il romanzo del lavoro
Dal settimanale «la Lettura»
L’Inghilterra operaia uccisa dal thatcherismo
Intervista a Anthony Cartwright a cura di Angelo Ferracuti
Nel romanzo “working class” Come ho ucciso Margaret Thatcher (traduzione di Alberto Prunetti, Alegre, Roma, 2024) di Anthony Cartwright parlano un bambino di 9 anni e un adulto che sono la stessa persona a distanza di decenni. In modi diversi giungono alle stesse conclusioni sui guasti causati dalla Lady di Ferro nel tessuto sociale britannico.
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L’Inghilterra operaia uccisa dal thatcherismo
di Angelo Ferracuti
In Come ho ucciso Margaret Thatcher di Anthony Cartwright (traduzione di Alberto Prunetti, Alegre) c’è molto del suo mondo working class, quello di Dudley, nel Black Country, dove prima di fare lo scrittore ha lavorato in fabbrica, in un impianto di inscatolamento carni, e in diversi pub, così come al mercato di Old Spitalfields. Nel romanzo siamo nel pieno degli anni Ottanta in una famiglia operaia laburista inglese che vive sulla propria pelle gli effetti delle politiche della Lady di Ferro: chiusura delle fabbriche, difficoltà di molti lavoratori a sbarcare il lunario, vita di stenti e sussidi. Chi ricorda e racconta con rabbia e tenerezza in un doppio flusso di memoria è Sean Bull, bambino di nove anni all’inizio del romanzo, adulto e padre al presente, in questo doppio punto di vista tra ieri e oggi, uno emotivo ed empatico e l’altro a distanza di anni più riflessivo e distaccato.
Ne abbiamo parlato con l’autore.
Il suo è un romanzo di formazione sociale, c’è l’apprendistato alla vita del protagonista, ma anche gli effetti delle politiche thatcheriane su un’intera comunità di lavoratori. Come è nata l’idea di scrivere il libro e che cosa hanno rappresentato quegli anni per persone cresciute nelle aree industriali inglesi?
«Ho già scritto due romanzi sul mondo dei lavoratori, questo è il terzo, tutti ambientati negli anni Ottanta, un cambio di stagione storica molto sentito dai personaggi che descrivo. In passato, prima dell’arrivo della Thatcher, c’erano forte solidarietà e lotta comunitaria nelle fabbriche, spazzate via in quel periodo. I lavoratori hanno dovuto affrontare da soli cambiamenti drammatici. L’idea di raccontare la storia all’interno di una famiglia è venuta dalla storia che ho vissuto nella mia; perciò, il mio è anche un libro autobiografico, almeno come punto di partenza. Poi per sviluppare il romanzo mi sono ispirato molto alla tradizione letteraria inglese degli anni Cinquanta e ai film di Ken Loach, con una forte focalizzazione su un personaggio politico realmente esistito, una novità nella storia letteraria del mio Paese. Anche se è stata eletta democraticamente, il peso della Thatcher sulla vita di tutti i cittadini inglesi, compresi ragazzini di dieci anni, è stato così forte, così autoritario, così capace di cambiare talmente la nostra idea di futuro, che è molto simile a quello dei dittatori latinoamericani».
Come mai ha scelto questo doppio flusso di memoria del protagonista bambino in presa diretta sui fatti e adulto a distanza di anni?
«Sean, il protagonista, è un ragazzino; per questa ragione non poteva far emergere tante zone grigie o tante sfumature; vede le cose come le sente istintivamente in presa diretta, non ha molta consapevolezza, nessuna maturità, mentre da adulto ha una capacità critica e teorica maggiore; ma, ironicamente, poi si rende conto che le sue sensazioni primarie di bambino erano proprio quelle giuste, la sua сonsapevolezza da adulto non fa che rafforzare le sue prime impressioni, quando capisce che Margaret Thatcher è come un diavolo, qualcosa di minaccioso per loro».
È molto forte la figura del nonno Jack, coscienza politica della famiglia. Per esempio, quando scuote la testa dopo avere ascoltato la premier in televisione e dice: «Più efficienza. Ecco le parole che usano. Ma vuol dire più lavoro in meno tempo. E la prossima volta sarà più lavoro in meno tempo per meno soldi e con anche meno operai». E la sentenza definitiva del vecchio laburista che al contrario dei figli non ha votato per i Tories e canta «The Red Flag», l’inno del partito.
Sì, è proprio così, lui è un uomo nato negli anni Venti del secolo scorso in una famiglia molto povera, ha vissuto la Seconda guerra mondiale, ma poi dagli anni Cinquanta sino alla fine degli anni Settanta ha conosciuto il periodo di emancipazione e progresso sociale delle classi lavoratrici con la speranza di una vita migliore, che poi l’arrivo della Thatcher mette in crisi. In lui c’è anche questo forte contrasto tra un bisogno di ordine e di prendersi cura degli altri all’interno della famiglia e il mondo senza regole creato dalle politiche neoliberiste fuori, dove prevale l’individualismo e le forze del mercato sono selvagge. C’è una frattura tra quello che sognava e quello che gli tocca vivere nel suoi ultimi anni di vita».
Il protagonista, che non ha nessun desiderio di diventare «ceto medio», ha una forte e radicata appartenenza di classe. Tutto questo non può apparire un po’ nostalgico?
«Il mio è volutamente un romanzo working class. Negli anni Sessanta e Settanta i lavoratori della classe operaia specializzata e ben retribuita non avevano bisogno di desiderare di passare alla middle class, erano molto orgogliosi di quello che avevano ottenuto con le dure lotte sindacali di quel periodo. C’era un forte senso di identità e comunità, che è proprio quello che il thatcherismo ha cercato di spezzare, soprattutto nelle zone operaie. Quando poi tutto è cambiato e le cose sono peggiorate ci sono state due diverse nostalgie in competizione tra loro, quella della destra per la Brexit e quella della sinistra per gli anni delle grandi conquiste: tutto ciò ovviamente impedisce di essere lucidi sull’analisi del presente».
Come è stato accolto il romanzo în Inghilterra?
«Questo più degli altri è stato letto come un libro politico, probabilmente anche il titolo provocatorio ha favorito questa analisi; naturalmente i critici di sinistra sono stati più generosi nel recensirlo, quelli di destra molto meno. Con questo romanzo non penso di avere cambiato il pensiero di chissà quante persone, comunque è un privilegio degli scrittori quello di registrare un sentire, un sommerso che non è direttamente politico, ma proprio della letteratura: chi scrive non è contento di come vanno le cose».
Il suo è un romanzo che racconta una sconfitta storica, ma ha anche la forza di compiere un ribaltamento dell’immaginario. È così?
«È una lettura che mi piace molto, spero sia il sentimento principale che rimane ai lettori dopo avere letto il libro, questo ribaltamento attraverso l’immaginazione di una dura sconfitta, lacerante, che si è sentita sulla pelle dei lavoratori: la distruzione di una comunità avvelenata dall’individualismo. Le fabbriche delle zone industriali inglesi dove si costruivano oggetti materiali sono state sostituite dal nuovo modello di capitalismo finanziario dei beni immateriali. Questo è quello che gli scrittori possono fare, creare la possibilità di una rappresentazione diversa della realtà, diversa da quella delle classi dominanti».
Angelo Ferracuti
(Tratto da: Angelo Ferracuti, L’Inghilterra operaia uccisa dal thatcherismo, in «la Lettura», 5 maggio 2024).
Inserito il 23/01/2025.
Locandina che annuncia l’uscita a puntate di Germinal sul giornale «Gil Blas» (25 novembre 1884).
Fonte dell’immagine: https://it.wikipedia.org/wiki/Germinale_(romanzo)#/media/File:Gil_Blas_-_Germinal.jpg
Pagine di letteratura
Émile Zola e la condizione umana nelle miniere
L’incipit del romanzo Germinal
di Émile Zola
Il romanzo Germinal fu inizialmente pubblicato a puntate, come feuilleton, sul quotidiano «Gil Blas» a cavallo tra il 1884 e il 1885, e in seguito raccolto in volume. Si tratta del tredicesimo libro del ciclo de «I Rougon-Macquart» (1871-1893) ed è dedicato alla condizione dei minatori del Nord della Francia e alla nascita di un movimento di lotta sindacale e politica per la loro emancipazione nel bel mezzo della seconda rivoluzione industriale. Ne presentiamo qui di seguito il capitolo iniziale, che offre un quadro desolante della realtà socio-economica e dell’abbrutimento di intere generazioni di lavoratori vittime dello sfruttamento capitalistico.
Émile Zola (1840-1902), principale esponente del naturalismo francese, fu scrittore e intellettuale democratico, sempre pronto a denunciare le ingiustizie, sia di ordine economico-sociale che di ordine culturale, come dimostrato dalla sua lettera aperta accusatoria del 1898 (J’accuse…!) nell’“affaire Dreyfus”, a cui in futuro dedicheremo spazio in questo sito.
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Germinal
di Émile Zola
Parte prima
I.
Nella pianura rasa, nella notte senza stelle, d’una oscurità fitta come d’inchiostro, un uomo, solo, percorreva la strada che da Marchiennes va a Montsou, dieci chilometri di massicciata che tagliavano dritto attraverso i campi di barbabietole. Non vedeva davanti a sé nemmeno la terra nera, e non s’accorgeva dell’immenso, piatto orizzonte che per i soffi del vento di marzo, delle folate larghe come quelle che trascorrono sul mare, gelate per aver spazzato leghe di paludi e terre desolate. Nemmeno l’ombra di un albero macchiava il cielo, la strada si snodava dritta come una diga, nella caligine accecante delle tenebre.
L’uomo era partito da Marchiennes verso le due. Camminava a grandi passi, tremando sotto il cotone liso della sua giacca e dei suoi pantaloni di velluto, piuttosto impacciato da un fagottino, legato in un fazzolettone a quadri. Egli se lo stringeva contro i fianchi, ora da una parte, ora dall’altra, per poter cacciare in fondo alle tasche le due mani insieme, mani pesanti che la sferza del vento di levante faceva sanguinare. Un solo pensiero occupava la sua testa vuota d’operaio senza lavoro e senza tetto, la speranza che il freddo sarebbe stato meno intenso al levarsi del sole. Camminava così da un’ora, quando a sinistra, a due chilometri da Montsou, scorse dei fuochi rossi, tre bracieri bruciavano all’aria aperta, come sospesi a mezz’aria. Dapprima esitò, preso da timore; poi non poté resistere al bisogno doloroso di scaldarsi un istante le mani. Un sentiero infossato si spingeva verso l’interno. Tutto disparve. L’uomo aveva a destra una palizzata, una specie di muro di grosse tavole che chiudeva una strada ferrata; mentre a sinistra s’innalzava un terrapieno erboso, sormontato da una confusione di comignoli, uno scorcio di villaggio dai tetti bassi e uniformi. Fece circa duecento passi. Di colpo, a una svolta del sentiero, i fuochi riapparvero più vicini, senza che egli potesse comprendere come mai bruciassero così in alto nel cielo smorto, come lune fumiganti. Ma, al livello del suolo, un altro spettacolo l’aveva fatto fermare. Era una massa pesante, un mucchio di costruzioni schiacciate, da cui si drizzava l’ombra di una ciminiera d’officina; rare luci uscivano dalle finestre dai vetri sporchi, cinque o sei lanterne tristi erano appese di fuori, sospese a dei travi il cui legno annerito faceva intravedere vaghi profili di cavalletti giganteschi; e da questa apparizione fantastica, immersa nel buio e nella nebbia, una sola voce si levava, il respiro lungo e pesante di una macchina a vapore che non si vedeva.
Allora l’uomo riconobbe un pozzo. Fu ripreso da un senso di vergogna: a che sarebbe servito? Lavoro non ce ne sarebbe stato. Invece di dirigersi verso le costruzioni, s’arrischiò in fine a scalare il terrapieno su cui bruciavano i tre fuochi di carbone, nei bracieri di ghisa, per riscaldare e far luce agli uomini addetti al lavoro. Gli scavatori avevano dovuto lavorare fino a tardi, dato che si stava ancora tirando fuori il terriccio inutile. Ora, egli sentiva gli addetti al trasporto spingere i vagoncini sui tralicci, distingueva le ombre immobili degli uomini che ribaltavano le berline, vicino ad ogni fuoco, estraevano ancora il terriccio inutile. Ora sentiva i facchini spingere i vagoncini sui cavalletti e distingueva delle ombre che si agitavano vuotando le carrette vicine a ogni fuoco.
«Buongiorno», disse egli, avvicinandosi a uno dei bracieri.
Il carrettiere, un vecchio vestito d’una maglia di lana violetta e coperto da un berretto di pelo di coniglio, se ne stava diritto colle spalle rivolte al braciere, mentre il suo cavallo, un cavallone giallo, aspettava, immobile come un macigno, che si scaricassero le sei carrette da lui trascinate. Il manovale addetto al ribaltamento, un pezzo d’uomo rosso di capelli e stretto di fianchi, non se la pigliava calda, e premeva sulla leva con mano addormentata. E lassù, il vento raddoppiava; una brezza ghiacciata, le cui folate, larghe, si succedevano come colpi di falce.
«Buongiorno», rispose il vecchio.
Poi silenzio. L’uomo, che si sentiva guardato con occhio sospettoso, disse subito il suo nome.
«Mi chiamo Étienne Lantier; sono macchinista… Non c’è lavoro qui?». Le fiamme lo rischiaravano; doveva avere ventun anni, molto bruno, bel ragazzo, d’aspetto forte, sebbene minuto di membra.
Il carrettiere, rassicurato, scuoteva la testa.
«Del lavoro per un macchinista, no, no… Se ne son presentati due anche ieri. Non c’è nulla».
Una ventata tagliò loro la parola. Poi Étienne domandò, mostrando la massa cupa delle costruzioni, ai piedi del terrapieno.
«È un pozzo, vero?».
Questa volta il vecchio non poté rispondere: un violento attacco di tosse quasi lo strozzava. Finalmente sputò, e il suo scaracchio lasciò, sul terreno arrossato dal riverbero del fuoco, una macchia scura.
«Sì, un pozzo, il Voreux… guardate, le abitazioni degli operai sono qui vicino».
E, a sua volta, col braccio teso, mostrava nel buio il villaggio di cui il giovane aveva indovinato i tetti. Ma le sei carrette eran vuote, e lui le seguì senza uno schiocco di frusta, colle gambe irrigidite dai reumatismi, mentre il cavallone giallo ripartiva da solo e le tirava pesantemente tra le rotaie, sotto una nuova raffica violenta che gli arricciava il pelo.
Ora il Voreux usciva dall’incubo. Étienne, che si dimenticava là, davanti al braciere, di riscaldare le sue povere mani sanguinanti, guardava; riconosceva ogni parte della cava, la tettoia incatramata per la crivellatura, l’armatura del pozzo, lo stanzone della macchina da estrarre, la torretta quadrata della pompa asciugante. Quel pozzo chiuso in fondo a una fossa con le sue costruzioni tozze di mattoni, che levava al cielo la sua ciminiera come un corno minaccioso, aveva per lui l’aria cattiva di bestia ingorda, accovacciata là per divorarsi la gente. Ed esaminandola, pensava a sé, alla vita da vagabondo che conduceva da otto giorni, cercando un posto; si rivedeva nella sua officina della ferrovia, nell’atto di schiaffeggiare il suo capo, poi scacciato da Lille, scacciato da per tutto. Il sabato era arrivato a Marchiennes, dove si diceva che ci fosse del lavoro alle ferriere; e nulla, né alle ferriere, né da Sonneville: aveva dovuto passar la domenica rannicchiato sotto il legname di un cantiere da carradore, di dove il sorvegliante lo aveva appena scacciato, alle due di notte. Niente, non un soldo, neanche una crosta di pane; che avrebbe fatto così per le strade senza una mèta, senza saper neanche dove salvarsi dal vento? Sì, era proprio una cava: le poche lanterne rischiaravano la piazzetta, e una porta, apertasi a un tratto, gli aveva permesso di intravedere i fuochi delle caldaie, fra un vivo bagliore. Egli riusciva a spiegarsi tutto, fino al movimento dello stantuffo; quello sbuffo grosso, lungo e continuo, era come il respiro strozzato del mostro. Il manovale scaricatore, che se ne stava con le spalle curve, non aveva ancora alzato gli occhi su Étienne; e questi stava per riprendere il fagottino che gli era cascato, quando un colpo di tosse annunciò il ritorno del carrettiere. Lentamente, lo si vide uscire dall’ombra con dietro il cavallone giallo che saliva trascinando sei altre carrette piene.
«Ci sono delle fabbriche a Montsou?», domandò il giovane.
Il vecchio sputò nero, poi rispose nel vento:
«Oh! non sono le fabbriche che manchino. Bisognava vedere tre quattr’anni fa! Ciminiere dappertutto, non si potevano trovare operai… mai s’era guadagnato tanto… Ed ecco che ora bisogna stringere la cinghia… È una pietà, si rimanda la gente, e le fabbriche si chiudono l’una dopo l’altra… Forse non ci avrà colpa l’imperatore; ma perché va a far la guerra in America? Senza contare che le bestie muoiono di colera come la gente».
Allora, a piccole frasi, col fiato mozzo, tutt’e due seguitarono a lamentarsi. Étienne raccontava le sue passeggiate inutili da una settimana; bisognava crepare di fame? Presto le strade sarebbero state piene d’accattoni. Sì, diceva il vecchio, è una cosa che finirà male, perché, perdio, non è permesso di buttare tanti cristiani in istrada.
«Non tutti i giorni si ha la carne».
«Se s’avesse del pane, almeno!».
«È vero, se s’avesse almeno del pane!».
Le loro voci si perdevano, e le parole si confondevano coll’urlo malinconico delle ventate.
«Guardate! Montsou è là…», disse forte il carrettiere voltandosi verso il mezzogiorno.
E con la mano tesa di nuovo, indicò nell’oscurità dei punti impercettibili, volta per volta che li nominava. Laggiù, a Montsou, la fabbrica di zucchero Fauvelle andava ancora, ma quella Hoton aveva ridotto ora il personale; non restavano che i mulini Dutilleul e la corderia Bleuze per i canapi da miniera, che reggessero al colpo. Poi, con un gesto largo indicò a nord tutta una metà dell’orizzonte: le fabbriche di costruzioni Sonneville non avevano avuto neanche due terzi delle commissioni degli altri anni; due soli, sui tre altiforni delle ferriere di Marchiennes, erano accesi; in fine alla vetriera Gagebois si minacciava lo sciopero, perché avevano parlato d’una riduzione di salario.
«Lo so, lo so», ripeteva il giovane ad ogni spiegazione. «Vengo di là».
«Da noi si cammina ancora», soggiunse il carrettiere. «Nondimeno i pozzi hanno diminuito la loro estrazione, e guardate, là in faccia, alla Vittoria, non ci sono che due batterie di forni a coke che bruciano».
Sputò di nuovo, e ripartì dietro al suo cavallo sonnacchioso, dopo averlo attaccato alle berline vuote.
Ora Étienne dominava tutto il paese. Le tenebre erano sempre profonde, ma la mano del vecchio le aveva come riempite di grandi miserie, che il giovane, senza rendersene conto, sentiva intorno a sé, per tutto, nell’immensa distesa. Non era forse un urlo di fame che il vento di marzo lanciava attraverso questa campagna brulla? Pareva che le raffiche fatte più rabbiose portassero la morte del lavoro: una carestia che avrebbe ucciso molti uomini. E, cogli occhi erranti, si sforzava di penetrare in quel buio, tormentato dal desiderio e dalla paura di vedere. Tutto s’annientava in fondo a quell’ignoto della notte nera, e non scorgeva lontanissimo che gli altiforni e i forni a coke. Questi, batterie di cento camini, piantati di traverso, parevano i lumi rossi d’un’immensa ribalta; mentre le due torri più a sinistra splendevano di luce azzurra, in pieno cielo, come torce gigantesche. Era una tristezza di incendio; non si levavano nell’orizzonte minaccioso altre stelle che questi fuochi notturni dei paesi del carbone e del ferro.
«Siete del Belgio forse?», disse, dietro a Étienne, il carrettiere che era ritornato.
Questa volta non conduceva che tre carrette. Si poteva intanto scaricar queste: un guasto alla torre degli scavi, una madrevite rotta, avrebbe fermato il lavoro per un buon quarto d’ora. Ai piedi della montagna s’era fatto silenzio; i facchini non sconquassavano più i cavalletti con un rullio continuato, e si sentiva soltanto venire dal pozzo il rumore lontano d’un martello che picchiava su della lamiera di ferro.
«No, sono del Mezzogiorno», rispose il giovane.
Il manovale, vuotate le carrette, si sedé per terra, felice dell’occasione, mantenendosi nel suo ruvido silenzio: aveva alzato solamente i grossi occhi smorti sul carrettiere, come seccato da tante parole. Quest’ultimo, infatti, non ne diceva molte di solito. Si vede che la faccia dello sconosciuto gli andava a genio, e che era preso da una smania di confidenze, di quelle che fanno a volte chiacchierare i vecchi da sé, ad alta voce.
«Io», disse egli, «sono di Montsou; mi chiamo Bonnemort».
«È un soprannome?», domandò Étienne meravigliato. Il vecchio ghignò, contento, e, mostrando il Voreux:
«Sì, sì… M’hanno tirato fuori a pezzi tre volte di là: una volta con tutto il pelo abbrustolito, un’altra colla terra fin dentro al gozzo, la terza gonfio di acqua come una rana… Allora, quando videro che non volevo crepare, mi chiamarono Bonnemort, per ridere».
La sua allegria, che si fece più viva, ricordava lo stridore di una carrucola arrugginita, e finì in un attacco di tosse terribile. Il braciere adesso rischiarava completamente la sua gran testa bianca, spelacchiata, il suo viso schiacciato, storto, chiazzato di macchie bluastre. Era piccolo di statura, aveva il collo enorme, le gambe storte, le braccia lunghe e le mani tozze gli arrivavano alle ginocchia. Del resto come il suo cavallo che se ne stava immobile sulle quattro zampe, quasi non sentisse il vento, anche lui pareva di sasso, impassibile al freddo e alle bufere che fischiavano ai suoi orecchi. Quando ebbe tossito, e spazzata la gola con un raschio disperato, sputò ai piedi del braciere, e in quel punto il suolo divenne nero.
Étienne guardò lui e guardò il terreno che macchiava in quel modo.
«È molto», gli chiese, «che lavorate alla miniera?».
Bonnemort spalancò le braccia…
«Un pezzo, ah! sì!… Non avevo ott’anni, quando sono sceso, guardate! proprio là nel Voreux, e ne ho cinquantotto in questo momento. Tirate il conto… Ho fatto di tutto là dentro: prima il manovale, poi, appena ebbi la forza di spingere carrette, il facchino, poi lo staccatore, per diciott’anni. In seguito, per via di queste maledette gambe, mi hanno fatto fare lo sterratore, poi mi misero a terrapianare, e a riparare finché mi hanno dovuto levare di laggiù perché il medico ripeteva che ci sarei rimasto. Allora, cinque anni fa, mi fecero carrettiere… Eh? non c’è male, cinquant’anni di miniera, di cui quarantacinque nel fondo!».
Mentre parlava, dei pezzi di carbone acceso, che, ogni tanto, cascavano dal braciere, illuminavano la sua faccia livida d’un riflesso sanguigno.
«Mi dicono di riposarmi», continuò: «io no, va! mi credono troppo bestia… Andrò bene ancora due anni, fino alla sessantina, per avere la mia pensione di centottanta franchi. Se io dessi loro la buonanotte oggi, mi darebbero subito quella di centocinquanta. La sanno lunga quei tipi… Del resto io son saldo, meno le gambe. Eh! lo vedete, l’acqua m’è entrata sotto la pelle, a forza di bagnarmi nella cava. C’è dei giorni che non mi riesce di muovere una zampa senza urlare».
«E questo vi fa anche tossire?», disse Étienne.
Ma egli rispose forte col capo di no. Poi, quando poté parlare:
«No, no, il mese scorso presi un’infreddatura. Prima non tossivo mai e adesso non me la posso levare… E il curioso è che sputo, sputo…».
E raschiò dalla sua strozza uno scaracchio nero.
«È sangue?», domandò Etienne, arrischiandosi a interrogarlo.
Bonnemort si asciugò adagio la bocca col dorso della mano.
«È carbone… ce n’ho nella carcassa da riscaldarmi fino a che campo. Eppure sono cinque anni che non ci metto più i piedi laggiù. Si vede che l’avevo in deposito, senza saperlo. Bah! questo ci conserva».
Ci fu un po’ di silenzio; il martello lontano batteva, a colpi regolari nella cava; il vento passava col solito lamento, come un grido di fame e di stanchezza venuto dal profondo della notte. Davanti alle fiamme che si agitavano, il vecchio continuava a voce più bassa, rimasticando i suoi ricordi. Eh, sicuro, non era da ieri che lui e i suoi picchiavano sui filoni. La famiglia lavorava per la Società delle miniere di Montsou da quando s’era fondata; ed era una vecchia data, centosei anni! Suo nonno, Guillaume Maheu, un monello di quindici anni allora, aveva trovato il carbone grasso a Réquillart, la prima miniera della Società, una vecchia cava oggi abbandonata, e che giaceva laggiù, vicino alla fabbrica di zuccheri Fauvelle. Tutto il paese lo sapeva, tanto è vero che la vena scoperta si chiamava la vena Guillaume, dal nome di suo nonno. Lui non l’aveva conosciuto: era un omone gagliardo, a quanto raccontavano, morto di vecchiaia a settant’anni. Poi, suo padre, Nicolas Maheu, detto il Rosso, sui quarant’anni appena, era rimasto nel Voreux, che allora cominciavano a scavare. Una frana lo schiacciò completamente, le rocce ne bevvero il sangue e ne ingoiarono le ossa. Due suoi zii e tre suoi fratelli ci lasciarono la pelle più tardi. Lui, Vincent Maheu, che n’era uscito quasi intero e soltanto con le gambe buscherate, passava per uno scaltro. Che fare d’altronde? bisognava lavorare. Si faceva così di padre in figlio come si sarebbe fatta un’altra cosa! Suo figlio Toussaint Maheu ci crepava adesso: lo stesso i suoi nipotini e tutta la sua famiglia che stava lì di faccia, nel villaggio operaio. Centosei anni di picconate, i fanciulli dopo i vecchi, per lo stesso padrone: eh, molti borghesi non potrebbero raccontare così la loro storia!
«Pazienza, quando si mangia», disse di nuovo Étienne.
«È quello che dico: fin che c’è del pane da mangiare, si può vivere».
Bonnemort tacque, volgendo gli occhi al villaggio, dove apparivano a uno a uno tanti lumicini. Suonavano le quattro al campanile di Montsou: il freddo diventava più tagliente.
«Ed è ricca, la vostra Società?», domandò Étienne.
Il vecchio alzò le spalle, poi le lasciò ricascare come accasciato sotto un subisso di scudi.
«Oh sì, sì! non tanto forse come la Società di Anzin qui accanto, ma milioni e milioni lo stesso. Non si contano più. Diciannove pozzi, di cui tredici per il minerale: il Voreux, la Victoire, Crèvecœur, Mirou, Saint-Thomas, la Madeleine, Feutry-Cantel, e poi degli altri, e sei per il prosciugamento o per dar l’aria, come Réquillart… Diecimila operai; delle concessioni che s’estendono su sessantasette comuni; una estrazione di cinquemila tonnellate al giorno; una ferrovia che lega tutte le miniere, poi degli opifici, e delle fabbriche!… Oh sì! oh sì! soldi ce ne sono».
Un rumore di carrette, sui cavalletti, fece rizzare gli orecchi al cavallone giallo. Giù l’armatura doveva essere riparata, poiché i facchini avevano ripreso il lavoro. Mentre attaccava la sua bestia, per ridiscendere, il carrettiere le disse piano:
«Non abituarti a discorrere, razza di pigrone!… Se monsieur Hennebeau sapesse come perdi il tempo!».
Étienne, pensieroso, guardava il cielo. Poi domandò:
«Allora è di monsieur Hennebeau la miniera!».
«No», disse il vecchio, «monsieur Hennebeau non è che il direttore generale. È stipendiato come noi».
Il giovane accennò con un gesto all’immensa pianura ricoperta di tenebre,
«Di chi è, dunque, tutto questo?».
Ma Bonnemort rimase per un istante quasi soffocato da un’altra crisi, d’una tal forza che non gli lasciava riprendere fiato. Poi, quando ebbe sputato e ripulito la bava nera delle sue labbra, disse, tra il vento che raddoppiava:
«Eh! Di chi è tutto questo?… Chi ne sa niente. Di qualcheduno».
E, con la mano, additava nell’ombra un punto indeciso, un luogo ignorato e lontano, popolato da questo qualcheduno, per il quale, da più di un secolo, i Maheu picchiavano sui filoni. La sua voce tradiva una specie di paura superstiziosa; era come se avesse parlato d’un tabernacolo inaccessibile ove si nascondeva il Dio pasciuto, cui tutti davano il loro sangue, senza averlo mai visto.
«Ah, se per lo meno s’avesse del pane quanto se ne vuole!», ripeté Étienne per la terza volta, senza apparente legame.
«Diamine, eh sì! se si mangiasse tutti i giorni del pane sarebbe troppo bello».
Il cavallo era partito; il carrettiere sparì a sua volta, con passo strascicato, da invalido. Il manovale, raggomitolato vicino allo scaricatoio, col mento fra le ginocchia, fissando nel vuoto i suoi grossi occhi smorti, non si era mosso.
Quand’ebbe ripreso il suo fagotto, Étienne non se ne andò lo stesso. Sentiva le ventate gelargli le spalle mentre il petto gli bruciava, davanti a quel gran fuoco. Forse, malgrado tutto, avrebbe fatto bene a indirizzarsi alla cava: il vecchio poteva benissimo non saper nulla; poi era rassegnato ad accettare qualunque faccenda. Dove sarebbe andato, e che sarebbe diventato in mezzo a quel paese, affamato per mancanza di lavoro? Avrebbe lasciato dietro un muro la sua carcassa di cane sperso? Nondimeno, in mezzo a questa pianura rasa, affogata in una notte così buia, era tormentato da una esitazione, da una specie di paura del Voreux. Ad ogni folata, il vento pareva ingrossare, come se avesse soffiato da un orizzonte che si allargava senza fine. Nessun albore biancheggiava nel cielo morto; solo gli altiforni e quelli a coke fiammeggiavano, tingendo di rosso sanguigno le tenebre, senza rischiarare l’ignoto. E il Voreux in fondo alla sua fossa, nella sua posa pesante di bestia cattiva, si schiacciava sempre più, aveva un respiro più affannoso e più lungo, quasi infastidito per la sua digestione penosa di carne umana.
[…]
Émile Zola
(Traduzione di Maria Pia Vigoriti)
(Tratto da: Émile Zola, Germinal, Roma, Newton Compton Editori, 2020, pp. 109-117).
Inserito il 15/09/2024.
Fonte della foto: https://www.informazionesenzafiltro.it/volantini-rider-braccianti
Un (mini)racconto
Alla fermata dell’autobus, che tarda ad arrivare…
🔴 di Barbara Cipriani 🔴
Alla fermata dell’autobus, che tarda ad arrivare, vicino a me una signora con un carrellino della spesa e una donna di circa 25 anni, pelle un po’ più scura della mia, occhiali, grassoccia, origine indefinita […]
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Alla fermata dell’autobus, che tarda ad arrivare, vicino a me una signora con un carrellino della spesa e una donna di circa 25 anni, pelle un po’ più scura della mia, occhiali, grassoccia, origine indefinita, nella mia ignoranza fisiognomica e geografica potrebbe essere di origini sudamericane come indonesiane.
Sul marciapiede davanti alla fermata, al lato opposto della strada, un giovane uomo, anche lui sovrappeso e dalla pelle più scura della mia, trascina dietro a sé un altro tipo di carrellino, pieno di opuscoli pubblicitari, per distribuirli nelle cassette della posta. Sono rimaste in poche, adesso, le ditte che si affidano ancora a questo tipo di pubblicità e quindi pochi quelli che incappano in quel lavoretto ad alta frustrazione – la gente, in casa propria, già subissata dai call center che telefonano, dalla pubblicità on line mentre sta cercando di leggere o ascoltare qualcosa dalla rete, quando sente suonare il campanello già sussulta e poi, quando capisce che sei tu per la pubblicità in cassetta, se non ti infama come minimo non ti apre la porta.
L’uomo suona a un portone diversi campanelli e un’anziana, dal pianterreno, si affaccia dalla sua finestra con le inferriate, per vedere chi è. Dall’altro lato della strada non capisco bene le loro parole, ma intuisco che lei non gli voglia aprire il portone, lui la preghi, lei resista ancora… e poi finalmente lo vediamo entrare nel vano scale, aperto o dalla signora che ha ceduto o da qualcun altro.
Noi tre che attendiamo l’autobus che non arriva, stiamo a guardare:
– Eh, vedi, loro suonano il campanello… ma la signora è sola in casa, è pericoloso aprire agli estranei – commenta la donna di origini sudamericane o indonesiane con gli occhiali, in un italiano discreto.
Io prima le do ragione, siamo tutte molto ragionevoli, e poi mi scappa, non so da dove:
– Però, poveraccio, per quanto gli daranno per ’sto lavoro, forse 3 euro l’ora, deve fare una fatica…
– Vabbè, 3 euro l’ora… – risponde la sudamericana-indonesiana. Non aggiunge altro e anch’io mi taccio. Ma mi striscia il pensiero che a lei, 3 euro l’ora, non sembrino niente male.
Barbara Cipriani
Inserito il 13/06/2024.
Lo stabilimento ex GKN di Campi Bisenzio (FI), dove si è svolto il primo “Festival della letteratura della working class”.
Autore della foto: Michele Lapini.
Fonte della foto: https://firenzeurbanlifestyle.com/alla-gkn-il-1-festival-di-letteratura-della-working-class/
Da «La Lettura»
Il romanzo del lavoro
di Angelo Ferracuti
Lo scrittore Angelo Ferracuti su «La Lettura» (inserto culturale domenicale del «Corriere della sera») prende spunto dal primo “Festival di letteratura working class”, organizzato dal collettivo di fabbrica della ex GKN di Campi Bisenzio, per tracciare un panorama dei romanzi dedicati al mondo del lavoro da autori di oggi. Parlando di “working class” ormai non ci si limita più alla classe operaia tradizionalmente intesa, ma a tutto il frastagliato mondo odierno dei lavori precari e sottopagati, che generano sempre più profitti per alcuni e sempre più alienazione per altri, il che significa che i contrasti di classe sono tutt’altro che scomparsi nel nostro “ricco” e marcio mondo turbocapitalistico.
Un interessante articolo per orientarsi in un settore della produzione letteraria che questo sito ha in programma di scandagliare.
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Il romanzo del lavoro
Rimossa come un anacronistico ferro vecchio del Novecento, torna in Italia — è già successo in Francia e in Inghilterra — una nuova letteratura che racconta il lavoro come autorappresentazione di classe con memoir, poesia, reportage e romanzo dal vero. Quello sporco, corporale, operaio, precario, sfruttato di cui non si sa niente, mentre però si contano oltre mille morti all’anno nonostante la retorica neoliberista ripeta da tempo che le classi sociali non esistono più — siamo tutti ceto medio.
Questo immaginario cancellato torna anche grazie a un partecipatissimo festival autogestito alla ex Gkn di Campi Bisenzio, Firenze, presidiata da due anni, la fabbrica che produceva semiassi per la Stellantis. Là dove lavoravano 500 operai — licenziati dal fondo speculativo britannico Melrose Industries Plc con un’email per delocalizzare la produzione — la scorsa primavera ho partecipato anch’io al festival leggendo i versi di Luigi Di Ruscio, scrittore autodidatta e operaio emigrato, «poeta di miseria e fame — ha scritto Franco Fortini —, di avvilimento e di rivolta». Un risveglio storico e una forma di resistenza culturale operaia di straordinaria forza politica voluta dai delegati di fabbrica, dall’Arci, dalla casa editrice Alegre e coordinata da due scrittori toscani (entrambi figli di lavoratori) che su questi temi hanno costruito una loro originale poetica, Simona Baldanzi e Alberto Prunetti. La prima in libreria con la storia operaia al femminile di Se tornano le rane (Alegre, 2022) e il secondo con la ristampa il 5 settembre del suo libro d’esordio, Amianto (Feltrinelli).
Quello di Campi Bisenzio, festival unico in Europa come il Working Class Writers Festival di Bristol, sostenuto da un crowdfunding, è stato un controcanto rispetto alle passerelle degli intellettuali e dell’effimero dei tanti salottini sparsi per l’Italia, un evento di impressionante forza simbolica con picchi di duemila partecipanti in una fabbrica presidiata mentre i liquidatori della proprietà minacciavano l’intervento della polizia e pesanti azioni legali.
Dentro l’ex stabilimento c’erano militanti politici, sindacalisti, cittadini alla ricerca di legame sociale, di vita collettiva e di senso, quel concetto scomparso dalle scene sociali già quando Paolo Volponi dava alle stampe Le mosche del capitale — eravamo nel 1989, in pieno «finanz-capitalismo» e ben dentro la società dello spettacolo — e lo scrittore di Urbino si chiedeva angosciato come mai siamo giunti al punto che la sola «materia materiale» sia diventata il denaro, e come si sia annullata la profondità del mondo.
* * *
Il racconto dei figli è stato prima un lavoro sulla memoria attraverso l’autobiografia, poi un racconto generazionale per ricostruire un immaginario dell’odierna classe lavoratrice, perché la nuova working class globale non è più quella fordista e delle lotte collettive del movimento operaio dei padri, piuttosto quella atomizzata della precarietà del mondo digitale, degli algoritmi, della logistica e dei rider raccontata nei film di Ken Loach. Anzi, proprio le sconfitte delle lotte operaie dei padri — come quella seguita alla marcia dei quarantamila quadri Fiat del 14 ottobre 1980 a Torino — hanno prodotto le vite precarie dei figli. Figlia di una vestaglia blu (Fazi, 2006; Alegre, 2019) di Simona Baldanzi; La fabbrica del panico (Feltrinelli, 2013) di Stefano Valenti e Amianto di Alberto Prunetti (Alegre, 2014; Feltrinelli, 2023) sono stati l’inizio, come ha scritto quest’ultimo nella sua indagine Non è un pranzo di gala (minimum fax, 2022): «Siamo il rimosso che ritorna, la voce dei nostri vecchi che pensavate di aver messo a tacere una volta per tutte». Nel saggio Prunetti insiste molto sul «classismo strutturale del mondo delle lettere», e sui processi di precarizzazione e sfruttamento nell’industria culturale con «le stesse logiche del manifatturiero o della logistica»: partite Iva, minimi contrattuali, esternalizzazioni. Un altro punto nodale del saggio è la diversità degli scrittori working. Siamo sicuri di essere tutti uguali davanti alla pagina bianca? È solo una questione di immaginazione, di creatività? (Chi scrive è nato in una famiglia della classe media bassa dove nessuno leggeva libri e aveva fatto l’università, per sbarcare il lunario ha fatto molti mestieri, tra i quali il portalettere, e sa quali sacrifici immani ha dovuto sopportare per liberare il tempo di scrivere e non perdere la motivazione).
A questo nucleo di testi aggiungerei Works (Einaudi Stile libero, 2016) di Vitaliano Trevisan; La straniera (La nave di Teseo, 2019) di Claudia Durastanti; Tuttofumo (Baldini+Castoldi, 2019) di Eugenio Raspi; e gli impeccabili reportage di Angelo Mastrandrea de L’ultimo miglio (Manni, 2021) sul mondo dell’ecommerce, di Amazon e della Città del libro di Stradella, Pavia, dove «si producono alienazione e sfruttamento non diversamente che in una miniera di carbone degli anni Cinquanta o in uno scantinato della delocalizzazione produttiva nell’Oriente estremo di casa nostra».
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Amianto di Alberto Prunetti è l’epica e la biografia operaia di Renato, padre dello scrittore, tuta blu alla Solvay di giorno e cameriere al dancing Cardellino di sera, poi trasfertista «a Novara, Torino, Genova, La Spezia, Mestre, Terni, Taranto. Ovunque, sempre in periferia, senza mai vedere le cattedrali e le strade acciottolate dei centri storici». Luoghi dove «respirerà benzene, il piombo gli entrerà nelle ossa, il titanio gli intaserà i pori e una fibra d’amianto si infilerà nei suoi polmoni», scrive il figlio in un ibrido che mette insieme memoria intima, reportage e reperto storico, con una lingua ruvida, ritmica ed efficace, gergale alla Bianciardi, in quello che è un doppio romanzo di formazione ma anche un’autobiografia di classe e dell’Italia dove Prunetti racconta qual è stato il drammatico costo della vita per i tanti che come suo padre hanno costruito il miracolo del boom.
Ma il maggiore pregio del libro è quello di saldare le storie e i destini delle generazioni, mettere in relazione la working class di ieri e quella frantumata di oggi: «Faccio un lavoro culturale e ho trentanove anni. Alla mia età mio padre operaio metalmeccanico sindacalizzato dalla Fiom si era già comprato la casa. Io, “lavoratore cognitivo precario”, arranco per pagare l’affitto», scrive. Una trilogia al presente, la sua, che comincia con questo libro e continua con 108 metri (Laterza, 2018), storia di un ragazzo italiano emigrato per lavoro a Bristol, e con Nel girone dei bestemmiatori (Laterza, 2020).
Invece il nuovo romanzo del bernhardiano Stefano Valenti, Cronache della sesta estinzione (il Saggiatore, in libreria dal 22 settembre) racconta la storia di un uomo che ha perso il lavoro, senza più reddito, in attesa della liquidazione, che finisce a vivere in strada dentro un furgone acquistato con gli ultimi risparmi, parcheggiato sul viadotto della tangenziale. Il protagonista del romanzo è nato in una famiglia povera ed è stato «affittato» bambino a una famiglia borghese, ma è riuscito a studiare e laurearsi, ha fatto il traduttore e l’insegnante mentre negli ultimi anni è stato costretto ad accettare da un’agenzia interinale un lavoro da magazziniere della logistica. Adesso vaga in un mondo circostante dove immagina una catastrofe ambientale: «Il solfuro di dimetile (dall’odore di alga) invita gli uccelli marini a nutrirsi delle tonnellate di plastica scaricata in mare. I pesticidi versati nei fiumi indeboliscono i sensori olfattivi dei salmoni che non trovano la via verso i luoghi di nascita».
L’eroe di Valenti vive nella solitudine della società atomizzata dove ogni fallimento è una colpa personale, e si sconta con la vergogna e la paura di stare al mondo, e qui anche con un animistico desiderio di rinascita. Scritto per brevi frammenti linguisticamente elaborati ed epifanici, costato all’autore dieci anni di lavoro, qui vita e letteratura si incontrano, esperienza e finzione sperimentano una nuova rappresentazione del mondo.
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Ma la letteratura working class torna anche con libri tradotti, come Alla linea (Bompiani, 2022) di Joseph Ponthus, straordinario romanzo in versi scritto da un operaio interinale, come quello altrettanto singolare di Francesco Targhetta, Perciò veniamo bene nelle fotografie (ripubblicato nel 2019 da Mondadori), o Cameriera di Sarah Gainsforth (in ebook nella collana Quanti Einaudi, 2022), e poi ancora il potente Metodo per diventare un altro (La nave di Teseo, 2023) di Édouard Louis, lucido e drammatico progetto metamorfico per sfuggire alla subalternità sociale e a una vita di povertà e duro lavoro, che segue Chi ha ucciso mio padre (Bompiani, 2019) e Il caso Eddy Bellegueule (Bompiani, 2014), e infine il bellissimo saggio narrativo di Cynthia Cruz Melanconia di classe (Atlantide, 2022). In questo libro la poetessa americana nata a Berlino alla sua vicenda personale alterna quella di musicisti e cineasti — Amy Winehouse e Barbara Loden tra gli altri — e racconta quella che definisce «la melanconia che nasce quando si abbandonano le proprie origini», lo strappo esistenziale di chi lascia la working class per entrare nel mondo borghese fra smarrimento identitario e coercizioni del pensiero neoliberista. È lo stesso dolore della perdita abilmente raccontato dal Nobel Annie Ernaux ne Il posto (L’Orma, 2014).
A tutto questo si deve aggiungere il prezioso lavoro svolto da Alegre, casa editrice barricadiera che dà alle stampe libri di storie proletarie in una collana unica in Italia, Working class per l’appunto, dove pubblica libri come La porca miseria di Cash Carraway e Chav. Solidarietà coatta di D. Hunter, un classico come La strada di Wigan Pier di George Orwell, vibrante e partecipata inchiesta sul proletariato inglese dei distretti minerari degli anni Trenta del secolo scorso, e recupera Tuta blu di Tommaso Di Ciaula, uscito nel 1978 nei Franchi narratori Feltrinelli. Il libro di Di Ciaula è composto da blocchi narrativi compatti e cresce per accumulazione di memoria, dentro il ritmo meccanico di un ingranaggio, frammenti di vita lavorativa che incrociano descrizioni di paesaggio della campagna pugliese, gli interni cupi della fabbrica con le sue alienazioni e la nostalgia per la vita contadina, due mondi che confliggono in un momento di grande trasformazione e mutazione antropologica alla fine degli anni Settanta del Novecento, quando prende corpo il Paese consumistico. Quel consumismo che Di Ciaula intuisce nella sua duplice valenza distruttrice e oppressiva mentre descrive l’autostrada Bari-Taranto: «Se l’hanno costruita vuol dire che dobbiamo comprare più auto, più l’aria si ammorba, più i nostri compagni impazziscono alle catene di montaggio, più noi dobbiamo fare i salti mortali per mantenere le auto rendendoci più schiavi». Contestualmente, sullo sfondo dei suoi racconti e dei rabbiosi conflitti con i capireparto, le grandi speculazioni edilizie, il cemento che aggredisce costa ed entroterra di un Sud cresciuto disarmonicamente negli anni del «miracolo economico» e in quelli successivi. «La fabbrica si ingrandisce sempre di più, senza sosta. Sempre di più s’allontana la campagna», scrive dando notizia di questa metamorfosi.
* * *
Tra i nuovi poeti civili italiani che trattano i temi dell’alienazione e della fabbrica ci sono Fabio Franzin (’A fabrica ribandonàdha - La fabbrica abbandonata, Arcipelago Itaca, 2021); Nadia Agustoni (Lettere della fine, Vydia, 2015); il Matteo Rusconi di Trucioli (Aut Aut, 2021); il padovano Marco Carretta, classe 1984, Per far vivere altro cadiamo (Industria & Letteratura, 2023); e il nostro «Jacopone (da Todi) operaio» Luigi Di Ruscio, ormai diventato di culto e molto amato dai giovani poeti. L’irregolare degli irregolari apprezzato da Quasimodo sbarca in questi giorni negli Stati Uniti da Seagull Books, la casa editrice della Morante e di Fortini, con Selected Poems nella traduzione di Cristina Viti dalle Poesie scelte curate da Massimo Gezzi per Marcos y Marcos.
Scrittore working class ante litteram, emigrato a Oslo negli anni Cinquanta, lavorò per oltre trent’anni come operaio metallurgico alla fabbrica di chiodi Christiania Spigerverk, rifiutato per decenni da tutte le più grandi case editrici italiane prima di approdare pochi mesi dopo la sua morte da Feltrinelli con le prose céliniane di Romanzi. La sua vita, che è stata anche quella di un migrante del dopoguerra, è un esempio struggente e unico di dedizione alla letteratura e fedeltà alla propria condizione di classe, quella di un figlio ribelle del proletariato marchigiano di Fermo spatriato tra i ghiacci scandinavi. Scriveva nelle ore rubate al lavoro, di ritorno dal turno di notte o prima dell’alba, quando partiva in bicicletta e attraversava al buio le strade ghiacciate per raggiungere la fabbrica alla periferia di Oslo. Perché — come dice Cynthia Cruz — «per definizione la working class deve lavorare, riposare e tornare a lavorare».
«La mia poesia non è un momento privilegiato, è tutto il mio scrivere che è il momento privilegiato. È un privilegio anche nel senso storico, senza la settimana corta, senza la paga oraria che mi fa comperare libri, non avrei potuto scrivere, come se dicessi che senza gli scioperi a oltranza che ha fatto la classe operaia norvegese negli anni Trenta non avrei potuto avere questo privilegio», disse in un colloquio con Giancarlo Majorino che chiude la raccolta Istruzioni per l’uso della repressione, la raccolta di versi uscita da Savelli nel 1980. «Senza l’avanzata della classe operaia occidentale non avrei potuto scrivere. Se fossi rimasto in Italia avrei potuto scrivere solo in galera, quando lavoravo in Italia non potevo scrivere, la settimana lavorativa era troppo lunga e spossante, ritornavo a casa solo per dormire».
Scrisse della sua postura di poeta: «La presenza degli oppressi e stritolati è dietro le mie spalle e quando scrivo le scariche dell’Olivetti studio 46, macchina da scrivere rumorosissima, è come se partissero le scariche di un ammattito kalashnikov», quelle dell’ultimo che scriveva degli ultimi.
Angelo Ferracuti
(Tratto da: Angelo Ferracuti, Il romanzo del lavoro, in «La Lettura», n. 609, 30 luglio 2023).
Inserito il 10/09/2023.
Annie Ernaux (n. 1940) nel 1988.
Autore della foto: Louis Monier / Getty Images.
Fonte della foto: https://www.elle.com/it/magazine/libri/a41553057/annie-ernaux-nobel-letteratura-2022-libri/
Pagine di letteratura
«Non si sentiva più addosso l’odore delle stalle»
Un brano dal romanzo Il posto
di Annie Ernaux
Annie Ernaux è una grande scrittrice contemporanea francese. Autrice di racconti e romanzi in buona parte autobiografici – anche se lei non ama che vengano definiti così –, riesce in pochi tratti, con semplicità ma con raffinata precisione, a delineare un’epoca o un luogo, mentre la psicologia dei personaggi viene fuori dalle loro azioni, da una battuta, da un gesto, da un vezzo.
Ne Il posto (La place, Paris, Gallimard,1983) Annie rievoca la vita del padre, con la sua evoluzione sociale e lavorativa da contadino ad operaio fino ad arrivare ad essere gestore di un bar-drogheria-emporio. E la psicologia dell’uomo, la sua mentalità, si adatta facilmente a ogni nuova condizione sociale che egli attraversa.
L’autrice parla anche di sé, del proprio percorso di studentessa e di insegnante che la porta a far parte di altri mondi e di altre classi sociali, allontanandosi dagli affetti, dai valori, dalle ristrettezze culturali della famiglia d’origine. Ma proprio in occasione della scomparsa del padre essa, forse per un senso di colpa dovuto a questo allontanamento, sente il bisogno di riconciliarsi con la famiglia, rendendole omaggio e rivendicando in un certo senso le proprie umili origini.
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Da Il posto
di Annie Ernaux
[…] Mungeva le vacche alle cinque del mattino, svuotava le scuderie, strigliava i cavalli, mungeva le vacche la sera. Come compenso, vitto, alloggio, il bucato, un po’ di denaro. Dormiva sopra la stalla, su un pagliericcio senza lenzuola. Le bestie sognano, battono le zampe per tutta la notte. Pensava alla casa dei suoi genitori, luogo oramai precluso. Una delle sue sorelle, che faceva la domestica, talvolta compariva al cancello, con il suo fagotto, muta. Il nonno imprecava, lei non sapeva dire perché se l’era data a gambe ancora una volta da quello che era il suo posto. La sera stessa lui la riportava dai signori presso cui era a servizio, facendola vergognare.
Mio padre era di carattere allegro, giocoso, sempre pronto a raccontare storie, a scherzare. Alla fattoria non c’era nessuno della sua età. La domenica serviva la messa con suo fratello, anche lui mandriano. Frequentava le “assemblee”, ballava, si vedeva con i compagni di scuola. Eravamo felici comunque, si doveva pur esserlo.
È restato ragazzo di fattoria fino al militare. Le ore di lavoro non venivano conteggiate. I padroni lesinavano sul vitto. Un giorno, il trancio di carne servito sul piatto di un vecchio mandriano si è messo a ondeggiare lentamente, sotto era pieno di vermi. Era stato oltrepassato il limite del sopportabile. Il vecchio si è alzato, reclamando, che non fossero più trattati come cani. La carne è stata cambiata. Non è La corazzata Potëmkin.
Dalle vacche del mattino a quelle della sera, le piogge d’ottobre, i pesanti sacchi di mele da ribaltare nel torchio, il pollaio pieno di escrementi da spalare, avere caldo e sete. Ma anche la galette des rois, l’almanacco Vermot, le castagne arrosto, Martedì grasso non te ne andare ci metteremo a cucinare, il sidro imbottigliato e le rane fatte esplodere soffiando loro in bocca con una cannuccia. Sarebbe facile scrivere cose del genere. L’eterno ritorno delle stagioni, le gioie semplici, il silenzio dei campi. Mio padre lavorava la terra altrui, non ha visto la bellezza, lo splendore della Madre Terra e altri miti gli sono sfuggiti.
Dal ’14, con la guerra, nelle fattorie sono rimasti solo i giovani come mio padre e gli anziani. Li si trattava con riguardo. Lui seguiva l’avanzata delle truppe su una mappa appesa in cucina, scopriva i giornaletti spinti e andava al cinema a Y*. Tutti leggevano i sottotitoli ad alta voce, molti non riuscivano ad arrivare in fondo. Utilizzava le parole gergali portate da suo fratello in licenza. Le donne del paese sorvegliavano ogni mese il bucato di quelle i cui mariti erano al fronte per verificare che non mancasse niente, nessun capo di biancheria.
La guerra ha dato una scossa ai tempi. In paese si giocava con lo yo-yo e nei caffè si beveva vino al posto del sidro. Durante i balli le ragazze erano sempre meno interessate ai giovani delle fattorie, che si portavano addosso un certo odore.
Mio padre è entrato nel mondo quando ha raggiunto il suo reggimento. Parigi, la metropolitana, una città della Lorena, un’uniforme che li rendeva tutti uguali, dei commilitoni venuti da ogni dove, la caserma più grande di un castello. Ebbe il diritto di scambiare i suoi denti rosi dal sidro con una dentiera. Si faceva fotografare spesso.
Al rientro, non ha più voluto ritornare alla cultura. Era così che chiamava il lavoro della terra, risultandogli inutile l’altro significato della parola.
Ovviamente, nessun’altra scelta oltre alla fabbrica. Terminata la guerra, Y* cominciava a industrializzarsi. Mio padre è entrato in una corderia che assumeva maschi e femmine dai tredici anni in su. Era un lavoro pulito, al riparo dalle intemperie. C’erano bagni e spogliatoi separati per sesso, orari fissi. Dopo la sirena, la sera, era libero e non si sentiva più addosso l’odore delle stalle. Uscito dal primo cerchio. A Rouen o Le Havre si trovavano impieghi pagati meglio, avrebbe dovuto lasciare la famiglia, la madre crocifissa, affrontare i bulli della città. Gli mancava la faccia tosta: otto anni di bestie e di pianure.
Era serio, ovverosia lo era per essere un operaio, non fannullone, non bevitore, non festaiolo. Il cinema e il charleston, ma non i bistrot. Ben visto dai capi, né sindacati né politica. Si era comprato una bicicletta, ogni settimana metteva un po’ di soldi da parte.
Tutto ciò dev’essere piaciuto a mia madre quando l’ha incontrato alla corderia, dopo aver lavorato in una fabbrica di margarina. Era alto, moro, con gli occhi azzurri, la schiena dritta, si prendeva un po’ "per qualcuno". «Mio marito non ha mai avuto l’aria di un operaio».
Era orfana di padre. Mia nonna cuciva a domicilio, faceva il bucato e stirava per finire di crescere gli ultimi dei suoi sei figli. Mia madre la domenica comprava, assieme alle sue sorelle, un cartoccio di briciole di torta dal pasticciere. Non hanno potuto cominciare subito a frequentarsi, mia nonna non voleva che le si prendessero le figlie troppo presto, ogni volta se ne andavano i tre quarti di una paga.
Le sorelle di mio padre, di servizio presso alcune famiglie borghesi, hanno guardato mia madre dall’alto in basso. Alle ragazze delle fabbriche si imputava di non sapersi rifare il letto, di correre troppo. In paese la si trovò poco raccomandabile. Lei voleva copiare la moda dei giornali, era stata tra le prime a farsi tagliare i capelli, portava vestitini corti e si truccava gli occhi, si metteva lo smalto. Rideva rumorosamente. In realtà, non si era mai fatta toccare nei gabinetti, ogni domenica andava a messa e aveva ricamato da sé le sue lenzuola, cucito il suo corredo. Era un’operaia vivace, reattiva. Una delle sue frasi preferite: «Non sono da meno di quella gente lì».
Nella foto del matrimonio le si vedono le ginocchia. Fissa l’obiettivo con sguardo fermo da sotto il velo che le cinge la fronte all’altezza delle sopracciglia. Assomiglia a Sarah Bernhardt. Mio padre è ritto in piedi al suo fianco, un paio di baffetti e l’alto colletto inamidato. Nessuno dei due sorride.
Si è sempre vergognata dell’amore. Non si scambiavano carezze né gesti di tenerezza. Davanti a me, la baciava con un brusco scatto della testa, come per obbligo, sulla guancia. Spesso le diceva cose ordinarie ma fissandola negli occhi, lei abbassava lo sguardo e si tratteneva dal ridere. Crescendo ho capito che le faceva delle allusioni sessuali. Lui canticchiava spesso Parlez-moi d’amour, lei scombussolava tutti ai pranzi di famiglia cantando con trasporto Voici mon corps pour vous aimer.
Lui aveva imparato la lezione essenziale per non riprodurre la miseria dei genitori: non dimenticarsi in una donna.
Hanno affittato un appartamento a Y*, in un isolato di case che da un lato davano su una strada frequentata e dall’altro su un cortile interno comune. Due piani, ciascuno di due stanze. Per mia madre, soprattutto, la realizzazione del sogno della “camera al piano”. Con i risparmi di mio padre hanno ottenuto tutto ciò che serve, una sala da pranzo, una camera con un armadio a specchio. È nata una bambina e mia madre è restata a casa. Si annoiava. Mio padre ha trovato un posto come riparatore di tetti pagato meglio di quello alla corderia.
Un giorno l’hanno riportato a casa senza voce, caduto da un’impalcatura che stava riparando, una brutta botta ma niente di più, ed è stata lei che ha avuto l’idea. Aprire un negozio. Si sono rimessi a risparmiare, molto pane, salumi. Tra tutti i possibili settori commerciali potevano sceglierne soltanto uno che non richiedesse un pesante investimento iniziale né delle competenze particolari, ma solo l’acquisto e la rivendita della mercanzia. Un settore poco caro poiché a basso reddito. La domenica sono andati in bicicletta a vedere i piccoli bistrot di quartiere, le drogherie-emporio di campagna. Hanno raccolto informazioni per capire se ci fossero concorrenti nelle vicinanze, avevano paura di ritrovarsi al punto di partenza, di una ricaduta operaia.
L*, a trenta chilometri da Le Havre, d’inverno la nebbia vi stagna per tutta la giornata, soprattutto alla Vallée, la parte più incassata della cittadina, lungo il torrente. Un ghetto operaio costruito attorno a un’industria tessile, una delle più grosse della regione fino agli anni Cinquanta, appartenente alla famiglia Desgenetais, in seguito comprata da Boussac. Dopo la scuola, le ragazze entravano nell’industria tessile, un asilo avrebbe più tardi accolto i loro bambini a partire dalle sei del mattino. Vi lavoravano anche i tre quarti degli uomini. Alla Vallée, un solo bar-drogheria, impervio. Il soffitto era talmente basso che lo si toccava alzando un braccio. Stanze scure in cui anche in pieno giorno c’era bisogno della luce elettrica, un minuscolo cortile con un gabinetto che scaricava direttamente nel torrente. Non che non badassero a queste cose, ma avevano bisogno di vivere.
Hanno aperto un mutuo per rilevare l’attività.
All’inizio, il paese della cuccagna. Scaffali di barattoli, cibo e bibite, vasetti di pâté, pacchi di dolciumi. Sorpresi anche di guadagnare dei soldi, ora, con tanta semplicità, uno sforzo fisico così ridotto, ordinare, mettere a posto, pesare, i piccoli conti, grazie arrivederci. I primi giorni, al suono del campanello, scattavano entrambi in negozio, moltiplicavano le domande di rito, «serve altro, signora?». Si divertivano, li si chiamava il padrone, la padrona.
Le incertezze si sono insinuate con la prima donna che ha detto a voce bassa, la spesa già nella borsa, sono un po’ in difficoltà in questo momento, posso pagare sabato. Seguita da un’altra, poi da un’altra ancora. Il quadernetto dei debitori o il ritorno in fabbrica. Il quadernetto è parso meno peggio.
Per tener botta, evitare ogni desiderio. Mai un bicchierino come aperitivo né scatolette di cibo buono, tranne la domenica. Costretti a inasprire i rapporti con i fratelli e le sorelle cui sulle prime avevano offerto per mostrare che potevano permetterselo. Paura costante di mangiarsi il negozio.
Spesso in inverno, a quel tempo, tornavo da scuola esausta, affamata. In casa non c’era niente di acceso. Loro due erano in cucina, lui, seduto al tavolo, guardava fuori dalla finestra, mia madre in piedi vicino alla cucina a gas. Un silenzio denso mi cadeva addosso. Talvolta, lui o lei, «bisognerà vendere». Non valeva la pena che mi mettessi a fare i compiti. Tutti andavano a comprare altrove, alla Coop, al Familistère, ovunque. Allora lo sparuto cliente che varcava la soglia ignaro sembrava una suprema derisione. Accolto come un cane, pagava per tutti quelli che non venivano. Il mondo ci abbandonava.
Il bar-drogheria della Vallée produceva introiti analoghi a una paga da operaio. Mio padre è dovuto andare a lavorare in un cantiere edile della bassa Senna. Lavorava nell’acqua con degli stivaloni alti. Non era obbligatorio saper nuotare. Durante la giornata mia madre teneva aperta l’attività da sola.
Metà commerciante, metà operaio, appartenente a entrambi i fronti allo stesso tempo, destinato dunque alla solitudine e alla diffidenza. Non era sindacalizzato. Aveva paura dei nazionalisti della Croix-de-Feu che sfilavano a L*, e dei rossi che gli avrebbero confiscato il negozio. Teneva per sé le sue idee. Quando si è nel commercio non ce n’è bisogno.
Si sono fatti strada passo a passo, vicini alla miseria, poco al di sopra di essa. Fare credito li legava alle famiglie operaie numerose, le più indigenti. Vivevano sul bisogno degli altri, ma con comprensione, rifiutando raramente di “segnare sul conto”. Tuttavia si sentivano in diritto di far la lezione agli imprevidenti o di minacciare il bambino mandato dalla madre a far la spesa al suo posto sul finire della settimana, senza denaro: «Di’ alla mamma di trovare il modo di pagarmi, altrimenti non le do più nulla». Ormai non rientrano più nel novero dei più umiliati. […]
Annie Ernaux
[Tratto da: Annie Ernaux, Il posto, Roma, L’Orma Editore, 2014 (Milano, RCS, 2023), pp. 28-39].
Inserito il 18/11/2023.
Piombino.
Fonte della foto: https://www.ilpost.it/2023/10/18/acciaieria-piombino-metinvest-danieli/
Pagine di letteratura
Il cielo sopra… Piombino
Un brano dal romanzo Amianto. Una storia operaia
Un brano dal romanzo Amianto. Una storia operaia
di Alberto Prunetti
Nel romanzo Amianto. Una storia operaia Alberto Prunetti ci parla della vita del padre, operaio specializzato, saldatore, che ha girato come trasfertista acciaierie e raffinerie di tutta Italia. La condizione operaia, il lavoro usurante, la precarietà, l’inadeguatezza delle misure di sicurezza, i danni per l’ambiente e per le popolazioni che convivono con grandi complessi industriali, le morti per il contatto con sostanze nocive: tutti questi aspetti emergono dal romanzo di Prunetti, che ripercorre la propria vita nei centri industriali della costa toscana e racconta il percorso del padre verso la morte dovuta a una vita passata tra metalli e polveri, elementi e composti chimici, bestemmie e lotte sindacali…
Nel brano che riportiamo la storia si svolge tra fine anni Ottanta e inizio Novanta, quando Renato Prunetti, il protagonista, dopo un periodo non breve di cassa integrazione, riesce a farsi assumere da un’azienda che gestisce una raffineria di petrolio in Liguria.
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Da Amianto. Una storia operaia
di Alberto Prunetti
[…] La Crosa è una ditta che si occupa di montaggio, manutenzione e costruzione di impianti industriali. Produce impianti per le industrie chimiche, petrolchimiche, siderurgiche, dell’energia. Più in generale, opera nel campo della carpenteria metallica. Monta installazioni industriali e navali, esegue pose di tubazioni e si dedica infine alla manutenzione di raffinerie e centrali termiche. Negli anni novanta la Crosa ha un appalto all’interno della raffineria Iplom di Busalla ed è proprio in questo stabilimento che Renato viene trasferito con la qualifica di “addetto alla saldatura, montaggio e manutenzione di impianti industriali”. Lavorerà a Busalla dal 2 luglio 1990 al 30 settembre 1997.
Busalla è un piccolo paese in una vallata dell’Appennino ligure. Una corona di casette circondate dal verde dei boschi, tagliata dall’autostrada che da Genova sale fino a Milano. Ci vivono circa seimilacinquecento persone. Ma non sembra un paese, soprattutto passando dalla ferrovia o dall’autostrada Milano-Genova di notte, quando decine di migliaia di tubi al neon creano un’allucinazione inquietante: un drago sbuffante tubi e raccordi, un groviglio di cisterne, ciminiere e torrette, chilometri di tubature che sommergono Busalla e occupano la stretta Valle Scrivia. La raffineria è dentro la valle, dentro la città e la gente vive prigioniera del drago. A poche decine di metri dalle abitazioni dei busallesi si lavorano gasoli, bitumi e oli combustibili e si realizza chimicamente la desolforazione dell’idrogeno.
Se poi una scintilla raggiunge una cisterna di gasolio e l’impianto si incendia, sembra sciogliersi anche l’asfalto per le strade di Busalla. Ma loro, i busallesi, sono costretti a vivere con il drago, come i tarantini, come i piombinesi: sono stretti nella morsa della fabbrica sia fisicamente, sia psicologicamente, perché lo stabilimento dà il ricatto del pane e pretende il diritto di inquinare. I sindacati del posto non sono descritti come particolarmente battaglieri – Renato lasciò per un anno le sue buste paga a un delegato busallese per avviare la prima volta la pratica Inps per i cosiddetti “benefici” dei lavoratori esposti all’amianto: dovette andare a riprendersele senza che il tipo le avesse tolte dal cassetto –, mentre i proprietari mantengono le paghe un po’ più alte e fanno qual- che investimento educativo per migliorare l’immagine aziendale. Azienda che oltre a fatturare milioni di euro all’anno – da spartire tra la Finoil, la svizzera Energy Management e altre società statunitensi che rimandano alla francese Société Générale – alla gente del posto lascia qualcosa con cui campare assieme a inquinamento e malattie, come sostengono le associazioni locali che ne chiedono il trasferimento. L’impianto di raffinazione è infatti notoriamente pericoloso, tanto da esser stato classificato “a rischio d’incidente rilevante” dal Dpr. 175/88: “Trasforma e lavora, tra le altre, sostanze chimiche contrassegnate dal marchio R45, che indica un elevato potere cancerogeno nell’uomo”.
Una Taranto del Nord, meno mastodontica forse, con le case a duecento metri dai muri che perimetrano i serbatoi pieni di greggio e un fiume a regime torrentizio che sfiora per un lato lo stabilimento. Mia madre si ricorda che Renato diceva di aver ricevuto una notte uno strano incarico: far la guardia al torrente per controllare che le acque non tracimassero invadendo l’impianto. Un impianto che ogni tanto rilascia una nube nera o versa idrocarburi nelle acque circostanti. Una raffineria che è considerata come una bomba a orologeria pronta a esplodere. Che ogni tanto esplode. È successo nel 2008. E prima ancora nel 2005. E ancora nel 1991. Ma dagli anni ottanta si alternano ferimenti e ustioni di lavoratori, perdite oleose, sversamenti di idrocarburi nello Scrivia, nubi gassose. Un incendio coinvolse anche Renato. Quella sera di fine agosto del 1991, quando dopo una vampata le fiamme si alzarono fino a venti metri, nel cuore del drago c’era anche lui. Terrore, calore, paura che le fiamme arrivino al petrolio. Che tutto salti in aria. Le sirene che suonano, i feriti. Una nube acre, probabilmente tossica, che avvolge la vallata. La gente impazzita, fuori dallo stabilimento, che si ripara nei boschi. Gli operai in fuga, travolti e investiti dai soccorritori, come successe a un collega di Renato, come stava per succedere anche a lui. Voltarsi, schivare il furgone impazzito. Ambulanze. Vigili del fuoco. Carabinieri. Il sindaco minaccia. La proprietà promette indagini. Lavare l’immagine dell’azienda (istituire un paio di borse di studio per i figli degli operai). E i sindacalisti? “Ricordiamo ai compagni che criticare la fabbrica è come sputare sul piatto in cui si mangia.” (“E che cos’è questo fuoco? Pompieri, pompieri…” cantava Piero Ciampi.)
E si ricomincia, mentre a Busalla si vive e ci si ammala sotto le zampe del drago.
Pioggia d’estate
Una serie di incidenti e la fastidiosa attività di controinformazione di un comitato civico obbligano la Iplom a elaborare un progetto di comunicazione per ripulire l’immagine dello stabilimento.
La strategia è abbastanza semplice e si articola in tre passi. Per cominciare, visita turistica di una scolaresca di un istituto commerciale genovese nella raffineria Iplom. Guide d’eccezione, un consulente per le relazioni esterne e il responsabile della sicurezza.
Rientro in classe ed elaborazione – cito da “Il Secolo XIX” del 30 aprile 2002 – di “una fantasiosa campagna di marketing e comunicazione basata su slogan e fumetti, con protagonista una giovane e simpatica goccia di petrolio, per potenziare l’immagine della raffineria Iplom di Busalla sul territorio”. Di seguito, in maniera forse autoreferenziale, presentazione del progetto a presidente e amministratore delegato dell’azienda, con emissione di premi. “Fantasiosa”, la campagna di marketing, ben detto, perché chi ci lavorava nei primi anni novanta racconta altre cose. Certo, la storia della “simpatica” goccia di petrolio, raccontata agli studenti dai vertici dell’azienda, sarebbe stata accolta ben diversamente dai membri del comitato civico di Busalla che da anni chiedono la chiusura della raffineria. O dallo stesso Renato. Perché dalle sue parole sembra che il cantiere non versasse in buone condizioni.
E lo raccontano questi fogli che ho trovato dentro uno scatolone: alcuni bloc-notes e una serie di pagine sparse, segnate dalla sua calligrafia. In un foglio denuncia l’arroganza del capocantiere, richiede maggiore pulizia in docce e spogliatoi e poi in fondo aggiunge: “Chiedere tabella lavori usuranti”. Lamenta il problema della sicurezza nel cantiere: “Controllare manichette”. E ancora: “Tutte le gru senza fine corsa, la 14 T freno di stazionamento fuori uso con filtro rotto”. Denuncia poi la non funzionalità della cassetta del pronto soccorso, dei gabinetti (“nelle docce manca l’acqua”), ancora l’assenza di scarpe e tute invernali. Inoltre l’officina è al buio e ci piove dentro: Renato cita lo statuto dei lavoratori metalmeccanici, secondo il quale l’azienda deve fornire un luogo di lavoro all’asciutto, dove non ci sia pioggia o neve.
Ci sono altri appunti nello scatolone. Continuo a sfogliare. Note, verbali di riunioni sindacali, regolamenti sulla sicurezza nei cantieri. Legislazione per la previdenza dei lavori in ambienti usuranti. Un volantino della Fiom di Genova: “Benefici previdenziali per i lavoratori esposti all’amianto (art. 13 della legge n. 257/92 modificato dalla legge n. 271/93)”. Renato ormai si rendeva conto di quali erano le condizioni in cui lavorava. C’è anche un modulo: “Si dichiara che la mansione svolta dal lavoratore suindicato può aver/ha comportato esposizione a polveri di amianto provenienti dalla rimozione/demolizione di coibentazioni e da taglio di guarnizioni di amianto”. Era consapevole di lavorare in un ambiente di lavoro pericoloso, usurante, infestato d’amianto, dove le norme di sicurezza erano insufficienti o non erano applicate in pieno.
Anche l’incendio della Iplom ha contribuito a sensibilizzare Renato sul tema della sicurezza nel cantiere. Ormai è uno degli operai più anziani, la pensione non è lontana, in qualche modo può esporsi più dei giovani appena arrivati, assunti con contratti flessibili. Si impegna nella rappresentanza di base. Tra le sue carte trovo la piattaforma per il rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro del 1994. Un passo è sottolineato:
– modalità e tempi di sostituzione delle sostanze nocive utilizzate nella produzione;
– impatto ambientale dell’insediamento industriale;
– valutazione dei rischi sulla salute e sugli infortuni, in relazione alla loro frequenza, gravità e durata, per predisporre adeguate misure di prevenzione.
La nocività dell’ambiente di lavoro era un problema che stava vivendo sulla propria pelle. Questo emerge anche dagli appunti dove riassumeva le riunioni sindacali o preparava i punti da mettere all’ordine del giorno. Ecco alcuni estratti:
Assemblea del 20 febbraio 1996
Richieste:
– comportamento del capo cantiere;
– il problema della bicicletta;
– stivali antinfortunistici e cappotti antipioggia;
– trasferte e infortuni.
Poi alcuni appunti sulla sicurezza:
– verificare tutti gli impianti acetilenici e manometri;
– le biciclette sono compatibili con le nuove norme sulla sicurezza?
– il corredo per i saldatori;
– operare senza aiutante sugli impianti?
– in caso di pioggia?
In un precedente incontro sindacale, tenutosi a Savona il 2 dicembre 1993, aveva sollevato una serie di problemi, che illustrano il peggioramento delle condizioni di lavoro negli anni successivi al riflusso dei movimenti, a partire da metà anni ottanta. Scrive Renato:
1. Abusi di potere: imposto biciclette, minacce varie che hanno creato turbe psicologiche nel cantiere. Lavorare il sabato è ormai un obbligo. I servizi igienici sono fatiscenti. È stata tolta la persona che li puliva una volta alla settimana.
2. Trasferimenti: io sono 32 anni circa che opero come trasfertista, ma quello che ho visto nel cantiere di Busalla mi lascia perplesso. Si fanno trasferimenti dalla sera alla mattina. So che c’è una regola precisa.
3. Che ritorsioni possono subire i rappresentanti di cantiere da parte dell’azienda e come verranno tutelati dal sindacato? Sono soggetti al trasferimento?
4. Sono quattro anni che chiediamo le tute invernali. E poi ci sono alcuni ragazzi assunti al primo livello. È regolare?
5. In assemblea è regolare che intervengano il caposquadra o il ragioniere di cantiere?
Mi incuriosisce questo riferimento alla bicicletta. Renato aveva bisogno di una bicicletta per spostarsi velocemente dentro al cantiere. La chiese dal 1992 al 1996, senza ottenerla. Sembra che la bicicletta non ottemperasse alle norme sulla sicurezza. Curioso: la bicicletta non era sicura, la raffineria nel cuore della città sì. Alla fine dovette comprarsela da solo. […]
Siamo ormai arrivati agli anni novanta e il capitale comincia a utilizzare il sistema degli appalti e delle scatole cinesi per disporre di manodopera più flessibile e meno sindacalizzata, quindi più ricattabile. I lavoratori esterni lavorano di più e si pagano meno, sono una merce che si sfrutta più facilmente, che accetta gli straordinari senza mai dire “no”. Tra i suoi fogli Renato scrive: “Orario uguale per tutti in cantiere”. E sui muri della Iplom di Busalla compare, scritto a mano, un volantino: “I lavoratori delle ditte esterne sono tenuti a rispettare l’orario deciso dall’assemblea tenutasi il 23 maggio 1996 nella quale è stato deciso il blocco degli straordinari e venerdì 24 maggio 4 ore di sciopero dalle 13 alle 17. Il delegato di cantiere, Renato Prunetti”.
Mentre Renato partecipava alla rappresentanza sindacale di base, io mi preparavo a uscire dalle scuole superiori. Il giorno prima degli esami mi disse a mo’ d’incoraggiamento: “Ora ti fanno il tassello”, quasi fossi un cocomero di cui bisognasse valutare la maturità. Quell’anno in tutto il liceo ci furono tre 60/60. Uno di quei sessanta fu il mio. Fu l’atto di rapina di un pirata proletario che aveva imparato che ogni libro in più che leggi è un calcio in culo in meno che prendi dai padroni. Ne parlo solo perché la cosa ha un risvolto con il ruolo delle fabbriche nel circondario in cui sono cresciuto. Lo stabilimento industriale della Solmine metteva a disposizione dei pargoli promettenti delle borse di studio. Quell’anno, presa visione dei fogli, emisero per gli studenti che avevano conseguito il massimo dei voti due borse di un milione e mezzo e una di sole cinquecentomila lire. Dei tre studenti che presero sessanta, l’unico di classe operaia ero io. Ovviamente la borsa più piccola, quella di cinquecentomila lire, la dettero a me. In effetti mi aspettavo più gratitudine da un complesso industriale a cui avevo dato lustro vincendo pochi anni prima il Torneo di calcetto di Gavorrano con un calcio di rigore ineccepibile. Questa cosa fu una sorta di epifania, o forse una lezione di materialismo storico: in quel momento mi resi conto che avrei cominciato a pagare il peso della mia estrazione sociale. Che avrei dovuto abbassare la testa davanti al privilegio di classe: io non valevo quanto gli altri. Stattene al tuo posto, ragazzo: ecco quello che mi avevano detto, con quelle borse di studio. Ma era proprio quello che non ero disposto a fare. La buona notizia è che almeno con quel voto avevo diritto all’esenzione delle tasse universitarie al momento dell’iscrizione. Per la cronaca, coi soldi della borsa di studio della Solmine avrei potuto farmi un viaggio in Interrail e scoprire qualche posto al di fuori delle province di Grosseto e Livorno, da cui non mi ero mai allontanato negli anni dell’adolescenza con l’eccezione di qualche rara gita scolastica. Invece i soldi li finii tutti in birre, pisciandoli in quel buco di posto, a dimostrazione di quello che il Lombroso definirebbe “il pernicioso atavismo delle classi popolari”.
Inizio degli anni novanta. Renato ha un figlio all’università. Ormai è quasi fatta, pensa. Studiare sarà un modo per non finire in un cantiere. Negli anni ottanta i figli degli operai possono accedere a un’università che ha ancora un sistema di borse di studio: con il nostro reddito familiare, io non pago le tasse universitarie, ottengo la mensa gratuita e il soggiorno nella casa dello studente. Chi si è laureato negli anni settanta, provenendo dai ceti popolari, può ancora prendere la strada dell’insegnamento o delle professioni. Ma dagli anni novanta la società si chiude a riccio, le opportunità si riducono, i ricchi accedono ai posti chiave della società attraverso costosissimi master postuniversitari da fare all’estero. I figli degli operai devono comunque frequentare l’università di fretta, evitando di finire fuori corso, senza partecipare a onerosi programmi di scambio con le università europee. L’ascensore sociale funziona solo verso il basso e i lavori culturali saranno tra i primi a essere esposti al precariato e al taglio delle garanzie sindacali. “Perché non mi sono messo a fare l’idraulico?” è il mantra che ho ripetuto, interrogando me stesso, tante volte. […]
Gli anni passano e Renato continua a lavorare da una parte all’altra dell’Italia. I contatti non gli mancano, anche se ormai nel giro è un vecchio. Per un breve periodo trova lavoro in un posto molto duro, una cava di pietre dell’Isola d’Elba, dove si occuperà della manutenzione dell’impianto. Lo porto io in macchina fino al molo di Piombino, da cui si imbarca in traghetto. Ci fermiamo per un caffè al bar al bivio della Fiorentina, poi continuiamo guardando le acciaierie che bordeggiano la strada. Lo sguardo di Renato è triste Non si esalta più per le fabbriche. Proprio fissando il cielo greve sopra Piombino, gli viene in mente che non esiste acciaio senza amianto, anche se questo non te lo racconta nessuno. E adesso non facciamo più la gara come quando ero piccolo, a chi ha le ciminiere più alte. Ormai sappiamo che i posti in cui siamo cresciuti, lui a Rosignano e io tra Follonica, Scarlino e Piombino, hanno anomali tassi di morbilità per alti livelli di arsenico, piombo, cadmio, mercurio, cromo esavalente e per sostanze chimiche come gli idrocarburi policiclici aromatici; sappiamo che chi abita nei pressi della cokeria, dove si liberano polveri sottili, è esposto a un aumento della mortalità per tumore al polmone. Rimaniamo zitti, contemplando gli stabilimenti. Succede lo stesso quando vado a prenderlo alla stazione di Campiglia. In treno al ritorno dal Piemonte, dalla Liguria o dalla Lombardia spesso deve cambiare a Campiglia Marittima, a pochi chilometri da Follonica. Per evitare la lunga attesa della coincidenza, da quando ho la patente lo aspetto io in quella piccola stazione, lui e quella borsa piena di tute blu e verdi, pericolose, sporche e nocive, come sapremo in seguito. Ricordiamo le carrucole delle cave di pietra che attraversavano un tempo l’Aurelia, fissiamo le ciminiere della centrale elettrica di Tor del Sale, un po’ in lontananza, verso le dune del Mortelliccio e arriviamo puntuali per cena, riuscendo a guardare assieme uno di quegli spaghetti western di cui siamo da sempre fanatici spettatori: tutto il ciclo del dollaro di Sergio Leone, i due Trinità con Bud Spencer e Terence Hill, di cui anticipiamo a memoria le battute, ma anche il ciclo di Callaghan con Clint e – mio malgrado, perché quello non è il mio genere – i film di arti marziali di Bruce Lee. A corredo del film western, mia mamma sa che la frittata con la cipolla e i fagioli all’uccelletta sono obbligatori d’inverno. D’estate è di rigore quella che lui chiama la fricassea, cioè un mix di pomodori freschi del nostro orto e uova strapazzate con soffritto di cipolla, molto unto. […]
Alberto Prunetti
(Tratto da: Alberto Prunetti, Amianto. Una storia operaia, Milano, Feltrinelli, 2021, pp. 69-85).
Inserito il 12/11/2023.
Maksim Gor’kij (1868-1936).
Fonte della foto: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/7/7d/Portrait_of_Maxim_Gorky_sitting_in_an_armchair_wearing_a_light_shirt._%2814728267252%29.jpg
Pagine di letteratura
La pena del lavoro nella Russia dell’800
Un brano dal racconto Come ho studiato
di Maksim Gor’kij
Il racconto Come ho studiato fu pubblicato per la prima volta nel 1918 col titolo Sui libri nel giornale diretto dallo stesso Gor’kij «Novaja žizn’» («Vita nuova»). In esso l’autore ripercorre i propri ricordi d’adolescente alla scoperta dell’importanza dei libri e della lettura per la propria crescita e acquisizione di consapevolezza della vita e del mondo.
La scena che riportiamo ce lo presenta come servitore di una famiglia piccolo-borghese di una città di provincia intento a osservare la vita degli sterratori che vivono nei bassifondi del suo stabile; in realtà si tratta di contadini portati a lavorare in città da un appaltatore senza scrupoli e privo di un minimo senso di umanità. L’amarezza del ragazzo osservatore si percepisce in modo evidente quando egli si rende conto che gli schiavi scaricano la propria rabbia e il proprio senso di impotenza sociale su altri schiavi.
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Come ho studiato
[…] Imparai a leggere con consapevolezza quando ebbi quattordici anni. A questa età mi attraeva ormai non più solo l’intreccio del libro, lo sviluppo più o meno interessante degli avvenimenti rappresentati, ma anche la bellezza delle descrizioni, e cominciavo a riflettere sui caratteri dei personaggi, a indovinare confusamente gli scopi che l’autore del libro si era prefisso, e sentivo angosciosamente la disparità fra ciò di cui parlava il libro e ciò che mi suggeriva la vita.
Difficile era la mia vita, in quell’epoca; avevo per padroni dei piccoli borghesi inveterati, per i quali il piacere principale era mangiare molto, e l’unica distrazione la chiesa, ove essi si recavano vestendosi pomposamente, come ci si abbiglia per andare a teatro o a un pubblico passeggio. Lavoravo molto, fin quasi all’istupidimento, e i giorni di festa e di lavoro erano egualmente sovraccarichi di una fatica minuta, insensata e inutile.
La casa in cui vivevano i miei padroni apparteneva a un «appaltatore di lavori di sterro e di pavimentazione stradale»: un piccolo contadino tarchiato di Kliazma. Era un uomo dalla barbetta aguzza e dagli occhi grigi; malvagio e rozzo, aveva una sua crudeltà particolarmente tranquilla. Teneva alle sue dipendenze trenta operai, tutti contadini di Vladimir, che abitavano in una cantina scura con un pavimento di cemento e delle piccole finestre al di sotto del livello stradale. La sera, massacrati dal lavoro, dopo aver cenato con una minestra di cavoli fermentati puzzolenti e di frattaglie di carne salata, essi uscivano fuori, nel sudicio cortile, ove crollavano sfiniti dalla stanchezza: nell’umida cantina c’era un’aria soffocante e fumosa a causa della enorme stufa. L’appaltatore compariva alla finestra della sua stanza e gridava:
– Ehi, voi, diavoli, di nuovo siete venuti in cortile? Si sono sdraiati i porci! Nella mia casa vive della gente perbene: è forse uno spettacolo piacevole, vedervi?
Gli operai allora scendevano docilmente nella cantina. Erano tutti tipi tristi, che ridevano di rado, che non cantavano quasi mai e parlavano brevemente e malvolentieri; sempre imbrattati di terra, mi sembravano dei defunti, risorti contro la loro volontà per essere tormentati ancora un’intera vita.
In quanto alla «gente per bene» – ufficiali, accaniti giocatori di carte e ubriaconi –, essa batteva a sangue gli attendenti e le amanti: donne vistosamente abbigliate che fumavano sigarette. Quest’ultime, poi, si ubriacavano anch’esse e schiaffeggiavano gli attendenti, che a loro volta bevevano e si sborniavano a morte.
Di domenica, l’appaltatore usciva sul terrazzino e sedeva sulla scala, con un lungo libro stretto in una mano e un pezzo di matita nell’altra; gli sterratori gli si accostavano in fila indiana, l’uno dopo l’altro, come dei mendicanti. Parlavano a voce bassa, facendo inchini e grattandosi, ma l’appaltatore riempiva di urla il cortile:
– D’accordo! prendi un rublo d’argento! Che cosa? Vuoi che ti picchi sul muso? Ne ho piene le tasche di voi! Va’ via… Presto!
Sapevo che fra gli sterratori ce n’erano alcuni dello stesso villaggio dell’appaltatore, altri che erano suoi parenti, ma egli era ugualmente crudele e rozzo con tutti. E gli sterratori erano anche essi crudeli e rozzi fra di loro, e in modo particolare con gli attendenti. Quasi ogni domenica, nel cortile si accendevano delle risse sanguinose, saliva fino al terzo piano una sporca bestemmia. Gli sterratori si azzuffavano senza cattiveria, come adempiendo un obbligo che li annoiasse; quello che era stato picchiato a sangue si allontanava o scivolava da una parte e lì, in silenzio, esaminava le sue graffiature, le sue ferite, e si stuzzicava con le dita sporche i denti vacillanti. Un viso pesto, o gli occhi gonfi dai colpi, non suscitavano mai la compassione dei compagni, ma se qualche camicia rimaneva strappata, tutti allora ne provavano rincrescimento, e il padrone della camicia che era stato picchiato si adirava tetramente e talvolta piangeva.
Queste scene suscitavano in me un sentimento indicibilmente penoso. Avevo compassione degli uomini, ma la mia era una compassione fredda che non mi faceva mai dire una parola affettuosa a uno qualsiasi di loro, o aiutare in qualche modo coloro che erano stati picchiati, anche se davo loro l’acqua affinché lavassero il denso e ripugnante sangue rappreso, mescolato con il sudiciume e la polvere. In sostanza, non li amavo, li temevo un poco e pronunciavo la parola «contadino» allo stesso modo dei miei padroni, degli ufficiali, del cappellano di reggimento, del cuoco vicino a casa e perfino degli attendenti, che parlavano tutti con disprezzo dei contadini.
Aver compassione della gente mi riusciva penoso, ma intanto si prova sempre il desiderio di amare gioiosamente qualcuno, e non c’era nessuno da poter amare. Tanto più ardentemente, quindi, presi ad amare i libri.
C’erano ancora molte altre cose sudicie e crudeli, che davano un acuto senso di repugnanza, ma non ne parlerò perché voi stessi conoscete questa vita infernale, questo ininterrotto sfruttamento dell’uomo sull’uomo, questa morbosa passione di tormentarsi l’un l’altro che è il piacere degli schiavi. E così, in questa maledetta situazione, per la prima volta cominciai a leggere dei buoni, seri libri di scrittori stranieri. […]
Maksim Gor'kij
(Tratto da: Maksim Gorki, Come ho studiato, in: Maksim Gorki, Opere, vol. XII, Il padrone, Roma, Editori Riuniti, 1957, pp. 296-298).
Inserito il 09/10/2023.
Scrittori e popolo
Heinrich Heine al fianco di una rivolta operaia in Germania
I tessitori della Slesia
Traduzione italiana di Giosuè Carducci.
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Nel giugno 1844 nella regione prussiana della Slesia si verificò una rivolta degli operai tessili contro le disumane condizioni di sfruttamento a cui erano sottoposti. L’azione dei tessili provocò la dura reazione della monarchia prussiana, che inviò l’esercito a reprimere nel sangue la protesta.
Era la prima rivolta del genere nella Germania in via di trasformazione ad opera della Rivoluzione industriale, e la dura repressione governativa che ne seguì suscitò grande indignazione nei circoli progressisti di tutta Europa, e in modo particolare tra gli esuli politici tedeschi di Parigi, tra cui figurava il grande poeta Heinrich Heine (1797-1856), che da poco aveva stretto amicizia con un altro intellettuale emigrato: Karl Marx.
In seguito alla repressione della rivolta dei tessitori slesiani, Heine pubblicò sul giornale tedesco edito a Parigi “Vorwärts” (“Avanti”) una poesia che risultò essere un’invettiva contro la monarchia prussiana e i suoi tre pilastri ideologici: Dio, Re, Patria.
In Italia la poesia fu tradotta da Giosuè Carducci.
I tessitori della Slesia
Non han ne gli sbarrati occhi una lacrima,
Ma digrignano i denti e a’ telai stanno.
Tessiam, Germania, il tuo lenzuolo funebre,
E tre maledizion l’ordito fanno –
Tessiam, tessiam, tessiamo!
Maledetto il buon Dio! Noi lo pregammo
Ne le misere fami, a i freddi inverni:
Lo pregammo, e sperammo, ed aspettammo:
Egli, il buon Dio, ci saziò di scherni.
Tessiam, tessiam, tessiamo!
E maledetto il re! de i gentiluomini,
De i ricchi il re, che viscere non ha:
Ei ci ha spremuto infin l’ultimo picciolo,
Or come cani mitragliar ci fa.
Tessiam, tessiam, tessiamo!
Maledetta la patria, ove alta solo
Cresce l’infamia e l’abominazione!
Ove ogni gentil fiore è pesto al suolo,
E i vermi ingrassa la corruzione.
Tessiam, tessiam, tessiamo!
Vola la spola ed il telaio scricchiola,
Noi tessiamo affannosi e notte e dì:
Tessiam, vecchia Germania, il lenzuol funebre
Tuo, che di tre maledizion s’ordì.
Tessiam, tessiam, tessiamo!
Die schlesischen Weber
Im düstern Auge keine Träne
Sie sitzen am Webstuhl und fletschen die Zähne:
Deutschland, wir weben dein Leichentuch,
Wir weben hinein den dreifachen Fluch -
Wir weben, wir weben!
Ein Fluch dem Gotte, zu dem wir gebeten
In Winterskälte und Hungersnöten;
Wir haben vergebens gehofft und geharrt,
Er hat uns geäfft, gefoppt und genarrt -
Wir weben, wir weben!
Ein Fluch dem König, dem König der Reichen,
Den unser Elend nicht konnte erweichen
Der den letzten Groschen von uns erpreßt
Und uns wie Hunde erschiessen läßt -
Wir weben, wir weben!
Ein Fluch dem falschen Vaterlande,
Wo nur gedeihen Schmach und Schande,
Wo jede Blume früh geknickt,
Wo Fäulnis und Moder den Wurm erquickt -
Wir weben, wir weben!
Das Schiffchen fliegt, der Webstuhl kracht,
Wir weben emsig Tag und Nacht -
Altdeutschland, wir weben dein Leichentuch,
Wir weben hinein den dreifachen Fluch,
Wir weben, wir weben!
(1844)
Inserito il 06/01/2023.