Lotte e movimenti

Siamo pubblica utilità

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Siamo pubblica utilità


Chiediamo la dichiarazione della pubblica utilità sull’area ex Gkn da parte del nascente Consorzio industriale pubblico della piana fiorentina. Per dare in gestione l’area a chiunque la voglia veramente reindustrializzare.


Siamo pubblica utilità…


1. A salvaguardia del “saldo occupazionale del territorio”: 400 posti di lavoro sono stati bruciati da logiche speculative. 400 posti di lavoro devono essere ricreati.


2. A difesa del territorio: perché la fabbrica ha consumato il suolo e questo consumo non può essere ridotto a mero estrattivismo. Su quel suolo ormai “consumato” dall’immobile fabbrica, deve sorgere benessere sociale, lavoro, diritti.


3. Per la transizione climatica dal basso, reale: se reindustrializzazione deve essere, si riparta da prodotti ecologicamente avanzati.


4. Per uno degli esperimenti sociali più avanzati nel contesto dato: la fabbrica socialmente integrata, basata su forme di controllo operaio, sociale, dal basso.


5. A guardia di una alternativa: perché la ex Gkn mostra un esempio contagioso di uscita dalla crisi dell’automotive e fortemente alternativo alla follia della conversione bellica dell’industria.


6. A impulso della narrazione della nostra classe, della nostra memoria, di una prospettiva: il polo della cultura working class che riunisca archivi operai, progetti documentaristici, letteratura e storia operaia e delle lotte sociali.


7. Perché abbiamo un piano. L’unico.


8. Perché le fabbriche non possono vivere “consumando i territori”, i territori non devono lasciare che la speculazione “consumi” le proprie fabbriche.


9. Perché una produzione ecologicamente avanzata non può vivere se non cambiando il mondo attorno: che la fabbrica socialmente integrata sia impulso e interfaccia delle comunità energetiche e del cicloattivismo.


10. Perché fabbriche aperte e organizzate fanno comunità solidali e consapevoli. Fabbriche aperte, teatri, circoli, e case del popolo vive, territori sicuri.


Perché se si vince qua, si cambia i rapporti di forza a favore di tutte e tutti.

#insorgiamo


(Tratto dalla pagina Facebook del Collettivo di Fabbrica – Lavoratori Gkn Firenze, 07/04/2025).

Da «JACOBIN Italia»

«Sollevarsi come leoni dopo il sonno»

di Ken Loach

«La lotta per la coscienza di classe è ormai cruciale: è la nostra arma contro il fascismo», dice Ken Loach nella lettera che ha inviato al Festival di letteratura working class che comincia oggi alla Gkn di Campi bisenzio.

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«Sollevarsi come leoni dopo il sonno»


di Ken Loach


«La lotta per la coscienza di classe è ormai cruciale: è la nostra arma contro il fascismo», dice Ken Loach nella lettera che ha inviato al Festival di letteratura working class che comincia oggi alla Gkn di Campi bisenzio.


Vi invio con grande piacere i miei saluti e i miei auguri per il Festival di Letteratura Working Class. Questo è sicuramente il momento migliore per mobilitare la working class come forza politica.

Corrono davvero tempi inquietanti. Assistiamo a un’enorme disuguaglianza: da un lato la classe lavoratrice, dove si lotta contro la povertà o si corre persino il rischio di perdere la casa o patire la fame, e dall’altro chi la sfrutta. È sempre stato così, ma adesso la classe dominante ha un nuovo volto. Ricchezze inimmaginabili vengono accumulate da chi possiede e controlla grandi multinazionali e da chi manipola la finanza.

Vediamo anche questo potere economico trasformarsi in un potere politico. Cade la maschera della democrazia e la destra più estrema torna di nuovo in marcia. Non si limita adesso a tre paesi europei, come negli anni Trenta, ma si diffonde in tutto il pianeta: gli echi del fascismo tornano di nuovo attuali.

L’élite al potere non rispetta neanche lo stato di diritto: ogni giorno sugli schermi si mostrano crimini di guerra, eppure Trump fornisce a Israele le armi per commetterli, senza che ci siano esitazioni sulla strada che Israele sta seguendo. Le Nazioni unite, ridotte al rango di una sala convegni, sono prive di ogni autorità.

La crisi climatica e la distruzione dell’ambiente – provocate, come tutti sappiamo, dall’uso dei combustibili fossili – rappresentano il maggiore pericolo per la nostra sopravvivenza, eppure Trump continua a dire alle compagnie petrolifere: “Forza, continuate a scavare!”.

Bisogna ovviamente trovare un capro espiatorio, qualcuno a cui dare la colpa di tutto quello che va storto: tocca agli immigrati o ai poveri, accusati di ricevere aiuti statali che non si meritano. Si tratta di quello stesso razzismo che accusa i palestinesi di essere responsabili della loro sofferenza. Tanto che – lo dice ancora Trump – dovrebbero essere cacciati dalla loro terra.

Come possiamo resistere a tutto questo? Penso che la risposta sia chiara: mobilitando la forza della classe lavoratrice organizzata. I lavoratori sono intrappolati in una contraddizione: generano la ricchezza di chi li sfrutta e poi soffrono del potere che quella ricchezza ha creato. Noi alimentiamo un sistema economico che genera una ricchezza che realizza il nostro stesso sfruttamento.

La lotta per la coscienza di classe è ormai cruciale: è la nostra arma contro il fascismo. Di più: è uno strumento per la nostra sopravvivenza. Il sistema economico che dobbiamo costruire dovrà fondarsi sulla proprietà comune mentre la produzione — democratica e responsabile, in uno spirito di uguaglianza e collaborazione – sarà organizzata per servire gli interessi delle persone.

Sappiamo che nelle nostre mobilitazioni politiche dobbiamo avanzare richieste fondate sui bisogni concreti delle famiglie lavoratrici. Nel mio paese, come ovunque, le persone hanno bisogno di un lavoro sicuro con un giusto stipendio, una casa dove vivere, una buona assistenza sanitaria, un’istruzione per i figli, pensioni per quando si è anziani e sostegno per quando si è in difficoltà. Sembrano richieste semplici, eppure non possono essere soddisfatte nell’attuale sistema. Soddisfare le necessità essenziali della vita quotidiana è una questione che ha a che fare con le grandi trasformazioni che dobbiamo realizzare nelle nostre società.

So che tutto ciò sembra lontano, lo so. Un sogno che non accadrà mai.

La brutta notizia è che non c’è un’altra soluzione. Non potremo mai controllare il capitalismo, non potremo obbligarlo a lavorare per noi: la storia è coronata dai fallimenti di quest’idea.

Ma la buona notizia è questa: la classe lavoratrice ha la forza per farcela. Il gigante addormentato può essere risvegliato. Ecco perché il vostro festival è così importante. State mostrando la via da seguire.

Non ha senso cantare l’‘Internazionale’ se non agiamo davvero a livello internazionale: è questa la nostra responsabilità più grande.

Grazie per aver ascoltato queste poche parole. Un poeta inglese, Percy Bysshe Shelley, ci esortava a «sollevarsi come leoni dopo il sonno!». È tempo che i leoni insorgano e inizino a ruggire!

Con i miei più calorosi auguri a chi parteciperà al Festival di Letteratura Working Class e, naturalmente, la mia solidarietà!


4 aprile 2025


Ken Loach*

(Traduzione di Alberto Prunetti)


* Ken Loach, regista, ha diretto numerosi film, ha vinto due volte la Palma d’oro per il miglior film a Cannes e il Leone d’oro alla carriera al Festival del cinema di Venezia.


(Tratto da: Ken Loach, «Sollevarsi come leoni dopo il sonno», in https://jacobinitalia.it/sollevarsi-come-leoni-dopo-il-sonno/?fbclid=IwY2xjawJePLZleHRuA2FlbQIxMAABHvECJvgU1JE_EG2xWAsuCI5EyQtIFMxV2v4E4vIKBqSe_6_8kU192faJ6Qqa_aem_ffJDOZa8w1D-4COL3PBi6w).


Inserito il 05/04/2025.

Dal sito di «Sbilanciamoci»

NO BASE
Contro la militarizzazione della Toscana

di Fausto Pascali e Martina Pignatti Morano

Nella campagna pisana il governo si appresta a costruire una base militare che ha catalizzato l’opposizione di movimenti sociali, pacifisti e ambientalisti per la smilitarizzazione del territorio. I costi 520 milioni presi dal Fondo Sviluppo e Coesione – sono già triplicati. “Sbilanciamoci” chiama tutti a parlarne a Como il 7 settembre all’Altra Cernobbio.

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No Base: contro la militarizzazione della Toscana


di Fausto Pascali e Martina Pignatti Morano


Nella campagna pisana il governo si appresta a iniziare i lavori per la costruzione di una base militare che ha catalizzato, dall’altra parte, l’opposizione congiunta di movimenti sociali, pacifisti e ambientalisti per la smilitarizzazione del territorio. Anche le cittadine e i cittadini non attivi politicamente nei comuni di Pisa e Pontedera hanno compreso la dimensione della beffa: per questa base è previsto ad oggi uno stanziamento di 520 milioni presi dal Fondo di sviluppo e coesione sociale e da risorse assegnate al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, costo già triplicato rispetto al primo progetto di base. Le associazioni locali e nazionali impegnate nel contestare questo progetto ne parleranno il 7 settembre a Como nell’ambito del Forum di Sbilanciamoci “L’Altra Cernobbio”, ma per allargare la protesta alle forze sindacali e sociali è importante ricostruire i fatti.

Sono passati ormai 2 anni da quando, nella primavera del 2022, il gruppo consigliare Diritti in Comune a Pisa scopriva e denunciava pubblicamente quanto comparso sulla Gazzetta Ufficiale: un trafiletto con cui il governo Draghi individuava con decreto ministeriale “l’intervento infrastrutturale per la  realizzazione  della  sede del  Gruppo  Intervento  Speciale,  del  1°  Reggimento   Carabinieri paracadutisti «Tuscania» e  del  Centro  cinofili   quale  opera  destinata  alla  difesa nazionale”. In realtà si scoprirà più avanti dell’esistenza di un progetto ben dettagliato, noto da più di un anno, ma tenuto nascosto dagli enti locali coinvolti: Comune e Provincia di Pisa, Regione Toscana e Ente Parco Naturale di Migliarino San Rossore e Massaciuccoli.  L’indignazione popolare che ha seguito la denuncia ha portato alla nascita del Movimento “No Base né a Coltano né altrove” che ha subito costretto il nuovo governo ad una battuta di arresto nello sviluppo del progetto, ma anche a muoversi per portare avanti la militarizzazione del territorio per altre vie. Nel maggio dello stesso anno da una parte l’opera viene commissariata, in quanto l’intervento è caratterizzato “da un elevato grado di complessità progettuale, da una particolare difficoltà esecutiva o attuativa che comportano un rilevante impatto sul tessuto socio-economico”, dall’altro si attiva un tavolo inter-istituzionale “con il compito di individuare soluzioni volte a rilocare le sedi” dei reparti speciali.

Un tavolo che si rileva una farsa istituzionale volta principalmente a imbonire l’opinione pubblica, ma che di fatto si svolge a porte chiuse coinvolgendo non la popolazione, ma quegli stessi enti che sapevano del progetto dal principio e avevano taciuto, un tavolo dei cui incontri non si sa nulla se non notizie contraddittorie che si rincorrono sui giornali, mentre il commissario straordinario dell’opera procede spedito: chiede e ottiene nuovi fondi per uno studio di pre-fattibilità nell’area del Centro Interforze Studi per le Applicazioni Militari (Cisam): un’area boscata sempre all’interno del Parco di San Rossore e in cui da decenni è prevista – finanziata ma non attuata – la bonifica dalle scorie di quello che era un reattore nucleare di ricerca a scopo militare dismesso ormai dagli anni ‘80 del secolo scorso.

Lo studio tecnico è affidato ad Integra AES – una società di consulenza specializzata in sistemi di difesa  e che opera in tutto il mondo, anche in aree post-conflitto come l’Iraq o l’Afghanistan – e che restituisce, al costo di 65mila euro di soldi pubblici, una mappa aerea con indicato le nuove zone e che, senza un dato o un approfondimento specifico, diventano le linee guida del Tavolo Interistituzionale che a ottobre del 2023 approva la nuova collocazione a San Piero a Grado (sempre provincia di Pisa), specificando che i fondi saranno presi dal ministero delle Infrastrutture e Trasporti e promettendo che ci saranno opere di compensazione nei territori di Coltano e Pontedera. E soprattutto garantendo nel proseguo un processo trasparente: “Saranno puntualmente condivise, con tutti gli Enti interessati, le varie fasi progettuali nonché saranno ovviamente rispettate tutte le procedure previste dalla vigente normativa, tenendo in considerazione anche il piano di gestione del Parco”, recita il verbale firmato dal sindaco di Pisa Michele Conti (area centro destra), dal presidente della Regione Toscana Eugenio Giani (area centro sinistra) e dal presidente dell’Ente Parco Lorenzo Bani (tra i primi a proporre il Parco come potenziale sede della base militare).

Altra promessa che si rivela vana, perché dalle istituzioni – da quelle locali a quelle nazionali – cala il silenzio, addirittura ci si rifiuta palesemente di rispondere alle richieste esplicite di informazione dei cittadini comuni e di quelli regolarmente eletti.

Alla fine di giugno 2024 la base militare torna in maniera surrettizia all’interno del decreto omnibus (dentro anche lo spezzatino Ponte, il piano Mattei e molto altro) cosiddetto “Infrastrutture” portato avanti da tutti i ministri del governo Meloni, ma senza la firma del diretto interessato, il “ministro della Difesa Crosetto”. Tanto ormai è appurato: l’opera che servirà ad addestrare e ospitare i corpi speciali dei carabinieri, quelli che operano prevalentemente all’estero in situazioni di conflitto, i reparti sempre attivi che preparano gli interventi militari italiani negli scenari bellici, sono burocraticamente inquadrati come “presidio di pubblica sicurezza”. Per questo la base verrà finanziata, fuori dalle spese militari esplicite, con i soldi destinati a bilancio all’Edilizia Pubblica e prelevandoli dal Fondo per la Coesione sociale e lo Sviluppo.

In particolare, nel decreto, convertito con il voto di fiducia già ad agosto del 2024, si prendono 20 milioni di euro da quello che erano le riserve destinate a fronteggiare gli aumenti dei costi dei materiali a seguito della crisi in Ucraina e della crisi pandemico-sanitaria e si usano per aprire una contabilità speciale, volta ad avviare il prima possibile i cantieri dell’opera.

Nelle pieghe delle carte governative, il Movimento No Base scopre molto di più, dettagli ancora una volta noti a tutte le forze politiche in Parlamento, ma occultati dall’attenzione dei media. Il costo complessivo dell’opera è lievitato da 190 milioni a 520 milioni (mezzo miliardo di euro). La superficie prevista raddoppia, passando da 70 ettari previsti inizialmente a Coltano ai 140 complessivi diffusi tra San Piero a Grado e il Comune di Pontedera. Si svelano almeno in parte quelle che dovrebbero essere le opere di compensazione, che in realtà non compensano proprio nulla. Nella Tenuta Isabella, altra zona prevalentemente verde e purtroppo anche a rischio idrogeologico della Valdera, viene previsto un poligono di tiro a cielo aperto e una pista per addestramenti: strutture costruite per i militari e che si dice “saranno anche a disposizione dei civili”.

A Coltano si include il recupero di alcuni edifici storici, ma più che di compensazioni sembra trattarsi di prebende per le complici istituzioni locali: la villa Medicea, attualmente già in gestione alla Proloco locale e di proprietà del Comune di Pisa, Le stalle del Buontalenti, abbandonate, di proprietà della Regione Toscana, l’ex Stazione Radio Marconi, di proprietà del Demanio, ma in concessione sempre al Comune di Pisa che ne aveva casualmente regolarizzato i contratti pochi mesi prima del decreto. Si parla di recupero, ma non si specifica né quali saranno le nuove destinazioni, né con quale processo partecipativo verrà coinvolta la cittadinanza nel decidere il futuro di questi luoghi, il cui recupero è già previsto da oltre trent’anni a prescindere da qualsiasi opera militare. Tra le compensazioni spunta a San Piero a Grado anche la ristrutturazione dell’edificio della Bigattiera, di proprietà dell’Università di Pisa, che da oltre 15 anni prova – senza successo – a svenderlo: si noti che l’Ateneo pisano non ha partecipato ad alcun tavolo, né ha alcuno ruolo, se non fosse che è proprietario della maggior parte dei terreni che circondano l’area destinata alla nuova infrastruttura bellica.

Ulteriore bufala che viene narrata dalla propaganda governativa è che 120 milioni saranno destinati alla bonifica dell’area, ma non viene detto che tale bonifica era già prevista come espressamente scritto nella delibera “La bonifiche del Settore Difesa” n.14 del giugno 2022 della Corte dei Conti in merito al Cisam: “Le successive attività di decommissioning sono attualmente pianificate secondo una linea finanziaria già delineata che prevede, ad oggi, una conclusione delle attività entro il 2032”.

Infine si arriva a parlare di compensare il taglio di migliaia di alberi secolari, riconosciuti patrimonio naturale dell’Unesco come Selva Costiera Toscana, e per questo protetti da speciali normative e tutele, con nuove piantumazioni che, nei fatti, impiegheranno decenni a recuperare la funzione di difesa e regolazione ecosistema che hanno oggi. Senza contare che una delle ricchezze della riserva naturale è la biodiversità, con particolare riguardo alla riproduzione di alcune specie di uccelli rari, che sarebbe irremediabilmente compromessa sia dall’abbatimento degli alti fusti, sia dall’elevato impatto dell’attività antropica connessa al nuovo insediamento armato. 

Il governo Meloni prosegue, dunque, determinato a portare avanti questa ennesima infrastruttura militare, in quadro generale di potenziamento della Toscana come hub nevralgico della logistica di guerra globale e cerca i modi di farlo accettare all’opinione pubblica sia con la farsa delle compensazioni, sia con un’azione di più lungo periodo, che ha radici culturali nel propagandare la cultura della Difesa, il bisogno di sicurezza e quindi a fare accettare ai cittadini contribuenti ulteriori spese militari. Nel mentre, il Movimento No Base continua a curare la controinformazione per sfatare i falsi miti promossi dai media mainstream e ad animare le forze sociali e politiche che si oppongono alla realizzazione di quest’opera.  

Il metodo del movimento continua a basarsi sull’apertura e la partecipazione alle attività che sono prevalentemente di studio e di approfondimento e che hanno portato negli ultimi 2 anni a significative manifestazioni di protesta. A giugno del 2022 decine di migliaia di persone hanno sfilato sotto il solo cocente nell’allora poco conosciuta campagna di Coltano e poi, a ottobre del 2023, a pochi giorni dalla ratifica della nuova decisione, migliaia di persone hanno costeggiato sotto la pioggia battente chilometri di filo spinato, dalla vicina ed enorme base militare americana di Camp Darby alle reti del Cisam, dove è stato simbolicamente aperto un varco per dimostrare la determinazione dei manifestanti a non cedere il proprio territorio all’economia di guerra. Intanto, proprio a giugno di quest’anno, sul sentiero dei Tre Pini, che separa il centro Avanzi (fulcro della ricerca sullo sviluppo sostenibile dell’Ateneo pisano) dall’area militarizzata, il movimento No Base ha inaugurato un presidio permanente di pace, volto alla cura, alla conoscenza, al monitoraggio dei progetti in atto e alla difesa del territorio. Nello scenario futuro la sfida è quella di bloccare i finanziamenti della nuova infrastruttura militare e quindi, guardando alla finanziaria 2024, il movimento No Base ha convocato un nuovo appuntamento in piazza, il 13 settembre, sotto il Comune di Pisa, dove vengono chiamate a raccolta le forze politiche, sindacali e sociali, locali e nazionali, a schierarsi apertamente: stanno dalla parte dell’economia di pace o dell’economia di guerra? Cosa si potrebbe fare di veramente utile alla sicurezza sociale e umana delle persone con 520 milioni di euro in alternativa ad una nuova sede dei Gruppi di Intervento Speciale? In ballo non c’è solo la questione specifica della base, ma un’idea radicalmente diversa di sviluppo del territorio locale e di approccio alla risoluzione dei conflitti internazionali. Per ridurre la violenza e il rischio di conflitti armati è necessario, come dice il governo, investire su sistemi di difesa e sul comparto militare, rafforzando gli hub della logistica bellica già esistenti e sottraendo fondi alla spesa sociale, oppure è preferibile investire per ridurre le diseguaglianze sociali ed economiche, finanziare la cooperazione e gli interventi di peacebuilding civile? La risposta non può essere retorica, ma deve essere collettiva e sempre più diffusamente condivisa.


25 agosto 2024


Fausto Pascali e Martina Pignatti Morano


(Tratto da: https://sbilanciamoci.info/no-base-contro-la-militarizzazione-della-toscana/?fbclid=IwZXh0bgNhZW0CMTEAAR16OYzUKZJTb4zIUyGQOh8uWU_no5AxCT2I0Hg1kYxyU7MCSs6Afy976lM_aem_ryjYL9xvbxjmiLZK9dKw_Q).


Inserito il 26/08/2024.

Un’immagine del Festival internazionale di letteratura working class del 2024.

Fonte della foto: https://www.collettiva.it/copertine/culture/al-festival-working-class-il-capitale-culturale-e-operaio-ok4wkz0l

GKN, una lotta di portata strategica

UN FESTIVAL IN FABBRICA:
LA CONVERGENZA PASSA ANCHE DALLE PAGINE DEI LIBRI

🔴 di Azzurra Falciani 🔴

Azzurra Falciani presenta la lotta del collettivo di fabbrica ex GKN di Campi Bisenzio (FI), una lotta che passa anche attraverso l’organizzazione di festival internazionali di letteratura working class e il coinvolgimento della popolazione e di numerosi esponenti del mondo della cultura. Il collettivo di fabbrica è riuscito a dare a questa sua vertenza una valenza strategica per i rapporti sociali e di classe in Italia. La lotta di questi lavoratori riguarda tutti noi.

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UN FESTIVAL IN FABBRICA:

LA CONVERGENZA PASSA ANCHE DALLE PAGINE DEI LIBRI


di Azzurra Falciani

È successo di nuovo: il collettivo di fabbrica ex GKN ha messo su un altro festival internazionale di letteratura working class, con la collaborazione fondamentale della casa editrice Alegre e della SOMS, un CRAL (dopolavoro) aziendale, nei locali della fabbrica in cui fino al 9 luglio 2021 circa 500 operai lavoravano regolarmente.

La loro storia da quel momento in poi è stato un susseguirsi di promesse non mantenute da parte delle varie proprietà, scioperi generali, cortei che hanno portato in piazza fino a 40mila persone, un tour di mobilitazioni che ha girato l’Italia, un festival della letteratura l’anno scorso e un altro quest’anno, che si è tenuto il 5, 6 e 7 aprile in via Fratelli Cervi 1, Campi Bisenzio.

L’anno scorso era stato un azzardo che alla fine era andato molto bene, a questo giro era un’incognita. Varie condizioni erano cambiate, sia in meglio che in peggio: c’era il patrocinio del comune di Campi Bisenzio, dov’è situato lo stabilimento; ma allo stesso tempo era passato un altro anno di immobilismo da parte della proprietà e gli operai non ricevevano (di nuovo) lo stipendio da gennaio. Si può dire però che il festival è stata una vittoria, dato che vi hanno partecipato 5 mila persone, contro le 3 mila dell’anno scorso.

A sostegno del Festival si sono espressi anche l’attore Elio Germano e il regista Ken Loach, che non potendo essere presenti hanno mostrato virtualmente la loro piena solidarietà.

La line up dei nomi presenti era molto ricca e variegata, come i banchi dei libri presenti, che hanno rispecchiato sempre l’ottica intersezionale che la vertenza GKN vuole portare, cioè che lotte diverse e apparentemente distanti siano in realtà interconnesse: lotta operaia, antirazzismo, transfemminismo, anticapitalismo e anticolonialismo sono necessarie tutte e in egual misura.

Con il motto “Non siamo qui per intrattenervi” (ripreso da niente meno che da Mark Fisher) la tre giorni si è svolta vivace sotto un sole cocente; il tutto è stato allestito all’esterno della struttura poiché giorni prima si era verificato un episodio sinistro ai danni del collettivo di fabbrica.

Infatti, nella notte qualcuno si è introdotto e ha manomesso il quadro elettrico, qualcuno che sapeva benissimo dove mettere le mani e come farlo, impedendo di fatto l’uso dell’elettricità e dell’acqua. È stata sporta denuncia contro ignoti ed è stato spostato tutto fuori, con l’aiuto dei generatori. La domenica il bar è partito grazie ai pannelli portati dalla solidarietà tedesca, con una delegazione partita qualche giorno prima, e una volta arrivati gli operai hanno saldato i telai e un ingegnere tedesco ha creato una piccola cabina per gestire l’elettricità.

Ma questo episodio di solidarietà internazionale può solo dare una parvenza di idea di ciò che ha significato questo festival, non solo per gli operai ex GKN ma soprattutto per chi ha partecipato e chi ha dato una mano come poteva.

Quale altro festival, di letteratura o di qualsiasi altra pretesa culturale, a un certo punto si trasforma in un corteo di qualche migliaio di persone? Perché a Campi è successo questo: il 6 sera, di sabato, una marea di persone ha occupato le strade e gridato a gran voce che la fabbrica non si tocca, che il festival letterario della GKN non è un salotto chiuso, ma un laboratorio di idee da rendere poi concrete, per strada, in piazza e in tutti gli spazi possibili.

È stato decisamente potente e questa cosa non è sfuggita ad occhi indiscreti, o meglio, telecamere indiscrete; infatti già dalla mattina un drone sorvolava il festival, forse di un’agenzia di spionaggio e investigazioni, dando una tinta distopica e surreale al momento gioioso che si era creato attorno a quegli 80mila metri quadrati dello stabilimento. Area cui la proprietà, quando si trattava di presentare opzioni di reindustrializzazione, non sembrava così interessata.

Per me, che ho aiutato nella giornata finale della domenica per le questioni di logistica e traffico adiacenti alla zona (niente di molto teorico, mi rendo conto) ha fatto sentire parte di un qualcosa di più grande, una macchina sociale che avvolge vari strati e individui diversi, lì per tante ragioni ma con un humus di valori condiviso. Non che servisse una riprova che ritrovarsi in una comunità, la propria, facesse bene a un livello molto profondo, ma a volte, a mio parere, è utile ricordarselo per non finire ad annegare in mezzo alla marea di bruttezze e ingiustizie di questo mondo, che ci distolgono dalla speranza, e certezza, che un’alternativa esiste e che la possiamo costruire solo insieme.

Il tema dell’imaginario è fondamentale: se tre anni fa avessero detto agli operai della GKN che sarebbero stati licenziati con una mail, ma che non si sarebbero arresi, anzi al contrario! Che avrebbero ideato e realizzato non uno ma ben due festival di letteratura operaia, una cosa inedita non solo a Firenze ma in tutta Italia; ecco, se fosse successo, come avrebbero reagito?

Immaginare in grande e osare, mantenendo la componente fondamentale dello sporcarsi le mani e non allontanandosi mai troppo dal pratico, per non arenarsi in cortocircuiti teorici è essenziale, e gli operai dell’ex GKN ci riescono benissimo.


CRONISTORIA DELLA LOTTA

9 luglio 2021: licenziamento di circa 500 operai della GKN, fabbrica di componenti di trasmissione per l’industria automobilistica.

18 settembre 2021: corteo di 40mila persone a Firenze.

Fine settembre 2021: il tribunale annulla i licenziamenti sulla base dell’articolo 28 dello statuto dei lavoratori, cioè condotta antisindacale, che non impedisce di licenziare ma obbliga a rifare la procedura.

Fine dicembre 2021: Melrose decide di far arrivare un nuovo proprietario, Francesco Borgomeo, già advisor del fondo finanziario. Dice che ha rilevato la proprietà, fa accordi riservati con il fondo finanziario, (con l’obbiettivo di continuare i licenziamenti, svuotare la fabbrica e prendere macchinari), per reindustrializzare.

Gennaio 2022: accordo quadro, con timing con regione e istituzioni, in cui Borgomeo è tenuto a rispettare passaggi in un certo tempo, per reindustrializzare con altri ma se non riesce nei tempi e nei modi concordati sta a lui. Non presenta mai nessun piano né si vedono mai i fantomatici investitori. Smette di frequentare gli incontri e presentarsi ai tavoli, nel mentre chiede la cassa integrazione di transizione all’INPS, l’INPS non la concede perché Borgomeo non aveva presentato nessun piano industriale.

Novembre 2022: Borgomeo smette di pagare operai e pagare cedolini, salta tutto: 104, ferie, permessi, maternità.

Gli operai decidono di fare decreti ingiuntivi al tribunale perché regolarmente lavoratori a tempo indeterminato, ne vincono circa 300. Con un’ipotesi di pignoramento a breve e gli avvocati pronti a chiedere sequestro cautelativo immobile si assiste a un’altra mossa scorretta della proprietà.

Febbraio 2023: azienda messa in liquidazione volontaria, che rende impossibile parlare di reindustrializzazione.

Marzo 2023: primo festival internazionale di letteratura working class tenutosi in fabbrica e referendum popolare autogestito per l’intervento pubblico per rilevare GKN.

Maggio 2023: il governo, con comma del decreto 1° maggio, creata ad hoc per di fatto aiutare Borgomeo, dà cassa integrazione retroattiva, cosicché Borgomeo non paghi, con fine prevista il 31 dicembre 2023.

Luglio 2023: sbloccaggio pagamenti della cassa integrazione, con precedente occupazione della torre di San Niccolò per sei giorni di fila

Ottobre 2023: la proprietà dichiara nuovamente i licenziamenti.

31 dicembre 2023: Proprio per capodanno concerto in fabbrica con successivo corteo di 7mila persone per le strade di Campi, per la fine della casa integrazione retroattiva.

Però anche questa volta la procedura di licenziamento è dichiarata sbagliata, di nuovo per condotta antisindacale, e va rifatta perché illegittima.

Da gennaio 2024 fino a questo momento (luglio 2024): gli stipendi non vengono pagati, l’organico della fabbrica inevitabilmente si dimezza

Aprile 2024: Secondo festival internazionale di letteratura working class.

Maggio 2024: inizio occupazione della sede della regione a Novoli, gli operai poi si sposteranno in piazza indipendenza. Queste sono le richieste degli operai:

Giugno 2024: Inizio sciopero della fame da parte di tre operai, andato avanti 13 giorni.

Ad oggi (luglio 2024): Arriva la notizia che la legge regionale è fattibile e costituzionale, l’iter è partito.


Il futuro è tutto da scrivere, insieme, sempre con la convergenza come parola d’ordine.


15 luglio 2024


Azzurra Falciani


Fonti:

https://www.youtube.com/watch?v=s_P4VwNXsZE

https://laletteraturaenoi.it/2023/04/19/conquistare-la-narrazione-fenomenologia-di-un-festival-sulla-letteratura-working-class/

https://www.layoutmagazine.it/comunita-venire-adesso-festival-letteratura-working-class-gkn/

https://www.collettiva.it/copertine/culture/letteratura-working-class-gkn-diventa-festival-ul6roagy

https://edizionialegre.it/notizie/festival-di-letteratura-working-class-2024-il-programma/


Inserito il 20/07/2024.

Firenze, piazza San Marco, 15 maggio 2024. Tende per la Palestina.

Fonte della foto: https://firenze.repubblica.it/cronaca/2024/05/15/news/firenze_mobilitazione_pro_palestina_tende_san_marco-422968370/

Dal sito «ilreporter.it»

Firenze: tende degli studenti per la Palestina

La protesta dei campus americani contro il genocidio a Gaza arriva a Firenze. Gli universitari chiedono la fine del massacro di palestinesi operato dall’esercito di Israele e l’interruzione della collaborazione tra l’Università di Firenze e gli enti di ricerca israeliani.

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A Firenze tende degli studenti e manifestazione pro Palestina


Una ventina di tende davanti al rettorato per chiedere la fine del conflitto e lo stop della collaborazione tra l'Università di Firenze e gli enti di ricerca israeliani


di Redazione


15 Maggio 2024


Dalla mattinata di oggi, 15 maggio, a Firenze un nutrito gruppo di studenti fiorentini “armato” di tende si è accampato in piazza San Marco, davanti al rettorato dell’Università, per una manifestazione contro il conflitto in Palestina. La mobilitazione, soprannominata “Intifada Studentesca”, è stata promossa sulla falsariga delle proteste nei campus delle università americane di Yale, UConn, Columbia e Princeton, che dagli USA hanno fatto il giro del mondo fino ad arrivare in Europa. Dopo Parigi (Sciences Po e Sorbona), Valencia e Londra, iniziative analoghe si sono registrate negli ultimi giorni in diverse città italiane, tra cui Pisa. Oggi è stata la volta anche di Firenze, in occasione della giornata del ricordo della Nakba, l’esodo forzato dei palestinesi del 1948.

La manifestazione pro Palestina a Firenze: tende in piazza San Marco

La giornata ha preso il via con un sit-in davanti al rettorato, promosso dall’Unione degli Universitari (UDU) a cui hanno partecipato altre realtà, come i sindacati Cobas e FLC Cgil, i Giovani Palestinesi di Firenze, il collettivo dell’ex Gkn di Campi Bisenzio. L’iniziativa ha come scopo quello di “chiedere la fine del genocidio del popolo palestinese ed esigere che l’Università di Firenze rescinda tutti gli accordi con le Università israeliane”, spiegano gli organizzatori.

Presenti alla manifestazione decine di studenti dell’Università di Firenze, dell’Istituto Universitario Europeo di Fiesole e della Scuola Normale Superiore. I giovani hanno montato una ventina di tende in piazza San Marco e l’intenzione è quella di continuare la protesta finché la rettrice non aprirà un tavolo di trattative per fermare i progetti di collaborazione con enti e istituzioni israeliane. Tra le iniziative messe in programma dai gruppi studenteschi anche un’assemblea pubblica e la proiezione in serata di un film.


Proteste in tutta Italia

In piazza San Marco è arrivato anche l’Imam di Firenze Izzedin Elzir. “Dove c’è la possibilità di manifestare in  maniera pacifica significa che c’è libertà, l’importante è che si faccia in maniera pacifica per una causa giusta”, ha affermato. Sostegno alla manifestazione è stato espresso inoltre da Dmitrij Palagi, candidato sindaco per Sinistra Progetto Comune e Firenze Ambientalista e solidale, che non ha risparmiato una stoccata al primo cittadino Nardella. “Vanno messi in discussione rapporti e collaborazioni che direttamente o indirettamente favoriscono progetti che comunque alimentano la sostanziale impunità del governo di Israele – ha detto Palagi –. Ricordiamo che il sindaco uscente ha esposto la bandiera di Israele ma mai quella della Palestina da Palazzo Vecchio”.

Firenze non è l’unica città italiana a vedere queste proteste per il conflitto in Palestina: già pochi giorni fa a Pisa sono arrivate le tende nei giardini di Antichistica, Storia e Filosofia. Altri accampamenti sono comparsi anche a Milano, Padova e Padova.


(Tratto da: https://ilreporter.it/sezioni/cronaca-e-politica/manifestazione-palestina-firenze-studenti-tende/#google_vignette).


Inserito il 15/05/2024.

Gaza, 27 marzo 2024: distribuzione di cibo ai profughi.

Autore della foto: Mahmoud Issa / Anadolu.

Fonte della foto: https://www.aljazeera.com/news/liveblog/2024/3/28/israels-war-on-gaza-live-unarmed-palestinians-killed-buried-by-bulldozer

Dal blog di Paolo Ferrero

Stop dell’ateneo di Torino al bando con Israele: la successiva levata di scudi è degradante

di Paolo Ferrero

«Voglio esprimere la mia piena solidarietà al Senato Accademico dell’Università di Torino che martedì scorso ha deciso di non partecipare ad un bando del ministero degli Esteri italiano relativo al finanziamento di progetti di ricerca tra Italia e Israele. La decisione, assunta “visto il protrarsi della situazione di guerra a Gaza”, è stata in questi giorni attaccata in modo forsennato e domani vi sarà addirittura una manifestazione di protesta convocata sotto la sede del rettorato.

Di fronte alla scelta dell’Università di Torino di dare un segnale di dissenso riguardo al massacro in corso a Gaza, abbiamo assistito ad una levata di scudi che la dice lunga sul degrado della nostra società».

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Stop dell’ateneo di Torino al bando con Israele: la successiva levata di scudi è degradante


di Paolo Ferrero


Voglio esprimere la mia piena solidarietà al Senato Accademico dell’Università di Torino che martedì scorso ha deciso di non partecipare ad un bando del ministero degli Esteri italiano relativo al finanziamento di progetti di ricerca tra Italia e Israele. La decisione, assunta “visto il protrarsi della situazione di guerra a Gaza”, è stata in questi giorni attaccata in modo forsennato e domani vi sarà addirittura una manifestazione di protesta convocata sotto la sede del rettorato.

Di fronte alla scelta dell’Università di Torino di dare un segnale di dissenso riguardo al massacro in corso a Gaza, abbiamo assistito ad una levata di scudi che la dice lunga sul degrado della nostra società.

In primo luogo, a Gaza cosa sta succedendo? In 5 mesi di bombardamenti indiscriminati e di attacchi militari continui, nella striscia di Gaza sono morti più di trentamila civili di cui quasi la metà bambini. In questa situazione catastrofica che nulla ha a che vedere con una guerra tra eserciti, la Corte internazionale di giustizia dell’Aia, il 26 gennaio ha stabilito che le azioni d’Israele nella Striscia di Gaza sono plausibilmente genocidarie e ha emesso una ordinanza che impone ad Israele di adottare immediate misure per consentire la fornitura di servizi di base e assistenza umanitaria in favore dei palestinesi.

Nonostante questa sentenza, il governo israeliano ha aggravato ulteriormente la situazione e, con il blocco degli aiuti alle frontiere, ha condannato a morte per fame e per sete i due milioni di persone che a Gaza vivono. Non pago di aver distrutto la quasi totalità delle case, delle infrastrutture, delle università, delle chiese, degli ospedali, da mesi impedisce l’ingresso a Gaza del cibo.

Come denuncia Amnesty International, la popolazione di Gaza viene quindi bombardata quotidianamente, ridotta a morire di fame e di sete e impossibilitata a curarsi e a farsi curare, perché mancano le medicine, compresi gli anestetici per operare i bambini colpiti dagli israeliani.

Al confine egiziano si trovano più di 7.000 camion carichi di aiuti umanitari a cui il governo israeliano sta impedendo l’ingresso e la stessa cosa succede in tutti gli altri ingressi a Gaza. In questa condizione il Presidente dell’Onu Antonio Guterres, tenendo una conferenza stampa al confine egiziano con Israele, ha detto: “Qui vediamo lo strazio e la crudeltà di tutto ciò. Una lunga fila di camion umanitari bloccati su un lato del cancello, l’ombra lunga della carestia dall’altra”.

Ha quindi parlato di “oltraggio morale” a proposito del comportamento del governo israeliano, perché è evidente che qui non siamo più nel terreno della discussione politica e nemmeno della guerra: qui siamo di fronte a un genocidio costruito giorno dopo giorno non solo con le bombe, ma con la deliberata scelta di far morire di fame un popolo.

Al presidente dell’Onu che dice: “I palestinesi di Gaza, bambini, donne e uomini, vivono dentro un incubo infinito. Porto la voce della grande maggioranza del mondo che ne ha avuto abbastanza”, ha replicato immediatamente il ministro degli Esteri israeliano Katz che ha definito l’Onu una “organizzazione antisemita, anti-israeliana e sostenitrice del terrorismo”.

E qui le parole del ministro del governo israeliano fanno il paio con quelle che sentiamo contro il Senato accademico dell’Università torinese e non solo. Ogni critica rivolta al governo israeliano viene tacciata di antisemitismo e si usa un codice comunicativo che costruisce un parallelo tra la critica ad Israele e le leggi razziali o l’olocausto. Pensiamo a Piero Fassino, il dirigente del Pd che attaccando la scelta del senato accademico torinese scrive: “C’è stato un tempo lugubre nel quale dalle università venivano espulsi professori perché ebrei”.

Di fronte a questo palese tentativo di coprire ogni malefatta dello stato israeliano con l’Olocausto subito dal popolo ebraico, credo ogni essere umano debba parlare, debba prendere posizione, pena diventare complice del genocidio che il governo israeliano sta facendo sotto i nostri occhi giorno dopo giorno. Nulla giustifica il genocidio del popolo palestinese e chiunque utilizzi la Shoah, l’orribile sterminio di sei milioni di ebrei da parte dei nazifascisti, per giustificare il genocidio oggi in corso ai danni dei palestinesi sta uccidendo nuovamente quelle persone perché sta riproducendo la stessa barbarie.

Ai milioni di ebrei assassinati dai nazisti almeno questo lo dobbiamo: mai più, mai più!


25 marzo 2024


Paolo Ferrero


(Tratto da: https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/03/25/stop-dellateneo-di-torino-al-bando-con-israele-la-seguente-levata-di-scudi-e-degradante/7490756/).


Inserito il 29/03/2024.

Pisa e Firenze – 23 febbraio 2024

Prove di fascismo

La repressione poliziesca delle manifestazioni degli studenti a favore della Palestina è un brutto segnale per il nostro Paese. Si vuole creare un clima di tensione in cui la destra già al governo abbia gioco facile nel far passare provvedimenti e leggi costituzionali che mirano a restringere gli spazi di democrazia e di espressione del dissenso.

Dal giornale «il Fatto Quotidiano»

C’è un clima di tensione che assomiglia a una strategia

di Tomaso Montanari

Repressione del dissenso: difficile pensare solo a errori di gestione delle piazze

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C’è un clima di tensione che assomiglia a una strategia


di Tomaso Montanari


“Profonda preoccupazione e sconcerto”: le parole del rettore di Pisa Riccardo Zucchi interpretano benissimo il sentimento generale di fronte alle cariche della polizia contro un corteo di studenti giovanissimi che chiedeva il cessate il fuoco a Gaza. E il direttore della Normale e la direttrice del Sant’Anna offrono, nel loro comunicato congiunto, l’unico possibile giudizio politico, affermando che “l’uso della violenza sia inammissibile di fronte alla pacifica manifestazione delle idee”.

La domanda è: perché? Dopo che cose assai simili sono successe alla Sapienza di Roma e nel campus universitario di Torino, è sempre più difficile credere che si tratti di una casuale catena di errori da parte di singole questure. Se si aggiungono le pessime dichiarazioni di ministri (come Casellati o Santanchè), che invece di condannare la repressione condannano i repressi, il quadro che ne esce è piuttosto fosco.

Chi ha interesse a incendiare le piazze italiane con un uso della violenza di Stato palesemente irresponsabile? O il ministro dell’Interno si assume la responsabilità di spezzare questa catena, o sarà legittimo credere che sia proprio il governo a volersi avvantaggiare di un clima di tensione che assomiglia sempre più a una strategia. La matrice ideologica del governo, e il fatto che la presidente del Consiglio si accinga a una campagna referendaria in cui chiederà di fatto pieni poteri per abbattere il sistema di garanzie democratiche della Costituzione antifascista non lasciano per nulla tranquilli. Io davvero non vorrei unire i puntini tra la sproporzionata violenza della polizia in piazza e il progetto politico di Fratelli d’Italia, perché ne verrebbe fuori un’immagine terribile. Ma se le cose continuano così, quei puntini si uniranno da soli.


Tomaso Montanari


(Tratto da «il Fatto Quotidiano», Anno 16, n. 54, 24 febbraio 2024).


Inserito il 24/02/2024.

I comunicati di scuole e organizzazioni sulle violenze poliziesche contro gli studenti

Comunicato dei docenti del Liceo Statale “Giovanni Pascoli” di Firenze

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Comunicato dei docenti del Liceo Statale “Giovanni Pascoli” di Firenze


«Mentre la scuola cerca di far crescere i ragazzi e le ragazze secondo i valori del dialogo e del confronto politico e civile, la realtà e le istituzioni mostrano sempre più spesso un volto differente.

Noi, come docenti di una scuola improntata all’inclusione e al dialogo, affermiamo che la repressione violenta del diritto di manifestare è incompatibile con lo stato di diritto.

Desideriamo perciò esprimere la massima vicinanza e solidarietà agli studenti e alle studentesse brutalmente colpite dalle forze dell’ordine mentre manifestavano per la pace e la fine del genocidio palestinese.

Auspichiamo che, come succede in quasi tutte le nazioni europee, anche in Italia si prendano misure per impedire in futuro l’espressione di violenze di questo genere.


Proff. Brunori, Collini, Graziati, Moscardi, Silvestri, Milli,  Bolzan, Brusini, Carnevale, Ricci, Caglia, Conti, Bardazzi, Chichi, Gambino, Vittorioso, Bonanini, Tatini, Simoni, Figliomeni, Bernini, Letizia, Lazzeri, Adorisio, Saletti, Rovai, Romani, Semmler, Iadanza, Simi, Paulesu, Criscitiello

...e tutti e tutte quei docenti e quelle docenti che senz’altro condividono il nostro pensiero anche se non sono venute ancora a conoscenza di quanto accaduto».

Comunicati di CGIL Toscana, CGIL FLC, ARCI, ANPI e altre organizzazioni toscane

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Assemblea Generale Cgil Toscana condanna cariche su studenti manifestanti a Pisa


L’Assemblea Generale della CGIL Toscana, riunita oggi a San Casciano val di Pesa (Fi), condanna il comportamento delle forze di polizia che oggi a Pisa hanno caricato selvaggiamente delle studentesse e degli studenti liceali che stavano manifestando per la pace in Palestina.

Le immagini ci mostrano agenti in tenuta antisommossa che aggrediscono ragazze e ragazzi inermi, la cui unica colpa era quella di manifestare il proprio pensiero e di preoccuparsi della Pace in un’area martoriata da più di cinquanta anni.

Si tratta dell’ennesima dimostrazione di una strategia anticostituzionale da parte di questo governo che non tollera il dissenso e lo reprime con la violenza. Un ritorno a 100 anni fa, che l’Assemblea Generale della CGIL Toscana non soltanto stigmatizza, ma respinge con forza.

In particolare, gli studenti sono sotto attacco da più di un anno, sia attraverso aggressioni neofasciste che con la repressione delle forze d’ordine.

L’Assemblea Generale della CGIL Toscana si schiera con forza con gli studenti e contro questa strategia repressiva e antidemocratica che tenta di lacerare la Costituzione antifascista: continueremo a difendere la democrazia in ogni luogo e, in particolare, in quelli dell’istruzione e della ricerca, e a rilanciare la lotta per nuove libertà e nuovi diritti.

Ordine del Giorno approvato dall’assemblea Cgil Toscana


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LA NOTA FLC CGIL TOSCANA


La FLC CGIL Toscana condanna il comportamento delle forze di polizia che oggi a Pisa hanno caricato delle studentesse e degli studenti liceali inermi che stavano manifestando per la pace in Palestina, con l’unica colpa di preoccuparsi per una terra martoriata da più di cinquanta anni.

Si tratta dell’ennesima dimostrazione di una strategia anticostituzionale da parte di questo governo che non tollera il dissenso e lo reprime con la violenza. Un ritorno a 100 anni fa, che la FLC CGIL Toscana non soltanto stigmatizza, ma respinge con forza.

In particolare, gli studenti e il mondo della conoscenza sono sotto attacco da più di un anno, sia attraverso aggressioni neofasciste, sia con la repressione delle forze d’ordine, sia con il tentativo inserire delle modifiche legislative che vorrebbero mortificare i lavoratori del settore e divederli.

La FLC CGIL Toscana si schiera con forza con gli studenti e contro questa strategia repressiva e antidemocratica che tenta di lacerare la Costituzione antifascista: continueremo a difendere la democrazia nei luoghi dell’istruzione e della ricerca e a rilanciare la lotta per nuove libertà e nuovi diritti.


Il Segretario Generale della FLC CGIL Toscana Pasquale Cuomo


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LA NOTA CGIL-ARCI-ANPI-CASA DONNA-PONTE PER PISA


La Cgil, l’Arci, l’Anpi, la Casa della Donna e Un Ponte Per di Pisa stigmatizzano e condannano il comportamento tenuto oggi dalla Polizia a Pisa, che ha caricato con i manganelli le studentesse e gli studenti liceali, in gran parte minorenni, che stavano manifestando pacificamente in via San Frediano.

La Polizia ha ferito e picchiato giovani inermi che manifestavano il loro pensiero e le loro opinioni, in difesa di una giusta causa come quella a sostegno della Palestina e contro il genocidio. Ancora una volta si è tentato di negare il diritto al dissenso attraverso la violenza e con metodi non compatibili con una democrazia.

Provocano sdegno e preoccupazione anche i metodi di fermo utilizzati, con i ragazzi fatti addirittura stendere per terra come se fossero dei pericolosi terroristi. Le Associazioni si schierano con gli studenti e le studentesse, dei quali condividono i temi portati avanti nella manifestazione e contro questi metodi brutali usati dalle forze dell’ordine, che stanno diventando uno strumento di repressione antidemocratica in tutto il Paese.

Chiediamo chiarimenti immediati da parte della Questura: riteniamo incomprensibile e inaccettabile un dispiegamento così massiccio di forze dell’ordine e un uso così brutale della forza pubblica.

Al fine di difendere la democrazia le Associazioni organizzeranno delle iniziative di rilancio in merito al diritto di manifestare le proprie idee e in difesa dei principi costituzionali.


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LA NOTA CGIL LIVORNO


La Cgil provincia di Livorno condanna fermamente il comportamento tenuto oggi dalla Polizia a Pisa nei confronti di studentesse e studenti liceali che stavano manifestando pacificamente per le proprie idee e per una causa giusta: il sostegno alla Palestina.

Le forze dell’ordine hanno ferito giovani inermi: tutto ciò è inaccettabile. Proviamo inoltre profondo sdegno per i metodi di fermo utilizzati: i ragazzi sono stati fatti addirittura stendere come se fossero pericolosi terroristi.

Ci preme sottolineare che ancora una volta si è tentato di negare il diritto al dissenso attraverso la violenza e con metodi non compatibili con una democrazia: un comportamento che purtroppo negli ultimi tempi si sta verificando con sempre maggior frequenza.

La libertà di pensiero e di manifestare per le proprie idee non può essere messa in discussione.

Agli studenti e alle studentesse rimasti coinvolti negli scontri la solidarietà e la vicinanza di tutta la Cgil.


Cgil provincia di Livorno


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LA NOTA FISAC CGIL TOSCANA E PISA


Desta molta preoccupazione quanto successo oggi a Pisa laddove le forze di polizia hanno caricato degli studenti medi che manifestavano per la pace in Palestina, con molti ragazzi ammanettati e feriti.

Questo ennesimo episodio di repressione del dissenso, anche con l’uso della violenza, fa tornare alla mente gli anni più bui attraversati da questo paese; trattasi di modalità incostituzionali, che ledono la libertà individuale e il diritto dei cittadini di esprimere pacificamente le proprie opinioni.

Pertanto destano inquietudine le affermazioni, uscite sulle agenzie di stampa, di esponenti della destra italiana e pisana che non solo non denunciano la violenza dell’episodio, ma continuano ad alimentare un clima di intolleranza nei confronti di chi esprime opinioni diverse da quelle del Governo nazionale.

La Fisac Toscana e la Fisac di Pisa esprimono solidarietà agli studenti e continueranno a stare al fianco di chi si oppone a questa strategia repressiva che tenta di lacerare la Costituzione antifascista.

Libertà costituzionali e ordine pubblico


Comunicato dell’Esecutivo di Magistratura democratica

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Libertà costituzionali e ordine pubblico


Comunicato dell’Esecutivo di Magistratura democratica


Ieri mattina, a Pisa, reparti della Polizia di Stato in assetto antisommossa hanno impedito a un corteo di studenti riunitosi in via San Frediano, davanti al liceo artistico Russoli, per una manifestazione di solidarietà nei confronti della popolazione palestinese, di accedere a piazza dei Cavalieri, adottando la cosiddetta “carica di alleggerimento” nel corso della quale diversi manifestanti sono stati colpiti con manganellate e  hanno subìto lesioni personali.
Siamo perfettamente consapevoli che tutte le circostanze del caso dovranno essere oggetto di un approfondito accertamento ma non possiamo ignorare che, in una lettera pubblica sull’accaduto,  i docenti del Liceo Russoli riferiscono che il corteo era assolutamente pacifico e che, senza alcuna ragione evidente, gli agenti in assetto antisommossa hanno chiuso  la strada sia in corrispondenza di  Piazza Cavalieri che in corrispondenza di Piazza Dante, così impedendo al corteo di muoversi, e poi hanno fatto partire  tre cariche contro gli studenti, molti minorenni e tutti disarmati.

I filmati diffusi in rete e dalle agenzie di stampa sembrano in effetti confermare, al netto della necessità di una ricostruzione più completa che senz’altro seguirà, un’evidente sproporzione nell’uso della forza da parte degli agenti, in quanto diverse sono le immagini in cui essi colpiscono con i manganelli ragazzi inermi e li fanno sdraiare a terra, immobilizzandoli, senza alcuna evidente necessità di difesa propria o di terze persone. 

A fronte della coincidenza delle immagini con le dichiarazioni dei docenti che hanno assistito ai fatti, avvenuti proprio davanti alla scuola, sentiamo, come magistrati, la necessità di richiamare sin da ora alcuni punti fermi sulla libertà costituzionale di riunione e sui limiti all’uso della forza da parte delle polizie. 

Secondo l’articolo 17 della Costituzione, i cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz'armi e per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso. Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica.

L’articolo 18 della legge in materia di sicurezza pubblica prevede, è vero, l’obbligo per i promotori di una di riunione in luogo pubblico di darne avviso almeno tre giorni prima al questore, ma l’omesso avviso non rappresenta una condizione di illegittimità della riunione né un’automatica presunzione di pericolo per l’ordine pubblico. All’omissione dell’avviso, infatti, consegue solo la facoltà (non l’obbligo), per il questore, di ordinare lo scioglimento della riunione. 

Tale facoltà, incidendo su un diritto costituzionalmente garantito, deve essere di stretta interpretazione, il che significa, in primo luogo, che il motivo dello scioglimento deve rigorosamente inerire a ragioni di sicurezza e non al merito o al tema della manifestazione. In secondo luogo, sono previste delle modalità per lo scioglimento della riunione agli articoli 24 e 25 del regolamento di attuazione della stessa legge, le quali non autorizzano in alcun modo un uso indiscriminato o sproporzionato della forza. 

L’uso della forza è legittimo solo quando sia inevitabile per effettive ragioni di sicurezza degli agenti e della collettività. 

Per questo, nel prendere atto che in questo caso si è fatto ricorso all’uso della forza nei confronti di un corteo composto da studenti per lo più minorenni, e tutti disarmati, ci aspettiamo che le autorità preposte avviino immediatamente tutti gli accertamenti per chiarire questo episodio, compresa l’identificazione degli agenti.

E, proprio in questa prospettiva, torniamo ad auspicare la revisione delle disposizioni del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, nella parte in cui esso si pone in frizione con l’art. 17 della Costituzione e l’approvazione di una legge che imponga agli addetti ai servizi di ordine pubblico di indossare elementi identificativi che ne consentano sempre l’individuazione.

Si tratterebbe di una previsione che costituirebbe una garanzia per tutti gli operatori di pubblica sicurezza che svolgono correttamente il loro servizio e, soprattutto, un minimo presidio di garanzia per tutti i consociati che intendono esercitare le loro libertà costituzionali.


L’Esecutivo di Magistratura democratica


(Tratto da: https://www.magistraturademocratica.it/articolo-preview/nm65d922e92dd2b3-96738206).

Lettera aperta di alcuni docenti del Liceo Artistico “Russoli” di Pisa che hanno assistito alle violenze della polizia

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Lettera aperta di alcuni docenti del Liceo Artistico “Russoli” di Pisa


Siamo docenti del Liceo artistico “Russoli” di Pisa e oggi siamo rimasti sconcertati da quanto accaduto in Via San Frediano, di fronte alla nostra scuola.

Studenti per lo più minorenni sono stati manganellati senza motivo perché il corteo che chiedeva il cessate il fuoco in Palestina, assolutamente pacifico, chissà mai perché, non avrebbe dovuto sfilare in Piazza Cavalieri. Gli agenti in assetto antisommossa avevano chiuso la strada e attendevano i ragazzi con scudi e manganelli, mentre dalla parte opposta le forze dell’ordine chiudevano la via all’altezza di Piazza Dante. In Via Tavoleria un’altra squadra con scudi e manganelli.

Proprio di fronte all’ingresso del nostro liceo, hanno fatto partire dapprima una carica e poi altre due contro quei giovani con le mani alzate. Non sappiamo se siano volate parole forti, anche fuori luogo, d’indignazione e sdegno, fatto sta che, senza neanche trattare con gli studenti o provare a dialogare, abbiamo assistito a scene di inaudita violenza. Ci siamo trovati ragazze e ragazzi delle nostre classi tremanti, scioccate, chi con un dito rotto, chi con un dolore alla spalla o alla schiena per manganellate gentilmente ricevute, mentre una quantità incredibile di volanti sfrecciava in Via Tavoleria.

Come educatori siamo allibiti di fronte a quanto successo oggi. Riteniamo che qualcuno debba rispondere dello stato di inaudita e ingiustificabile violenza cui sono stati sottoposti cento-duecento studenti scesi in piazza pacificamente: perché si è deciso di chiuderli in un imbuto per poi riempirli di botte? Chi ha deciso questo schieramento di forze, che neanche per iniziative di maggior partecipazione e tensione hanno attraversato la nostra città?

Oggi è stata una giornata vergognosa per chi ha gestito l’ordine pubblico in città e qualcuno ne deve rispondere.


Alcuni docenti del Liceo Artistico “Russoli” di Pisa

Documento approvato a maggioranza dal Collegio dei docenti del Liceo Scientifico Antonio Gramsci” di Firenze il 27 febbraio 2024

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Documento approvato a maggioranza dal Collegio dei docenti del Liceo Scientifico “Antonio Gramsci” di Firenze il 27 febbraio 2024


Come docenti del Liceo Scientifico “A. Gramsci” non possiamo non rimanere sgomenti di fronte alle immagini che da venerdì circolano in rete: tra Firenze e Pisa, lavoratori e studenti, anche giovanissimi, brutalmente aggrediti mentre manifestano pacificamente.

Manifestiamo, senza titubanza, solidarietà agli studenti e ai lavoratori aggrediti ribadendo il diritto al libero e pubblico dissenso, come elemento costitutivo di ogni democrazia che tale si definisca.

Riaffermiamo il diritto di ogni essere umano alla pace e alla resistenza contro ogni violenza, contro ogni guerra e contro ogni forma di sopraffazione.

Come educatori e cittadini, ci stringiamo intorno alla comunità scolastica tutta, ai ragazzi coinvolti e alla famiglie, con la promessa e la convinzione che non possa darsi progresso sociale né civile, senza una continua educazione alla pace, alla libertà, alla giustizia e al pensiero critico.

Documento di un gruppo di docenti del Liceo Scientifico Statale “Leonardo da Vinci” di Firenze

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LA RISPOSTA


Forse chi non insegna ignora che i docenti ogni giorno sono interrogati più di quanto non interroghino.

Quotidianamente noi insegnanti abbiamo di fronte platee di occhi che vogliono sapere, cittadine e cittadini giovanissimi cui è stato insegnato fin da piccoli a credere solo in ciò che poteva essere scientificamente provato, a non ritenere che l'obbedienza sia una virtù, a combattere contro le ingiustizie, le soverchierie.

Ogni giorno ci misuriamo con le domande delle nostre studentesse e dei nostri studenti, spesso più difficili di quelle che noi rivolgiamo a loro. Non abbiamo risposte, il nostro compito è aiutarli a cercarle fornendo loro gli strumenti delle nostre discipline e incoraggiarli ad essere sempre very demanding.

Chi come noi conosce da vicino gli adolescenti sa che essi nutrono spesso una certa diffidenza nei confronti del mondo adulto ma che, al tempo stesso, non vogliono né possono essere lasciati soli davanti alle loro fragilità, ai loro bisogni, ai vuoti delle loro esistenze, delle loro periferie, delle loro famiglie nebulizzate quando non ostili.

Ogni giorno siamo chiamati a rispondere, cercando di instillare nei ragazzi la fiducia in noi, nell'istituzione scolastica e in tutte le altre istituzioni che possono trovare nel territorio, i servizi sociali, i medici del S.S.N., le forze dell'ordine, quelle che con indubbia professionalità da anni collaborano con noi nei molti progetti che attiviamo per contrastare il senso di solitudine, di abbandono e di impotenza che talvolta pervade i giovani uomini e le giovani donne della nostra società.

Oggi però non sappiamo che cosa rispondere ai nostri studenti che ci chiedono: perché?

Per questo rivolgiamo la stessa domanda al nostro Ministro dell'Interno Matteo Piantedosi: perché?

Perché proprio chi avrebbe dovuto proteggere i nostri ragazzi, minorenni, li ha colpiti a manganellate mentre sfilavano inermi, a volto scoperto?

Se l'uso della forza è legittimo solo quando sia inevitabile per effettive ragioni di sicurezza degli agenti e della collettività, perché è stato usato in modo indiscriminato e sproporzionato su dei liceali disarmati?

Ministro Piantedosi, perché non ha ancora dichiarato che renderà conto davanti al Parlamento del suo operato e di quello delle forze di polizia che sono intervenute con i manganelli ai cortei di Pisa e Firenze lo scorso 23 febbraio?


Firenze, Liceo Scientifico Statale “Leonardo da Vinci”, 24/02/2024

Seguono 36 firme.

Noi a scuola facciamo così…

dai docenti del Liceo Classico Statale “Vittorio Emanuele II” di Palermo

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Noi a scuola facciamo così:

Noi a scuola insegniamo l’educazione civica.

Noi a scuola insegniamo il rispetto delle leggi.

Noi a scuola insegniamo i valori della Costituzione Repubblicana.

Noi a scuola insegniamo il rispetto dell’altro.

Noi a scuola insegniamo la libertà di espressione.

Noi a scuola insegniamo il valore dell’argomentazione a sostegno della propria opinione.

Noi a scuola insegniamo il valore della parola contro l’esercizio della forza fisica.

Noi a scuola insegniamo il valore della parola non ostile.

Noi a scuola insegniamo la storia greca e la storia romana.

Noi a scuola insegniamo che in Grecia e a Roma esistevano spazi pubblici come l’agorà e il foro a cui nessuno poteva sognarsi di interdire l’accesso a nessuno, e che nessun cittadino poteva usare violenza fisica contro un altro cittadino, e che quando questo accadeva (perché è anche accaduto) sono stati i periodi più bui della storia della Grecia e di Roma: si chiamava guerra civile.

Noi a scuola insegniamo la storia delle rivoluzioni.

Noi a scuola insegniamo la storia della democrazia.

Noi a scuola insegniamo la storia delle lotte per i diritti.

Noi a scuola insegniamo la dichiarazione dei diritti dell’uomo.

Noi a scuola insegniamo l’habeas corpus.

Noi a scuola insegniamo che la legge non può prevaricare sulla dignità della persona e non può mettere in pericolo l’incolumità fisica dell’individuo.

Noi a scuola insegniamo che l’odio è una cosa brutta.

Noi a scuola insegniamo che la violenza è una cosa brutta.

Noi a scuola insegniamo la lotta alla violenza in tutte le sue forme: bullismo e cyberbullismo, femminicidio, mafia, guerra.

Noi a scuola insegniamo la cittadinanza.

Noi a scuola insegniamo che la cittadinanza è partecipazione.

Noi a scuola insegniamo la legalità.

Noi a scuola insegniamo la pace.

Noi a scuola insegniamo il valore della diplomazia per risolvere i conflitti internazionali.

Noi a scuola insegniamo il valore della nonviolenza e del dialogo per risolvere tutti i conflitti.


Le ragazze e i ragazzi di Pisa e di Firenze hanno dimostrato di aver imparato quello che da decenni di storia repubblicana noi gli insegniamo a scuola. E ieri ci hanno restituito la lezione.

Le ragazze e i ragazzi di Pisa e di Firenze per questo ieri sono stati caricati, umiliati, terrorizzati, picchiati a sangue.

Forse è questo che si intende per educazione ai sentimenti e all’affettività?

Diteci dove abbiamo sbagliato.


Firmato da docenti di scuola e università, da cittadine e cittadini

Liceo Classico Statale Vittorio Emanuele II di Palermo:

Caterina Ferro

Gabriele Giuffrè

Roberta Pizzullo

Marta Clemente

Claudia Vassallo

Renata Racalbuto

Anna Maria Farina

Giovanni Di Benedetto

Marina Buttari

Francesca Notaro

Carolina Miceli

Giovanna Marrone

Silvana Lo Brutto

Francesco Machì

Nunzia M. Teresa Montesanto

Anna Spica Russotto

Valentina Ciulla

Salvatore La Mendola

Tiziana Nicolosi

Rosaria Di Fiore

Antonella Uttuso

Angela Drago

Francesca Milazzo

Chiara Insinga

Tiziana Gurreri

Lorenzo Palumbo

Giovanna Somma

Roberto Crinò

Fortunata Salomone

Liliana Lo Giudice

Ivana Carbone

Maria Stella Tripisciano

Rosa Bivona

Antonella Sorci

Eleonora Militello

Cinzia Casamento

Francesca Lo Faso

Piero Favuzza

Roberto Lopes 


Docenti di altre scuole di Palermo:

Liceo Scientifico Benedetto Croce di Palermo:

Dario Librizzi

IIS D’Alessandro di Bagheria:

Valentina Mangiaforte

Liceo Classico Garibaldi di Palermo:

Neva Galioto

Carmen Bonanno

Emanuele Lanzetta

Liceo Classico Meli di Palermo:

Ausilia Andaloro

Carmen Rotolo

Daniela Sortino

Finella Giordano

Anna Bellomo

Maria Roberta Marchese 

Liceo Classico Umberto I di Palermo:

Ada Magno

Alessandro Armata

Fabio D’Agati

I.C. Capuana:

Mariangela Bologna

Gabriella Spennacchio

I.C.S. Sperone Pertini:

Nino Termotto

Istituto Duca degli Abruzzi - Libero Grassi:

Pietro Giammellaro

Leonardo Saguto

Istituto Finocchiaro Aprile di Palermo:

Gabriele Barbera

Linda Miriam Fontana 

Liceo Scientifico Einstein di Palermo:

Valeria D’Anna

Filippo Giuffrida

Domenico Basile  

Marina Patti

Liceo Regina Margherita di Palermo:

Simona Cossentino

Liceo artistico Ragusa-Kiyohara di Palermo:

Luciano Carone

ITI Alessandro Volta di Palermo:

Giuseppe Messineo

Scuola media Cesareo di Palermo:

Adria Tomasino

Angela Varisano

Valentina Gennaro

Federica Di Liberto

Anna Sorci

Rossana Maragioglio

Gilda Terranova

Chiara La Cecla

Gilda Arcuri

Giorgia La Placa

Dario Ferrigno

Rosa Maria Barreca

Katia Orlando

Irene Minutella

Daniela Scibilia

Alessandra Siragusa

Annalisa Guarneri

Anna Maria Balistreri

Daniela Valenziano

Tania Amato

Alessia Di M

Domenico Conoscenti

Adriana Arcuri

Silvia Governanti

Valentina Chinnici

Stefania Giambalvo

Giuseppina Altamore

Francesca Levito

Paola Macaluso

Brigida Cucchiara

Lorenzo Canale

Sara Brunno

Margherita Di Mariano

Adriana Saieva

Carmen Cera

Emiliana Montera

Marina Sajeva

Elena La Rocca

Giovanna Scarani

Valeria Balsano

Lia Valenza

Ferdinando Siringo

Lidia Mulè

Federica Anzalone

Elisa Orlando

Sabrina Ferro

Cetti Cinà

Sabrina Gullo

Marilena Vitrano

Dora Cinà

Angelo Spataro

Giovanna Di Vita

Anna Ferrara

Università degli Studi di Palermo

Paola Sconzo

Carolina Di Patti

Marina Castiglione

Elena Mignosi

Aurelio Burgio

Emilia Valenza

Adele Ferro

Maria Pia Lombardino

Teresa Calabrese

Laura Nocilla

Angela Mannino

Marisa Cottone

Francesca Albergamo

Giuseppe Castellese

Patrizia Lo Presti

Francesco Seminara

Alessandra Sternheim

Valeria Cuffaro

Filippo Cerniglia

Maria Concetta Stassi

Vera Vaccaro

Silvana Sardina

Roberto Zampardi

La strage di operai a Firenze

Gli appalti sono una montagna di merda

di Dario Salvetti*

«Si investe consapevolmente sullo spezzettamento del lavoro. Questo non solo garantisce salari più bassi oggi, ma li garantisce domani e dopodomani. Non solo garantisce di comprimere il numero di assunzioni, ma spezza alla base il concetto stesso di contratto a tempo indeterminato, giacché di fatto ogni rinnovo di appalto è potenzialmente una perdita di lavoro».

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Gli appalti sono una montagna di merda


di Dario Salvetti*


Ad oggi quello che sappiamo è che in un fazzoletto di cemento – stiamo parlando di un supermercato – erano presenti 35 ditte e 60 subappalti. Sappiamo che la prima ipotesi – tutta da verificare, va da sé – non è che ci sia stato un cedimento dei materiali, ma un errore “di processo”. Una delle ditte avrebbe iniziato la colata di cemento quando un’altra non aveva ancora fissato la trave. Ragione per cui “sotto la lente degli inquirenti è finita proprio la complessa filiera di appalti e subappalti” (Ansa).

35 ditte, 60 subappalti, sono un inno all’errore, allo spreco, all’inefficienza. Una simile giungla è prima di tutto incompatibile con la fluidità del processo produttivo. È una moltiplicazione inutile di direttive, piccole gerarchie, spese amministrative. Un sistema che si autoproclama tendente alla massima efficienza dovrebbe tendere alla semplificazione.

Il punto è che in questo sistema obiettivo del lavoro non è il lavoro di per sé, non la sua materialità, non la sua qualità. L’obiettivo è la profittabilità del lavoro. E ciò che appare inefficienza, in verità è il meccanismo necessario alla realizzazione del massimo profitto. E ciò che appaiono costi inutili, sono in verità un investimento con il suo ritorno ben calcolato.

Si investe consapevolmente sullo spezzettamento del lavoro. Questo non solo garantisce salari più bassi oggi, ma li garantisce domani e dopodomani. Non solo garantisce di comprimere il numero di assunzioni, ma spezza alla base il concetto stesso di contratto a tempo indeterminato, giacché di fatto ogni rinnovo di appalto è potenzialmente una perdita di lavoro.

Ancora più di questo, ciò che l’appalto produce è una maggiore difficoltà a conoscere il processo produttivo, il diritto contrattuale. E più di ogni altra cosa produce una difficoltà a conoscersi e riconoscersi tra pari. In poche parole, è un potente strumento di disumanizzazione.

Chiunque abbia mai lavorato a contatto con appalti non può non avere notato lo strano funzionamento della psicologia umana. Non solo dove la prestazione è saltuaria, ma anche quando si tratta di lavoratrici/lavoratori che lavorano quotidianamente sotto lo stesso tetto, contribuendo alle diverse funzioni necessarie per la riuscita del lavoro, fissi, precari, appaltati, subappaltati tendono a non riconoscersi come parte di una unica funzione.

Giacchette diverse, contratti diversi, punti di accesso diversi, diritti basilari negati per alcuni – come lo spogliatoio o la mensa ad esempio – che diventano privilegi ad occhi di altri, direttive diverse, contrastanti, scaricabarile continuo tra livelli decisionali lasciando poi spesso i lavoratori a prendersela tra di sé: tutto questo a discapito di qualsiasi basilare logica dell’organizzazione del lavoro, ma perfettamente in linea con quella del massimo profitto da trarre dal lavoro.

Primo e fondamentale obiettivo: disumanizzare, renderci irriconoscibili tra di noi.

Ora tutti si indignano. Ma provate voi a fare una trattativa con qualsiasi direzione aziendale per una reinternalizzazione di una portineria, di una mensa, di un servizio di pulizie, senza essere guardati come dei piccoli insurrezionalisti.

Che poi questa è la differenza fondamentale. Noi restiamo umani, o almeno ci proviamo, sempre, in ogni cosa che facciamo. Deriviamo la nostra idea di ciò che deve essere un “sistema” dalla materialità della vita, del lavoro, dei molteplici bisogni del nostro corpo e della nostra testa.

Questo è un sistema disumano, che ha bisogno di disumanizzare. E copre la propria ipocrisia dando un nome solo ai morti.

Si conosce i nostri nomi, quanti figli abbiamo, da quale paese arriviamo, solo quando veniamo estratti dalle macerie, in pace come in guerra. Che poi per la nostra classe la pace è solo una guerra con intensità diversa e la ripresa solo una diversa gradazione della crisi.


Dario Salvetti*


* Dario Salvetti è membro del Collettivo di fabbrica Lavoratori GKN Firenze.


(Tratto dal profilo Facebook di Dario Salvetti, Collettivo di Fabbrica - Lavoratori GKN Firenze: https://www.facebook.com/dario.salvetti3).


Inserito il 19/02/2024.

Dal blog di Giorgio Cremaschi

Firenze: la strage della vergogna

di Giorgio Cremaschi

Nessuna fatalità né errore umano: il crollo è colpa di un sistema criminale

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A Firenze nessuna fatalità né errore umano: il crollo è colpa di un sistema criminale


di Giorgio Cremaschi


Magüt sono chiamati in Lombardia i muratori cottimisti che si alzano alle tre del mattino per salire sui furgoni che li portano nei cantieri edili. Tanti magüt partivano dalle province di Brescia e Bergamo perché queste erano le prime terre di lavoro del Nord. Succede ancora, ma oggi sono in gran parte migranti coloro che partono all’alba dalle stesse province.

Dei cinque operai uccisi a Firenze nel crollo del cantiere della Esselunga (già sotto inchiesta a Milano per evasione fiscale nel mondo degli appalti) tre erano marocchini, uno tunisino. Tutti risiedevano a Palazzolo, tra Brescia e Bergamo. I tre feriti sono rumeni e l’ultimo ucciso è un operaio sessantenne proveniente dal Mezzogiorno d’Italia.

La strage di Firenze è una immagine e un concentrato di tutte le ingiustizie e della criminalità economica che uccidono migliaia di operai ogni anno in Italia. Il crollo del cantiere addosso a chi ci lavorava sembra uscire da un film di Dymitryk del 1949, Cristo tra i muratori, dove Geremia, migrante italiano nell’America di cento anni fa, moriva sotto le mura della casa che costruiva.

Dopo un secolo in Italia si viene uccisi allo stesso modo e si sente dire che potrebbe essere per un errore umano. Come se oggi non ci fossero tutti i mezzi tecnologici e organizzativi per prevenire gli errori umani. L’errore umano non esiste, esiste la criminalità omicida dello sfruttamento e dello schiavismo di stato.

Dalle ultime notizie pare che la trave che è crollata sugli operai non fosse ancora fissata, ma che i muratori avessero lo stesso cominciato a versare il cemento, perché? Perché erano di una impresa diversa da quella che fissa le travi, e tra le due imprese d’appalto evidentemente non ci sono state comunicazioni.

La frantumazione delle attività di un cantiere in tante microimprese, tra loro in competizione al ribasso sui costi, e la mancanza di coordinamento tra di esse non sono errori, sono un modello organizzativo criminale che ha il solo scopo del massimo profitto. Tutte le leggi in questi anni hanno reso più facile ed agevole appalto e subappalto fino all’ultimo decreto del governo che li liberalizza ancora, nel nome di quel “non disturbare il fare” annunciato da Giorgia Meloni nel suo insediamento. E poi l’assenza di controlli ha permesso che anche queste leggi fossero ignorate, non solo nei cantieri, ma ovunque. È un semplice calcolo delle probabilità quello che fanno gli imprenditori: se su decine migliaia di imprese solo qualche centinaio viene controllato, conviene far lavorare come cento anni fa: sono soldi in più. Certo poi accade la strage, ma tutti gli altri possono continuare come prima, è la legge del capitalismo, mors tua vita mea.

Che potere hanno i lavoratori di pretendere di lavorare in sicurezza? Potevano gli operai del cantiere di Firenze fermarsi e pretendere di verificare se la trave sopra di loro fosse a posto? Ma quando mai, per avere il diritto di fermarsi per salvare la propria vita bisognerebbe avere un posto fisso, sicuro, tutelato dalla minaccia del licenziamento. Proprio chi fa i lavori più duri dovrebbe avere i contratti più forti, invece è esattamente il contrario. Tutte le leggi sul lavoro, ultimo il Jobs act, hanno distrutto il diritto del lavoratore a dire no alle condizioni di rischio, estendendo la precarietà. Non ti va di lavorare così? Quella è la porta. Così nell’organizzazione del lavoro il diritto è stato sostituito dal ricatto.

E il massimo del ricatto lo subiscono i lavoratori migranti, per i quali esso diviene doppio: non solo la minaccia di licenziamento, ma quella della clandestinità. Il padrone, grazie alla Bossi-Fini, non solo può cacciare il migrante rompiscatole, ma può togliergli il permesso di soggiorno, che nella sostanza è stato privatizzato. Così il caporalato diventa legge.

In Italia i cantieri edili, gli allevamenti nelle stalle, la coltivazione nei campi, la logistica, la metallurgia, la cantieristica navale, la ristorazione, il turismo, si fermerebbero senza il lavoro dei migranti. Che oramai vengono indirizzati per specializzazioni legate alla provenienza. I nordafricani con il mattone, gli indiani con le mucche, i bengalesi e i pakistani nei magazzini, i senegalesi e gli ivoriani nei campi. L’Italia si fermerebbe senza il lavoro dei migranti, ma questo lavoro è oppresso dal doppio ricatto della precarietà e dello schiavismo razzista. E anche qui lo Stato o è direttamente colpevole con le sue leggi, o è complice con la sua assenza.

Infine l’operaio italiano morto aveva sessant’anni: si alza sempre di più l’età delle vittime del lavoro e anche questo è il risultato di leggi, quelle che hanno abolito nei fatti le pensioni di anzianità, di cui usufruivano soprattutto gli operai sottoposti ai lavori più faticosi.

Insomma la strage di Firenze non è una tragica fatalità, né tantomeno l’effetto di un errore umano, ma il prodotto di un sistema criminale dove lo schiavismo e il disprezzo della vita dei lavoratori sono diventati legge. La legge che impone come priorità la riduzione del costo del lavoro.

Oggi uccidere gli operai per profitto è il reato più conveniente e impunito in Italia. Ci vuole una legge che colpisca e prevenga davvero gli omicidi sul lavoro e poi bisogna ribaltare tutto il sistema legislativo che ha istituito lo schiavismo di Stato. Il 20 febbraio siamo con i lavoratori in sciopero sotto il Ministro del Lavoro. Basta chiacchiere e lacrime ipocrite di palazzo mentre la strage continua.


20 febbraio 2024


Giorgio Cremaschi


(Tratto dal blog di Giorgio Cremaschi sul sito del quotidiano «Il Fatto Quotidiano»: https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/02/20/a-firenze-nessuna-fatalita-ne-errore-umano-il-crollo-e-colpa-di-un-sistema-criminale/7451696/).


Inserito il 21/02/2024.

Francesco Del Casino, Gramsci insorge con la GKN (2023).

Fonte della foto: pagina Facebook Collettivo Di Fabbrica - Lavoratori GKN Firenze

Gramsci insorge con la GKN

Opera (2023) del maestro senese Francesco Del Casino donata ai lavoratori in lotta in occasione della sentenza del Tribunale di Firenze che considera illegittimo il licenziamento collettivo dei 185 dipendenti GKN di Campi Bisenzio (Firenze).

Francesco Del Casino è nato a Siena, dove si è diplomato maestro d’arte al locale Istituto d’Arte. Tra il 1965 e il 1985 ha insegnato Educazione artistica alla Scuola media di Orgosolo (Nuoro), e insieme agli studenti ha affrescato con murales i muri delle abitazioni del paese ispirandosi alla storia e alle lotte del dirigente comunista sardo Antonio Gramsci, vittima della repressione fascista. Tornato a Siena, continua la sua carriera artistica come pittore di murales, scultore, ceramista e illustratore.

Il collettivo di fabbrica GKN continua la sua lotta per un futuro di reindustrializzazione e di dignità umana e civile, una lotta aperta ed estesa a tutte le realtà che cercano la strada dell’emancipazione dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

21 novembre 2023. Presidio degli studenti davanti al Rettorato dell’Università di Firenze.

Fonte della foto: https://www.055firenze.it/art/224082/Firenze-presidio-per-la-Palestina-allUniversit-Siamo-stati-caricati-manganellati

21 novembre 2023. La polizia cerca di impedire l’accesso degli studenti universitari alla sede di Piazza Brunelleschi.

Fonte della foto: https://www.055firenze.it/art/224082/Firenze-presidio-per-la-Palestina-allUniversit-Siamo-stati-caricati-manganellati

29 novembre 2023. Protesta degli studenti universitari davanti al Rettorato dell’Università di Firenze.

Fonte della foto: https://www.055firenze.it/art/224251/Studenti-in-lotta-per-la-Palestina-occupato-il-plesso-Brunelleschi-dellUniversit-di-Firenze

Firenze

UNIFI COMPLICE DEL GENOCIDIO, BASTA ACCORDI CON ISRAELE!

PALESTINA LIBERA!

Comunicato sui fatti del 21 novembre

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COMUNICATO SUI FATTI DEL 21 NOVEMBRE


UNIFI COMPLICE DEL GENOCIDIO, BASTA ACCORDI CON ISRAELE!

PALESTINA LIBERA!


Martedì 21 novembre 2023, in concomitanza con la seduta del senato accademico, un nutrito gruppo di studentx si è ritrovato in presidio di fronte al rettorato.


Le richieste erano le seguenti: una presa di posizione netta dell’Ateneo e della rettrice sul cessate il fuoco a Gaza e sui crimini di Israele, la cessazione completa di tutti gli accordi con atenei e istituzioni israeliane e con tutte le aziende belliche del nostro territorio.

La mozione presentata dallx rappresentanti dellx studentx è stata però bocciata dalla rettrice Petrucci, che ha il potere di impedire una discussione qualora questa “leda l’onorabilità dei singoli e il prestigio delle istituzioni” (art. 44 - regolamento generale d’ateneo).

Così facendo ha manifestato la sua mancanza di volontà di esprimersi chiaramente trincerandosi dietro una presunta neutralità dell’istituzione universitaria. La stessa che però ha all’attivo numerosi accordi con atenei israeliani, aziende belliche e apparati militari stranieri; legami tutt’altro che neutri ma chiaramente schierati dalla parte dei responsabili di questo conflitto.


Appurata l’impossibilità di un dialogo con l’ateneo, lx studentx hanno deciso di muoversi tuttx insieme verso Brunelleschi, per chiamare un’assemblea nel plesso.

Nonostante fosse stato comunicato il nostro intento, la polizia, che durante tutta la mattina è rimasta a difendere il rettorato come un fortino, ha risposto caricando prima in Santissima Annunziata e poi all’ingresso della biblioteca di Brunelleschi cercando di impedirne l’accesso.

Noi studentx siamo la componente fondamentale dell’Università, è inammissibile che ci venga impedita la possibilità di parlare di un genocidio in corso, di problematizzare le decisioni del nostro ateneo. Da una parte veniamo ingnoratx nelle sedi istituzionali che ci vengono sempre raccontate come unica via legittima per avere un dialogo, dall’altra troviamo manganelli e repressione nel momento in cui cerchiamo di far sentire la nostra voce nelle nostre sedi.

In questi giorni abbiamo sentito da giornali e telegiornali una versione falsata e faziosa della vicenda, messa in piedi e diffusa dalla Questura con l’intento deliberato di screditare la protesta studentesca e giustificare le manganellate. È stato affermato che lx studentx volevano dirigersi verso la Sinagoga, quando era stato esplicitamente detto che la destinazione era il chiostro della biblioteca di Brunelleschi.


Ripudiamo ogni forma di strumentalizzazione di un presunto antisemitismo che devia l’attenzione dal focus della questione: non prendendo posizione sul genocidio che Israele sta commettendo nei territori palestinesi occupati non da un mese, ma da 75 anni, l’Università si schiera apertamente al fianco del regime sionista.

Non siamo ingenux, sappiamo benissimo che il nostro ateneo riflette, al pari delle altre istituzioni del nostro paese, gli interessi del blocco NATO e che da questi è restio a discostarsi. Noi studentx però sappiamo da che parte stare, lontano da ogni complicità con Israele, al fianco della resistenza palestinese.


Mercoledi 29 torniamo a bussare alle porte del rettorato, in occasione della seduta del CDA, per far sentire la nostra voce e le nostre rivendicazioni.

Ci vediamo in piazza San Marco alle 9.00, per un’università non più sporca di sangue, per una Palestina finalmente libera!


(Tratto dalla pagina Facebook degli Studenti di Sinistra dell’Università di Firenze, 24 novembre 2023: https://www.facebook.com/studenti.disinistra.1).


Inserito il 09/12/2023.

Palestina libera!

L’occupazione è terminata ma la mobilitazione non finisce

Comunicato sulla fine dell’occupazione dell’Università di Firenze

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L'OCCUPAZIONE È TERMINATA MA LA MOBILITAZIONE NON FINISCE


Dopo 4 giorni finisce l'occupazione ma continueremo a portare nei nostri spazi universitari il tema del genocidio palestinese, richiedendo che l’ateneo prenda posizione rispetto alle richieste della comunità:


- Una presa di posizione ufficiale da parte di UniFi sul cessate il fuoco in solidarietà alla Palestina e una conseguente condanna ad Israele per il genocidio in atto da più di un mese ai danni del popolo palestinese.


- La rescissione di tutti gli accordi tra UniFi e istituzioni accademiche israeliane.


- La rescissione di ogni accordo con le industrie belliche coinvolte in progetti didattici e di ricerca, e con i loro istituti culturali come MedOr (Leonardo). Richiediamo inoltre la fine di ogni legame con la NATO, organizzazione che da anni alimenta questa oppressione.


- La piena trasparenza di tutti i suddetti accordi affinché di questi siano chiari e accessibili i contenuti e gli scopi preposti. È inaccettabile che vengano tenuti nascosti da clausole di segretezza per impedirci di conoscerne l'eventuale scopo bellico.


(Tratto dalla pagina Facebook degli Studenti di Sinistra dell’Università di Firenze, 4 dicembre 2023: https://www.facebook.com/studenti.disinistra.1).


Inserito il 09/12/2023.

Firenze

Licei occupati: le ragioni forti degli studenti

Di fronte a un sistema che genera precarietà e dispersione scolastica, di fronte a una società dominata da istinti di bellicismo e di violenza di genere, di fronte a un governo che svilisce il ruolo della scuola pubblica per accentuare le divisioni fra le classi sociali, il mondo studentesco esprime la propria insoddisfazione occupando le scuole.

È il caso, in questo fine novembre 2023, dei Licei fiorentini “Michelangiolo” e “Gramsci”, occupati dagli studenti per “gridare” forte la loro rabbia.

Nell’esprimere la nostra solidarietà verso di loro e il nostro appoggio alle loro istanze, riproduciamo i documenti degli studenti occupanti del Liceo Scientifico “Antonio Gramsci” e del Liceo Classico “Michelangiolo”.

Il documento degli studenti del Liceo Scientifico “A. Gramsci”

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Occupazione Liceo “A. Gramsci” 2023


In questi tempi difficili, noi giovani, inesperti e impotenti davanti a un mondo che fa paura, davanti a un mondo piegato da guerre, fame, arricchimento di pochi e impoverimento di tanti, riscaldamento globale, cerchiamo conforto in un ambiente sicuro, libero. Che ci formi ed entusiasmi per quello che sarà poi il nostro ruolo là fuori, nella società.


Da anni, ormai, questo ambiente, la nostra scuola, ci sta venendo sottratto. Non staremo a guardare, mentre lo Stato non considera l’istruzione pubblica una priorità, favorendone la privatizzazione, non offrendo a tutti i mezzi per diventare futuri cittadini migliori, protagonisti di un mondo tutto da ricostruire.

È sempre meno al centro del dibattito politico. Come dimostra il mancato impegno nella gestione dei fondi nazionali a favore della scuola pubblica, in opposizione all’aumento alle scuole private, per le quali sono già stati predisposti 70 milioni. L’Italia, infatti, si classifica negli ultimi posti in Europa per percentuale di PIL investito nell’istruzione.


O come dimostra la decentralizzazione degli istituti e il loro accorpamento, incrementando ancora di più la dispersione scolastica italiana, già sopra la media europea.

Il tutto previsto nella manovra Valditara.


Riguardo ai pochi fondi, i problemi strutturali negli istituti ne sono una diretta conseguenza. Anche nella nostra scuola ce ne sono e meritano la giusta attenzione: la mancanza di termosifoni funzionanti durante dicembre, i buchi nel soffitto dell’aula di informatica, le finestre rotte compromettono il comfort degli studenti, le infiltrazioni d’acqua in palestra e le porte di sicurezza difettose rendono l’ambiente poco sicuro.

Nonostante questo, siamo considerati fortunati, vivendo, in fin dei conti, in un ambiente accettabile. La nostra “fortuna” deve far riflettere sulla condizione degradata di tanti altri istituti.


Per non parlare degli insegnanti, dentro a questo sistema tanto quanto noi. Il loro ruolo cruciale è stato eroso da una carenza di incentivi e da una mancanza di riconoscimento adeguato. Denunciamo energicamente questa condizione che mina il fondamento stesso del nostro futuro.

L’insegnamento non può essere un mestiere di serie B. La passione per la trasmissione del sapere e la guida delle nuove generazioni si sta perdendo fra responsabilità crescenti e retribuzioni inadeguate. Questa realtà si ripercuote direttamente sugli studenti, compromettendo la qualità dell’istruzione e il loro percorso di apprendimento.


E se questo non bastasse anche quel poco che ci resta viene sempre più piegato da quelle logiche utilitaristiche e aziendaliste, fondamento di una scuola intesa come fabbrica di lavoratori, schiavi di una società e economia in mano a figli di famiglie benestanti che possono permettersi un percorso di studi che li occupi per altri anni dopo il diploma, supposta classe dirigente futura.

Una scuola indirizzata unicamente alla formazione di futuri lavoratori e non di futuri cittadini, non contribuendo di fatto ad una maturazione personale degli studenti.

Logiche ben espresse in provvedimenti, principalmente indirizzati a istituti tecnici e professionali, come un percorso di studi su quattro anni e un aumento di ore dell’alternanza scuola-lavoro.


Giorno dopo giorno ci sentiamo giudicati da quelle generazioni che hanno contribuito a questo futuro incerto. Futuro stremato dall’onnipresente ombra del cambiamento climatico. Di cui, i governi del mondo, schiavi del denaro, sono la causa. Come, nel nostro piccolo, l’alluvione di Campi Bisenzio ne è un esempio. Ancora una volta, a rimboccarsi le maniche siamo stati noi, vedendo una totale assenza delle istituzioni. Gli adulti che criticano la nostra frustrazione, la nostra mancanza di ideali e entusiasmo, dovrebbero, anziché ostacolarci, unirsi alla nostra rabbia, con la quale cerchiamo di arginare ciò che è sbagliato, per quello che è in nostro potere. Noi oggi occupiamo. Lotteremo per una scuola giusta, a disposizione di una generazione con voglia di riscatto.


Pur condannando l’attacco terroristico di Hamas contro Israele, ci schieriamo, infine, a fianco degli studenti universitari, manganellati dalla polizia perché accusati di antisemitismo, e, erroneamente, di star marciando verso la sinagoga, condannando il genocidio che si sta consumando nella striscia di Gaza.

Siamo profondamente allarmati dalla posizione passiva delle nostre istituzioni nei confronti del colonialismo, dell’apartheid e della pulizia etnica in corso in Palestina oggi.

Di fronte alle notizie raccapriccianti provenienti dal conflitto (sfollati, morti, crimini di guerra), il governo italiano ha continuato a sostenere le politiche criminali di Netanyahu, permettendo la vendita e il transito di armi verso Israele e rifiutando di votare persino la risoluzione ONU per una tregua umanitaria. Per sostenere un “alleato” sono disposti a giustificare tutto questo.

Sosteniamo la richiesta di un immediato cessate il fuoco e di un’immediata apertura dei corridoi per gli aiuti umanitari. La neutralità e l’imparzialità non favoriscono in alcun modo la pace, ma sostengono il genocidio in corso, opponendosi al valore della protezione dei diritti umani.

Oltre al cessate il fuoco immediato chiediamo un’azione continua contro il regime di apartheid costruito dallo Stato israeliano nei confronti del popolo palestinese. Il “cessate il fuoco” negoziato, infatti, non significherà la fine del massacro e dell’occupazione, che vanno avanti da oltre settantacinque anni. Le politiche israeliane di pulizia etnica e segregazione continueranno e i palestinesi continueranno a soffrirne le conseguenze attraverso espropriazione, discriminazione, lesioni e morte. La scuola, come luogo di educazione e crescita, ha la responsabilità morale e politica di condannare tali crimini.


Non possiamo fare a meno di sollevare la nostra voce contro ogni forma di autoritarismo che limiti i diritti fondamentali della persona. Ovunque si verifichino violazioni dei diritti umani, sia in guerra che nella nostra quotidianità, è nostro dovere condannare tali pratiche, dalla guerra, alla cattiva gestione dei governi italiani riguardo le migrazioni di massa, ai frequenti femminicidi.

A tal proposito, ricordiamo la giornata nazionale contro la violenza di genere del 25 novembre, con la quale abbiamo ricordato le 106 donne uccise quest’anno in Italia.


Per tutti questi motivi e per dichiararci apertamente e nettamente in dissenso dalle politiche di questo governo, occupiamo.


Gli studenti


Inserito il 30/11/2023.

Il documento degli studenti del Liceo ClassicoMichelangiolo

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Il comunicato degli studenti


In quanto studentə occupantə del liceo Michelangiolo”, si legge testualmente nel comunicato diffuso a firma degli “Studentə occupanti del liceo Michelangiolo”, “ci rivendichiamo la protesta dei prossimi giorni come lotta contro una società patriarcale che alimenta e giustifica atti di violenza di genere, contro questo sistema scolastico e la riforma Valditara, che ci proiettano soltanto verso il mondo del lavoro, che ci insegnano a competere gli uni con gli altri, ad essere sfruttatə e sfruttatorə di questa società classista”.

Con questa occupazione “vogliamo condannare questa società patriarcale che ha permesso l’uccisione di 106 donne solo quest’anno, un sistema che affonda le sue radici in un sistema capitalista volto solamente al profitto delle potenze imperialiste che ci opprimono. Vogliamo ancora una volta opporci a questa società marcia, vogliamo gridare la nostra rabbia, smontare questo sistema che ci propina solo carovita e taglio dei fondi su sanità, trasporti e istruzione, che permette il genocidio palestinese e curdo”.

“Alla luce di quanto accaduto negli ultimi giorni, a partire dal femminicidio di Giulia Cecchettin, abbiamo assistito all’ipocrisia di media e politici tra i quali lo stesso ministro dell’istruzione e del merito Valditara, che come sempre in queste occasioni, non hanno mancato di riempirsi la bocca di vuote parole al solo fine di zittirci e soffocare la nostra rabbia, invocando inutili minuti di silenzio. A noi questo finto dispiacere, questa finta indignazione, ma soprattutto questo insistente silenzio fanno schifo; non vogliamo tacere di fronte all’ennesimo femminicidio. Abbiamo intenzione di urlare e urleremo il nostro dissenso, grideremo che non è più accettabile la costruzione di un sistema che fomenta e incoraggia sessismo e violenza, che difende e giustifica chi lo compie e colpevolizza chi lo subisce”.

“Contestiamo e ripudiamo – si legge ancora – un sistema scolastico che da anni rimane fedele a logiche sessiste e patriarcali. […] Pretendiamo un’educazione consapevole e completa all’affettività e alla sessualità a partire dai primi anni di scuola. Riteniamo che questo percorso debba essere inclusivo e condotto da professionistə in grado di fornire una formazione integrale e oggettiva che non sia influenzata da dogmi patriarcali, conservatori e sessisti. Lotteremo e alzeremo le nostre voci fino a quando dalla scuola non verranno sradicate le radici di questo sistema ingiusto, vogliamo un’istruzione transfemminista, equa e che ci tuteli davvero”.

“Riteniamo impensabile affidare la nostra sicurezza a quelle stesse forze dell’ordine – si legge ancora – che fingono di difendere donne e cittadini, ma che non fanno che proteggere un ordine pubblico basato su sfruttamento, precariato, morti sul lavoro e in alternanza. Non ci fidiamo delle stesse forze dell’ordine che violentano ragazze, come i due carabinieri stupratori di due studentesse americane proprio qua a Firenze, come la stessa polizia che sabato 25 novembre ha caricato e manganellato lə compagnə scesə in piazza contro la violenza patriarcale. Non abbiamo alcuna fiducia verso chi ci opprime, ci sfrutta, ci uccide e ci stupra e verso quelli che li difendono. Non abbiamo intenzione di relegare a loro il compito di difenderci e farci giustizia, perché sappiamo bene che loro non sono i nostri difensori, ma sono quelli che quando chiediamo aiuto ci ignorano, che quando denunciamo ci umiliano, che cercano i nostri corpi solo quando veniamo ammazzate. […] Siamo stufə che ogni qual volta che una donna manifesta disagio per una situazione che la opprime e non la fa sentire al sicuro non venga mai e poi mai creduta, che le si dia della pazza, della bugiarda, della puttana, della colpevole. Non accettiamo più che una donna che denuncia episodi di violenza venga svalutata e smentita, fin quando non sarà la sua morte a darle ragione. Non accettiamo che istituzioni e politicanti di ogni sorta si facciano improvvisamente paladini del femminismo mentre per finanziare il genocidio in Palestina tagliano i fondi ai consultori e ai centri contro la violenza sulle donne, mentre sgomberano gli spazi autogestiti e sicuri delle case delle donne, mentre promuovono come emancipazione di genere la competizione tra oppressə e sfruttatə, spingendolə ad aspirare a ricoprire la stessa posizione di potere e dominio degli uomini”.

Infine, si legge ancora, “rivendichiamo la lotta del popolo palestinese che da 75 anni lo stato di Israele massacra e devasta. Crediamo nella lotta per la liberazione di un popolo oppresso dove l’oppressore commette da sempre crimini di guerra con l’aiuto dell'Occidente e della Nato, con l’appoggio militare dell’Italia che apre caserme e comandi militari su ogni fronte tagliando i fondi del pubblico, riversando su tutti noi le conseguenze economiche e sociali delle sue politiche di guerra”.


(Tratto da: https://www.firenzetoday.it/cronaca/occupato-michelangiolo-patriarcato.html).


Inserito il 30/11/2023.

Dal giornale «Il Fatto Quotidiano»

Come si fa il “Made in Italy” a Prato

di Leonardo Bison

Il “distretto del tessile” terra di nessuno. Il comparto è rinato con capitali stranieri, bassi salari e zero diritti. Oggi è in crescita, le aziende sanzionate pagano e non chiudono mai.

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“Al lavoro 12 ore 7 giorni su 7, così creiamo il Made in Italy”


Il primo gruppo di ragazzi pakistani si incrocia intorno alle 11 del mattino. Arrivano in bici, solo pochi parlano qualche parola di italiano. Siamo circondati da capannoni, tintorie, stamperie, pronto moda: quattro aziende diverse solo in questo viottolo, centinaia lungo la strada principale. “Io non ho paura, metti il mio nome”, chiarisce subito uno di loro, Rachid: “Scrivi tutto, la gente che lavora negli uffici con l’aria condizionata deve sapere quello che succede qui”. Tra poco inizia il loro turno, lavorano in tintoria. Spostare masse di tessuti bianchi, anche da decine di chili, dividerli, caricarli, centrifugarli, scaricarli bagnati, ricaricare, per 12 ore. Per sette giorni a settimana. Poche pause, pranzi in piedi. Fino a qualche settimana fa, spiegano, non avevano alcun contratto, poi è arrivato un controllo delle forze dell’ordine, e adesso ne hanno uno da 8 ore al giorno. L’azienda non ha mai chiuso, anzi, ieri ha chiesto a tutti loro di mandare una lettera in cui spiegano che, per motivi familiari, hanno esigenza di lavorare solo 4 ore al giorno: da contratto, perché l’orario reale resta sempre 12.


Siamo a Prato, in quello che è ormai il distretto tessile più grande d’Europa. Un gioiello produttivo del Made in Italy che, dopo la crisi del 2008, è riuscito non solo a salvarsi dalle chiusure ma a diventare competitivo a livello globale. Gli investimenti arrivano a pioggia, le aziende aprono una dopo l’altra, capannoni sfavillanti inaugurati continuamente: quasi 250 nel solo 2021, nel terzo “macrolotto” inaugurato, dopo quello storico vicino al centro e il secondo in periferia.

La storia è nota, il distretto si è salvato grazie a capitali cinesi, le vecchie aziende pratesi comprate, la manodopera presa a basso costo dall’Oriente: con la garanzia del brand “Made in Italy” su tutti i prodotti, un enorme valore aggiunto. Era un distretto fondato su lana e tessuti, ma ormai è diventato molto altro, si estende su diversi comuni, fornisce tutto il continente con un sistema produttivo “just in time” (non delocalizzabile), ordini piccoli e veloci, basati su come stanno andando le vendite: taglie, colori, marche. Soprattutto nel settore “pronto moda”, abbigliamento di medio o basso costo, ma anche borse e altri accessori. Non c’è brand che non si approvvigioni qui, di norma passando per un fornitore italiano, il quale a sua volta si appoggia ad un’azienda del distretto, a conduzione in larga parte cinese. E la condizione raccontata da Rachid non è l’eccezione, è la regola. “Fino a qualche anno fa”, spiega, “la norma era essere pagati 8-900 euro, ora quasi nessuno offre meno di 1.300, ma l’orario di lavoro è rimasto lo stesso, 84 ore a settimana” con poche eccezioni: con un rapido calcolo, sono 3,8 euro orari, senza nessun riposo. La manodopera cinese non basta più, e le aziende assumono chiunque accetti quelle condizioni: soprattutto pakistani e bengalesi. Spesso giovani, alla prima esperienza di lavoro in Italia, senza conoscenza della lingua né delle norme.


Le sanzioni, nei pochi casi in cui avvengano controlli, sono continue. Poche settimane fa la sospensione dell’attività per 11 aziende, per svariati illeciti (la “norma” per queste aziende è mettere a contratto 3 o 4 ore al giorno, e farne lavorare 12) tra cui la presenza di lavoratori senza permesso di soggiorno e telecamere di sorveglianza. Ma Luca Toscano, del sindacato Si Cobas che da tempo segue i lavoratori del distretto, spiega che “sono notizie molto enfatizzate dalla stampa, in realtà le aziende non chiudono mai, pagano la sanzione in giornata, subito, e riprendono l’attività” anche quando si tratta di cifre importanti, oltre 100 mila euro; “il profitto garantito è molto più grande delle sanzioni che rischiano, e lo sanno”. Eppure, nota, nelle aziende in cui si è riusciti a imporre un rispetto delle condizioni di legalità contrattuale, la produzione ha continuato a funzionare.


La situazione infatti non è immobile, l’apertura a lavoratori non cinesi sta portando, soprattutto nelle aziende più grandi, a una lenta ondata di rivendicazioni. Fuori da una pelletteria dove vengono prodotte borse per alcuni brand di lusso, al termine del loro turno, ci sono Iqbal e Rahman. Li c’è chi taglia la pelle, chi la cuce, chi decora il prodotto finale, spiegano. Dopo una serie di scioperi, da qualche mese hanno iniziato a lavorare 8 ore al giorno “e quando c’è una festa in Italia, adesso non andiamo a lavorare”, anche le ferie vengono rispettate. Ma dentro il capannone ci sono decine di loro colleghi ancora al lavoro: non hanno scioperato, accettando solo 200 euro in più al mese, e quindi continuano con le 12 ore. Non è infatti facile per questi operai richiedere diritti, e non solo per la paura di perdere il permesso di soggiorno o di subire ritorsioni sul posto di lavoro: la violenza può raggiungere rapidamente picchi inquietanti. Ali si occupa di consegnare pacchetti e confezioni di vestiti in tutta la provincia, e qualche settimana fa insieme ad alcuni colleghi ha deciso di farla finita con i turni da 12 ore 7 giorni su 7, pensando di iscriversi a un sindacato. In tutta ricompensa, hanno trovato sotto le loro case alcuni individui mascherati dotati di mazze ad aggredirli al ritorno dal lavoro. Ali ha avuto la fortuna di riuscire a respingerli grazie all’aiuto dei vicini di casa, altri colleghi hanno avuto la peggio passando diversi giorni in ospedale. Ha paura, e ha la sensazione di essere abbandonato: “Ho denunciato tutto, alla polizia, all’Inail, perché non ci stanno aiutando? Io ho sempre rispettato le regole, stiamo lavorando qui, non capisco”. La debolezza dello Stato ricorre spesso nei racconti di questi lavoratori: tutti sanno come si lavora qui, ma i controlli sono troppo pochi, spiegano, e poco efficaci. Le aziende li conoscono in anticipo, e chiedono ai lavoratori di rimanere a casa nei giorni preposti, o dettano le risposte da dare in italiano.

La politica locale e nazionale si è spesa molto per la rinascita del distretto. Mettere in discussione questo sistema produttivo potrebbe costare molto all’intero sistema della moda Made in Italy, nonché a tutti i settori dell’indotto collegati. “C’è un sacco di nero a Prato, perché non vengono a controllare qui?”, si chiedono questi operai. Il risultato è che nessuna istituzione sembra poter dare loro delle risposte.


Leonardo Bison


(Tratto da: Leonardo Bison, “Al lavoro 12 ore 7 giorni su 7, così creiamo il Made in Italy”, in «Il Fatto Quotidiano», Anno 15, n. 242, 3 settembre 2023).


Inserito il 08/09/2023.

Dal giornale «Il Fatto Quotidiano»

Quei cinque operai li ha uccisi il neo-capitalismo criminale

di Angelo d’Orsi

Più profitti, meno diritti e sicurezza: il mercato miete morti sul lavoro

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Quei cinque operai li ha uccisi il neo-capitalismo criminale


di Angelo d’Orsi


I loro non sono volti noti della tv, o vincitori di quiz, personaggi del cinema, influencer e neppure navigator, non sono mattatori della Rete, che primeggiano nella raccolta dei like: sono soltanto operai. Operai uccisi nella notte, mentre erano intenti a un lavoro di manutenzione sulla linea ferroviaria Torino-Milano, a pochi chilometri dal capoluogo piemontese, a Brandizzo, toponimo che diverrà tristemente famoso, d’ora in avanti, soltanto per questo “incidente”. Ecco i loro nomi, che vorrei fossero incisi a lettere di fuoco nel nostro cuore: Kevin Laganà (22 anni), Michael Zanera (34), Giuseppe Sorvillo (43), Giuseppe Aversa (49), Giuseppe Lombardo, il più “vecchio”, di anni 53. Il mio timore è adesso che la colpa sarà addossata tutta ai macchinisti del treno che ha investito i cinque, straziando i loro corpi. Certo leggeremo parole di cordoglio, e ne abbiamo già sentite, a partire da quelle di Mattarella, recatosi lodevolmente sul posto, approfittando della sua presenza in Piemonte. Qualche sciopero di protesta è stato proclamato. Tutti promettono o minacciano: “Mai più morti sul lavoro”. Ma la tendenza è un aumento costante, irrefrenabile degli "incidenti".

Brecht scriveva: “Il capitalismo è stupido”. Oggi possiamo precisare: “Il turbocapitalismo è criminale”. Questo “incidente”, questa piccola strage notturna di fine agosto è soltanto una nuova tessera in un mosaico dell’orrore. Un orrore che certo accompagna il capitalismo industriale sin dal suo sorgere (basti ricordare quello che scriveva Engels sulle fabbriche tessili in Inghilterra a metà 800), ma che ha avuto una formidabile, tremenda accelerazione con il neoliberismo, teorizzato dai “Chicago Boys”, Milton Friedman & Co., nel Secondo dopoguerra e che ebbe poi in Reagan e in Margaret Thatcher i suoi interpreti. Davanti alla crisi che colpiva il sistema negli anni ’70, Reagan nel suo discorso di insediamento alla Casa Bianca (1980) usò queste parole: “Lo Stato non è la soluzione. Lo Stato è il problema”.

Era l’invito a smantellare tutto ciò che era pubblico, e a esaltare tutto ciò che era privato, e quindi una sollecitazione a privatizzare: un invito che era piuttosto un “ukaze”, che non poteva essere messo in discussione dagli “alleati”, ossia i servi volenterosi dell’Impero. Si iniziò così, di là e di qua dell’Atlantico, a smantellare gli importanti risultati raggiunti nei “trenta gloriosi”, i tre decenni successivi alla fine del Secondo conflitto mondiale, che avevano visto la costruzione dello Stato sociale e una applicazione delle politiche keynesiane, ossia di intervento pubblico, a favore dei più deboli e di uno sviluppo non troppo iniquo dell’economia. La nazionalizzazione delle ferrovie, che risaliva ai tempi di Giolitti, come negli anni ’60 quella dell’energia elettrica e della telefonia, furono i punti salienti di uno Stato che non rinuncia a essere tale, regolatore, gestore e, all’occorrenza, imprenditore.

La “Scuola di Chicago” e i suoi supini imitatori italiani andarono nella direzione opposta con il favore di una sinistra che aveva iniziato a smettere di “fare” la sinistra diventando un insieme di figure scialbe quanto arroganti, rappresentanti di partiti politici che, su mandato di gruppi imprenditoriali e finanziari, spingevano sull’acceleratore della privatizzazione, dell’aziendalizzazione, e ahinoi, della regionalizzazione. L’efferata logica di appalti e subappalti, in una catena che ricorda quella del feudalesimo, fu uno degli strumenti, e le morti sul lavoro, cioè gli omicidi di lavoratori e lavoratrici, ne furono la tragica quanto logica conseguenza. Ridurre il personale e i controlli, per diminuire le spese e aumentare i profitti degli investitori, velocizzare le procedure, assumere per brevi periodi e con meno garanzie possibili uomini e donne, il tutto in nome del “Sacro Mercato”. Decisamente più sacro di quanto venga considerata la vita di persone i cui nomi non saranno ricordati nel gotha del progresso, ma almeno impariamoli noi, a memoria, e facciamone i “testimonial” di una fase nuova di impegno contro questa strage continua.


Angelo d’Orsi


(Tratto da: Angelo d’Orsi, Quei cinque operai li ha uccisi il neo-capitalismo criminale, in «Il Fatto Quotidiano», Anno 15, n. 241, 2 settembre 2023).


Inserito il 04/09/2023.

Materiali per capire il nostro tempo

Luciano Gallino
Il neoliberismo e la lotta di classe nella società di oggi

Luciano Gallino (1927-2015), sociologo tra i più autorevoli della nostra epoca, ha insegnato all’Università di Torino: si è occupato delle trasformazioni del lavoro e dei processi produttivi nell’epoca della globalizzazione.

Presentiamo qui due contributi: un consiglio di lettura di un suo importante libro sulla lotta di classe ai giorni nostri (quelli che la conducono, cioè le classi dominanti, vorrebbero farci credere che la lotta di classe è cosa vecchia e superata), e un’intervista sul neoliberismo, in cui si dice fra l’altro:

«Per il neoliberismo l’ineguaglianza, anche sfrenata e molto elevata, non è un male da curare. Piuttosto, è un aspetto indispensabile di un’economia ben funzionante, perché se ci sono molti ricchi, in base alla teoria del gocciolamento – che è una teoria per molti aspetti spudorata dal punto di vista scientifico – questi investono di più, consumano di più e quindi gli effetti benefici gocciolerebbero sui ceti meno abbienti finendo per produrre più occupazione. Non è vero nulla, non c’è uno straccio di statistica che lo possa confermare».

Luciano Gallino (1927-2015).

Fonte della foto: https://jacobinitalia.it/come-il-neoliberismo-arrivo-in-italia/

Consigli di lettura

Luciano Gallino

La lotta di classe dopo la lotta di classe

Intervista a cura di Paola Borgna

(Roma-Bari, Editori Laterza, 2012)

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«La caratteristica saliente della lotta di classe alla nostra epoca è questa: la classe di quelli che possiamo definire genericamente i vincitori sta conducendo una tenace lotta di classe contro la classe dei perdenti. Dagli anni Ottanta, la lotta che era stata condotta dal basso per migliorare il proprio destino ha ceduto il posto a una lotta condotta dall'alto per recuperare i privilegi, i profitti e soprattutto il potere che erano stati in qualche misura erosi nel trentennio precedente. Questo è il mondo del lavoro nel XXI secolo, così è cambiata la fisionomia delle classi sociali, queste sono le norme e le leggi volute dalla classe dominante per rafforzare la propria posizione e difendere i propri interessi.

Larmatura ideologica che sta dietro queste politiche è quella del neoliberalismo, teoria generale che ha dato un grande contributo alla finanziarizzazione del mondo e che ha avuto una presa tale da restare praticamente immutata nonostante le clamorose smentite cui la realtà l’ha esposta. La competitività che tale teoria invoca e i costi che la competitività impone ai lavoratori costituiscono una delle forme assunte dalla lotta di classe ai giorni nostri. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: aumento delle disuguaglianze, marcata redistribuzione del reddito dal basso verso l'alto, politiche di austerità che minano alla base il modello sociale europeo» (dalla quarta di copertina del volume).


Inserito il 21/08/2023.

Dalla rivista «Jacobin Italia»

Il neoliberismo: che cos’è, come funziona e come è arrivato in Italia

Intervista di Dario Colombo ed Enrico Gargiulo a Luciano Gallino

Un’attualissima intervista ritrovata a Luciano Gallino: su come la sinistra postcomunista è divenuta neoliberista e sulla «lotta di classe dopo la lotta di classe».

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Il neoliberismo: che cos’è, come funziona e come è arrivato in Italia


Intervista di Dario Colombo ed Enrico Gargiulo a Luciano Gallino*


26 Marzo 2022


Quest’intervista a Luciano Gallino, scomparso nel novembre del 2015, è stata condotta da Dario Colombo ed Enrico Gargiulo a inizio giugno dello stesso anno per essere inserita in un volume collettivo dedicato ai vari aspetti della penetrazione del neoliberismo in Italia. Il libro, purtroppo, non ha mai visto la luce. L’intervista qui pubblicata, inoltre, è stata creduta irrimediabilmente persa: il dispositivo usato per la registrazione è stato rubato durante un viaggio in treno e il disco rigido su cui era stata copiata, poco dopo, è rimasto danneggiato. A diversi tecnici è stato chiesto di recuperare il file, senza successo. Sette anni dopo, un vecchio pc, quasi per caso, è capitato nelle mani di una persona che, inaspettatamente e fortunatamente, è riuscita a recuperare il prezioso contenuto che, proprio nei giorni in cui cade il decimo anniversario dell’uscita del suo Lotta di classe dopo la lotta di classe, qui finalmente pubblichiamo.


Caro professor Gallino, prima di tutto le chiediamo una definizione complessiva di neoliberismo: cosa si intende con questo termine? Cos’è il neoliberismo come fenomeno globale degli ultimi decenni e cosa, soprattutto, non è?


Dagli anni Ottanta del secolo scorso, con l’avvento al potere di leader politici come Ronald Reagan negli Stati uniti e Margaret Thatcher nel Regno Unito, si usa designare come neoliberismo o neoliberalismo un’ideologia universale che afferma che qualunque settore della società, ciascun individuo in essa e, infine, la società intera in quanto somma dei due elementi precedenti, può funzionare meglio, costare meno, presentare minor problemi, essere più efficace ed efficiente qualora sia governata in ogni momento dai principi di una razionalità economica e strumentale.

La razionalità strumentale ha a che fare soprattutto con il rapporto tra mezzi scarsi – rispetto all’attore che li vuole utilizzare – e fini alternativi – che possono dare esiti molto diversi. Qualunque altro ragionamento passa in secondo piano dinanzi a questo impegno e presupposto. Non solo l’economia, l’impresa o il commercio dovrebbero essere organizzati e gestiti secondo il principio della razionalità economica ma anche i servizi pubblici: scuola, sanità, ricerca, beni culturali. E così tutte le azioni degli individui, perché solo in questo modo la loro somma complessiva darebbe origine a una società migliore, nel senso di più efficiente e con costi minori.

Se poi mi chiede che cosa non è, si può dire una cosa precisa e piuttosto trascurata: il neoliberalismo non è una dottrina che vuole scoprire come funziona il mondo, spiegarlo agli altri e conformarlo in modo che sia più consono rispetto a leggi individuate e scoperte. Tra le grandi dottrine politiche questo approccio caratterizza ad esempio il marxismo. Marx voleva scoprire come funzionava davvero il mondo capitalistico e spiegarlo, per poi correggerlo, emendarlo e fondare un altro ordine sociale. Il neoliberalismo è una dottrina essenzialmente costruttivistica. Essa non dice, come dicevano i liberali classici, che l’essere umano è di per sé un homo oeconomicus, dice che l’essere umano, anche se non lo è, può essere spinto in diversi modi ad agire come un uomo economico e questo ha i suoi vantaggi non solo in economia ma anche nella famiglia, nei rapporti sociali, in politica e in qualunque altro settore della società. Il neoliberalismo, tra tutte le grandi dottrine politiche, non è una teoria scientifica nel senso che vuole scoprire come funziona la realtà, vuole piuttosto costruire la realtà secondo i propri principi e i propri canoni, nella convinzione che tutto funzionerebbe meglio.


A suo parere, esiste un unico neoliberismo o esistono invece molti neoliberismi? A questo proposito, le chiedo cosa pensa del dibattito sulle varietà del neoliberismo, anche in rapporto al precedente dibattito sui differenti modelli di capitalismo.


È certamente sensato parlare di varietà di neoliberalismo. Sul tema si è svolto un dibattito intenso che, negli ultimi quindici anni – non in Italia ma in paesi come gli Stati uniti, la Germania e il Regno Unito –, ha messo in luce la complessità del pensiero neoliberale. Senza inseguire le minute variazioni individuate dagli storici del neoliberalismo ma dovendo e volendo semplificare, si possono individuare due grandi varietà di neoliberismo.

Quella anglosassone, detto anche transatlantico, quindi Stati uniti e Gran Bretagna essenzialmente, alla cui base c’è il pensiero neoclassico liberale e della Scuola di Chicago, i Chicago Boys, vale a dire Milton Friedman e compagni. L’altra variante è quella europea, nata principalmente in Germania e in Austria, che è caratterizzata dal peso che hanno avuto le dottrine dette ordoliberali. Sono dottrine nate intorno agli anni Trenta, ancora sotto Weimar, soprattutto all’università di Friburgo, per cui sono dette anche Scuola di Friburgo. Il pensatore principale, tra molti altri, è Walter Eucken.

Ambedue le varianti hanno avuto un grande successo politico ma anche sociale, perché il neoliberismo è diventato non solo la dottrina politica più o meno ufficiale ma ha vinto e stravinto in ogni ambito di applicazione possibile. L’ordoliberalismo, la versione tedesca, ha avuto grande importanza ad esempio nell’economia del dopoguerra. Ludwig Ehrard, considerato il padre della rinascita dell’economia tedesca, in modo più o meno evidente si rifaceva ai principi dell’ordoliberalismo.

Le differenze tra le due versioni sono moltissime e profonde. Una distinzione piuttosto importante verte sul fatto che gli anglosassoni insistono sul ridurre al minimo lo stato. C’è uno slogan che affiora di continuo durante le campagne elettorali negli Stati Uniti che suona, in maniera non molto elegante, «Bisogna affamare la bestia» [lo slogan comparve la prima volta nel 1986 nel libro The Triumph of Politics: Why the Reagan Revolution Failed, il cui autore è David Stockman, sotto la presidenza Reagan direttore dell’Ufficio per la gestione e il bilancio, Ndr]. Il che significa ridurre al minimo le risorse dello stato affinché intervenga il meno possibile nell’economia. Lo stato deve provvedere alle forze armate, alla sicurezza, a pochi altri aspetti ma deve stare lontano da qualsiasi cosa abbia a che fare non solo con l’economia ma anche con la regolazione della società. Invece l’ordoliberalismo è una dottrina che insiste molto sul fatto che è lo stato che con le leggi, la normativa, la regolazione, deve predisporre l’ambiente e il terreno in cui il sistema economico possa dipanarsi in tutta la sua efficacia, in tutta la sua libertà. Quindi meno stato o stato ridotto al minimo nei paesi anglosassoni; stato invece che pesa molto in Europa. Per certi aspetti il trattato di Maastricht, l’autoritarismo economico dominante che ancora oggi subiamo, denota il fatto che in Europa ha avuto la meglio la variante ordoliberale la quale richiede una certa dose di autoritarismo per far sì che sia lo stato a spianare la strada alla stabilità monetaria, al controllo dell’inflazione, al pareggio di bilancio pubblico.


Quali sono le caratteristiche distintive della variante italiana – se ritiene corretto parlare di una variante italiana – del neoliberismo? Quali le date e i passaggi rilevanti della penetrazione del neoliberismo in Italia e quali gli attori cruciali sia individuali che collettivi?


Prima richiamavo la mole di studi internazionali sull’elaborazione teorica intorno al neoliberismo. Sino a tempi recenti questa era molto modesta in Italia. Ho letto di recente una riedizione del 2008 di un volume di Norberto Bobbio, L’età dei diritti, con un’abbondante bibliografia di lavori in italiano sul pensiero liberale che integra l’originale: ne figura soltanto uno che si riferisce al neoliberismo. Nondimeno si può dire che l’Italia sia stata un canale importante per far diventare neoliberali i successori del Pci, i comunisti, così come i socialisti e altri.

Già negli anni Sessanta c’erano scambi molto nutriti tra economisti e studiosi di altre discipline italiani ed europei con studiosi sovietici e dell’area sovietica, soprattutto ungheresi e polacchi, sullo sfondo di quella che si chiamava la teoria della convergenza. Sono autori lontani dai dogmi sovietici che con autori occidentali altrettanto lontani dai dogmi liberali ritenevano che la produzione di massa, il fordismo, le nuove tecnologie della comunicazione, i grandi calcolatori – che erano già presenti e operativi, io ne vidi uno a Ivrea alla fine degli anni Cinquanta – producessero elementi di convergenza tra il sistema dell’economia di piano e il sistema capitalistico. Economisti delle due parti si incontrarono spesso, anche in Italia, per discutere gli aspetti di questa convergenza. Gli italiani scoprirono, ma anche gli americani che venivano in Italia ad ascoltare, che i colleghi sovietici parlavano come neoliberali. Parlavano di mercato, di regolazione del mercato mediante l’informatica. Gli economisti sovietici erano critici sull’economia di piano perché ritenevano che non avrebbe potuto funzionare ancora molto.

Gli economisti europei e italiani apprendevano che per i colleghi sovietici l’economia, per essere felicemente regolata, avrebbe avuto bisogno di un dittatore benevolo. E il dittatore benevolo in questo caso era l’informatica. Per generazioni era stato vero l’assioma per cui lo stato non sarà mai in grado di governare il mercato perché il mercato raccoglie una serie di informazioni istante per istante e lo stato non può farlo. Però l’informatica poteva essere anche più rapida del mercato nel raccogliere informazioni e a essa si sarebbe dovuto sottostare.

Tra le istituzioni che hanno favorito gli incontri con questi economisti sovietici, polacchi e ungheresi – tutti espressione dell’era comunista ma molto critici e molto attenti alle trasformazioni dell’economia – ha avuto un’importanza notevole la fondazione Ceses, Centro di studi economici e sociali, fondata a Milano nel 1964 a spese e per volere della Confindustria. Il suo impegno si è via via ridotto ma ha operato fino al 1988. Per ventiquattro anni è stata una fondazione molto importante, a cui hanno partecipato molti docenti e anche uomini politici, che cercava di scoprire cosa succedesse dall’altra parte attraverso le voci degli economisti dei due campi. Purtroppo, gran parte di questa letteratura è andata dispersa e, tanto per cambiare, per sapere qualcosa bisogna andare negli archivi americani o cercare delle pubblicazioni americane, essendo stati loro a studiare quest’esperienza.

Ciò significa che nella testa di quelli che erano prima membri del Pci, e poi via via membri del Pds, Ds e Pd, circolavano delle idee in tema di economia che erano sostanzialmente neoliberali. L’economia doveva essere libera, doveva essere amministrata in modo tecnicamente perfetto. Quello che prima il piano e anche il mercato capitalistico facevano male, poteva essere fatto meglio mediante le tecnologie informatiche. Quindi, uno dei canali attraverso i quali il neoliberismo è entrato nella testa degli esponenti dei partiti di sinistra sono stati questi colloqui trans-europei tra comunisti da un lato e liberisti dall’altro, i quali si confrontavano sulla possibile evoluzione dell’economia.

Nel caso del Pci e delle tante vesti che ha assunto dopo, si può aggiungere un elemento che è diventato particolarmente pesante dopo l’89. Da allora si è parlato sempre più degli errori, dei gulag, di un regno del terrore che finalmente era caduto. Questo ha fatto sì che generazioni di aderenti, simpatizzanti e studiosi delle successive incarnazioni del Pci abbiano fatto l’impossibile per far dimenticare che avevano avuto rapporti e simpatie col comunismo sovietico, ovvero col socialismo realizzato. È come se avessero deciso di spogliarsi di tutti i propri panni e buttarli in un bidone del cortile affinché nessuno si ricordasse che qualche tempo prima erano stati comunisti. C’è stato una sorta di pentimento politico a posteriori, non sempre chiaro e non sempre evidente, che ha avuto molta importanza nel far letteralmente sparire in poco tempo il Pci.

Ancora più importante è stato il fatto che, come si evince dai colloqui avuti con i colleghi comunisti, l’economia comunista alla quale il Partito comunista nostrano si sentiva più vicino assomigliava molto al neoliberismo: il dittatore benevolo, l’importanza data al calcolo, alla previsione. Dal punto di vista intellettuale e politico, uno dei cardini dello sviluppo del neoliberismo in Italia, un canale davvero molto importante, sono stati questi incontri con gli economisti dell’area sovietica avvenuti al Ceses per un quarto di secolo. Intendiamoci, la Confindustria lo finanziava perché sperava che in tal modo venissero fuori le magagne dell’economia di piano. Qualcosa magari veniva pure fuori, ma emergeva anche il fatto che quelli erano studiosi – e di primissimo piano, pensiamo agli ungheresi, tra i quali Micheal Polanyi e altri – che lasciavano una traccia che poi purtroppo non è stata contrastata da nessuno studio critico. Il neoliberismo è stato accettato per intero senza alcuna reticenza e senza ragionamento sulle conseguenze.


È corretto dire che il modello italiano di neoliberismo è autoctono oppure è più corretto dire che sia eterodiretto, guidato dall’esterno? Ed eventualmente quali sono i paesi e i soggetti politico-economici che lo hanno ispirato?


Io non pretendo di conoscere l’intera bibliografia. Resta il fatto che trovare una pubblicazione sul neoliberismo italiano è veramente molto difficile. Quello che è stato travasato in politica viene in parte dagli Stati Uniti, in parte dall’Inghilterra della signora Thatcher e in parte dai tedeschi. L’assoluta obbedienza dei nostri governi ai dettami di Bruxelles e ai dettami di Berlino attesta il fatto che c’è stato un assorbimento in gran parte acritico del neoliberalismo, dei suoi aspetti più politici e più disciplinari, senza che si levasse quasi alcuna voce a contrastarlo.


Quali sono i settori di policy in cui la presenza delle ideologie e delle politiche neoliberiste è più evidente, quali i settori in cui c’è ma è più nascosta e quali, ammesso e non concesso che ve ne siano, in cui questa influenza è del tutto assente?


I due settori in cui questa influenza è più evidente sono la protezione sociale, quindi l’attacco allo stato sociale, alle pensioni come alla sanità, e il lavoro, quindi la sfera delle politiche del lavoro. Su quest’ultimo punto, le leggi incominciano a grandinare già nei primi anni Novanta, per poi diventare un vero diluvio con le leggi Treu del 1997, la legge Biagi del 2003, quelle di Sacconi nel governo Berlusconi alla fine dello stesso decennio, la legge Fornero del 2012 e il cosiddetto Jobs Act del governo Renzi. Questi sono stati e sono i settori in cui le pratiche neoliberiste sono maggiormente attive e presenti. Ce ne sono poi parecchi altri. Quando si dice che occorre avere cura dei beni culturali perché attirano molti visitatori che contribuiscono al Pil nazionale, si tradisce una norma di fede neoliberale. Ciò che conta non è il merito dell’oggetto ma cosa l’oggetto può determinare in termini di utilità. Diversi servizi pubblici che stanno impoverendo le città: si riducono i trasporti e parchi, gli asili nido e altre forme di sostegno alle famiglie. Nel campo culturale, l’università ha avuto delle ferite terrificanti in quanto a soppressione del pensiero critico in nome di un’università sempre più azienda. Per quanto riguarda la scuola primaria e secondaria si sta affermando il principio che debba comportarsi, essere organizzata, agire e pensare come un’azienda. E questa è una delle caratteristiche neoliberali principali.

È la sua vocazione totalitaria perché per certi aspetti il neoliberismo è un’ideologia profondamente totalitaria. Non ammette discussione, non ammette critiche. Anche dopo quel che è successo, anche dopo quel che è accaduto nell’economia globale che ha seguito il credo neoliberale. È incredibile: gli economisti neoliberali non hanno previsto la crisi, non hanno saputo spiegarla, non hanno nulla da dire al riguardo, hanno inventato le politiche di austerità che, per ammissione di alcuni di loro stessi, sono state una catastrofe. Non solo le critiche ma le contraddizioni della realtà, il principio di realtà, passano sulle politiche neoliberali come fossero acqua sulla roccia. Nelle università si insegna quello che si insegnava dieci anni fa. Non c’è un barlume di pensiero critico in economia che sia sopravvissuto. Sì, c’è qualcosa, ma talmente minoritario da essere pressoché invisibile.


Per quanto riguarda lo scenario attuale: come sta cambiando, se sta cambiando, il liberismo in Italia? Ha esaurito il suo ciclo e verrà sostituito da un’altra ideologia egemone, oppure è vivo e vegeto? Pensiamo ad esempio a questo volume uscito di recente su Lo stato innovatore, che alcuni hanno letto come segnale di un’inversione di tendenza del pensiero economico.


Buonissimo libro ma si riferisce agli anni Trenta e Quaranta più che al presente. Non ha nulla a che fare con le tendenze attuali o le eventuali loro inversioni. Lo dico con rimpianto ma serenamente perché bisogna riconoscere le cose come stanno. Il neoliberalismo è vivo come non mai. Fa parte della sua inossidabilità. Gli scarti dalla realtà non hanno minimamente scalfito il pensiero neoliberale. Tutte le dichiarazioni che fanno i nostri ministri sono dichiarazioni intrinsecamente neoliberali e spesso sono riprese da testi neoliberali. Il Jobs Act contiene pezzi di testi dell’Ocse, testa di ponte della demolizione neoliberale dell’Europa, che risalgono al 1994. La riforma della scuola del governo Renzi è stata sostanzialmente scritta da una fondazione privata, di cui si citano esattamente i passi, che vengono recepiti dal governo e dal parlamento. Nonostante le sconfitte, il neoliberismo è più vivo che mai. Si potrà cominciare a parlare di un suo decadimento quando si vedranno dei provvedimenti che vanno in senso contrario, che aboliscono alcune delle leggi adottate in questi anni, insomma che si esprimono contro la tendenza dominante. Oso dire che non vedo assolutamente nulla di tutto questo. Le dichiarazioni del presidente Renzi, che ogni tanto dice che «bisogna cambiare l’Europa», non sono che acqua fresca.


Alcuni osservatori ripongono fiducia in attori politici che potrebbero costruire una nuova egemonia intorno a idee diverse rispetto a quelle neoliberali. Secondo lei è plausibile questo scenario o non lo è?


Io dal mio canto ho fiducia nel flogisto o nella pietra filosofale, più o meno equivalente alla fiducia nella direzione che lei indica.


Facendo un bilancio, quali sono stati e quali saranno i costi umani delle politiche neoliberiste in Italia? Quali sono i gruppi, magari quelli meno visibili e più nascosti, maggiormente colpiti da queste politiche?


Il neoliberismo politico è orientato sistematicamente a colpire i più deboli. Ed è quello che ha fatto anche in Italia: i lavoratori dipendenti, gli impiegati a mille euro al mese, i pensionati a seicento euro, le famiglie povere. Una grande fascia della popolazione, stimabile intorno al 25-30%, avrebbe bisogno di essere in qualche modo aiutata, non soltanto con sussidi ma con politiche del lavoro e della protezione sociale che non siano solamente punitive come sono state quelle degli ultimi tre o quattro governi.

Peraltro, spesso maneggiando in modo non corretto i dati. Noi abbiamo ormai uno strato di poveri, sia assoluti che relativi, molto elevato. Parliamo di molti milioni di persone che non possono permettersi gli standard di vita ai quali ci eravamo tutti abituati oppure non possono nemmeno procurarsi le risorse per far fronte a una vita dignitosa, riprendendo i significati di povertà relativa e povertà assoluta. Parliamo, tra gli uni e gli altri, di una cifra intorno ai dieci milioni di persone; su sessanta milioni è assai significativa. Inoltre assistiamo a una contrazione delle classi medie, perché l’attacco alla pubblica amministrazione e ai quadri intermedi, l’evoluzione dell’organizzazione del lavoro vanno tutte nella direzione di colpire anche le cosiddette professioni liberali, quelle che richiedono una certa qualificazione.

Nell’insieme, sono certo i più deboli a essere più colpiti, coloro che hanno bisogno di assistenza perché proprio non ce la fanno, che necessitano di politiche contro la disoccupazione decenti, di un autentico aiuto a tornare sul mercato del lavoro. Su tutto questo non è stato fatto nulla. Non c’è da stupirsi perché è ciò che è accaduto anche negli altri paesi dell’Occidente. Prendiamo ad esempio la ricca Germania: le riforme del lavoro neoliberali volute dal socialdemocratico Gerhard Schroeder – e non è un errore accostare i due termini – a partire dal 2003, con le cosiddette leggi Hartz, sono andate nel senso di impoverire una grande frazione della popolazione lavoratrice, inclusa la classe media.

Questo è il neoliberismo. Per il neoliberismo l’ineguaglianza, anche sfrenata e molto elevata, non è un male da curare. Piuttosto, è un aspetto indispensabile di un’economia ben funzionante, perché se ci sono molti ricchi, in base alla teoria del gocciolamento – che è una teoria per molti aspetti spudorata dal punto di vista scientifico – questi investono di più, consumano di più e quindi gli effetti benefici gocciolerebbero sui ceti meno abbienti finendo per produrre più occupazione. Non è vero nulla, non c’è uno straccio di statistica che lo possa confermare. Il consumo dei ricchi non può superare certi livelli: comprare ciascuno otto lavatrici, sei automobili o cambiarsi quattro camicie al giorno. E per l’investimento bisogna considerare che, come numerosi studi confermano, oggi i ricchi tendenzialmente non investono in infrastrutture, stabilimenti, impianti, aziende di servizi. Investono in finanza per moltiplicare il denaro che già hanno. Quando la diseguaglianza non è deplorevole, non è un male, non è una forma di patologia sociale da curare in maniera più o meno radicale, il risultato è che i più deboli ne fanno le spese. L’enorme aumento della disuguaglianza negli ultimi vent’anni è dovuto alla finanziarizzazione dell’economia, al taglio delle tasse ai più ricchi, a due occhi dello stato perennemente chiusi sull’evasione e l’elusione fiscale. Ma questo, nell’ottica del neoliberalismo, è un bene, perché i ricchi consumando e investendo trascinerebbero all’insù anche i consumi e gli investimenti dei più poveri.


Nel corso dell’intervista è già emerso che manca una forte opposizione politica e sociale al neoliberismo. Quali sono le ragioni di tale assenza? È possibile pensare a un’azione politica organizzata della classe del lavoro salariato o da parte di altri soggetti che riescano a opporsi al neoliberismo? Da questa prospettiva, che ruolo svolge la precarizzazione, sia come agente di frammentazione dell’organizzazione politica del lavoro, e quindi di offuscamento della coscienza di classe, sia come possibile base di partenza di un nuovo agire collettivo?


Sono abbastanza scettico a questo riguardo. Il movimento operaio e il movimento sindacale sono divenuti importanti, potenti e hanno ottenuto i migliori risultati nel dopoguerra, durante i «trenta gloriosi» come sono chiamati in Francia: buoni salari, buone condizioni di lavoro e, parallelamente, un tasso di sviluppo oggi inimmaginabile. Questo perché il sindacato era potente, rappresentativo, poteva battere i pugni sul tavolo per ottenere migliori condizioni di lavoro. Senza tralasciare nell’analisi quel fattore geopolitico che è stato la presenza, sino al 1991, dell’ombra sovietica. Anche in Confindustria, e comunque nel padronato in generale, si preferiva concedere abbastanza agli operai e ai lavoratori indipendenti, piuttosto che rischiare di irritare quel grande orso che sonnecchiava a oriente. Caduto quello, dissoltosi nel giro di un anno o due, la controffensiva delle classi più ricche e dominanti non ha più avuto limiti.

Il potere del sindacato si è fondato per un secolo e mezzo su tre forme di unità: l’unità di tetto, cinquecento, mille, diecimila persone sotto lo stesso tetto che facevano lo stesso lavoro; l’unità di contratto, vale a dire che se quei mille o diecimila sotto lo stesso tetto facevano il lavoro da metalmeccanici, allora avevano il medesimo contratto da metalmeccanici, punto e basta; inoltre rispondevano a un solo padrone, e quindi c’era anche l’unità di padrone. Questi tre elementi hanno reso forte il sindacato perché facevano maturare dei forti interessi comuni. Se tutti avevano lo stesso contratto, se tutti avevano lo stesso padrone, quelli si muovevano tutti insieme o quasi per una singola vertenza.

Adesso quelle cinque o diecimila persone un tempo sotto lo stesso tetto, anche lasciando perdere gli impatti dell’automazione, sono divise in centinaia di fabbriche e fabbrichette che stanno metà in Italia e metà all’estero in nome delle cosiddette catene di creazione del valore. Nessuno sa bene chi è padrone di che cosa e soprattutto i cinquemila sono diventati trecento, magari pure moltiplicati per quindici sedi in un territorio sterminato. Non hanno alcuna possibilità di vedersi, di raccontarsi, di solidarizzare fisicamente nei luoghi di lavoro.

Tutto questo ha indebolito fortemente il sindacato a prescindere dalle lotte sindacali che sono state condotte. La prima cosa che Reagan e Thatcher hanno fatto appena andati al potere, nell’81 Reagan e nel ’79 Thatcher, è stato schiantare i sindacati più rappresentativi come quello dei piloti o dei minatori. Tutto questo è accaduto anche in altri paesi, e naturalmente anche in Italia. Non c’è stata riforma del lavoro che non fosse anche un attacco ai sindacati. Non soltanto. L’organizzazione fondata sulla distribuzione di centinaia di aziende collegate fra di loro nelle catene di creazione di valore non è mica caduta dal cielo. È stata voluta per indebolire il sindacato: se uno ha una fabbrica nel milanese, una a Timisoara, una a Taiwan, avere a che a fare con i sindacati diventa molto agevole perché basta buttare via un anello, ossia interrompere il contratto con una particolare azienda, e avviarne uno nuovo con una diversa impresa tra le innumerevoli che si offrono. L’indebolimento del sindacato è stato cercato sul piano organizzativo e praticato sul piano politico. Non mi si venga a dire oggi: «il sindacato non fa più il suo mestiere». Per forza: gli sono state tagliate non solo le unghie ma anche le dita.

Vedo difficile, per concludere, ritrovare un qualche tipo di unità, perlomeno di interessi derivanti dai contratti, che preluda a un’organizzazione di massa. I soggetti sono molto frammentati e hanno interessi diversi. Occorrono delle micro-organizzazioni che sappiano coordinarsi tra loro. Ad esempio, come avviene adesso in Spagna, ma non a partire dai contratti di lavoro ma da altri punti di partenza: i contratti di affitto, i contratti di finanziamento che permettono di espropriare casa a una famiglia che pure abbia ripagato quasi tutto il prestito, dalle mense comuni, dalle scuole che non hanno i materiali o gli insegnanti. Lì si può trovare una comunità di interesse che il luogo di lavoro non offre più. Da noi non vedo molte esperienze in questo senso. Ripeto: data la frammentazione intervenuta rispetto al tetto, al contratto e al padrone, non credo sia possibile pensare soltanto alla classe lavoratrice come soggetto egemone. Bisogna pensare ai tanti altri soggetti che possono avere in comune interessi significativi pur facendo diversi lavori e sperimentando condizioni di lavoro molto diverse.


*Dario Colombo, sociologo, si è occupato della neoliberalizzazione delle politiche sociali e lavora nel campo della microprogettazione sociale.

Enrico Gargiulo, sociologo all’Università di Bologna, si occupa di trasformazioni della cittadinanza, integrazione dei migranti e sapere di polizia.

Luciano Gallino (1927-2015), sociologo tra i più autorevoli della nostra epoca, ha insegnato all’Università di Torino. Si è occupato delle trasformazioni del lavoro e dei processi produttivi nell’epoca della globalizzazione.


(Tratto da: Dario Colombo, Luciano Gallino, Enrico Gargiulo, Come il neoliberismo arrivò in Italia, in «Jacobin Italia», 26 marzo 2022; https://jacobinitalia.it/come-il-neoliberismo-arrivo-in-italia/).


Inserito il 21/08/2023.

Economia e società

Rileggendo Finanzcapitalismo di Luciano Gallino
(Einaudi, 2011)

di Enrico Mungai*

«Il saggio del prof. Luciano Gallino, ad una lettura poco attenta, può sembrare semplicemente un trattato sull’attuale crisi economica e le sue motivazioni d’esistenza; in realtà si tratta di una critica spietata alla nostra società. Una società in cui l’avere conta più dell’essere ; una società in cui a scuola, per prima cosa, s’impara ad essere concorrente del proprio compagno di banco invece di crescere nella gioia di scoprire; una società dove tutta l’economia si fonda sul profitto, privando l’essere umano della sua dignità; una società dove il progresso deve essere solo crescita; una società dove l’economia ci spinge a lavorare a ritmi spaventosi per produrre cose per lo più inutili, che poi altre persone, sempre lavorando a ritmi spaventosi, dovranno comprare. Tutto questo solo per arricchire pochi, senza dare alcuna felicità a troppi e per di più impoverendo, materialmente ed umanamente, tantissimi altri. Schiavi del consumo, repellenti all’accrescimento culturale e delle coscienze. Un imbarbarimento ideale più che ideologico; infatti d’ideologia, nella nostra società-mondo, ce n’è anche troppa e quella dominante che ci sta schiavizzando, illudendoci di maggiori libertà, è proprio quella neoliberista».

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Rileggendo Finanzcapitalismo di Luciano Gallino
(Einaudi, 2011)


di Enrico Mungai*


Prima parte


Abbiamo creato una civiltà, quella in cui viviamo, figlia del mercato, figlia della concorrenza e che ha prodotto un progresso materiale portentoso ed esplosivo, dando vita alla globalizzazione. Siamo noi a governare la globalizzazione o è la globalizzazione che sta governando noi? E’ possibile parlare di solidarietà in un’economia basata sulla concorrenza spietata? Fin dove arriva la nostra fratellanza?”

Josè Alberto Pepe Mujica, Presidente dell’Uruguay


L’idea è che gli Stati nazione siano superati, e che la grande finanza, che già controlla l’industria attraverso le banche, debba prendere il posto delle nazioni.”

Daniel Estulin, scrittore d’inchiesta


Prefazione


La mortificazione dell’io in favore del consumo, verso la ricerca di uno status da affermare e sfoggiare, fa perdere la consapevolezza della vera felicità. Una rincorsa folle nei confronti di tutto ciò che non è veramente necessario, invece di arricchire, deprime le nostre coscienze. Come in un delirio di massa cinicamente pianificato e gestito da chi intende appropriarsi delle ricchezze per eccellenza: il nostro tempo, la nostra libertà.

Il saggio del Prof. Luciano Gallino, ad una lettura poco attenta, può sembrare semplicemente un trattato sull’attuale crisi economica e le sue motivazioni d’esistenza, in realtà si tratta di una critica spietata alla nostra società. Una società in cui l’avere conta più dell’essere; una società in cui a scuola, per prima cosa, s’impara1 ad essere concorrente del proprio compagno di banco invece di crescere nella gioia di scoprire; una società dove tutta l’economia si fonda sul profitto, privando l’essere umano della sua dignità; una società dove il progresso deve essere solo crescita; una società dove l’economia ci spinge a lavorare a ritmi spaventosi per produrre cose per lo più inutili, che poi altre persone, sempre lavorando a ritmi spaventosi, dovranno comprare. Tutto questo solo per arricchire pochi, senza dare alcuna felicità a troppi e per di più impoverendo, materialmente ed umanamente, tantissimi altri. Schiavi del consumo, repellenti all’accrescimento culturale e delle coscienze. Un imbarbarimento ideale2 più che ideologico; infatti d’ideologia, nella nostra società-mondo, ce n’è anche troppa e quella dominante che ci sta schiavizzando, illudendoci di maggiori libertà, è proprio quella neoliberista.


Parte prima. La politica dell’Economia


I. Che cos’è il finanzcapitalismo

Le grandi organizzazioni gerarchiche che usano masse di esseri umani come componenti o servo-unità sono state definite, già nello scorso secolo, come mega macchine sociali3. Il Finanzcapitalismo, o capitalismo finanziario, non è altro che una mega-macchina sviluppata, a partire dagli anni ottanta, per estrarre valore sia dal maggior numero possibile di esseri umani, sia dagli ecosistemi. Si noti che l’estrazione di valore è un processo ben diverso dalla creazione di valore. Infatti si produce valore quando viene generato qualcosa che riesca a migliorare4 le condizioni di vita, al contrario si estrae valore, anche in maniera calcolata, quando quest’ultime vengono depauperate5.

Il capitalismo industriale aveva come motore l’attività manifatturiera, il capitalismo finanziario si alimenta grazie all’attività speculativa. Si è passati da un’economia reale, dove il denaro si trasforma in profitto grazie all’intermediazione delle merci (D1-M-D2), ad un’economia di finzioni contabili e d’ingegneria finanziaria dove il denaro, anche e soprattutto virtuale, genera altro denaro (D1-D2) senza alcun nesso con l’attività industriale o commerciale in senso stretto. Una trasformazione tale da stroncare definitivamente la flebile resistenza marxiana, che derubrica “il Capitale” a nozione d’archeologia economica.

Questo sistema fondato sul nulla, se non sulle scommesse (futures, opzioni e derivati in genere) e sulla cartolarizzazione, sfruttando la leva finanziaria, ha garantito dei rendimenti elevatissimi. Questi hanno superato anche il 30%, contrariamente al Pil mondiale che, da decenni, cresce ad un tasso annuo compreso tra il 3 ed il 5%. Poiché, alla fine della fiera, profitti e rendite aventi una base reale non possono superare la crescita della ricchezza prodotta, ci si accorge che qualcosa non torna e che questo surplus di valore deve, per forza di cose, essere estratto da altre fonti che non sia la sola produzione industriale6.

Purtroppo il capitale è potere e la brama di quest’ultimo genera mostri, così come il celeberrimo sonno della ragione. Il capitale è il potere di decidere che cosa, come e dove produrre. Il potere di controllare quante persone abbiano7 diritto ad un lavoro e quante altre saranno considerate numeri da tagliare; il potere di decidere quali malattie dovranno essere curate e quali altre trascurate; il potere di stabilire quali debbano essere i prezzi degli alimenti di base e quindi di scegliere quante persone dovranno morire di fame; il potere di decidere dove far scoppiare una guerra per approvvigionarsi di una certa risorsa; il potere di esportare l’illusione di una democrazia manipolata da governi fantoccio eterodiretti da oligarchie celate.

La storia è piena di esempi che mostrano la veridicità dell’assioma citato. Durante la stesura della mia tesi8 non ho potuto fare a meno di notare le affinità coi nostri tempi e pensare a come sia affascinante studiare i corsi e ricorsi della storia. Probabilmente, senza i numerosi interventi finanziari della famiglia Fugger, gli Asburgo oggi non avrebbero quel posto d’onore che gli si riserva nei libri. Se nel 1519 a Francoforte fosse stato eletto Francesco I di Francia (1494-1547) a dispetto di Carlo V d’Asburgo (1500-1558) oggi non sapremmo nulla del sovrano sul cui regno non tramontava mai il sole. Il capitale (sistema finanziario) è potere (sistema politico) e le due forze sono intimamente intrecciate.

Abbiamo assistito all’evoluzione storica del “finanziatore del potere” partendo dal semplice mercante medioevale, per passare al mercante-banchiere della prima Età Moderna, quindi alle banche stesse e dalle aziende più facoltose, per arrivare ai giorni nostri in cui esistono vere e proprie società finanziarie, dette bank holding companies, che operano in dozzine di settori differenti e che controllano al tempo stesso sia gli istituti bancari che le compagnie assicurative.

L’influenza del sistema finanziario sul sistema politico è aumentata a tal punto da trasformarsi da semplice strumento al servizio del potere in un capestro per manipolare e veicolare le strategie politiche stesse. In favore di lauti rendimenti da raccogliere nel breve periodo, il tutto a discapito del nostro avvenire. A conferma di ciò: gli Investitori Istituzionali, ovvero coloro che raccolgono i risparmi dei lavoratori per investirli per il “loro” futuro, gestiscono un capitale di oltre 60 trilioni di dollari, equivalente al Pil del mondo del 2009. Le loro strategie d’investimento influenzano pesantemente sia le sorti delle grandi corporation sia quelle dei bilanci statali. Questi detengono oltre la metà di tutte le società quotate in borsa, per cui hanno un ruolo determinante nel proporre e imporre politiche sia finanziarie che industriali.

Al contrario di quanto si pensi non è stata l’economia, con tutte le sue innovazioni, a travolgere la politica, bensì è stata la politica ad aver identificato i propri fini con quelli dell’economia finanziaria, adoperandosi con ogni mezzo per favorire la sua ascesa. La politica ha abdicato al proprio compito storico di incivilire la convivenza umana governando l’economia, contribuendo a trasformare il finanzcapitalismo nel sistema politico dominante a livello mondiale. Questo sistema è stato capace di unificare le civiltà preesistenti in una sola civiltà-mondo occidentalizzata, e al tempo stesso di svuotare di sostanza e di senso il processo democratico9.


II. Una civiltà asservita alla finanza dalla politica

Dal 1980 in poi l’economia è stata intensivamente finanziarizzata: il denaro generato attraverso altro denaro ed anche attraverso il debito, ha preso il sopravvento rispetto ai criteri guida dell’azione economica ovvero la produzione di merci per mezzo di altre merci al fine di ottenere un reddito (M1-D-M2). Oggi una banca privata può creare denaro anche in misura superiore dieci volte rispetto ai depositi in essa effettuati e registrati. In teoria secondo gli accordi di Basilea I e II, una banca europea sarebbe tenuta ad avere un cassa almeno 8€ ogni 100€ prestati e quindi dovrebbe limitarsi a concedere prestiti fino ad un massimo di dodici volte e mezzo il proprio capitale. In realtà attraverso la “finanza creativa” si riesce a creare debito, e quindi denaro, in misura enormemente superiore.

La politica si è impegnata ad adattare la società all’economia, anziché prefiggersi di regolare l’economia per adattarla alla società. Essa si propone tutt’al più di soccorrere in ultima istanza coloro che più direttamente sono stati colpiti dalla crisi piuttosto che tutelare tutti i cittadini dall’insicurezza socio-economica; invece di produrre beni comuni e tutelare quelli esistente, la politica mette in atto privatizzazioni per lasciarle produrle al mercato, con finalità di profitto, in sua vece.

A partire dagli anni ’80 i confini tra economia e politica sono stati spesso valicati, andando la prima sovente a condizionare la seconda. I primi interventi che hanno permesso questo sono stati le eliminazioni di tutte le misure ostative alla libertà di circolazione dei capitali, la facilitazione delle attività speculative delle banche e la possibilità di produrre strumenti finanziari sempre più complessi. Il pensiero neoliberale non è stato prerogativa esclusiva dei politici americani da Reagan (1981-1989) a Clinton (1993-2001), ma anche e soprattutto dall’intellighenzia europea, con paladini come Mitterrand (1981-1995), Thatcher (1979-1990) e Kohl (1982-1998).

Stiamo assistendo da tempo alle cosiddette revolving doors, ovvero alti dirigenti di istituzioni finanziarie private che diventano ministri o titolari di importanti cariche pubbliche o viceversa ex ministri che diventano dirigenti di grandi banche. Molti parlamentari, negli Stati Uniti, si stimano in circa un terzo, una volta finiti gli svariati mandati sono diventati consulenti di società private alle quali suggeriscono i modi più opportuni per influenzare le commissioni parlamentari di cui hanno fatto parte loro stessi per lungo tempo. Si veda il caso Tivelli10.

Queste strette relazioni simbiotiche tra politica ed economia sono state rese possibili con l’appoggio sostanziale dell’ideologia neoliberista, che dopo esser riuscita a pervadere l’intero sistema culturale, ha promosso e legittimato l’idea che l’intervento dello Stato nell’economia fosse quanto di più dannoso per l’accrescimento del benessere, demonizzando lo sviluppo dello stato sociale e l’eccessivo potere attribuito ai sindacati. Economisti della Scuola Austriaca, della Scuola di Friburgo e più tardi, ma più incisivamente, della Scuola di Chicago hanno promosso questa dottrina politica, che riveste i panni di una teoria economica, e che è stata lo strumento tecnico della controffensiva politica diretta a cancellare, per quanto possibile, le conquiste sociali delle classi lavoratrici ottenute nel trentennio dopo la seconda Guerra Mondiale: i diritti del lavoro, i servizi pubblici, i sistemi di protezione sociale, le pensioni. Queste hanno infatti compiuto nell’arco di una generazione un enorme balzo all’indietro gettando nell’oblio una grandissima fetta della società. Liceali che non hanno più, se non formalmente, il diritto allo studio; operai che devono mantenere con il sangue ed i denti il proprio posto di lavoro; impiegati senza una benché minima prospettiva di carriera; esodati senza né un lavoro, né una pensione; anziani senza la certezza di poter ricevere le giuste cure mediche per cui hanno pagato una vita tra tasse ed imposte.

I think tanks che hanno potentemente contribuito all’affermazione pressoché globale dell’ideologia neoliberista, dal dopo guerra ad oggi, sono stati foraggiati da gruppi finanziari e corporations industriali in diversi paesi. Il Cato Institute e la Heritage Foundation negli Stati Uniti, l’Adam Smith Institute e l’Institute of Economics Affairs in Gran Bretagna, la Mont Pelerin Society fondata in Svizzera nel 1947, le Bildelberg Conferences iniziate in Olanda nel 1952, la Trilateral Commission nata nel 1973 su iniziativa delle precedenti, hanno prodotto rapporti e memoranda che hanno considerevolmente influito sull’insegnamento universitario11, sui media e sulle politiche economiche dei governi.

Il neoliberismo propone di sottomettere ogni dimensione dell’esistenza alla razionalità economica, il culmine della quale è il calcolo dei costi e benefici cui deve sottostare ogni azione umana; asserisce, in modo categorico, che la società tenda spontaneamente verso un ordine naturale e di conseguenza occorre impedire che lo Stato, o il governo per esso, interferiscano con l’attuazione e il buon funzionamento di questo ordine. È un argomento che viene da lontano, fu usato almeno dal Seicento in poi per contrastare il potere monocratico del sovrano, ma che se applicato ad una società democraticamente costituita perde ogni essenza e si trasforma di fatto in un argomento contro la democrazia12.

Il sociologo Richard Sennett ha parlato di corrosione del carattere per descrivere gli effetti sulla personalità che provoca il lavoro del “capitalismo flessibile” imposto dal neoliberismo. Risulta improbo per la persona che lavora, nell’incertezza più assoluta del domani, sviluppare un senso di identità, poiché ciò richiede una lunga e paziente ricerca in se stessi. E’ arduo, sul lavoro e nella comunità, sviluppare rapporti sociali reciprocamente impegnativi. Come scriveva Hannah Arendt trovarsi a far parte di una società in cui le motivazioni, il senso d’identità, il riconoscimento sociale, i percorsi di vita, sono stati interamente costruiti attorno al lavoro dipendente salariato è molto pericoloso nel momento in cui questo viene a mancare. Siamo addestrati sin da piccoli ad acquisire competenze professionali tali da renderci produttivamente occupabili, scegliamo i licei e le università in funzione del lavoro che potremmo ottenere e non dello sviluppo della propria personalità, appiattendoci e livellandoci tutti: come usciti da una grande catena di montaggio di automi. La glorificazione teoretica del lavoro ha trasformato l’intera società in una società votata al lavoro, dove come uomini-macchina sacrifichiamo gran parte della risorsa per eccellenza, il nostro tempo, per lavorare a ritmi mentalmente devastanti, trascurando gli affetti, l’amicizie e tutto ciò che ci dà umanità.

Attorno al lavoro è stata costruita l’essenza della personalità moderna. La civiltà-mondo dove ogni confine tra economia, politica, cultura e comunità è stato dissolto, produce giovani dal costume decomposto, adulti rimasti o ricondotti allo stadio adolescenziale e cittadini che hanno introiettato il vangelo del consumo in luogo delle regole della democrazia. La pubblicità e il marketing in senso più ampio plasmano le personalità degli individui sin dall’infanzia13 e li seguono passo dopo passo nel cammino della vita. Viene distorto il processo educativo che dovrebbe avere come esito la sensibilizzazione di cittadini consapevoli, determinati a far valere ad ogni livello dell’organizzazione sociale, e in ogni suo ambito, il principio per cui la libertà politica significa partecipare al governo della cosa pubblica, oppure non significa nulla14. Al contrario, il vangelo del consumo crea individui che vedono, come massima espressione della propria libertà, la possibilità di scegliere tra migliaia di prodotti pressoché simili nel proprio valore d’uso o d’indossare capi d’abbigliamento griffati esibendo l’infantile subordinazione ai calcoli degli uffici di marketing. A tal propostiti Gallino scrive che “attendersi che individui così plasmati nel profondo della personalità si adoperino per trasformare la civiltà-mondo in crisi è senza speranza e senza senso poiché essi sono la civiltà-mondo” stessa. Questa è un’affermazione forte da confutare, il processo involutivo umano non è irreversibile, talvolta può bastare un buon libro per renderci liberi. Ciò che è difficile è contagiare gli altri e alleggerire la pressione dell’iperinformazione. Troppo spesso ci s’illude di essere migliori dell’altro solo perché si posta sui social network qualche tweet apparentemente eversivo. Dobbiamo riscoprire la vera condivisione e soprattutto la collaborazione, tornare ad essere animali sociali che non disdegnano la tecnologia, ma la plasmano usando il buon senso e l’umanità di cui siamo ancora fortunatamente dotati.

L’uomo-macchina generato da questa nostra società tratta l’ambiente come una risorsa da sfruttare e non come il luogo dove dovrà vivere con la sua progenie. Questa nostra civiltà, intrisa di neoliberismo, attribuisce valore principalmente al consumo delle risorse naturali, ignorando del tutto nella sua contabilità il valore della produzione e riproduzione ad opera della Terra. Approssimativamente il 60% delle risorse naturali sin ora prodotte dagli ecosistemi sono stati degradati in soli cinquant’anni o quanto meno sono stati utilizzati in modo non sostenibile. Stiamo vivendo con l’illusione della crescita senza limiti, senza tener di conto che la qual cosa prevede di consumare risorse illimitate, se non che il luogo fisico dove viviamo, la Terra, è per sua natura limitato e dotato perciò di risorse finite. Si possono citare a tal riguardo la distruzione delle foreste primarie, che procede al tasso di 13 milioni di ettari l’anno (pari a metà superficie del Regno Unito); il mutamento climatico; l’inquinamento dell’aria, dei suoli e delle acque fluviali e marine; l’erosione, la desertificazione e la salinizzazione dei suoli; la perdita di biodiversità di specie animali e vegetali; l’accumulazione di rifiuti tossici. Tutto questo in nome del mero consumo.

La crisi economica che si estende ormai dal 2007, e minaccia di continuare se non di aggravarsi, ha contribuito a mettere in luce l’insostenibilità sistemica (sociologica e ambientale) in netta contrapposizione alla dottrina neoliberista che ha sinora propugnato il consumo sfrenato come unica via percorribile per incrementare il benessere sociale.


(1/2. Segue)


Enrico Mungai*


* Docente di Economia di istituti tecnici superiori.


Note

1 T. Terzani, Monologo sulla felicità, 2004.

2 G. Leopardi, 1818: “aspirazione o desiderio di natura estetica, morale o intellettuale in contrapposizione agli interessi della vita materiale”.

3 L. Mumford, 1934.

4 Per es. quando si costruisce una casa o una scuola, si elabora una nuova cura, si offre un posto di lavoro retribuito, si piantano degli alberi…

5 Per es. quando si provoca un aumento dei prezzi delle case manipolando i tassi d’interesse o le condizioni dei mutui, si impone un prezzo artificiosamente alto per la nuova cura, si aumentano i ritmi di lavoro (produttività media del lavoro) a parità di salario, si distrugge un bosco per farne un parcheggio…

6 “Una redistribuzione della ricchezza a spese di altre fonti di reddito realizzata mediante manipolazione di prezzi a scopi speculativi, salari in flessione, privatizzazione di prestazioni statali o sfruttamento internazionale. La crescita del capitale in forza di un rendimento più elevato è soltanto un’espressione monetaria nominale. In questo caso essa corrisponde a una inflazione dei titoli finanziari, a una bolla” (K.H. Brodbeck, 2009).

7 Durante una delle prime lezioni di Economia Aziendale nel triennio fui sconvolto da un’affermazione della Prof.ssa Sibilio: “la produzione genera la domanda”. Ingenuamente avevo sempre pensato fosse il contrario, ovvero che siano i bisogni dell’uomo ad indurre le aziende a creare prodotti che possano soddisfarli. Invece, basta guardare le nostre case e rendersi conto della quantità di orpelli inutili che ci circondano per capire come stanno le cose. Siamo indotti ad acquistare per soddisfare i nostri bisogni indotti, talvolta sopraffacendo anche quelli primari.

8 “Rico como un Fucar, gli affari dei Fugger con la Corona di Spagna nella Prima Età Moderna”, relatore Prof. F. Guidi Bruscoli, candidato E. Mungai, 2011.

9 L. Gallino, Finanzcapitalismo, 2011.

10 Luigi Tivelli, consigliere parlamentare del presidente del Consiglio, capo di Gabinetto ai rapporti con il parlamento e coordinatore della conferenza dei capi di Gabinetto, portavoce di ministri e membro di varie Commissioni governative, con una conseguente significativa conoscenza ed esperienza, più che ventennale, del mondo governativo. Nel mese di Dicembre 2013 è stato accusato dal M5S di fare pressioni nei confronti del PD riuscendo così a cambiare un emendamento proposto da Roberto Speranza che avrebbe altrimenti imposto tagli alle “pensioni d’oro”.

11 A conferma di ciò una definizione ascoltata durante una lezione universitaria “L’esistenza di una specie ha valore per l’economista solo se dà utilità diretta (cibo, vestiti, compagnia…) o indiretta ovvero se legata all’esistenza di una specie importante”.

12 W. Brown, Neoliberalism and the End of Liberal Democracy, 2003.

13 Basti pensare a Ronald McDonald, la mascotte-clown, e alla potente strategia di fidelizzazione infantile messa in campo dalla catena di fast food più famosa e più diffusa nel mondo.

14 H. Arendt, Sulla rivoluzione, 1963.


Inserito il 15/02/2024.

Rileggendo Finanzcapitalismo di Luciano Gallino

di Enrico Mungai*

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Rileggendo Finanzcapitalismo di Luciano Gallino
(Einaudi, 2011)


di Enrico Mungai*


Seconda parte


Parte seconda. Cause ed effetti della crisi


III. La piramide degli schemi esplicativi

L’economia statunitense, e di conseguenza anche quella europea, è stata bruscamente frenata dall’esplosione della bolla della new economy15 e dagli attentati dell’11 settembre. Vari economisti mainstream fedeli al credo neoliberalista, suggerirono come unica via d’uscita l’aumento dei consumi. Lo stesso George W. Bush, a poche ore dagli attentati delle Torri Gemelle, invitò il popolo americano a frequentare in massa i supermercati in modo da reagire con orgoglio agli attacchi.

Si noti che un eccezionale motore per aumentare i consumi privati è l’edilizia. Infatti oltre al lavoro di manodopera in senso stretto, che di per sé comporta alti livelli occupazionali, la costruzione di case trascina interi comparti industriali: a partire dai servizi di progettazione e consulenza, quindi le installazioni idrauliche ed elettriche, fino ad arrivare agli arredamenti d’interni e di rifinitura. Il governo americano e la Fed decisero quindi d’incentivare l’edilizia residenziale per uscire dalla stagnazione.

Tra il 2001 ed il 2006 venne facilitato l’accesso al credito da parte delle famiglie anche meno abbienti e furono praticati tassi d’interessi bassissimi. Le banche, da parte loro, iniziarono attività di cartolarizzazione, ovvero il credito che veniva concesso da una banca ad una famiglia o ad un’azienda veniva subito trasformato in un titolo commerciabile e rivenduto a delle società-veicolo, in genere create o sponsorizzate dalla stessa banca, denominate Structured Investment Vehicles (Siv). Queste con i prodotti acquistati confezionavano dei portafogli (Collateralized Debt Obligations, Cdo) di titoli con diverse strutture di rischio, dopo di che venivano a loro volta rivenduti agli investitori istituzionali. Così facendo, i titoli venduti alle Siv uscivano dai bilanci delle banche, in modo da permetter loro di concedere mutui ben oltre la riserva legale16. Così per la banche viene meno il ruolo di filtro per gli investimenti, infatti scaricando in toto il rischio di solvibilità sulle Siv, non si preoccuparono granché dell’affidabilità creditizia, erogando mutui anche a persone o aziende senza i requisiti fondamentali. Tale rischio veniva trasferito in prima battuta dalle Banche alle Siv, poi da quest’ultime agli Investitori Istituzionali e quindi ai risparmiatori che versano quote di stipendi in fondi pensione e/o assicurativi. Uno scaricabarile che ha lasciato lavoratori, e amministrazioni pubbliche, con il cerino in mano.

Questa campagna governativo-bancaria in un primo momento riuscì a dare un minimo di sollievo dalla crisi, ma come risvolto della medaglia e con nefaste conseguenze generò una maggiore pressione sulla domanda abitativa, facendo così salire il prezzo delle abitazioni17. Queste continuarono però ad essere acquistate anche da chi non poteva effettivamente permetterselo. Per ingigantire ancor più la bolla, alcuni soloni della finanza creativa convinsero le già indebitatissime famiglie americane a chiedere rinegoziazioni al rialzo dei prestiti ottenuti, ovvero potevano chiedere ulteriori fondi ipotecari garantiti dal maggior valore degli immobili. Venivano concessi mutui facili con a garanzia immobili con un valore in piena bolla speculativa, questi prestiti venivano cartolarizzati, venduti e messi fuori bilancio, per concederne altri ancora e ancora. Si era entrati in un circolo vizioso, un sentiero che di lì a poco si sarebbe rivelato insostenibile. Nel 1997 il debito privato americano era pari al 66% del Pil, nel 2007 esplose al 99,9% del Pil18.

Nel 2007 la Fed aumentò i tassi d’interesse innescando così forti aumenti nelle rate19 dei mutui a tasso variabile, molte famiglie dal modesto reddito non riuscirono più a far fronte ai propri impegni e smisero di pagare i debiti contratti. Il valore delle case scese rapidamente sotto il livello del capitale da rimborsare. Seguì un’ondata di sequestri giudiziari che fece crollare ancora più il valore degli immobili e di conseguenza dei vari prodotti finanziari strutturati che li avevano come sottostante.

Gli Investitori Istituzionali, ivi comprese molte banche europee, che avevano acquistato migliaia di miliardi di dollari di prodotti finanziari strutturati, in specie obbligazioni tipo le Cdo contenenti migliaia di mutui cartolarizzati, dovettero constatare che il loro portafoglio stava subendo cospicue perdite. Smisero quindi di comprare e, laddove possibile, rivendettero le loro quote, facendo crollare ulteriormente il prezzo di questi titoli. Le Siv si trovavano in gravi difficoltà già nei primi mesi del 2007. Le banche, proprietarie o sponsor, dovettero quindi per non correre rischi di perdite ingenti o di drastici danni reputazionali intervennero a sostegno delle Siv con centinaia di miliardi di dollari. Anche le società che avevano assicurato o riassicurato i mutui dal rischio incapparono in pesanti perdite, non poche dovettero essere salvate dallo stato. Non meno colpite furono le società specializzate nel collocare in borsa i titoli di debito ricavati dalla cartolarizzazione dei mutui. Fanny Mae e Freddie20 Mac21, entrambe divenute semiprivate, vennero salvate dal fallimento ad inizio autunno 2008 grazie a 200 miliardi messi a disposizione del governo federale. Lo slogan neoliberista “if government is the answer, it was a stupid question” ovvero il mito del privato efficiente contro il pubblico parassita fu clamorosamente nascosto in cantina. Le banche smisero quindi di compiere o ridussero al minimo l’operazioni di prestito interbancario, ovvero di finanziare i temporanei disavanzi di cassa degli altri istituti, generando il cosiddetto credit crunch22. In poco più di un anno la “crisi dei subprime” ha distrutto valore per 25 miliardi di dollari, una somma equivalente a poco meno della metà del Pil mondiale del 2007. Stime del FMI prevedono che la spesa totale per il salvataggio di tutti gli istituti di credito e assicurativi da parte dei governi supererà i 15 trilioni di dollari.

Il sistema finanziario è uno strumento indispensabile per il buon funzionamento dell’economia reale, ma quando questo supera di svariate volte il valore della realtà e soprattutto agisce nell’ombra, ovvero fuori dalla visibilità (over the counter, Otc) seppur in maniera del tutto legale, abbiamo in mano una bomba innescata e pronta ad esplodere: non sappiamo quando, ma lo farà.

L’assioma secondo cui il mercato dei capitali alloca sempre e rapidamente questi ultimi nel modo più efficiente, è stato sconfessato a caro prezzo e sulla nostra pelle. Le banche Usa e Ue hanno sviluppato, in poco più di vent’anni, un gigantesco sistema finanziario ombra per aggirare le disposizioni e gli accordi relativi alla quota di capitale da tenere a riserva al fine di ottenere, a tutti i costi, la massimizzazione dei ricavi derivanti dai crediti concessi. L’assunzione della massimizzazione del valore per l’azionista come paradigma, cui deve attenersi il management di qualsiasi società, industriale o finanziaria che sia, ha formato una classe dirigente devota al risultato di brevissimo termine, una schizofrenica gestione che mira in primo luogo al valore giornaliero delle quotazioni dei titoli della propria società. Gli stessi manager vengono incentivati con stock options nel tentativo di rendere più redditizio e stimolante il proprio mandato di gestione. Tutto questo, spesso, facendo perdere il senso originario del fare impresa, ovvero la creazione di beni o servizi da mettere sul mercato in attesa di un compratore. “È imprenditore chi esercita professionalmente un'attività economica organizzata a fine della produzione o dello scambio di beni e servizi” art. 2082 del Codice Civile italiano.

Politici e partiti che si reputavano di sinistra hanno contribuito in maniera fondamentale alla deregulation. Questa ha permesso la creazione legale del sistema ombra e la globalizzazione finanziaria, è decollata grazie al sostegno della “nuova sinistra” britannica, tedesca ed italiana, ivi compresi gli auto-estinti partiti comunisti; il che costituisce, a posteriori, un paradosso a fronte di un processo mondiale che è stato condotto in funzione antioperaia. Al contrario di quanto solitamente si crede, la liberalizzazione dei movimenti di capitali non è stata un’invenzione appannaggio esclusivo degli economisti, banchieri e politici americani, gli europei l’hanno in subordine imitata e fatta propria, dando una spinta autonoma e di grande forza.

I francesi che fino al 1983 avevano provato a combattere l’espatrio di capitali nazionali all’estero senza riuscirvi, hanno ben pensato di provare a regolare la libertà di detti movimenti al fine di ottenere almeno dei proventi da una qualche cosa che non si riusciva ad arginare. Prendeva così corpo, accanto se non addirittura prima del famoso Consenso di Washington, il Consenso di Parigi. Dal 1986 in poi varie personalità francesi arrivarono a figurare in primo piano tra coloro che resero possibile la globalizzazione come la conosciamo oggi. Non sono stati gli Stati Uniti che hanno condotto la battaglia per istituire le regole e gli obblighi di un mercato finanziario liberale, ma sono stati i francesi che hanno preso la testa del movimento neoliberista in Europa.

Negli Usa la battaglia per liberalizzare i movimenti di capitale, adducendo in molti casi proprio l’esempio battistrada dell’Europa, ha preso soprattutto forma di smantellamento della legislazione che durante i primi due mandati presidenziali di Franklin D. Roosevelt (1932-1940) era stata introdotta per impedire alle banche e altre soluzioni finanziarie di operare con finalità speculative, largamente eccedenti la loro funzione primaria di sostegno dell'economia reale. La Glass-Steagall del 1932 impediva alle banche commerciali di operare allo stesso tempo come banche di investimento, vietava di collocare fuori bilancio sia attivi che passivi, ostacolava gli scambi di derivati al di fuori delle borse a fini speculativi, poneva un freno all’ingigantimento degli enti finanziari mediante fusioni e acquisizioni. In altre parole la legislazione introdotta dal Congresso dopo la crisi del ’29 impediva alle istituzioni finanziarie di compiere quasi tutti quei generi di operazioni che erano stati all'origine della crisi di allora e lo sono state, su un piano ancora più ampio, di quella attuale. Questa legge fu abrogata dalla Gramm-Leach-Bliley, firmata dal Presidente William J. Clinton, veniva di nuovo reso possibile alle banche di compiere tutte le operazioni ricordate sopra, a conferma del fatto che la memoria storica dei politici, e dei banchieri, è davvero corta. Degno di nota anche e soprattutto il Commodity Futures Modernization Act (Cfma) del dicembre 2000, anch’esso a firma Clinton, legge che ha spalancato le porte alla moltiplicazione senza limiti dei derivati trattati al di fuori dei mercati della borsa. Cavillo legale, poco, abilmente sfruttato dall’azienda considerata l’archetipo dei disastri finanziari-industriali degli anni 2000, la Enron.

In primo luogo la Fed e la Sec, ma anche la Banca d’Inghilterra e la Fsa, nonché la Banca Centrale Europea hanno sovente spianato la strada delle liberalizzazioni dando scarso peso ai pericoli e non di rado ignorandoli del tutto. Molti osservatori erano a conoscenza della bolla dei subprime già dal 2003, basti ricordare un memoranda del World Economic Forum (Wef), associazione ultraliberale, che nel 2007 affermò che i prezzi delle case erano raddoppiati in pochissimo tempo e che molti esperti temevano una caduta degli stessi e su larga scala, con conseguenti impatti sul consumo, la crescita economica e il prezzo di altri attivi. Un rischio stimato sopra il 10%, un rischio altissimo: nessuno si sognerebbe mai di utilizzare un’ascensore con una probabilità su dieci di guastarsi mentre è in funzione. Nonostante simili preavvisi né Alan Greenspan, il presidente della Fed che aveva favorito la bolla con la sua politica monetaria, né tanto meno il suo successore Ben Bernanke manifestarono alcun dubbio sul sistema finanziario, anzi affermavano che si fosse giunti ad una tale maturità da non avere più alcun bisogno da parte delle stato, perché l’attuale sistema finanziario era perfettamente in grado di auto regolarsi. Eppure già nei primi anni del millennio il capitalismo finanziario è giunto ad albergare in sé una serie di squilibri economici e sociali insostenibili. Prima fra tutti possiamo annoverare la diseguaglianza costituita dall’astronomico arricchimento del 10% della popolazione mondiale e la stagnazione trentennale del reddito del restante 90%; e ciò va enfatizzato non tanto per motivi di giustizia sociale, che di per sé meriterebbero un posto di riguardo, ma perché essa significa che l’estrazione del reddito dalla popolazione lavoratrice da parte della classe dominante ha ormai raggiunto un limite insopportabile.

Come mai tutte le avvisaglie sono state ignorate? Non esistevano addetti ai lavori in grado di rendersi conto che la barca stava affondando? In molti casi effettivamente è stato così, non era infatti semplice capire, in portafogli compositi e variegati, quali titoli erano effettivamente più o meno tossici, fin quando questi non deflagravano; ma soprattutto perché con gran vigore dagli anni ’50 in poi molti economisti si sono arditamente impegnati nel rendere l’economia indecifrabile ai più, acconciando, di formule matematiche chilometriche ed integrali simili a geroglifici, la semplicità della “amministrazione delle cose domestiche” , piuttosto23 che studiare sistemi economici sostenibili e socialmente desiderabili. La maggior opera di economia del Novecento, la Teoria Generale di John Maynard Keynes (1936), su quasi 400 pagine contiene in tutto, appendici comprese, tre o quattro semplici equazioni. Questa ha risollevato le sorti del mondo dopo la Grande Crisi del ’29, modelli matematici rappresentanti un’astrazione della realtà ci hanno gettato nella Grande Recessione che dal 2007 ci affligge tuttora.


IV. Costi umani della crisi

La ricchezza del mondo consta di azioni, obbligazioni, derivati, case d’abitazione, edifici commerciali, impianti industriali, capitali gestiti da fondi pensione, fondi comuni e compagnie di assicurazione… secondo la Oxford Economics le stime della distruzione di ricchezza variano tra i 25-28 trilioni24 a 100 trilioni di dollari25.

Nel solo 2008 i sequestri di abitazioni dei residenti morosi hanno toccato i 4 milioni, con un aggregato di 25 milioni di persone che si sono ritrovate senza un tetto. La disoccupazione è a dei livelli galoppanti e soprattutto quella giovanile tocca dei picchi elevatissimi26. A questi si vanno ad aggiungere i lavoratori poveri, ovvero le persone che pur lavorando regolarmente percepiscono una paga inferiore a quella mediana del paese di riferimento27. Fortunatamente, questo sistema finanzcapitalistico ha previsto la flessibilità lavorativa garantendo così dei contratti di lavoro occasionale28. La Banca Mondiale ha stimato in circa 1,5 miliardi le persone che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno. In Europa il 16% della popolazione è ufficialmente considerata povera, dato che cresce sensibilmente se si considera la fascia 0-17 anni29. La Grande Recessione, scaturita dal semi-collasso di un sistema astratto e virtuale, ha causato danni più che tangibili e a farne le spese sembrano essere proprio le classi più deboli, con i giovani in prima linea.

Oltre che alla distruzione della ricchezza reale stiamo assistendo anche allo smantellamento progressivo delle conquiste sociali avvenute nel secondo dopoguerra. Per varie ragioni, quantità e qualità delle cure mediche fruite dalle famiglie, comprese quelle erogate dal sistema sanitario nazionale, diminuiscono quanto più queste s’impoveriscono. Nel corso di una crisi economica la prima a declinare è la spesa privata per la sanità: le persone tendono a ritardare il ricorso al medico per evitare le spese sanitarie, di trasporto e di assistenza comportando un aumento delle malattie gravi che potevano essere evitate con cure preliminari; la crisi provoca una riduzione delle entrate fiscali e quindi lo sviluppo e diffusione dell’assistenza sanitaria pubblica. E’ un cane che si morde la coda, più le famiglie s’impoveriscono e più il sistema sanitario s’indebolisce.

L’ideologia neoliberista, per sua natura, è una fiera nemica dei sistemi pubblici di protezione sociale: pensioni e sanità, settori in cui circolano capitali nell’ordine di trilioni di dollari e/o euro, sono delle succulenti prede. La loro privatizzazione, in maniera pressoché totale, aprirebbe un terreno fertilissimo ed ampio per le attività e i profitti di ogni genere di istituzione finanziaria. La popolazione occidentale sta invecchiando, il target primario per l’estrazione di valore umano sono dunque gli anziani, al crescere dei quali aumenteranno le pensioni da poter gestire e le spese sanitarie da imputare. Una gallina dalle uova d’oro.

Uno degli argomenti più comunemente addotti per concludere che i sistemi di protezione sociale non sono più economicamente sostenibili è il deterioramento dei bilanci pubblici. Molti governi hanno deciso che, considerate le elevatissime spese effettuate per proteggere le istituzioni finanziarie, dall’altro la crescente incidenza dei sistemi pubblici sul Pil, occorreva tagliare come prima cosa le prestazioni erogate da questi ultimi30. In Grecia, per far fronte a un debito pubblico che a giudizio delle agenzie di rating, società private di proprietà dei più ricchi finanzieri del mondo, era divenuto eccessivo e a rischio di default, il governo ha deciso a dicembre 2009 e a marzo 2010 vari interventi di austerità. Lo stesso esempio è stato seguito anche dagli altri PIIGS et all31.

In Italia come negli altri paese UE, siamo dunque dinanzi a misure di austerità volte a chiedere alla maggioranza economicamente più debole della popolazione di “salvare il bilancio pubblico”, mentre non vengono sfiorati minimamente i più ricchi. I 15 trilioni di dollari impegnati dai governi occidentali per salvare le istituzioni finanziarie dal disastro corrispondono agli investimenti che sarebbero necessari per raggiungere tutti gli 8 Scopi del Millennio indicati dall’ONU per tutti i paesi interessati. Rubare ai poveri per dare ai ricchi. Solamente tra il 2008 e il 2010 i soli stati UE hanno impegnato 4,6 trilioni di euro per salvare istituzioni private grazie ai bilanci pubblici. Coloro che stanno già pagando la crisi sulla propria pelle, ovvero studenti, lavoratori e pensionati, devono accettare supinamente di pagarla una seconda volta, vedendosi rapinare al fine di salvare i colpevoli del disastro.


Parte terza. I fondamenti strutturali


V. Come opera la mega-macchina del finanzcapitalismo

Negli Usa, nel periodo di maggior espansione borsistica di tutti i tempi (1982-2000), le emissioni nette di azioni sono state negative. E’ necessario sfatare il mito che, al presente, le imprese si finanzino in prevalenza attraverso la borsa: infatti si ricorre al mercato del credito e all’autofinanziamento; basti pensare all’Italia, che ne è il più fulgido esempio32. Il capitalismo finanziario genera soprattutto l’accumulazione di capitale entro se stesso, servendosi di strumenti come i derivati che nel 2008 hanno raggiunto l’abnorme valore 1,3 quadrilioni di dollari, cioè 21,4 volte il Pil mondiale dell’anno. La distanza tra economia reale e finanziaria è immensa, tutto ciò ad evidenziare di come la ricchezza sia stata creata per mezzo di artifici senza alcun nesso con l’economia industriale e commerciale. Seguendo i dettami neoliberisti, ovvero il capitale si dirige dove c’è maggiore redditività, le banche hanno rinunciato, in gran parte, alla loro basilare funzione di prestito ad imprese e famiglie per concentrarsi sul commercio di titoli, divise estere e sulla speculazione. Gli investitori istituzionali, sempre nel 2008, detenevano in portafoglio almeno il 50% delle società quotate in borsa ovvero un capitale complessivo superiore al Pil del mondo. Questi richiedevano alle imprese, di cui erano proprietari, un Roe33 nell’ordine del 15 per cento anche quando l’economia cresceva ad un ritmo 5 o 6 volte inferiore. Le imprese, di conseguenza, hanno finito col dare sempre maggior spazio alle attività finanziarie a discapito di quelle industriali, dato che le prime garantivano una redditività ben superiore alle seconde. La capitalizzazione in borsa e la massimizzazione del valore per gli azionisti sono diventati le stelle polari per gli alti dirigenti, facendo però soffrire gli investimenti in ricerca e sviluppo, l’introduzione di nuove tecnologie, il rinnovo degli impianti, così come il livello dei salari e le condizioni di lavoro. Di fatto gli enti finanziari dirigono sempre meno denaro verso investimenti produttivi, per contro lo destinano in misura crescente alla speculazione: il capitalismo dell’arbitraggio.

L’estrazione di valore, come sottinteso, non avviene solo a danno delle imprese, ma bensì anche in spregio alla civiltà umana e all’ambiente. Nei confronti degli esseri umani, l’estrazione di valore si compie attraverso il lavoro. Si preclude l’educazione morale delle persone al fine di non generare cittadini consapevoli e si punta tutto sulla costruzione del consumatore. Per schiavizzare l’umanità s’induce a credere che la soddisfazione esistenziale per eccellenza sia lo sfoggio di beni materiali. Un processo di regressione culturale in cui l’automatizzazione dell’essere umano la fa da padrona. Riducendo il lavoro salariato nella sua quantità e qualità e comprimendone i diritti connessi s’innesca un effetto domino che in seguito sarà illustrato. Le delocalizzazioni e gli investimenti diretti all’estero finanziati dalle grandi banche, in prima fila Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, trasferiscono sostanziosi volumi di produzione di beni e servizi in paesi emergenti dove il costo complessivo del lavoro è fino a dieci volte inferiore a quello dei paesi occidentali. Questa concorrenza ha generato un processo deflativo sui salari dei paesi più sviluppati, tanto che in Italia gli stipendi in termini reali sono fermi agli anni ’90, mentre negli Stati Uniti sono fermi addirittura al 1973. In parallelo alla compressione dei diritti e all’erosione dei sistemi di protezione sociale, nei paesi più sviluppati è aumentata la quota dei lavoratori poveri. L’impoverimento del proletariato si figura in tre forme: nominale, reale e relativa. Un lavoratore povero ottiene un paga nominalmente molto inferiore alla mediana; il suo salario reale permette di acquistare meno beni rispetto agli anni precedenti; il rapporto relativo tra salario reale e produzione oraria è minore di quanto non lo fosse in passato. In altre parole, oggi i lavoratori sono più produttivi, ma costano di meno. Ergo: sono sfruttati più che in passato.

Il finanzcapitalismo ha elaborato scientificamente, e quindi applicato a oltranza in tutto il mondo, il concetto di “valorizzazione” delle risorse naturali attraverso vari progetti. Questi sono stati largamente finanziati dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale, ma anche le maggiori banche private e gli investitori istituzionali sono assai attivi in questo campo. I targets principali di questi progetti di estrazione del valore dall’ambiente impattano paesi emergenti che non avrebbero i mezzi per realizzarli in proprio. Si veda l’estrazione di petrolio in Nigeria, di diamanti in Congo, di bauxite in Brasile, di tungsteno in Cina. Il paradosso in cui si impiglia il modello contabile del finanzcapitalismo è che il valore delle risorse naturali, determinato da quanto costerebbe riprodurre artificialmente anche solo alcuni dei servizi che naturalmente esprimono, anche nel breve periodo può essere varie volte superiore al ricavo che si ottiene dalla loro distruzione. Se si pensa alla foresta Amazzonica, quindi se si compara il valore commerciale del pregiatissimo tek, ai costi per assorbire artificialmente l’ossido di carbonio e produrre l’ossigeno, compito naturale della fotosintesi, non si ottiene che un bilancio negativo. Un palese fallimento delle prescrizioni neoliberiste.

I bisogni primari dell’uomo sono quello di respirare, alimentarsi e bere. Se al momento, per quanto riguarda il primo bisogno, il finanzcapitalismo pare stia incontrando alcune difficoltà nell’estrazione di valore, non è così per gli ultimi due. Questi vengono minacciati in prima battuta dall’assalto globale al sistema agro-alimentare ed in misura collaterale, ma fondamentale, dalla scarsità di lavoro. La particolare attenzione dedicata al settore ha come scopo la trasformazione di ogni segmento del sistema in una fonte di profitto e non la volontà di assicurare alla popolazione mondiale un’alimentazione migliore e più sicura. La popolazione non viene affamata perché esiste una minoranza cinica e cattiva che controlla le sorti del mondo, ma semplicemente perché questa minoranza è alla ricerca continua di prede da spolpare per rimpinguare i propri forzieri. A tal proposito è bene ricordare che il patrimonio aggregato delle 1000 persone più ricche del mondo, è più cospicuo del medesimo aggregato delle 1,5 miliardi di persone più povere, ovvero il 22 per cento degli abitanti della Terra. E’ più facile garantire gli interessi di un migliaio di “eletti” oppure tutelare la restante plebaglia? L’estrazione del valore avviene in favore dei primi e a discapito dei secondi.

Ad oggi la metà esatta del mercato globale delle sementi è controllato da dieci corporation; l’85% del mercato globale delle granaglie è controllato da tre società; appena una decina di industrie controllano il mercato mondiale degli alimenti confezionati. La propensione all’integrazione verticale delle società che dominano il sistema agroalimentare appare da alcuni anni rafforzarsi per mezzo dell’acquisto di immense superfici di terreni agricoli in ogni parte del mondo, da destinare a monocolture estensive. Il finanzcapitalismo ha così distrutto o ha compromesso larga parte dell’agricoltura tradizionale, fondata sulla piccola azienda pluricolturale, anziché fornirla di tecnologie più efficienti ad essa adeguate e migliori accessi ai mercati. Ha drasticamente ridotto la biodiversità delle piante alimentari, con i rischi che ne derivano a carico dei futuri raccolti. Ha distrutto innumerevoli mercati locali dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, grazie ai sussidi che Usa e Ue erogano alle loro agricolture. Ha ampliato a dismisura la forbice tra i prezzi pagati ai piccoli produttori e quelli pagati dal consumatore, tagliando ferocemente i primi ed aumentando i secondi. Ha sottratto decine di milioni di ettari all’agricoltura alimentare in favore dei biocarburanti, facendo salire i prezzi di cereali e riso. Il paradosso agro-alimentare è che nonostante gli svariati trilioni di dollari investiti dalle corporation nel settore, la situazione alimentare del pianeta è peggiorata e di molto. Si stimano in 1,2 miliardi le persone che entro il 2017 saranno sottonutrite ovvero che soffriranno la fame.

Il sistema del capitalismo finanziario, che ha generato tutto questo, ha delle fragilità sistemiche che lo hanno portato al collasso. Queste sono dovute in primo luogo all’uso eccessivo dell’effetto leva approfittando della licenza concessa dalla legge di non iscrivere a bilancio volumi enormi di derivati. Quando un ente ha debiti pari a 30-40 volte il capitale proprio, oppure controlla una piramide di società semplicemente detenendo l’1 o il 2 per cento del loro capitale consolidato, basta una richiesta di rimborso consistente da parte di un prestatore, o il fallimento di una società della holding, per obbligare l’ente stesso a chiedere immediatamente un grosso prestito ad un ente terzo; ma se questo si trova in una situazione analoga, l’intero sistema entra in fibrillazione.

Il Prof. Gallino nel corso del suo elaborato incrimina spesso il capitalismo finanziario, come se questo in qualche modo potesse vivere di una propria linfa vitale ed avesse una propria esistenza autonoma. Non si tratta di un essere vivente con una propria intelligenza, bensì della degenerazione del pensiero liberale, sfociato nel miglior strumento di schiavitù mai concepito dall’uomo. Se proprio si vuole trovare un colpevole, questo va fatto coincidere con l’uomo ed in fattispecie con alcune delle famiglie più potenti al mondo34.

Senza volersi soffermare sullo scopo di questa élite, all’osservatore più attento apparirà come in un puzzle composto da tantissimi pezzi, il sottile filo rosso che collega tutti gli eventi che hanno portato alla deflagrazione della Grande Recessione. Si tratta di un vero e proprio assalto allo stato sociale ed ai diritti acquisti, che mira a destabilizzare la società e a trasferire la ricchezza dei molti nelle mani di pochi. Prima si è intervenuti liofilizzando i diritti dei lavoratori e minando le poche certezze del proletariato, quindi si è colpito il patrimonio abitativo, ora si stanno mettendo le grinfie su pensioni e sanità, presto inizieranno gli affondi definitivi sull’istruzione pubblica, il cibo è già vittima dei derivati, l’acqua sarà la prossima, senza sottovalutare l’indebolimento degli organi di pubblica sicurezza…


Parte quarta. Conclusioni


L’economia reale, nell’ultimo secolo almeno, si è evoluta grazie al sostegno dell’economia finanziaria: se un’idea era sostenuta dalle giuste competenze era possibile trovare un finanziatore pronto a credere nel progetto d’impresa. Questo era, fino a poco tempo fa, la concretizzazione del sogno americano. Questa è l’economia buona, l’economia reale, dove si producono beni e servizi, dove ci si può anche arricchire e molto, ma grazie alla volontà e alla tenacia.

La favola dell’economia casinò, delle scommesse e dei derivati è al declino? La moda dello yuppies arrogante è al capolinea? Si torna alle origini e alla saggezza popolare secondo cui i soldi facili non esistono?

Stiamo vivendo in un periodo dove il buon padre di famiglia si è trasformato in un giocatore d’azzardo patologico, dove le banche hanno preferito i mercati ombra, fuori dalle regole della borsa, per scommettere cifre folli con i soldi dei risparmiatori. Appunto come se un capofamiglia sperperasse tutta la mensilità al videopoker nella speranza di una vincita effimera. Ci si può illudere, ma la legge dei grandi numeri non perdona e nel medio periodo non può che essere il “banco” a guadagnare. Le scommesse sono fatte così, a fronte di chi vince c’è sempre chi perde e spesso chi perde è colui che è meno informato o, più semplicemente, abilmente raggirato. Alcune banche sono state rovinate da questo sistema finanzcapitalistico, ma sono state salvate dai governi. Lo slogan “privato-efficiente contro stato-parassita” è stato buttato in cantina dai soloni del neoliberismo ed in sua vece è stato decantato il “too big to fail”. Le centinaia di migliaia di famiglie rovinate da questi vampiri assetati di danaro probabilmente saranno considerate “too small to care”? Miseri pedoni da sacrificare per riuscire nello scacco al re. Scacco matto alla democrazia e alla libertà.

La crisi dei subprime è stata probabilmente pianificata, gestita e controllata. Il gioco dei tassi d’interesse della Fed fa venire alla mente l’immagine di un pescatore che pastura per attirare un maggior numero di pesci, quindi avere più probabilità di fare abboccare all’amo una trota dopo l’altra. Potrebbe esistere davvero un gruppo ristretto di persone molto influenti che riescono a condizionare le sorti di miliardi di persone comuni. Il divario tra ricchi e poveri sta aumentando sempre più e non c’è miglior modo per farlo crescere a dismisura se non una crisi globale. Mentre chi ha un basso reddito si vede costretto a vendere la propria abitazione ad una banca e quindi tornarvi in affitto, chi ha capitali ben oltre la mera sussistenza vede una ghiotta occasione d’investimento dal momento che i prezzi sono entrati in un sentiero deflattivo. La legge di Engel insegna che la proporzione di reddito dedicata alla sussistenza diminuisce all’aumentare del reddito stesso. Letta al contrario significa che chi si impoverisce è costretto a vendere i “beni di lusso”, semplicemente intesi come il superfluo, non strettamente necessario alla sopravvivenza. Si spiega così la corsa ai compro-oro o ai banchi dei pegni o alle lotterie o al gioco d’azzardo.

A fronte di denaro creato dal niente, attraverso la leva finanziaria o il debito, con artifici virtuali viene creata ricchezza fittizia per espropriare ricchezza reale alle famiglie. Creando nuovi schiavi incatenati all’incertezza del domani che si prostituiscono per un tozzo di pane, demolendo così le strutture sociali fondamentali per lo sviluppo della democrazia. Tutto questo per chi? A cosa serve portarsi nella tomba le ricchezze come un Tutankhamon del nuovo millennio?35 L’uomo è strano, è il predatore più feroce e cinico che il nostro pianeta abbia mai conosciuto. Come poter dare torto a Thomas Hobbes? In realtà basta guardarsi dentro per poter sconfessare l’espressione latina homo homini lupus. Un nuovo sistema economico migliore del capitalismo, ed in special modo del capitalismo finanziario, è possibile, purché si basi sulla condivisione e sui rapporti sociali. L’uomo è strano, ma da sempre ci ha sorpreso con innovazioni tecniche e sociali in ogni tempo ed in ogni luogo. Ci sorprenderà ancora.


È meglio vivere in un mondo in cui si ha poco ma il giusto e tutti un po’ di più, piuttosto che pochi tantissimo e troppi pochissimo”

Tiziano Terzani, giornalista e scrittore, filosofo e cittadino del mondo


(2/2. Fine)


Enrico Mungai*


* Docente di Economia di istituti tecnici superiori.


Note

15 Il Nasdaq dal valore record del 10 marzo 2000 di 5.132,52 punti perse il 9% in tre giorni innescando poi la caduta delle quotazioni che portò alla scomparsa di molte dot.com.

16 Per i mutui sulle abitazioni la riserva, già molto bassa, si attesta al 4%.

17 Dal 2000 al 2006 i prezzi delle abitazioni lievitarono del 220%. Una casa che solo 6 anni prima poteva esser comprata con 100 mila dollari, nel 2006 costava ben 220 mila dollari.

18 Nel 2007 il Pil americano toccava il 13 trilioni di dollari (13 mila miliardi), a fine anno il debito ipotecario in capo alle famiglie superava gli 11 triliardi di dollari. Si stima che i mutui intestati a proprietari sicuramente insolvibili nel solo 2006 fossero 600 miliardi di dollari, pari ad un quinto di tutte le ipoteche sulla casa concesse in quello stesso anno.

19 Alcuni istituti di credito aumentarono le rate a tasso variabile fino a raddoppiarle.

20 Federal National Mortgage Association, venerabile istituzione fondata nel 1938 dal governo Roosevelt.

21 Federal Home Loans Mortgage, fondata nel 1970.

22 La stretta creditizia che ha flagellato l’economia reale, togliendo linfa vitale agli investimenti industriali.

23 Etimologia greca “oikos nomos”: leggi della casa.

24 La metà del Pil del mondo 2007.

25 1,8 volte il Pil mondiale.

26 In Italia la disoccupazione giovanile ha superato il 40%; in Spagna più di un giovane su due è disoccupato.

27 In Italia un lavoratore viene definito povero se percepisce un reddito mensile inferiore ai 490 euro.

28 Nel 2008 si stimavano 7-8 milioni di Italiani con lavori occasionali; circa 10 milioni di tedeschi nelle medesime condizioni.

29 In Italia un giovane su quattro è considerato povero.

30 È proprio di questi giorni (Gennaio 2013) la notizia che a fronte di 10 mila medici appena laureati saranno disponibili poco meno di 3 mila posti nelle scuole di specializzazione solo perché sono stati stanziati solamente 30 milioni di euro a fronte dei 100 milioni richiesti per aumentare i posti a 7 mila. Le regioni hanno un fabbisogno annuo di 8 mila specialisti e considerando che i reparti si reggono sugli specializzandi, abbattere così il loro numero implica di certo uno scadimento del servizio sanitario.

31 In Grecia abbiamo assistito al taglio del 20% dei salari del settore pubblico, alla riduzione del 10% delle pensioni, all’innalzamento dell’età pensionabile da 61 a 65 anni. In Spagna sono state bloccate le assunzioni del settore pubblico, accresciuta di 2 anni l’età pensionabile, cancellato il contributo alle famiglie che hanno un bambino, ridotta la spesa sanitaria ed aumentata l’Iva (un’imposta considerata “equa” perché colpisce in maniera uguale sia ricchi che poveri); in Italia sono stati ridotti, nel solo 2010, i trasferimenti dallo stato agli enti territoriali di 14,5 miliardi di euro, è stata aumentata di 2 anni la soglia minima contributiva per ottenere la pensione, è stato sospeso l’adeguamento delle pensioni all’anno 2012, è tornata seppur mascherata la tassa patrimoniale sulle abitazioni, è stata aumentata l’Iva fin al 22%.

32 M. Aglietta et all, Dérives du capitalisme financier, 2004.

33 Retun on equity, redditività del capitale investito.

34 Rothschild, Rockfeller, Onassis, DuPont, Li, Kennedy, Freeman, Van Duyn…

35 Nei primi anni ’80 il paese più ricco del mondo possedeva una ricchezza pari a 88 volte quella del più povero; oggi la disparità è salita a 270 volte. I 1.000 individui più ricchi del mondo hanno un patrimonio netto pari al doppio dei 2.500.000.000 individui più poveri (D. Rothkopf, Superclass, 2009). Le trecento persone più ricche al mondo hanno guadagnato nel 2013: 524 miliardi di dollari, pari a due volte e mezzo la ricchezza cumulata annuale di 1,2 miliardi di esseri umani “viventi” con meno di 1,25 $ al giorno (Bloomberg e Forbes, 2013).


Inserito il 15/02/2024.

Anniversari e lotte

Giuseppe Di Vittorio per il salario minimo

di Maurizio Acerbo

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GIUSEPPE DI VITTORIO PER IL SALARIO MINIMO


Oggi 11 agosto ricorre l'anniversario della nascita di Giuseppe Di Vittorio. Casualmente governo e opposizione parlamentare si incontreranno proprio in questo anniversario per discutere di salario minimo.

Doveroso ricordare che nel 1954, da parlamentare del PCI, l'allora segretario generale della CGIL  propose di istituire per legge un salario minimo.

La sua proposta era molto simile alla legge di iniziativa popolare su cui noi di Unione Popolare stiamo raccogliendo le firme. Infatti Di Vittorio proponeva – come facciamo noi – che il salario minimo fosse agganciato all'inflazione e quindi con un meccanismo di recupero automatico del potere d'acquisto.

Purtroppo la proposta delle opposizioni non contiene questo elemento fondamentale forse perché il centrosinistra ha condiviso con la destra negli ultimi decenni la scelta di mantenere bassi i salari eliminando la scala mobile che fu una proposta e una conquista di Giuseppe Di Vittorio.

Anche l'altra grande proposta di Di Vittorio, lo Statuto dei lavoratori, è stato smontato con azione bipartisan. Il risultato è che oggi abbiamo milioni di lavoratrici e lavoratori precari, l'età pensionabile più alta d'Europa e siamo l'unico paese Ocse dove i salari sono diminuiti negli ultimi 30 anni. 

Al governo ci ritroviamo gli eredi di quei fascisti che contro i braccianti e gli operai scatenarono la più violenta repressione e costrinsero Di Vittorio all'esilio. Non ci stupisce che dicano che il salario minimo non serve. Non ci convince la proposta delle opposizioni non solo per l'ammontare oggettivamente basso, ma soprattutto perchè non prevede l'aggancio all'inflazione e soprattutto mette a carico dello Stato gli aumenti. 

Noi di Rifondazione Comunista in questa giornata ricordiamo Giuseppe Di Vittorio come comunista democratico che condannò l'invasione dell'Ungheria, combattente antifascista in Spagna e nella Resistenza, padre della Costituzione, eroe della classe lavoratrice alla cui emancipazione dedicò tutta la sua esistenza. 

Per ricostruire la sinistra in Italia bisogna riprendere la strada tracciata da Giuseppe DI Vittorio, quella che il centrosinistra ha smarrito dagli anni '90. 

Invitiamo cittadine e cittadini a firmare la nostra legge di iniziativa popolare #10èilminimo presso il proprio comune o ai banchetti che stiamo organizzando in tutta Italia.


Maurizio Acerbo


* Maurizio Acerbo, segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista, coordinamento di Unione Popolare.


(Tratto dalla pagina Facebook di Maurizio Acerbo, 11 agosto 2023).


Inserito il 13/08/2023.

Dal sito collettiva.it

Di Vittorio e il suo salario minimo

di Ilaria Romeo

Nel 1954 lallora segretario generale Cgil propone una legge che fissi un minimo garantito di retribuzione per tutti i lavoratori. Ma non verrà mai approvata.

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Ieri e oggi


Di Vittorio e il suo salario minimo


La fase successiva alle scissioni è una delle più difficili per il sindacato italiano. La Cgil prova a uscirne attraverso una proposta politica forte, lanciata al II Congresso di Genova (1949) e nota con il nome di “Piano del lavoro”. Nelle intenzioni dei promotori il Piano, che prevedeva la nazionalizzazione dell’energia elettrica e un programma esteso di lavori pubblici in edilizia e agricoltura, doveva sollecitare le classi dirigenti sul tema delle cosiddette “riforme di struttura”.

Dopo il Piano, Di Vittorio lancia al III Congresso di Napoli (1952) l’idea di uno Statuto dei diritti dei lavoratori. Il clima politico del centrismo democristiano non è tuttavia favorevole a questo tipo di iniziative. Lo dimostrano nel 1953 lo scontro frontale sulla nuova legge elettorale maggioritaria (la cosiddetta “legge truffa”) e nel 1954 la dura vertenza sul conglobamento che si conclude con un accordo separato senza la Cgil.

Sempre nel 1954, però, Giuseppe Di Vittorio è – insieme a Teresa Noce – tra i primi firmatari di una proposta di legge, annunciata il 14 maggio (tra gli altri firmatari – citandone solo alcune e alcuni – Bei, Santi, Foa, Pessi, Roasio, Maglietta, Ravera, Li Causi, Cianca), relativa alla fissazione di un minimo garantito di retribuzione per tutti i lavoratori.

Obiettivo dichiarato della proposta è quello di dare applicazione all’articolo 36 della Costituzione, garantendo ai lavoratori e alle lavoratrici una retribuzione non solo commisurata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, ma anche sufficiente ad assicurare a loro e alle rispettive famiglie un’esistenza libera e dignitosa.

“Onorevoli Colleghi!”, recita in apertura il testo di presentazione: “La proposta di legge che sottoponiamo alla vostra attenzione trova essenzialmente il suo fondamento nelle gravissime condizioni in cui versano centinaia di migliaia di lavoratori che pur sono regolarmente occupati. (…) La fissazione di un minimo salariale, non rappresenta, (…)  esclusivamente un atto di riparazione sociale e giustizia, essa costituisce anche il primo passo per la concreta attuazione dell’art. 36 della Carta costituzionale che testualmente stabilisce: Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. È ben noto che la situazione salariale del nostro Paese sia particolarmente precaria (…) Fra questi salari bassissimi e comunque insufficienti ve ne sono taluni corrisposti per certe categorie o in determinate zone, che per la loro avvilente irrisorietà, acquistano le caratteristiche di veri e propri salari schiavisti”.

Recita l’articolo 1: “Tutti i lavoratori, indipendentemente dal sesso e dall’età, occupati nell’industria, nel commercio e nell’artigianato, lavoranti a domicilio o presso terzi, non potranno in nessun caso ricevere una retribuzione inferiore alle lire 100 orarie e alle 800 per il normale orario giornaliero di otto ore, comprensive della paga base e della contingenza, qualunque sia la misura di questa nelle singole province”. 

E così continua: “La retribuzione minima nazionale di lire 100 orarie e di lire 800 giornaliere per otto ore di lavoro, spettante indistintamente a tutti i lavoratori indipendentemente dalla loro qualifica – specifica l’art. 2 – subirà le variazioni in più derivanti dal congegno della scala mobile. A questa retribuzione minima dovranno essere aggiunti, per i lavoratori a cottimo o a norma o in qualunque modo impegnati a un determinato rendimento, la percentuale e i guadagni di cottimo fissati dai contratti collettivi per le singole categorie”.

Per completare e rafforzare la misura, la legge - proposta e mai approvata - sancisce che (art. 6) “ogni pattuizione in deroga alla presente legge deve considerarsi nulla. I datori di lavoro che la trasgrediscono saranno puniti con una multa dalle 10 mila alle 100 mila lire e dovranno corrispondere ai lavoratori defraudati del minimo tutti gli arretrati dovuti. Parimenti dovranno essere riassunti al lavoro i lavoratori eventualmente licenziati dall’imprenditore per sottrarsi all’applicazione della legge”.

“È giusto – tornerà a dire Di Vittorio pochi anni dopo in quello che rimarrà il suo ultimo discorso pubblico (1957) – che in Italia, mentre i grandi monopoli continuano a moltiplicare i loro profitti e le loro ricchezze, ai lavoratori non rimangano che le briciole? È giusto che il salario dei lavoratori sia al di sotto dei bisogni vitali dei lavoratori stessi e delle loro famiglie, delle loro creature? È giusto questo? Di questo dobbiamo parlare, perché questo è il compito del sindacato”.


Ilaria Romeo


(Tratto da: Ilaria Romeo, Di Vittorio e il suo salario minimo, in collettiva.it, 21 luglio 2023: https://www.collettiva.it/copertine/lavoro/2023/07/21/news/salario-minimo-di-vittorio-3261752/?fbclid=IwAR1o1vI-fbpljr_av4G1kKKTkW_XmBoE1CDv4DqLoPc_8vbEYDxhLj5fRV4).


Inserito il 13/08/2023.

Insorgiamo!

I lavoratori ex-GKN: «Noi per il lavoro siamo pronti a essere classe dirigente»

Un anno e mezzo fa iniziava la lotta del Collettivo di Fabbrica della ex GKN di Campi Bisenzio (Firenze), prima contro i licenziamenti e la delocalizzazione del punto produttivo, poi per l’intervento delle istituzioni per il salvataggio della fabbrica, degli operai e delle loro famiglie. Una lotta che quegli operai hanno saputo rendere di livello nazionale, anche contro associazioni sindacali che remavano contro. La lotta della GKN rappresenta un raggio di luce che squarcia il velo nero che si cerca di stendere sui diritti al lavoro e a una vita dignitosa. È una lotta avanzata che va sostenuta da tutti noi.

Il 14 novembre 2022 i lavoratori hanno occupato la sala del Consiglio comunale di Firenze, in Palazzo Vecchio, chiedendo che sia direttamente lo Stato a prendersi carico del destino della fabbrica.

Questa la notizia come la riporta il “Corriere Fiorentino”:

“Sono rimasti tutta la notte nel Salone de’ Dugento assieme ai consiglieri comunali, in un presidio senza precedenti. Gli operai della ex GKN ieri hanno scritto una nuova pagina della protesta che portano avanti da 16 mesi, arrivando in una sessantina a Palazzo Vecchio, trenta fuori con lo striscione «Insorgiamo» e tamburi, trenta dentro nello spazio riservato al pubblico annunciando l’intenzione di «restare ad oltranza, finché non ci saranno fatti nuovi risolutivi».

«Che non è il pagamento degli stipendi, quello è un atto dovuto che ci spetta — ha spiegato Dario Salvetti del Collettivo di fabbrica. — Il pubblico deve intervenire, con un ruolo attivo ed entrando nella società»”.


Di seguito pubblichiamo un comunicato degli stessi lavoratori su questa loro azione di protesta e di stimolo alle istituzioni perché si facciano carico dei bisogni sociali delle comunità che sarebbero chiamate a rappresentare.

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Gli attestati di solidarietà non assolvono le istituzioni di questo paese


L’hanno chiamata “la presa di Palazzo Vecchio”. È durata 30 ore. Un altro minuscolo pezzo di storia scritta a favore di chi vorrà raccontarla quando saremo passato. Ma oggi siamo ancora presente che prova testardamente a farsi strada nel futuro.

Il tempo in questa vicenda è tutto. Questa è una corsa contro il tempo. Ed è un tempo asimmetrico. Per chi vive del mantenimento dello status quo è sufficiente che il tempo passi e si perda.


Per noi, ogni giorno è fatica. Pesa sulle capacità di resistenza, sulle menti e sulle tasche. Ogni giorno senza agire è sprecato perché ogni giorno che passa, la fabbrica è più chiusa. Non è un caso se l’attuale proprietà ci appare innanzitutto come una enorme perdita di tempo. Gli unici due ostacoli tra l’attuale proprietà e lo spreco totale del tempo sono il pagamento dei nostri stipendi e l’assemblea permanente che presidia la fabbrica. Per questo non sa parlare d’altro: sgomberare la fabbrica e scaricare i nostri stipendi sull’Inps attraverso la cassa integrazione. Per ottenere lo sgombero calunnia la funzione sociale dell’assemblea permanente. Per ottenere la cassa integrazione, ci ha di fatto presi in ostaggio e usa il non pagamento degli stipendi come elemento di pressione.


Dopo trenta ore di presidio in Palazzo Vecchio, ci è stato chiesto di fatto “qualche giorno, qualche ora” in più. Siamo stati rimandati ad altri incontri che rimanderanno altri incontri. E’ un giochino che ormai conosciamo: farci fare la parte di quelli che vogliono tutto e subito. Cosa volete che sia qualche ora in più o qualche giorno in più? E’ così che da sedici mesi, le ore si trasformano in giorni, i giorni in mesi e i mesi in anni.


Ed è così che abbiamo “lasciato la posizione” in vista della prossima finestra di verifica. Lunedì è stato indetto un Consiglio Comunale dedicato al tema Gkn. Abbiamo chiesto che tale Consiglio si svolga in fabbrica. Perché se noi abbiamo attraversato fisicamente il Comune (“la casa di tutte e tutti”), ora il Consiglio Comunale è chiamato a sancire con la propria presenza fisica che questa è la fabbrica di tutte e tutti. Verso cui devono cessare calunnie e manovre.

Quella sarà l’ulteriore verifica. Non abbiamo chiuso “la presa di Palazzo Vecchio” con alcun documento congiunto, perché a questo punto sarà l’intero Consiglio Comunale ad esprimersi.


Ancora una volta, un pezzo delle istituzioni di questo paese è chiamato a rispondere a una domanda semplice: che cosa hanno da portare in questa vicenda se non parole? Come si spiega la contraddizione di singole lavoratrici e lavoratori, studentesse e studenti, cittadine e cittadini, che qua stanno dando tutto a fronte di intere istituzioni che non vanno oltre parole e prese d’atto?

Il Sindaco è intervenuto presso la proprietà facendo presente le nostre ragioni. E ha raccolto quello che abbiamo raccolto noi: niente. Se qualcuno aveva dubbi, ora è persino ufficiale: lo schiaffo è all’intero territorio. Che cosa ha intenzione di fare il territorio è una domanda che noi possiamo porre, ma a cui non possiamo rispondere da soli.


Le nostre richieste sono semplici:

1. Mettere in sicurezza le famiglie, senza accettare ricatti all’Inps. Si attivino tutte le reti possibili per fare anticipare gli stipendi dovuti. Intendiamoci, non siamo gli unici a stare male. Sia chiaro: non chiediamo di mettere in sicurezza i nostri stipendi perché siamo più poveri o più belli di altri. Nel caso specifico, si tratta di sventare il non pagamento degli stipendi come strumento per togliere ossigeno a una mobilitazione. Una mobilitazione per di più che prova a creare un precedente a favore di tutte/i.

2. Mettere a disposizione lo stabilimento alle attività di reindustrializzazione, autorecupero, autoproduzione, associativo-territoriali, scouting e progettazione industriale di soggetti pubblici, privati, tra cui anche le forme di associazionismo o cooperativismo produttivo individuate dai lavoratori, che verranno sottoposte al comitato di proposta di verifica.

3. Intervento pubblico, controllo pubblico, finalità pubblica. La fabbrica è pubblica e socialmente integrata. Pubblica perché senza capitale pubblico, Gkn è fallita. Finalità pubbliche perché il lavoro che difendiamo è a disposizione della collettività. Socialmente integrata perché attraverso la Società Operaia di Mutuo Soccorso restituisce al territorio un bene che il territorio ha difeso.


L’attuale proprietà deve cessare di fare da tappo al ritorno al lavoro.

Nel frattempo sia chiaro, noi non siamo classe “lagnante”, né “supplicante”. Noi, per tornare al lavoro, siamo pronti a essere classe “dirigente”. E per questo ci attrezziamo per fare quello che diciamo. Il nostro gruppo mutualismo è al lavoro, il nostro comitato tecnico scientifico per la reindustrializzazione anche. Abbiamo fondato la Aps Soms Insorgiamo.


Qua non c’è spazio per il compitino. Questa non può essere una vertenza normale perché le vertenze come le nostre normalmente perdono. Noi siamo chiamati ad essere eccezionali. Non una eccezione che conferma la regola ma che la riscrive.

Come da quel 9 luglio, fuori dalla mobilitazione non c’è salvezza. E fuori dalla nostra progettualità non c’è ripartenza.


Ma il tempo è poco e le energie anche. Chiunque pronuncia una sola parola sulla Gkn, è chiamato a dire cosa è disposto a mettere perché le parole si trasformino in fatti. Questo vale per ognuno di noi. Vale doppiamente per le istituzioni.


Rompere l'assedio. Per la fabbrica pubblica e socialmente integrata. #insorgiamo 


(Comunicato pubblicato sulla pagina Facebook del Collettivo di fabbrica - Lavoratori GKN Firenze, 16 novembre 2022).


Inserito il 6/1/2023.