Bertolt Brecht

«Il Comitato Centrale ha deciso: poiché il popolo non è d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo».

Bertolt Brecht

Un fotogramma dal film Kühle Wampe, realizzato nel 1932 su sceneggiatura di Bertolt Brecht.

Fonte della foto: https://flipscreened.com/2020/03/05/world-book-day-seven-things-we-love-about-brecht/

Un fotogramma dal film L’opera da tre soldi di Wolfgang Staudte (Francia-RFT, 1963).

Fonte della foto: https://www.saarbruecker-zeitung.de/imgs/03/4/5/9/1/6/2/9/5/tok_60d7b5698911f547e987a1c1db5ba97a/w1500_h1053_x750_y526_MOPOper-3a8d2858f9d1cdc7.jpg

Dal «Calendario del popolo»

Brecht e il cinema
1. Il difficile rapporto fra il poeta e lo schermo

di Tino Ranieri

Riprendiamo da una storica rivista culturale un approfondimento sul rapporto di Bertolt Brecht con il cinema, sulle sue esperienze (rare e non del tutto felici) in questa arte, sull’influenza delle sue opere, delle sue tematiche, del suo stile su una serie di registi americani ed europei.

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Brecht e il cinema

1 . Il difficile rapporto fra il poeta e lo schermo


di Tino Ranieri


«Il denaro agevola le soluzioni, come nel lieto fine di tanti film». È l’ultimo sarcastico couplet di L’opera da tre soldi e racchiude, di riflesso, anche l’opinione che Brecht nutriva sul mondo del cinema. L’opinione, un poco arcigna, su uno strumento male utilizzato che contraddice inesorabilmente la teoria e la pratica del metodo d’arte che negli stessi anni Brecht sta laboriosamente instaurando sulle scene. Proprio Die Dreigroschenoper [L’opera da tre soldi], filmato nel 1930 da Georg Wilhelm Pabst, cagiona a Brecht molti dispiaceri e lo induce a un processo contro la produttrice Nero Film; ma la sentenza gli è sfavorevole. Per tutta la vita Brecht parlerà con amarezza della trasposizione cinematografica de L’opera da tre soldi, o eviterà di parlarne del tutto. Ma dell’episodio noi spettatori possiamo essere egoisticamente meno insoddisfatti. Intanto il film, pur svigorito rispetto alle intenzioni di Brecht, serba intatto un gioco di contrasti che dagli elementi figurativi, illuministici trascorre senza sforzo alla precisazione d’ordine sociale. Inoltre, lo strascico in tribunale stimola Brecht a riformulare per iscritto le sue ragioni anticinematografiche, che nella vasta trattazione Il processo per Dreigroschenoper assumono la forma di un saggio molto preciso, sebbene molto discutibile e oggi probabilmente destituito d’ogni validità critica. Esso attesta comunque la chiarezza d’idee di Brecht dinanzi al consumatore di pellicola in un momento delicatissimo della vita del cinema qual era quello degli anni di transizione tra muto e sonoro, tra neo-oggettivismo e prodromi di dispotismo hitleriano. Come manifesto sul cinema, o contro il cinema, riveste ormai soltanto carattere di curiosità. Non così come documento d’una preoccupazione sociale autentica e d’una nervosa, presaga scontentezza in nome del cittadino-spettatore (spettatore molto più che autore) in procinto di diventare fasäger, semplice “assenziente”.

In questa prima parte del nostro articolo non esamineremo tuttavia le ragioni e i torti di Dreigroschenoper e degli altri film tratti dall’opera teatrale di Brecht. Sarà nostro compito avvicinare qualche altro aspetto del difficile rapporto fra il drammaturgo bavarese e lo schermo, ad esempio l’attività specificatamente dedicata al cinema – soggetti, sceneggiature ecc. – e, senza dubbio più notevole, l’influenza esercitata da Brecht uomo di spettacolo su altri registi cinematografici di tutto il mondo. C’è ancora chi nega che esistano e operino oggi cineasti veramente brechtiani. Noi (in attesa del tante volte annunciato e sempre rimandato debutto sul set di Giorgio Strehler; e chissà che poi, avverandosi, non risulti invece un’altra cosa) pensiamo che un brechtismo filmico si sia sparso e articolato in vai paesi e in almeno due generazioni. Con le mutazioni esterne che l’epoca, la politica, il retroterra culturale e sociale pongono di volta in volta: ma si sa che la formidabile “geopolitica” di Brecht possiede in tal senso una elasticità a tutta prova. Brecht è stato un uomo che ha saggiato il mondo, ne è andato in cerca. È stato in certo modo l’esule perfetto, il più preparato a solcare le nazioni man mano che la tirannide in patria lo costringeva a percorrerle. Questo rapporto era quasi sempre un dialogo: asprissimo talvolta, ma dialogo. La bilateralità era sempre possibile. L’arte di Brecht – ma chiamiamola piuttosto lavoro – allignava negli uomini e nei modi di vivere quando già l’uomo Brecht se n’era andato, e nelle condizioni oggettivamente meno propizie. Fuor dai confini della Germania è sintomatico che una risposta brechtiana, una riapplicazione brechtiana in forma cinematografica (sebbene confusa e contenuta) si sia manifestata in primo luogo in America: cioè nella nazione che Brecht giovanissimo aveva preso a emblematico terreno delle sue commedie degli anni Venti, assai prima di sbarcare di persona in California; nella nazione che nel ’47 lo avrebbe sottoposto a inchiesta per “attività antiamericane” facendogli capire ch’era tornato il momento di alzare i tacchi («Quando mi hanno accusato di voler rubare l’Empire State Building, mi son reso conto che dovevo andarmene»). Ebbene, in quel medesimo periodo, nell’ambito stesso di quell’inchiesta, emergono uomini che saranno una o più volte, nella loro carriera, e talvolta sempre, brechtiani. Dichiaratamente o inconfessatamente. O persino senza accorgersene. Uno almeno non esita ancora oggi a professarsi discepolo di Brecht: Joseph Losey. Sono di Losey alcuni ricordi asciutti e emozionanti dei giorni dell’inchiesta:


«Quando Brecht fu convocato a Washington per testimoniare in merito ai Dieci1, lo accompagnai e passammo tutta la notte a passeggiare attraverso le vie deserte di quella città-mausoleo, discutendo della faticaccia che lo attendeva l’indomani, quando sarebbe dovuto comparire dinanzi a quel tribunale di Bauern, presieduto dal deputato Parnell J. Thomas. In seguito Thomas fu condannato per sottrazione di fondi e andò a raggiungere le sue vittime in galera. La calma, l’humour, la finezza, il brio di Brecht durante quella notte ora appartengono alla storia. Poi lo accompagnai al suo aereo che lo portava in Svizzera e forse in Germania. La nostra corrispondenza si diradò. Non l’ho mai riveduto. Brecht mi fece avere un regalo, accuratamente avvolto nel cellofane e accompagnato da un messaggio verbale che Weigel2 mi trasmise: Di’ a Joe che dovrebbe rilassarsi! (Tell Joe be should relax). Era una pipa per fumare l’oppio, splendidamente scolpita».


E nello stesso scritto, che riprendiamo dai «Cahiers du Cinéma» (N. 114, 1964). Losey premette:


«Per venticinque anni Bertolt Brecht ha ispirato la mia vita e la mia opera, ma solo di recente sono tornato su di lui, sul suo lavoro, sull’attività svolta in comune, e sull’influenza che egli esercitò su di me. Non che quell’attività e quell’influenza non m’abbiano lasciato il segno: semplicemente sono sempre state in qualche modo ben concrete, l’aria stessa che respiro, in perpetuo divenire».


Queste righe spiegano abbastanza, ci sembra, come la personalità di Brecht agiva sulle giovani personalità libere e come la sua lezione, ma insieme la sua umanità, resistevano a distanza e si prolungavano verso le aree apparentemente più restie a riceverle.

I contatti di Brecht con il cinema restano comunque contrassegnati dalla discontinuità e talvolta da un’esigenza economica precisa. Non diremmo dalla casualità. A parte i primissimi inizi, le pellicole cui egli ha variamente collaborato coincidono una volta con la vigilia nazionalsocialista, cioè con l’ultimo disperato tentativo di verifica e di autodisciplina del comunismo tedesco prima di Hitler, quindi con il soggiorno hollywoodiano. Diventano un fatto marginale e sporadico al rientro in Germania, allorché il Berliner Ensemble comincia a esigere il pieno della sua dedizione. In altre parole il cinema sfiora la vita di Brecht come elemento di “sopravvivenza”, come gesto – contingente, ma probante – di una necessità. È cinema di diversi crocevia politici. Così considerati, almeno due film cui egli ha messo mano non hanno perduto il loro interesse; e se qualcuno rifiuta di accoglierli nella storia del cinema, noi non esitiamo a ritenerli importanti nella “storia” di Bertolt Brecht. Sono Kühle Wampe (1932) e Anche i boia muoiono (titolo originale Hangmen Also Die, 1943).

Non ci pare utile procedere più addietro nel tempo. Le notizie sul Brecht cinematografico del primo dopoguerra sono d’altronde assai limitate. Un soggetto suo e di Arnolt Bronnen, su un tema che oggi si direbbe fantascientifico (due uomini e una donna scampati alla fine del mondo su un’isola di supermacchine), e scritto per un concorso a premi, comparve nel 1922 sul «Berliner Börsen Kurier» ma non venne realizzato, sebbene in seguito parte della vicenda fosse abusivamente sfruttata in un film diverso: Die Insel der Tränen. Altri due soggetti Brecht avrebbe preparato nello stesso periodo su consiglio di Hans Kyser.

Per lungo tempo Kühle Wampe fu non meno fantomatico di quei lontani informi abbozzi. Pareva che tutte le copie fossero andate perdute nei sequestri di polizia prima, nelle “epurazioni” naziste poi. Solo nel 1965 se ne ebbe una proiezione in Italia, nella retrospettiva della Mostra di Venezia dedicata al cinema di Weimar; e attualmente il film è disponibile per i circoli del cinema. Ma poiché la grandissima maggioranza del nostro pubblico non lo conosce, due righe d’informazione appaiono indispensabili.

Kühle Wampe è il nome di una tendopoli di sfrattati e senzatetto alla periferia di Berlino. Vi arriva una ragazza, Agni, con la famiglia, dopo che il giovane fratello senza lavoro si è ucciso gettandosi dalla finestra: i disoccupati tedeschi sono, nel 1931, sette milioni. La radio della tendopoli diffonde gaie musiche, magnifica le attrattive della località, vanta i buoni rapporti fra le autorità locali e gli ospiti. Nelle baracche però tutti continuano a essere ossessionati dal continuo rincaro dei generi alimentari e dalla crescente disoccupazione. Agni resta incinta e il suo fidanzato Fritz, meccanico d’officina, la induce a liberarsi del bambino perché il suo salario non gli consente di sposarla. Essa rifiuta, Fritz allora accetta le nozze, molto a malincuore. La festa di fidanzamento è terribilmente squallida, con gli invitati ubriachi che si scambiano battute litigiose o ironiche. Agni si rende conto che Fritz la sposa solo per necessità, e preferisce lasciarlo. Nonostante le proteste dei genitori abbandona la baracca e si sistema presso l’amica Gerda. Con lei si reca la domenica seguente a una grande manifestazione sportiva operaia. Per le vie sfilano a centinaia i partecipanti, al canto di Vorwärts (Avanti) la canzone dei giovani proletari. In un grande spiazzo presso il lago hanno luogo le gare: motociclismo, nuoto, canottaggio. Attori dilettanti improvvisano una recita. La voce di Ernst Busch intona fuori campo la Ballata della Solidarietà e dell’Unione. Fritz, invitato da Gerda, si unisce al gruppo in cui c’è Agni; durante l’intervallo per la colazione nel bosco, tra una folla di moto e biciclette, i due giovani scoprono una serenità nuova. Gli operai e gli atleti mangiano, leggono, discutono Marx. A sera tutti ritornano festosamente in città. Nel metrò l’allegria dei giovani disturba i borghesi seduti nei vagoni. Si accende una discussione, provocata da una notizia appena letta nel giornale: in Brasile sono stati gettati a mare ingenti quantità di caffè. I benpensanti manifestano orrore per qualsiasi turbamento dell’ordine costituito. Altri, di ceto più elevato, fanno voti per un governo “forte” e deplorano che la Germania non possegga più colonie sufficienti per dettar legge al mondo. A questo punto gli operai ribattono con commenti sarcastici. Un vecchio signore li esorta a lavorare per lo Stato, senza interessarsi di cose più grandi di loro, che nessuno può giudicare o mutare. Qui gli operai esplodono, e gridano che certo la spinta a modificare il mondo non verrà dai benpensanti; è da loro che scoccherà la scintilla che porterà a un mondo nuovo. All’uscita dal convoglio i borghesi si perdono nella massa degli operai che sciamano verso la città, mentre la voce di Ernst Busch riprende le note di Vorwärts.

È una delle ultime opere della nuova oggettività: il realismo del Kammerspiel si dimostra finalmente disintossicato dalle vecchie tendenze e affronta un discorso sul corpo sociale tedesco che è ben concretamente diverso da quello dei primi anni Venti. La differenza consiste ormai nel protagonista sociale, non più simbolo isolato, ma testimonio inserito nella vita nazionale e nei suoi problemi collettivi. Non più i ferrovieri e gli spazzini “passionali”, non le femmine in crisi di Brigitte Helm, né l’atteggiato monumento ai lavoratori di Metropolis di Fritz Lang, dove non l’uomo ma la Costruzione era protagonista. Kühle Wampe – diretto da Slatan Dudow, su soggetto e sceneggiatura di Brecht e Ernst Ottwalt – costituisce uno dei pochi ed estremi esempi di cinema di solidarietà comunista in Germania, all’orlo del pericolo. Didascalico? Certo, e in questo senso brechtiano. Arrivato troppo tardi? Sì, ma non per colpa dei suoi autori; la repubblica weimariana già da tempo faceva il viso dell’armi a queste produzioni perturbatrici dell’ordine pubblico, e le intralciava con ogni mezzo. Irragionevolmente “positivo”, ottimistico? «Nell’ultima sequenza del film – scrive Klaus Wischnewski – i giovani marciano al canto del loro inno di solidarietà che contiene la battagliera domanda “di chi è il mondo?” attraverso un oscuro tunnel punteggiato soltanto di deboli lampade. Niente soleggiato ottimismo, piuttosto un’anticipazione di ciò che si dovrà ancora attraversare e sopportare. In ogni caso una prospettiva dura, realistica e appunto per questo altamente battagliera. Non sono lasciati dubbi su ciò che ancora dev’essere fatto, non si dubita dell’energia che occorre per farlo, e nessuno s’illuderà che sia come fare una passeggiata… Importantissimo esempio».

Politicamente ingenuo? Paolo Gobetti nel numero del suo «Nuovo Spettatore Cinematografico» (aprile 1963) tutto dedicato a Brecht e il cinema, del quale qui utilizziamo notizie e stralci, stronca duramente Kühle Wampe «perché non sa indagare in profondità nella realtà sociale della Germania…: ignora addirittura il nazismo sei mesi prima che Hitler prenda il potere». L’accusa ci pare eccessiva. Antihitleriano nel ’23, Brecht non poteva ignorare nel ’32 ciò che stava accadendo, e infatti il film riflette ben chiaro che il contegno, le parole, i pensieri di quella società che invisibile circonda la tendopoli è già largamente nazista, e che i ritornelli e gli slogan ufficiali atti a rincuorare i diseredati somigliano già sinistramente all’Arbeit macht frei sui cancelli dei campi di sterminio e ai concertini di Ghetto Terezin. Quando poi alla fine – scena del treno – quella società si materializza e parla, sono enunciati che non lasciano dubbi: è gia la nazione di von Papen che sta per sedere docilmente sulle ginocchia dell’uomo di Mein Kampf. Si dica piuttosto, riscontrando oggi sul film di Dudow e Brecht gli inevitabili segni del tempo, che Brecht non poteva sperare ancora, nel 1932, in un regista cinematografico brechtiano. Dudow tratta Kühle Wampe secondo uno schematico naturalismo, sordo quasi sempre a quella didattica varietà d’impiego che già affiora nei procedimenti del drammaturgo trentaquattrenne: ballata e comizio, tranche de vie, canzone popolare e collera, e gli equilibrati “blocchi” di parole. Per più cose, non solo per le premesse politiche, il poco cinematografico, inesperto Brecht si mostrava, anziché attardato, in anticipo sui tempi. Allora era facile bollare il dibattito finale fra borghesi e operai come anticinema. Adesso questa obiezione apparirebbe quanto meno antiquata. Importanti registi in tutto il mondo hanno ripristinato i diritti d’un cinema “di eloquenza”, rivendicando la giusta funzione del dibattito parlato nel contesto d’uno spettacolo e spettacolo esso stesso, oltre che invito al ragionamento. Pensiamo a un saggio recentissimo, il Marat-Sade di Peter Brooks. La discussione è in ogni momento parte attiva, mobile, determinante; il dialogo storico mostra la stessa potenza di uno scatto cruento od erotico. Una delle sequenze più visive, visiva fino allo spasimo, è un monologo: Sade che rievoca il supplizio del regicida Damiens. Quanto a Marat, rigido nel suo bagno, porta avanti le sue ragioni brechtianamente, come avventure dell’esperienza o della fiducia. Spesso, ciò che Marat dice, Brecht non lo avrebbe detto diversamente.


Anche i boia muoiono

L’altro film da segnalare nell’attività diretta di Brecht è quello degli anni americani, Anche i boia muoionо. А Hollywood Brecht lavorò cinque anni, o meglio visse cinque anni, mettendo a punto importanti opere teatrali e abbozzando soggetti che non venivano presi in considerazione. Là scrisse, come copione cinematografico, Simone, che più tardi rielaborò in veste teatrale come Le visioni di Simone Machard. Altri soggetti rimasti nei cassetti della produzione furono Lady Macbeth of the Yards e Caesar’s Last Days. Lo stesso Anche i boia muoiono, commissionatogli da Arnold Pressburger per la United Artists, subì in sceneggiatura alterazioni tanto profonde da costringere Brecht a un’azione giudiziaria, in seguito alla quale egli fu autorizzato a mutare nei titoli di testa del film la qualifica del suo contributo. Non più soggetto di B.B., ma di Fritz Lang (il regista), non più sceneggiatura di B.B., ma di John Weley (lo scenarista commediografo che aveva operato le modifiche) e semplicemente la dicitura “…da un’idea di Bertolt Brecht”. Dopo ciò è più tangibile il senso di quella poesia che Brecht ha intitolato appunto Hollywood: «Ogni mattina, per guadagnarmi il pane / Vado al mercato ove si spacciano menzogne, / Pieno di speranza / Mi metto in fila tra i venditori…».

Qualcuno ha scritto che i due testi più belli di Brecht relativamente al cinema in America sono questi versi e le risposte da lui date alla Commissione d’inchiesta di Washington. È vero che talune di quelle battute tirano l’applauso. L’umorismo e l’abile pazienza di Brecht ne vengono fuori per intero: si direbbe che una folla di personaggi fatti o da fare suggeriscano all’autore. Non è possibile riportare qui il documento dell’interrogatorio, per il quale rimandiamo alla traduzione italiana pubblicata per la prima volta in «Sipario» (N. 207, 1963) e introdotta da Ettore Capriolo. «Per Brecht – scriveva Capriolo – l’invito a comparire davanti a questa confraternita di superamericani fu soprattutto un’occasione per comportarsi nella realtà come uno dei suoi eroi preferiti, il bravo soldato Schweyk, si era comportato nella Praga di Francesco Giuseppe o in quella di Hitler. La protesta e l’indignazione non vengono cioè espresse in termini diretti e quindi provocatori, ma con i modi, se vogliamo, tortuosi della bonarietà apparente, del cosciente inganno, della supina servilità che maschera una ribellione tanto più difficile da domare quanto più difficile individuarla… Certe trovate del genere hanno possibilità di successo solo se applicate contro una massa di imbecilli; il merito e la forza di Brecht, come il merito e la forza di Schweyk, fu appunto di aver capito che quelli che aveva di fronte erano imbecilli e di aver agito in conseguenza… Era nella logica delle cose che Brecht ricevesse alla fine i ringraziamenti della Commissione».

Anche i boia muoiono, diretto da Lang, fu una di quelle numerose pellicole che durante la guerra l’America realizzò a celebrazione dei vari fronti europei e a dimostrazione del non sopito spirito di resistenza delle popolazioni occupate. La critica internazionale, che lo vide dopo il ’45, gli serbò un’accoglienza positiva. Non occorre qui riassumere il soggetto, giacché il film è stato ripresentato or non è molto anche in televisione. Il punto di partenza è l’uccisione del Reichsprotektor della Cecoslovacchia, Heydrich, per mano dei partigiani. Si scatena la repressione e i praghesi rispondono, con la violenza e con l’astuzia, alle indagini della Gestapo. Come notava Glauco Viazzi, l’apporto di Brecht si nota specialmente nel disegno dei nazi e dei poliziotti, figure in cuoio e bombetta usciti da connivenze lontane (Dreigroschenoper), con un Alexander Granach (ex attore teatrale di Brecht) tratteggiato secondo le rotonde dimensioni d’un Grosz; meno felice, sentita più che altro a orecchio e su schemi generici, la realtà del maquis cecoslovacco, in cui non s’avverte la base popolare e che appare fondata su disordinate, subitanee adesioni emotive. Tuttavia con gli occhi di oggi non si può negare al film una solidità d’impianto civile che in opere consimili di quel periodo risulta ormai scaduta o scomparsa. Certo Anche i boia muoiono non nasce da strutture brechtiane, se non per alcune esteriorità scenografiche e recitative: Lang ama ancora giocare su un equivoco espressionismo-realismo, da Brecht già denunziato e superato molto tempo prima; al fondo comunque si continua a percepire una forza nascosta, che non è quella del rapporto di confezione né del film di contingente propaganda.

Meno rinvenibile è l’“idea” brechtiana in Arco di trionfo (Arc of Triumph, 1947) di Lewis Milestone, su testo di Erich Maria Remarque, sebbene il grosso nazista impersonato da Charles Laughton continui in certa misura l’ispettore di Granach di Anche i boia muoiono. Fu proprio Laughton, allora disceso dal palcoscenico del Galileo di Brecht a Broadway, a inserire l’autore del dramma nel lavoro preparatorio di Arco di trionfo. Ma pare che il trattamento fosse già praticamente ultimato, di modo che a Brecht non toccò se non un’ultima revisione ufficiosa, quasi senza conseguenze sullo schermo.


Nella Repubblica Democratica Tedesca

Al ritorno in Germania Brecht si comporta sostanzialmente come se dalle cose del cinema si fosse liberato una volta per tutte. Rifiuta offerte interessanti (una riduzione franco-tedesca di Madre Coraggio per la regia di Wolfgang Staudte, interpreti Helen Weigel e Simone Signoret) e si dice contrario persino alla registrazione in filmine dei suoi spettacoli in palcoscenico al Berliner. Tuttavia qualcosa della partecipabilità del linguaggio del cinema deve stimolarlo intimamente, se nel 1951 per la messinscena de La madre tratto da Gorkij ricorre a un breve passaggio su schermo per illustrare a rapidi flash il diffondersi della rivoluzione socialista nel mondo. In meno di due minuti di proiezione, da lui stesso curati in montaggio, immagini polacche, il passaggio dello Yangtse, la caduta zarista, la festa del primo maggio tra la gioventù di Mosca… Il teatro può tutto, ma a volte un’idea deve avere la rapidità di un’idea. Qui il cinema può aiutare.

Nel ’54 Brecht scrive i versi per le canzoni di Pesnja velikih rek (La canzone dei grandi fiumi) diretto da Joris Ivens. La musica è di Dimitri Sciostakovic, la voce di Paul Robeson. Con Ivens, l’insigne documentarista olandese, Brecht non ha in comune solo l’età e l’ideologia, ma anche il senso dell’universale: la “conquista” del mondo nella conoscenza del mondo. Nessuna meraviglia che Ivens fosse brechtiano già quando realizzava Zuiderzee, nel ’34, e che lo sia ancora nei suoi documentari sul Vietnam.

Salvo alcuni nomi che già abbiamo fatto, l’influenza epica di Brecht nel cinema è stata lenta. D’altronde ricordiamo che Brecht è stato conosciuto pienamente in gran parte d’Europa solo dopo il ’45. Precedentemente, solo alcune esperienze prenaziste in Germania stabiliscono delle assonanze, ma indirette e malcerte. Comunque M. di Lang, che esce quasi contemporaneamente a Dreigroschenoper, è un film di valore soprattutto nella parte che emargina il mostro uccisore di bambine e si accentra sulle pericolose alleanze di una popolazione in baffi e bombetta – polizia e malavita; a momenti riesce difficile distinguerli – la quale si presta amabilmente a “collaborare” in attesa di un denominatore comune. Quando il “mostro” Peter Lorre viene catturato, stentiamo a ricordarci di lui e delle sue colpe. Perché il puro male è una terribile cosa, che affolla i manicomi e le leggende, ma il male imperfetto, quello della gente “sul cui viso non c’è nessun segno”, riesce a essere peggiore. Riesce talora a diventare un tratto di storia.


I brechtiani nel cinema

Sui brechtiani del cinema i giudizi sono contrastatissimi. C’è chi ne attende ancora il primo. Chi sostiene che il solo che sarebbe potuto esserlo, è morto: Eisenstein. Per Losey, il film più brechtiano che esista è La fontana della vergine di Ingmar Bergman. Per Bernard Dort sono brechtiani un po’ tutti, compresi Antonioni (L’avventura) e Zazie nel metro di Louis Malle. In ogni caso, anche con l’occhio a questi titoli per noi completamente fuori strada, si può convenire con «Il Nuovo Spettatore Cinematografico» (N. cit.) allorché scrive (1963): «solo oggi incominciano a maturare le condizioni per cui il pensare brechtiano, l’esprimersi brechtianamente possono affermarsi anche nel cinema».

Come? Joseph Losey ha fissato una serie di aspetti peculiari del teatro di Brecht, che hanno rapporto diretto con il cinema e che a suo dire lo hanno influenzato durante la sua intera attività:


«Lo spoglio della realtà e la sua precisa ricostruzione attraverso una scelta di simboli-realtà.

L’importanza della precisione del gesto, dell’ordito e della linea negli oggetti.

L’economia del movimento, attori e macchine da presa, non far muovere nulla senza scopo. La differenza tra calma e staticità.

La messa a punto visiva per l’esatto uso degli obiettivi e dei movimenti di macchina.

La fluidità della composizione.

La giustapposizione dei contrasti e la contraddizione, grazie al montaggio e attraverso il testo, sono il modo più semplice d’ottenere il tanto celebrato effetto di straniamento.

L’importanza della parola, del suono, della musica esatta.

L’esaltazione della realtà per nobilitarla.

L’allargamento di visione dell’occhio individuale».


Qui è già meno arduo selezionare qualcosa e qualcuno. Le indicazioni di cui sopra non mancano di equivalenti concreti che tendono a diventare più numerosi se si verificano anche le molle contenutistiche. Abbiamo già accennato a certa Hollywood rinnovata del dopoguerra. Allo stesso Losey, che poi in Inghilterra non rinuncerà ai postulati iniziali pur tendendo a rarefarli troppo. Al taglio di Forza bruta (1947) di Jules Dassin, dove c’è una presenza di speaker-attore, Charles Bickford, tangibilmente brechtiana. Ai documentaristi progressisti che mutuano Brecht attraverso la mediazione di Ivens: Strand, Hurwitz. A La settima croce di Fred Zinnemann (1944). Ma non sarà estraneo ai concetti brechtiani nemmeno l’ultimo film americano di Charlie Chaplin, Monsieur Verdoux (1947). Ripensiamoci. La paradossale serie di delitti ancorata per vie interne alla recente storia. La teoria – i motivi del film – chiarita per così dire in calce alla sequenza. La conoscenza impiegata come spettacolo. Una filosofia che si estende come un panorama sulle vecchie ipocrisie della società. Il capovolgimento delle logiche. L’umorismo come estrema forza dimostrativa… Sfogliando l’opera di Brecht ritroveremo stupiti dei Verdoux in panni cinesi, in panni caucasici. In panni italiani.


Il cinema brechtiano in Francia e in Italia

In Francia qualche volta è Godard a incontrare Brecht (l’esempio massimo resta Questa è la mia vita), mentre Frédéric Rossif nei suoi montaggi storico-critici, Vincitori alla sbarra, Morire a Madrid, La rivoluzione d’ottobre, si prova spesso a una decifrazione (“allargamento della visuale individuale”) tipica della didattica brechtiana. Ma anche senza uscire d’Italia ormai ci è dato accorgerci di qualche film che fa propri gli strumenti del Brecht maggiore con lucidità e disinvolta applicazione. Vorremmo dire che il cinema italiano annovera almeno due registi brechtiani. Uno ha un unico film all’attivo; è Gianfranco De Bosio con Il terrorista (1963). L’altro naturalmente è Francesco Rosi, fin dal tempo di Salvatore Giuliano (1962): spettacolo molteplice di realismo storificato e di scientifico eroismo, che abbisogna dell’anfiteatro popolare per esprimersi. Può essere curioso intendere, da principio, che l’affinità Brecht-Rosi giunge da un giro vizioso, e quasi da una americanizzazione della tecnica brechtiana – il Lebrstück attraverso De Rochemont e Mark Hellinger – ma poiché, l’abbiamo detto, l’America e Hollywood non sono rimaste estranee al processo, è una restituzione che si perfeziona senza attrito e significa qualche cosa. Del resto anche Le mani sulla città (1963) perseguono la stessa condotta di avventura scientificizzata e politicizzata, di controllo d’una trasformazione.

Sono sorprese che ci vengono a preferenza dal cinema meridionalista, più disponibile all’arco epico, più perspicuo nell’atto di mostrare e dibattere. Pensiamo a quell’originale film che era Un uomo da bruciare (1962) di Valentino Orsini e Paolo e Vittorio Taviani. A sua volta il personaggio del sindacalista siciliano Salvatore Carnevale fuoriesce da una composizione criticamente stratificata e analizzata, da un giudizio corale esterno e da una chiarificazione intima che è anch’essa “coro” per la folla delle radici native che vi partecipano, e in cui tenzonano la componente mistica e quella rusticana, il fumetto letto all’edicola e il ricordo sensuale. Così giudicato Salvatore Carnevale sembra a prima vista lontano (allontanato) dal suo ambito politico e ideologico, ma non è: lo si è sottoposto a uno di quei “racconti in scena” eminentemente brechtiani, con gli antefatti esposti e il giro dell’esistenza che diviene, per il fatto stesso di evolversi, spiegazione collettiva.

Orsini e i fratelli Taviani hanno ribadito il loro modo espressivo in I fuorilegge del matrimonio (1964), dove uno degli episodi era esplicitamente ispirato alla regia strehleriana del Galileo (la vestizione pontificale). Senza Orsini, la coppia Taviani ha poi diretto Sovversivi (1967), che da uno spunto politico preciso, i funerali di Togliatti, si slancia felicemente in una esplorazione circolare di tipi e caratteri, tutti studiatamente interlocutori e, sotto il clima in apparenza convulso, disciplinatamente interpretati. Il realismo di Sovversivi è rielaborato nelle coscienze, per così dire, a vista. E un’altra esortazione fondamentale di Brecht traspare di continuo: la tensione non deve indirizzarsi verso la conclusione della storia, ma prodursi “durante il corso della storia”. È appunto quanto ассаde in Sovversivi, dove la problematica dei disparati e contrastanti personaggi non si convoglia verso un finale, ma rotea e comincia e finisce moltissime volte. I registi insomma, applicando Brecht, non hanno scelto una formula espressiva fra tante, ma si sono attenuti all’unica simmetria possibile per una storia del genere.


Tino Ranieri


(Tratto da: Tino Ranieri, Brecht e il cinema – 1. Il difficile rapporto fra il poeta e lo schermo, in «Il Calendario del popolo», anno 53, n. 617, febbraio 1998).


Note

1  I Dieci di Hollywood, il gruppo di registi e sceneggiatori incriminati dalla Commissione della Camera dei Rappresentanti per le attività antiamericane, e poi condannati a un anno di carcere per “oltraggio al Congresso”.

2  Helen Weigel, moglie di Brecht.


Inserito il 14/02/2025.

2. I film tratti dalle opere del drammaturgo di Augusta

di Tino Ranieri

Riprendiamo da una storica rivista culturale un approfondimento sul rapporto di Bertolt Brecht con il cinema. In questo secondo articolo una breve rassegna dei più importanti film tratti dalle opere teatrali di Bertolt Brecht.

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Brecht e il cinema

2 . I film tratti dalle opere del drammaturgo di Augusta


di Tino Ranieri


Ma quando il cinema va a cercare Brecht direttamente sulle tavole del palcoscenico, cosa accade? Qui bisogna rifarsi ancora una volta al vecchio caso di Dreigroschenoper [L’opera da tre soldi], sempre più il noto quantunque ben lontano dal riassumere tutti i termini della controversia Brecht-cinerna. È indubitabile che Dreigroschenoper abbia allettato i produttori della Nero Film specialmente in linea di spettacolo, e come facile sfruttamento di un successo scenico preesistente, ossia per ragioni volgari; senza dire che nell’euforia del neonato “sonoro” contavano più, per lo schermo, le musichette di Weill che non i versi di Brecht. Quanto a Pabst, regista non-brechtiano per eccellenza, Dreigroschenoper lo interessava soltanto come spunto di partenza: poi, il suo modo di concepire il realismo attraverso il tardo-espressionismo, lo avrebbe portato due volte fuori strada. Ne scaturisce un’operetta con pretesti sociali, drastica in qualche punto (la marcia finale dei mendicanti con i cartelloni: “Dio ci ha creati a sua immagine”) e scenograficamente elegantissima, ma ridimensionata nei limiti di uno “scandalo borghese”. Destinata a un pubblico che avrebbe capito solo ciò che avrebbe voluto capire, e spogliata interamente del suo potere didattico. In Pabst esiste certo un linguaggio proprio, e una emozione propria. Quello che cercheremmo inutilmente è l’impulso, diciamo almeno la curiosità, verso una sperimentazione originale in spoglie filmiche d’un testo che ribolle di idee, proposte tecniche, innovazioni linguistiche, lampi provocatorii.

Oggi la critica drammatica si trova abbastanza concorde nel considerare Dreigroschenoper un lavoro imperfetto e minore del teatro di Brecht. Non contestiamo. Ma è ben qui in Dreigroschenoper (teatro) che la soluzione di tipo cinematografico traspare ripetutamente, come elemento intermedio, forse contro l’intento di Brecht – e forse no – e certo senza che Pabst ne tenga il giusto conto. I songs corrispondono a didascalie esplicative. Situazioni e momenti vengono isolati in scena come in primi e primissimi piani sullo schermo. L’alternativa degli effetti si svolge secondo le norme del montaggio cinematografico. Dalla frantumazione insolente e sarcastica del materiale drammatico Dreigroschenoper trae la sua validità d’arte e anche, in fondo, il suo “messaggio”. Come nota Freddy Buache nel suo studio su Pabst in «Premier Plan»: «Brecht rifiuta di introdurre nell’intreccio l’elemento positivo che sarebbe in grado di spiegare direttamente il dislivello caricaturale, come potrebbe fare ad esempio un eroe progressista o un gruppo di proletari in funzione di coro, smascherando il sotterfugio. Egli preferisce, da drammaturgo geniale. lasciare alla forma teatrale la cura di contraddire pensieri e atti dei protagonisti, affinché il fantasma dell’etica rivoluzionaria faccia capolino nello spettacolo, intimorendo così lo spettatore senza nulla togliergli del suo piacere». Ma è proprio questa sottile mistificazione brechtiana che resta totalmente esclusa dal film di Pabst. Pabst è pungolato soprattutto dalle suggestioni esterne della rappresentazione, da quest’Inghilterra di stracci e di trine, dalle composite possibilità della scenografia. Tende a farne un quadro. Cercando di rendere Dreigroschenoper più compatto, lo indebolisce. Il film, a prima vista tanto folto, mosso e contrastato, col suo insultante umorismo, la sua anarchica vitalità, resta tipicamente unidimensionale.

C’è un dettaglio curioso che merita una parentesi. Dreigroschenoper, la commedia di Brecht e Weill, deriva dalla settecentesca The Beggar’s Opera di John Gay su musiche di Pepusch. Anche questo prototipo ha trovato nel 1953 la via del cinema, con Laurence Olivier, ed è venuto in Italia col titolo Il masnadiero. Meno bello di Dreigroschenoper, meno sontuoso e magico di Pabst, il film inglese poteva però a maggior diritto riaprire la diatriba sul contributo brechtiano al cinema, perché rappresentava una specie di rovesciamento storico-critico: Brecht, o certa sua tecnica, che restituiva a Gay quanto Gay gli aveva prestato. Pochi se ne occuparono. Il regista era cinematograficamente un esordiente. Oggi lo conosciamo tutti: è Peter Brook, e per il suo Marat-Sade le citazioni di Brecht sono diluviate da ogni parte.

Tornando al film del 1930, ricordiamo che Brecht se n’era staccato assai prima della realizzazione. Anch’egli, come Pabst, aveva pensato ad alcune modifiche del testo teatrale, ma in direzione opposta. Voleva evidenziare meglio i temi di critica sociale, farne qualcosa di più dimostrativo. Questi propositi trovarono forma in un soggetto-racconto scritto in collaborazione con Caspar Neher, Slatan Dudow e Leo Lania, intitolato Il bozzo, che si può leggere nel «Nuovo Spettatore Cinematografico» (aprile 1963). Neher era stato lo scenografo del Dreigroschenoper prima edizione teatrale; Pabst lo avrebbe sostituito col più talentoso Andrei Andrejew. Dudow, regista cinematografico, sarebbe divenuto nel ’32 il realizzatore di Kühle Wampe. Lania, giornalista, commediografo e scrittore, aveva l’incarico di fare da tramite tra Brecht e Pabst. Ma a nulla servirono i suoi buoni uffici. Dopo aspre discussioni, Brecht piantò in asso il lavoro incaricando Lania di sostenere il suo punto di vista in sceneggiatura. Il risultato evidentemente non lo soddisfece, se durante le riprese intentò causa alla Nero Film produttrice, unitamente a Kurt Weill. La sentenza gli fu contraria. Brecht la confutò nel saggio che abbiamo già menzionato nella prima parte di questo articolo, Il processo per Dreigroschenoper, in cui si ribatte con vigore e amarezza a certe dichiarazioni dei legali di parte avversa e dei giornali berlinesi interessati alla faccenda. Il tempo ha ridimensionato considerevolmente le asserzioni di Brecht, tra cui troviamo la battuta famosa: «Non è vero che il cinema abbia bisogno dell’arte, a meno di creare una nuova nozione d’arte»; ma bisogna aggiungere che anche più discutibili suonano oggi i motivi degli avvocati e dei giornalisti a lui contrari. Come giurisprudenza in materia di cinema, sono balbettanti. Come documento umano, il saggio di Brecht sopravvive a testimoniare un momento invelenito e intransigente d’un uomo che viceversa era avvezzo a filtrare ogni veleno oltre il fumo del suo sigaro e ogni ostinazione oltre il velo del suo humour. Tendiamo a vedere la spiegazione più vera di questo atteggiamento, per Brecht così raro, in un fatto molto semplice. Fin da allora il mezzo cinematografico lo attraeva poco. Egli scaricava la sua ira, per così dire, su un punto morto, convinto con ciò di avere chiuso un rapporto che a priori considerava inutile e secondario nel proprio lavoro. Sanzionava nell’esperienza di Dreigroschenoper un fenomeno di spossessione artistica, il quale lo avrebbe messo in guardia contro future illusioni.

Nel passaggio dal teatro allo schermo della commedia si possono elencare quindi tre varianti: il soggetto Il bozzo, la sceneggiatura successiva curata da Leo Lania, Ladislaus Vajda e Bela Balasz, e infine il film di Pabst. Che anch’esso va giudicato due volte, perché girato in doppia versione, tedesca e francese, con attori diversi. Era questo delle doppie versioni un procedimento molto usato agli albori del sonoro. Per raggiungere un maggior numero di mercati e pubblici di varie lingue, il film veniva realizzato due volte contemporaneamente, negli stessi studi, con le stesse scenografiche, le stesse angolazioni fotografiche, lo stesso regista, ecc., mutando solo il complesso recitante o parte di esso. Così venivano eliminate le spese di doppiaggio e si assicurava ai prodotti un immediato sbocco internazionale. Evidentemente il risultato non restava sempre identico da una versione all’altra, nemmeno sotto il magistero di un regista esperto come Pabst: e infatti chi abbia veduto soltanto l’esemplare francese di Dreigroschenoper (intitolato L’opéra de quat’sous) non può certo affermare di aver conosciuto davvero Dreigroschenoper, che nella versione tedesca possiede tutt’altro timbro interpretativo, notevolmente superiore. Personalmente abbiamo avuto modo di verificare entrambi i film in un’unica proiezione durante la retrospettiva dedicata a Pabst al festival di Locarno del 1966. L’opéra de quat’sous si illanguidisce in accenti da vaudeville e ostenta una recitazione eccettuando Margo Lion e alcune parti di fianco decisamente tradizionale. Viceversa, se il Dreigroschenoper in lingua tedesca serba qualche movimento, qualche sprazzo di sapore brechtiano, ciò accade in virtù degli interpreti, molti dei quali già avevano avuto familiarità col Brecht teatrale: da Lotte Lenya, moglie di Kurt Weill, a Rudolf Forster che fin dal ’24 era stato protagonista dell’Eduard II von England ridotto appunto da Brecht, al memorabile Ernst Busch, il cantastorie, che intona da par suo la famosissima Moritat su Mackie Messer (Und der Haifisch der bat Zähne…).

Di recente Dreigroschenoper ha avuto una nuova versione cinematografica di produzione franco-tedesca, con la regia di Wolfgang Staudte e il contributo di noti attori di diversa provenienza: Curd Jurgens (Mackie Messer), June Ritchie (Polly Peachum), Hildegarde Knef (Jenny delle Spelonche), Gert Fröbe (Peachum), Lino Ventura (Tiger Brown), Sammy Davis jr. (il cantastorie). Il film (Dreigroschenoper, 1963; a colori) non è mai giunto in Italia e altrove ha conosciuto mediocri accoglienze. Nel volume citato più sopra così lo commenta Freddy Buache: «(gli attori)… non riequilibrano con una intelligente morbidezza di recitazione o col buon umore l’artigianale applicazione del regista, solo impegnato a coordinare i movimenti musicali, adattati a ritmi di jazz, con quello dell’intreccio, subordinato a un decoro affettato, pretenzioso, in punta di pennello».

Bisogna arrivare fino agli anni della guerra per ritrovare un testo di Brecht in cinema. Nel frattempo (e di nuovo dopo la guerra) s’affaccia sullo schermo l’arguto sberleffo del soldato Schwejk. Ma al riguardo occorre dissipare un equivoco. Non si tratta dello Schwejk rielaborato da Brecht, quello del Piccolo Teatro e di Strehler per intenderci, né di quello che fin dal ’28 Brecht con altri collaboratori aveva ridotto in forma scenica per la Piscator-bühne. È sempre lo Schwejk primigenio, rozzo e mirabile, del romanzo di Jaroslav Hašek, con ulteriori varianti soggettistiche ma senza mediazioni: così nei modelli cecoslovacchi muti di Karel Lamac co-me nel sovietico Schwejk di Sergej Jutkevic del 1943, Novye pochozdenija Swejka (stavolta il soggetto è originale: il “bravo soldato”, incorporato nella Wehrmacht, viene inviato nei Balcani e qui si adopera ad aiutare con ingegnosi trucchi i partigiani jugoslavi) come nei tre disegni animati di Jiri Trnka (1955-57) e in Der gute Soldat Schwejk, tedesco, con Heinz Rühmann (1962), e in Bolsciaja doroga, sovietico, di Yuri Ozerov (1963), in cui vediamo fraternizzare, a Praga e sul fronte orientale, l’autore e il personaggio, ossia Hašek e il suo attendente e amico Josef Straslipka che primo gli fornirà lo spunto autentico per la creazione di Schwejk.

Chi ricorre direttamente a Brecht è nel 1942 un regista grandissimo, Vsevolod Pudovkin. Sta realizzando per la serie Kino Album dei film di propaganda antinazista e ricorda un dramma di cui Brecht aveva dato alcune pubbliche letture durante il suo soggiorno a Mosca nel 1936: Furcht und Elend des Dritten Reichs (Terrore e miseria del Terzo Reich). Particolare interessante: Furcht und Elend, allorché Pudovkin lo sceneggia per lo schermo, è in pratica ancora sconosciuto. Pur risalendo al 1934 andrà in scena per la prima volta negli Stati Uniti soltanto nel 1945. La versione cinematografica avrebbe preceduto pertanto l’allestimento teatrale cui esso era destinato; avrebbe, diciamo, in primo luogo, perché il film di Pudovkin si limitava solo a quattro-cinque episodi dei ventiquattro di cui consta l’intero dramma (per l’esattezza il terzo, La croce fatta col gesso, e il decimo, Il delatore, il sedicesimo, Assistenza invernale, e il ventitreesimo, Lavoro per tutti, mentre l’episodio iniziale veniva portato alla fine e capovolto nell’azione: i due ufficiali delle SS che nella commedia del ’34 girano baldanzosamente per le strade tedesche sparando contro le finestre, nel film del ’42 sono in fuga nella steppa russa e vengono uccisi dai partigiani); ma soprattutto perché Lico Fašizma (Il volto del fascismo), questo il titolo della pellicola, non è mai stato distribuito in visione pubblica. Le autorità dell’epoca lo reputarono poco persuasivo dal punto di vista della propaganda bellica. Ma il veto perdura oltre la fine della guerra e oltre la morte di Pudovkin. A tutt’oggi [il presente articolo risale agli anni Settanta, ndr] sembra che Lico Fašizma non sia stato mai proiettato. Arriva al pubblico – non, al solito, a quello italiano – un film controverso: Herr Puntila und sein Knecht Matti, dall’omonima commedia (Il signor Puntila e il suo servo Matti). Sembra fatale che ogni contatto di Brecht col cinema sia tormentato. La lavorazione, iniziata nel 1955, subisce ritardi e interruzioni. La regia, che forse avrebbe trovato finalmente in Joris Ivens l’uomo giusto, passa dopo un po’ a un brasiliano inquieto, Alberto Cavalcanti, e Cavalcanti non è un brechtiano. È lontano dall’autore del Puntila culturalmente e ideologicamente. Non sa che sottolineare nell’acuto, divertente apologo che il lato farsesco, ed ecco di nuovo Brecht tradito. Questa volta, si badi, il tradimento si attua tutto in sede di regia, perché la sceneggiatura una volta tanto trova l’approvazione di Brecht, che anzi marginalmente vi collabora; ed è il solo caso in cui egli partecipi sia pure in limitata misura e senza firmare allo scenario di un film derivato da una sua commedia. Ci sono sulla pagina la tesi, i precetti epici, la distanziazione: la pellicola fuorvia tutto, sbaglia i ritmi, trucca la lucidità in grottesco. Cavalcanti, che lavora in quest’occasione per una casa produttrice austriaca, commette una serie di errori tipici del non-brechtiano. Il documentario, al quale si è dedicato per tanti anni, gli ha lasciato il culto del realismo fotografico. Il cinema commerciale lo ha indotto a credere che ogni finale di film debba essere una conclusione, mai un’offerta. Infine (ed è una svista in cui incorrono tutt’ora anche alcuni registi teatrali di Brecht) prende per invito all’intellettualizzazione d’un testo ciò che per Brecht è invito alla sofisticazione. Conseguenza: il Puntila è probabilmente un buon film comico (c’è chi ha parlato di derivazione dai fratelli Marx, oltre che da Chaplin) ma non è uno spettacolo brechtiano. Non vi scopriamo né Brecht vivo, né il suo impertinente fantasma.

Esistono infine alcune pellicole, non destinate allo sfruttamento commerciale ma serbate agli studiosi di teatro e alle scuole di recitazione, che il Berliner Ensemble ha registrato con il consenso di Helen Weigel dopo la morte di Brecht, avvalendosi dei mezzi tecnici della DEFA, l’organizzazione cinematografica della Repubblica Democratica Tedesca. La prima risale al ’58 ed è una rappresentazione di La madre, ridotta da Brecht sul testo di Gor’kij, per la regia di Manfred Wekwerth e Peter Palitzch. La seconda, poi presentata anche al pubblico, è Madre Coraggio e i suoi figli (1960), in Cinemascope, con gli stessi registi, tutt’e due appartenenti all’Ensemble. Per Madre Coraggio, al momento delle riprese, è stata praticata qualche lieve variante rispetto all’edizione teatrale. A titolo di cronaca va ricordato che un breve passaggio di La resistibile ascesa di Arturo Ui figura nel film di Vittorio De Sica I sequestrati di Altona (1963) con Sofia Loren nel ruolo della vedova Dullfeet e Ekkehard Schall, genero di Brecht, in quello di Ui; il Berliner Ensemble ha dato in questa circostanza, eccezionalmente, il permesso a De Sica di girare sulle scene stesse del Theater am Schiffbauerdam. È il solo brano cinematografico riguardante l’illustre complesso di Brecht giunto sino agli spettatori italiani. Il Berliner in carne ed ossa d’altronde non ha trovato porte più ampie e lasciapassare più volonterosi, ai nostri valichi, come tutti gli appassionati di teatro ben sanno.

È dunque, la lunga baruffa tra Brecht e il cinema, una collana di appuntamenti mancati, di persone non sintonizzate fra loro, di malintesi e di fiori di carta bollata, di istruite negligenze e di distratte intelligenze, di un disinteressamento proclamato troppo presto e di un interessamento arrivato troppo tardi; di proibizioni e di teorizzazioni. Di “terrore e miseria”, e di giro del mondo. Forse il cinema è davvero come il signor Puntila, generoso solo quando era ubriaco, e intrattabile quando faceva sul serio. Ma il Matti-Brecht, andandosene, lascia dietro di sé un’opera che non ha finito affatto d’essere esaminata, amata, compresa, diffusa in ogni modo, compreso il “modo” cinematografico. Se la maturazione è stata lenta, ciò non torna a svantaggio dei discepoli. I brechtiani al cinema oggi esistono; i brechtiani, diciamo, non i “posteri” di Brecht. La loro maggior forza, il loro maggior impegno consiste proprio nel non poter ancora guardare indietro con indulgenza.


Tino Ranieri


(Tratto da: Tino Ranieri, Brecht e il cinema – 2. I film tratti dalle opere del drammaturgo di Augusta, in «Il Calendario del popolo», anno 54, n. 618, marzo 1998).


Inserito il 15/02/2025.

Bertolt Brecht

(1898-1956)

Lode dell’imparare
(1933)

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Lode dell’imparare


Impara quel che è più semplice!

Per quelli il cui tempo è venuto

non è mai troppo tardi!

Impara l’abc; non basta, ma

imparalo! E non ti venga a noia!

Comincia! Devi sapere tutto, tu!

Tu devi prendere il potere.


Impara, uomo all’ospizio!

Impara, uomo in prigione!

Impara, donna in cucina!

Impara, sessantenne!

Tu devi prendere il potere.

Frequenta la scuola, senzatetto!

Acquista il sapere, tu che hai freddo!

Affamato, afferra il libro: è un’arma.

Tu devi prendere il potere.


Non avere paura di chiedere, compagno!

Non lasciarti influenzare,

verifica tu stesso!

Quel che non sai tu stesso,

non lo saprai.

Controlla il conto,

sei tu che lo devi pagare.

Punta il dito su ogni voce,

chiedi: e questo, perché?

Tu devi prendere il potere.


1933


Bertolt Brecht


* * *


Lob des Lernens


Lerne das Einfachste! Für die

Deren Zeit gekommen ist

Ist es nie zu spät!

Lerne das Abc, es genügt nicht, aber

Lerne es! Laß es dich nicht verdrießen!

Fang an! Du mußt alles wissen!

Du mußt die Führung übernehmen .

 

Lerne, Mann im Asyl!

Lerne, Mann im Gefängnis!

Lerne, Frau in der Küche!

Lerne, Sechzigjährige!

Du mußt die Führung übernehmen.

Suche die Schule auf, Obdachloser!

Verschaffe dir Wissen, Frierender!

Hungriger, greif nach dem Buch: es ist eine Waffe.

Du mußt die Führung übernehmen.

 

Scheue dich nicht zu fragen, Genosse!

Laß dir nichts einreden

Sieh selber nach!

Was du nicht selber weißt

Weißt du nicht.

Prüfe die Rechnung

Du mußt sie bezahlen.

Lege den Finger auf jeden Posten

Frage: Wie kommt er hierher?

Du mußt die Führung übernehmen.


Bertolt Brecht

Dal sito «sololibri.net»

Lode dell’imparare, la poesia di Brecht sul potere della cultura

di Alice Figini

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Lode dell’imparare, la poesia di Brecht sul potere della cultura


di Alice Figini


Il 10 febbraio 1898 nasceva ad Augusta, in Germania, Eugen Berthold Friedrich Brecht, poeta, drammaturgo, regista teatrale che avrebbe segnato attraverso le sue opere la storia del Novecento.

Brecht è noto soprattutto come drammaturgo, ma è anche autore di numerose poesie, tra le più toccanti della lirica tedesca novecentesca.

Tramite il suo capolavoro Opera da tre soldi (1929), Brecht fu l’inventore della forma del “teatro epico”, che non si fondava sull’immedesimazione degli spettatori con i personaggi, ma poneva al centro una riflessione distaccata e razionale, in modo che lo spettatore potesse imparare qualcosa dalla rappresentazione teatrale. Brecht voleva che l’arte diventasse un veicolo di conoscenza, in modo da spingere una presa di coscienza critica da parte del pubblico.

Questa visione militante l’autore la trasferì dalla drammaturgia alla letteratura, trasformando così le parole in un’arma politica capace di affrontare le sfide del proprio tempo.

Nella celebre poesia Lode dell’imparare Bertolt Brecht chiama il popolo a una rivoluzione non violenta, combattuta con le armi del sapere e della cultura.

Il componimento fu scritto nel 1933, lo stesso anno della salita al potere di Adolf Hitler. Pochi mesi dopo Brecht fu costretto a fuggire dalla Germania, poiché la sua adesione al pensiero marxista lo poneva in aperto conflitto con il nazismo ormai imperante.

Le sue parole oggi ci appaiono come un ultimo avvertimento, che poco poté dinnanzi alla tempesta creata dal regime di Hitler che presto avrebbe capovolto le sorti del mondo intero.

Oggi la poesia di Brecht viene vista come un ultimo estremo e nobile tentativo di salvare la democrazia dalla catastrofe imminente.


Nel 1933, quando Bertolt Brecht compose Lode dell’imparare, in Germania era da poco salito al potere Adolf Hitler, nominato cancelliere il 29 gennaio di quello stesso anno. In breve tempo Hitler avrebbe acquisito pieni poteri, limitando la libertà di stampa. Infine, il 10 maggio di quell’anno, i nazisti bruciarono i libri scritti da autori non graditi al regime.

Gli studenti ebbero l’ordine di bruciare tutti i libri, portandoli di persona fuori dalle biblioteche. I testi di molti autori stranieri e di tutti gli autori ebrei furono bruciati in enormi falò accesi in ogni parte della città di Berlino.

In quella data ebbe luogo il più vasto e pianificato incendio di libri della storia contemporanea, si calcola che quel giorno furono dati alle fiamme oltre 20.000 titoli.

Nella poesia Brecht celebra il valore dell’istruzione, la forza dell’apprendimento e del sapere. La cultura, secondo il poeta, era l’unico strumento in grado di suscitare una presa di coscienza e sviluppare un pensiero critico da parte del popolo.

Per questo motivo Brecht invita tutti, indiscriminatamente, ad apprendere e a imparare per uscire dalle paludi dell’ignoranza che avrebbero tolto loro il diritto di ribellarsi alla follia scellerata di Hitler.

Come mostra il lungo elenco iniziale, l’autore chiama chiunque all’arte dell’apprendere. Il suo appello non è rivolto solo ai giovani studenti, ma anche al carcerato, alla casalinga, al sessantenne, al senzatetto. L’invito di Brecht è universale, perché riconosce che solo attraverso la cultura queste persone potranno essere finalmente libere.

Il poeta pone un unico imperativo categorico:

Affamato, afferra il libro: è un’arma.


Brecht vede nei libri, nella cultura, uno strumento di lotta e chiama tutti a servirsene per cambiare la propria condizione di sottomissione. Alla fine di ogni verso l’autore ripete: “Tu devi prendere il potere”, chiamando quindi il popolo ad attuare una rivoluzione non violenta, compiuta attraverso la lettura e il sapere.

Hitler bruciava i libri perché vedeva in essi dei nemici, una minaccia, e Brecht invita la gente a servirsi del potere delle pagine scritte per ribellarsi alla tirannia nazista.

Il poeta e drammaturgo tedesco sapeva bene che:


Il pensare è uno dei massimi piaceri concessi al genere umano


e quindi predicava una ribellione mentale, prima che fisica, perché le idee devono prima germogliare nella mente per poi divenire parole, e quindi trasformarsi in azioni concrete.

Bertolt Brecht vedeva nel pensiero un’arma potentissima, la maggiore risorsa a disposizione di un essere umano. Attraverso le sue poesie propugnava dunque una rivoluzione di pensiero, regalandoci la commovente resistenza di un intellettuale di fronte alle barbarie più atroci della storia.

Brecht componeva un’ode alla cultura e al sapere, proprio mentre le pagine dei libri si trasformavano in fumo nel cielo di Berlino.


10 febbraio 2022


Alice Figini


(Tratto da: Alice Figini, “Lode dell’imparare”: la poesia di Bertolt Brecht sul potere della cultura, in: https://www.sololibri.net/Lode-imparare-poesia-Brecht-testo-analisi-potere-cultura.html consultato il 27 febbraio 2024).


Inserito il 02/03/2024.

Dalla rivista «Quaderni piacentini» – 1963

Due poesie di Brecht

di Franco Fortini

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Due poesie inedite di Bertolt Brecht


Queste due poesie mi sembrano indicative dei poli fra i quali ha sempre oscillato la mente poetica di Brecht. La prima lascia alla scelta individuale la decisione e la valutazione degli eventi storici. Rischio intero e responsabilità intera per l’individuo, momento della volontà. La seconda contiene in forme esclamative ed interrogative precetti antivirtuistici del possibile e della mediazione. Estremismo e passione della concretezza tattica, questi due momenti, che Brecht celebra, sono la forma: astrazione “prosastica”, precettistica; ma, al tempo stesso, immediatezza, rilievo del discreto. «Una parte delle nostre parole le ha stravolte il nemico fino a renderle irriconoscibili»; ma anche: «Spedirla in cucina, l'amante sfiancata?».

Per quanto possa sembrare singolarmente inopportuno in un paese che ha recentemente contato otto milioni di voti comunisti, non sarà male rilevare quella che il linguaggio giornalistico direbbe «pungente attualità» di queste poesie: il discorso su di un organismo politico rivoluzionario del salariato moderno non rischia di sembrare discorso di sopravvissuti, quando non un solo albero ma una foresta intera ci racconta perché non ha fruttificato? «Mutarla in farsa, la tragedia ridicola? – Non aspettarti nessuna risposta oltre la tua».


A chi esita si legge nella IV parte delle Svendborger Gedichte, composte nella cittadina danese di Svendborg dove Brecht visse dal 1933 al 1939. La prima edizione è del 1939, Malik-Verlag, Londra. È a pag. 25 del IV volume delle Gedichte, Suhrkamp, Frankfurt a/M, 1961.

Brutti tempi: dalle poesie postume. In Sinn und Form, zweites Sonderherft Bertolt Brecht, Berlino, 1957, p. 122. Come indicazione cronologica i curatori hanno aggiunto: Emigration.


Franco Fortini


(Tratto da: Franco Fortini, Due poesie inedite di Bertolt Brecht, in «Quaderni piacentini», n. 9-10, maggio-giugno 1963).


Inserito il 10/08/2023.

A chi esita

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A chi esita


Dici:

per noi va male. Il buio

cresce. Le forze scemano.

Dopo che si è lavorato tanti anni

noi siamo ora in una condizione

più difficile di quando

si era appena cominciato.


E il nemico ci sta innanzi

più potente che mai.

Sembra gli siano cresciute le forze. Ha preso

una apparenza invincibile.

E noi abbiamo commesso degli errori,

non si può più mentire.

Siamo sempre di meno. Le nostre

parole d'ordine sono confuse. Una parte

delle nostre parole

le ha stravolte il nemico fino a renderle

irriconoscibili.


Che cosa è ora falso di quel che abbiam detto?

Qualcosa o tutto?

Su chi

contiamo ancora?

Siamo dei sopravvissuti, respinti

via dalla corrente? Resteremo indietro, senza

comprender più nessuno e da nessuno compresi?


O dobbiamo sperare soltanto

In un colpo di fortuna?


Questo tu chiedi. Non aspettarti

nessuna risposta

oltre la tua.


Bertolt Brecht

(traduzione di Franco Fortini)


(Tratto da: Franco Fortini, Due poesie inedite di Bertolt Brecht, in «Quaderni piacentini», n. 9-10, maggio-giugno 1963).


Inserito il 10/08/2023.

Brutti tempi

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Brutti tempi


L'albero racconta perché non ha fruttificato.

Il poeta racconta perché i versi sono diventati brutti.

Il generale racconta perché si è perduta la guerra.


Quadri, dipinti su fragile tela!

Memorie della spedizione, trasmesse ai dimentichi! Comportamento nobile, che nessuno ha notato!


Usarlo come pitale, il vaso incrinato?

Mutarla in farsa, la tragedia ridicola?

Spedirla in cucina, l'amante sfiancata?


Lode a chi esce dalle case cadenti!

Lode a chi chiude la porta all’amico che s’è lasciato andare! Lode a chi dimentica il progetto irrealizzabile!


La casa è costruita con le pietre che erano disponibili.

La distruzione fu compiuta con i distruttori che erano disponibili.

Il quadro fu dipinto con i colori che erano disponibili.


Bertolt Brecht

(traduzione di Franco Fortini)


(Tratto da: Franco Fortini, Due poesie inedite di Bertolt Brecht, in «Quaderni piacentini», n. 9-10, maggio-giugno 1963).


Inserito il 10/08/2023.

Foto di Stefano Gallerini.

Epitaffio per Rosa Luxemburg


Ora è sparita anche la Rosa rossa, non si sa dov’è sepolta.

Siccome ai poveri ha detto la verità

I ricchi l’hanno spedita nell’aldilà.


Qui giace sepolta

Rosa Luxemburg

Un’ebrea polacca

Che combatté in difesa dei lavoratori tedeschi

Uccisa

Dagli oppressori tedeschi.

Oppressi

Seppellite la vostra discordia.


Bertolt Brecht

Bertolt Brecht e Giorgio Strehler al Piccolo di Milano (1956).

Fonte della foto: http://i2.res.24o.it/images2010/Editrice/ILSOLE24ORE/DOMENICA/2016/05/29/Domenica/Immagini/Trattate/Bertolt%20Brecht%20e%20Giorgio%20Strehler-k4zE--835x437@IlSole24Ore-Web.jpg

Dal sito de «Il Sole 24 Ore»

Il Piccolo guardiano di Brecht

di Massimo Bucciantini

Tutto ha inizio da un biglietto. Da due righe scritte a mano da Bertolt Brecht e indirizzate a Giorgio Strehler: «Caro Strehler, mi piacerebbe poterle affidare per l’Europa tutte le mie opere, una dopo l’altra. Grazie. Milano 10.2.56»…

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Il Piccolo guardiano di Brecht


Tutto ha inizio da un biglietto. Da due righe scritte a mano da Bertolt Brecht e indirizzate a Giorgio Strehler: «Caro Strehler, mi piacerebbe poterle affidare per l’Europa tutte le mie opere, una dopo l’altra. Grazie. Milano 10.2.56». Quasi una reliquia laica da custodire gelosamente e da mostrare, ogni volta si fosse presentata l’occasione, per ricordare una delle pagine luminose che hanno fatto la storia del primo teatro pubblico dell’Italia repubblicana.

Succedeva esattamente sessant’anni fa e la lettera è contenuta nel libro di Alberto Benedetto, Brecht e il Piccolo Teatro. Una questione di diritti. Brecht era giunto a Milano invitato da Paolo Grassi e Strehler per assistere alla “prima” dell’Opera da tre soldi. In suo onore venne dato un ricevimento nell’atrio del Piccolo Teatro, e chi c’era, allora, ricorda quanto fosse a disagio e smarrito. «Salutava con un sorriso le persone che gli venivano presentate e si ritirava in un angolo chiamando a sé la figlia e la segretaria, quasi per difendersi da quella folla che pretendeva da lui una dichiarazione, una parola di commento sulle novità che stava preparando al Berliner Ensemble o sulla fortuna dei suoi drammi nel nostro paese». Il suo modo di vestire poi, quasi monacale, con una semplice casacca abbottonata fino al collo, era così dimesso e grigio che mal si conciliava con tanta “bella” gente che gremiva il ridotto. Le foto pubblicate in calce al libro – soprattutto quella in cui un impacciato Brecht (con le mani in tasca e gli occhi socchiusi) è ritratto accanto a uno Strehler elegantissimo e dal sorriso smagliante – rappresentano molto bene questo forte contrasto. Eppure quel soggiorno milanese, forse perché inaspettato, entusiasmò Brecht.

La messa in scena fu un successo straordinario. E quel biglietto ne fu uno degli effetti più rilevanti e più gravido di conseguenze. Ha ragione Sergio Escobar quando sottolinea che non siamo di fronte a un libro agiografico, e che appunto per questo sarebbe piaciuto a Paolo Grassi. Così come quando osserva che il sottotitolo appare ingannevole. Il libro contiene infatti ben altro che una discussione di ordine giuridico o economico-amministrativo sui diritti di rappresentazione. Parlare di «una questione di diritti» non rende a sufficienza l’idea del tipo di battaglia che dà corpo a questa storia: una battaglia non di piccolo cabotaggio o di basso potere ma di grande politica culturale, la cui posta in gioco era nientemeno che la costruzione della casa di Brecht in Italia. Una partita delicatissima, combattuta senza esclusioni di colpi, che avrebbe assegnato di fatto, e per diversi anni, al Piccolo il ruolo di arbitro assoluto e custode morale di ogni rappresentazione delle opere di Brecht nel nostro Paese.

L’artefice del progetto “Casa di Brecht” fu Paolo Grassi. Per un quindicennio si batté perché solo al Piccolo venisse riconosciuto questo diritto, e lo fece con una determinazione che qui, per la prima volta, si mostra senza infingimenti e in tutta la sua asprezza. Il libro è la trascrizione di un carteggio che non sembra finire mai. Un carteggio a tre: al centro sta il Piccolo, con il suo direttore, e ai lati, ma in stretta collaborazione tra loro, stanno Helene Weigel, la vedova di Brecht, e la Suhrkamp Verlag – la casa editrice di Francoforte che possedeva in esclusiva i diritti sulla pubblicazione e sulla messinscena delle opere di Brecht – rappresentata da Peter Suhrkamp e, dopo la sua morte avvenuta il 31 marzo 1959, dal nuovo direttore Siegfried Unseld.


L’Opera da tre soldi debutta a Milano il 10 febbraio 1956. La città è sepolta sotto una spessa coltre di neve ed è paralizzata da un freddo siberiano che tocca i meno diciassette. Era un venerdì. E anche la scelta del giorno non è casuale: coincide con il giorno del cinquantottesimo compleanno di Brecht. È la prima volta che assiste a un suo lavoro tradotto e recitato in italiano. Ed è un trionfo. Terminato lo spettacolo, intorno alle due di notte, Brecht scrive due biglietti: uno a Grassi («lo spettacolo è magnifico») e l’altro, appunto, a Strehler. Poi, una volta tornato a Berlino, invierà una lettera di ringraziamento all’intera compagnia. E anche in questa occasione le sue parole lasciano il segno: «Fuoco e freschezza, rilassamento e precisione, distinguono questa rappresentazione dalle molte altre che io ho visto. Voi apportate all’opera un’autentica rinascita». Infine invitava il Piccolo a Berlino, a mettere in scena l’Opera nel teatro del Berliner Ensemble.

Ecco, per capire la posizione assunta negli anni a venire da Grassi sull’affaire occorre partire da qui, dall’omaggio indiscutibile che Brecht tributò al Piccolo e al suo «grande regista».

Scrive Benedetto: «Nient’altro che questo biglietto autorizzerà Grassi ad affermare in diverse occasioni che il PTM sarebbe dovuto essere il “Zentrum” delle espressioni e delle rappresentazioni dell’opera brechtiana in Italia, e Strehler il “suo” regista». In effetti non ci fu nessuna investitura ufficiale, nessun accordo scritto. Eppure Grassi svolse il ruolo di tutore con il beneplacito sia della Weigel sia della casa editrice tedesca. Anche se lo scopo di Grassi non era tanto di ottenere un’esclusiva per l’Italia quanto – lo scriveva alla Weigel nell’agosto del 1957 – di «poter essere sempre informati di eventuali trattative e poter quindi impedire eventuali rappresentazioni sbagliate o raffazzonate».

Grassi e il Piccolo diventano così i censori e i guardiani morali di Brecht in Italia. Anche per amore di Brecht, verrebbe da aggiungere. Perché il suo lavoro non venisse mal interpretato, la sua voce non venisse fraintesa o, peggio, addomesticata. Quando nel 1960 Ivo Chiesa avanzò alla Weigel la richiesta di mettere in scena Il signor Puntila e il suo servo Matti, il fuoco di sbarramento di Grassi fu totale: «Per quanto riguarda il Teatro Stabile della città di Genova, non consiglio, per il momento, alcuna autorizzazione, in quanto l’ultima stagione è stata pessima e la direzione non offre sufficienti garanzie». E di dichiarazioni simili, con toni ultimativi, a volte sprezzanti e polemici, il libro è pieno. Così come numerose sono le lettere alla Weigel e alla Suhrkamp in cui Grassi rivendicava il primato del Piccolo Teatro, l’unico in Italia che poteva essere considerato il teatro di Brecht. Scriveva a Unseld il 16 gennaio 1962: «Noi intendiamo chiaramente essere i primi a rappresentare Brecht. È un diritto morale che abbiamo, è una volontà orale e scritta di Brecht che interpretiamo».

Poi, nell’aprile del 1963, arriverà l’apoteosi di Vita di Galileo a rafforzare ancora di più questa convinzione. E la “guerra” contro gran parte del teatro italiano si farà ancora più pesante.

Il libro di Benedetto non ha l’ambizione di affrontare l’intera circolazione e fortuna di Brecht in Italia. Ma partendo da un dettaglio indaga, attraverso una documentazione ricchissima conservata nell’Archivio del Piccolo e in gran parte mai utilizzata, la trama dei rapporti Brecht-Piccolo Teatro come nessuno aveva fatto. Finalmente, viene da aggiungere. A dimostrazione che le testimonianze e i ricordi dei tanti protagonisti o comprimari di allora non bastano, da soli, a render conto di una delle vicende cruciali del nostro teatro del secondo Novecento. E che può aiutare anche a comprendere meglio, da un angolo visuale eccentrico, quella moltitudine d’incroci e labirinti che fu la politica culturale degli anni Sessanta. Per questo occorre che chi può investa soldi e talenti nella buona gestione degli archivi. Perché la loro voce si faccia sentire più forte. Perché è grazie a libri come questo che il modo di leggere il passato si fa meno banale, meno stereotipato.


27 maggio 2016


Massimo Bucciantini


(Tratto da: Massimo Bucciantini, Il Piccolo guardiano di Brecht, in «Il Sole 24 Ore», 27 maggio 2016; URL: https://st.ilsole24ore.com/art/cultura/2016-05-27/il-piccolo-guardiano-brecht-155423.shtml?uuid=ADYIF4P [consultato il 01/07/2023]).


Inserito il 28/07/2023.

Dalla rivista «Il Politecnico» (1946)

Fisionomia di Bertolt Brecht

di Vito Pandolfi

Questo breve saggio che presentiamo rappresenta sicuramente uno dei primi profili sul drammaturgo e poeta tedesco apparsi in Italia. Di qualche sua opera teatrale si era già parlato a fine anni Venti, ma è nel Dopoguerra, con Vittorini, Fortini e «Il Politecnico», che ha inizio la fortuna di Bertolt Brecht in Italia.

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Fisionomia di Bertolt Brecht


«Io sono Bertolt Brecht – venuto dalla Salva Nera» aveva cantato nelle piazze di Berlino e nei villaggi, accompagnandosi con la chitarra, alto, magro, i capelli in frange sulla fronte. La prima grande guerra era stata la sua giovinezza. Fra una guerra e l’altra, verrà strettamente determinato il senso della sua esistenza. L’angoscia della morte che lo circondava in quei combattimenti, si è posta chiaramente all’origine prima del contenuto rigoristico e propulsivo che Brecht fece assumere alla sua vita e alla sua arte. Il lui, come in Toller, furono il sarcasmo e la ferocia della guerra imperialistica a chiamare l’avvento di una giustizia, la rivolta dei giusti. Anche attraverso di loro, in Germania si abbandonano gli scialbi interessi della socialdemocrazia per quel movimento deciso e totale che fu allora il bolscevismo dei pensatori, dei combattenti, degli operai.

Il suo primo dramma, Tamburi nella notte, ha per tema il ritorno del soldato nella cerchia degli affetti familiari, nel suo ambiente, fra i costumi sociali di prima, come Agamennone a Micene: e al suo ritorno, prende fuoco la rivolta di Spartaco. Lo scampato al naufragio, che si afferra agli scogli per la propria salvezza, ancora sotto il riflusso si risolleva e mormora nelle ballate di un Commento casalingo:


Quando ti partorii, i tuoi fratelli strillavano

Per la zuppa che non avevo,

Quando ti partorii, non c’era denaro per la luce

E tu non avesti luce dal mondo

. . . . . . . . . . . . .

Strappare un pezzo di pane per te

È fare il picchetto per lo sciopero

Lottare contro i grandi generali e i tank.


Il Canto della culla del Reich, dove si esisteva e si faticava trascinati nel fango dal lungo strascico della guerra di allora, verso i prodromi della nuova guerra. Dopo, Brecht compie dieci anni di Ricerche. E nel ’33 la guerra in realtà è stata ripresa. Trasmette con la propria voce da una radio clandestina in Danimarca le sue nuove ballate, questa volta dirette contro il nazismo che moltiplica le proprie armi, mentre il Canto della culla si fa ancora più cupo. Fugge a Parigi, a Mosca, a Nuova York, vengono rappresentati i suoi nuovi drammi: Brava gente di Szenuan, Galileo Galilei, Vita privata di padron Razza, e da poco Madre Coraggio e i suoi figli: dove il tema della guerra prende una risonanza sempre più forte: fame, strage, distruzione. La sua opera che si edifica su di un fitto tessuto dialettico trova nelle due guerre la sua linea d’orizzonte, tra le cause e gli effetti delle lotte in virtù delle quali esistono la società e gli uomini.

Sulla sostanza possibile di questa ragion d’essere vertono ancora le sedici Ricerche: dove al di fuori e oltre ogni aristotelismo e post-aristotelismo, idealismo e post-idealismo, si esaminano i diversi generi d’arte – radio, commedia, melodramma, film, epica – le loro facoltà e le loro energie strutturali sul metro dell’efficacia educativa, per il loro bisogno della conoscenza: e si esemplifica la loro attuale formazione e natura, volta per volta, con un’opera nuova: i drammi radiofonici Volo di Lindbergh e Lezione di Baden, il poema I tre soldati, gli atti unici intercalati da numerosi cori La linea di condotta, Colui che dice di sì – Colui che dice di no, il dramma narrato La madre, tratto dal romanzo di Gorkij.

Per Brecht non vi sono equivoci possibili: educazione è conoscenza, lavoro intellettuale è portare a conoscenza di sé e degli altri, e quindi sperimentare, i dati positivi della realtà. La mggior parte della sua opera è quindi anche logicamente composta per la gioventù, in quanto disposta per definizione a modificazioni totali: e nel contesto è anche indicata l’età degli allievi a cui ci si intende rivolgere. Infine L’opera dei quattro soldi1 e Mahagonny (che in certo senso è il suo seguito) possono educare anche gli irreducibili di ogni età, se pur sommersi nel mondo, perché affrontano nel suo stesso tormento questo mondo, con i suoi conflitti, reali e immediati.

Da un capo all’altro delle Ricerche Brecht va ponendo il seme di un’opera didattica: i mezzi e i compiti dell’opera didattica vengono chiaramente descritti per l’avvenire, perché sia possibile trasfondere il pensiero nella vita della poesia. Brecht ha approntato direttamente dall’animo umano, e abolendo per sempre il passato, uno strumento per l’opera degli uomini, che non può essere che didattico (e nel sorgere di questa inattesa giornata, è naturale che l’arte di Brecht rimanga frammentaria e appena mattinale, come un chiarore lentamente diffusosi). Quando identifica i fini dell’umanità con i fini scientifici e magari utopistici del comunismo, quando la vita degli uomini gli appare come solidarietà e lavoro incessante per questi fini, e la stessa vita dell’uomo come rivolta del subconscio contro i vincoli sociali e naturali, per la libertà che solo il comunismo può suggellare, la sua arte acquista d’impulso una logica diretta ed elementare, si toglie ogni impaccio ed interviene impetuosamente nei sentimenti e nella volontà dell’animo umano.


Lode del comunismo


È logico, ognuno lo intende. È facile,

Se tu non sei uno sfruttatore, lo puoi comprendere.

Ti farà bene. Informati.

Gli sciocchi lo dicono sciocco, e i sudici sudicio.

Perché è nemico del sudicio e dello sciocco.

Gli sfruttatori lo dicono un crimine.

Ma lo sappiamo:

è la fine dei loro crimini.

Non è follia:

è la fine di ogni follia.

Non è il caos:

è l’armonia.

Semplice

e così difficile da fare.


Per un bolscevico la realtà è oscura e complessa, ma se ne traggono gradatamente alcune attive verità, sulla strada della liberazione: ed esse sono arte, come coscienza, come azione. L’universo appare come nei giorni della creazione: aperto ad ogni luce, e libero ad ogni vento, ad ogni bisogno dell’animo; e Brecht espone il suo lavoro con la maggiore coscienza possibile al contatto e al lavoro degli uomini, senza rancore o timori di sorta. Brecht avverte e conosce la propria situazione. Si limita volutamente ad un’opera propedeutica. Dopo millenni di arte e di pensiero ostacolati ad ogni istante dai legami di classe, Brecht ci porta liricamente sul cammino naturale del socialismo: il tipico mezzo che viene posto, come dice Jean-Paul Sartre, al servizio dell’uomo, al fine che è la sua libertà. Con la sua arte scopre all’uomo il suo avvenire, che è tanto radicato in lui, ma che così penoso gli riesce raggiungere. La lirica di Brecht non ha tempo, non ha scuola, non ha richiami: è popolare. Ed è la prima poesia che sorge spontaneamente popolare non da una tradizione anonima, ma dalla ragione e dalla coscienza, non in forza di una politica o di una volontà preconcetta (com’è sovente in Aragon, o in taluni scrittori sovietici di provenienza borghese), ma da uno stato d’animo coscientemente e istintivamente rivoluzionario.

Come nella narrativa di Jean-Paul Sartre si tenta oggi di adunare un vasto passato per risolvere e attuare il presente, così nella lirica di Brecht, che è esplicativa, illuminante, didattica, alla pari di quei libri che recano una buona novella, il pensiero è purificato ed illimpidito, sotto un’acqua lustrale. Le ragioni dell’esistenza vengono poste all’uomo d’oggi nella loro piena sostanza vitale, che è feconda nella speranza come nella disperazione. Non a caso, io penso, da un paese e da un costume sociale che hanno impersonato con tanta crudezza il destino storico di questi anni, anch’esso umano, fino in fondo, seppure come soffocato rodimento e omicida desiderio di morte, ci sono giunti l’ammaestramento e la forza della poesia, che hanno sofferto per gli uomini ogni male, ogni dolore (com’è compito del rivoluzionario; uomo e massa):


E quando andò al muro, per la fucilazione,

Andò verso una parete costruita dai suoi simili,

E i fucili spianati contro il suo petto, ed il piombo

Erano fabbricati dai suoi simili. Ora erano partiti

Oppure scacciati,

Ma a lui sempre presenti, con l’opera delle loro mani.

Quelli che spararono, erano diversi da lui, ma avrebbero potuto essere trasformati.

Ed egli andò legato a una catena

Saldata da compagni, sorretto da un compagno,

Si addensavano le officine, lo vide per la strada,

Fumaiolo a fumaiolo, e poiché era l’alba

– all’alba di consueto li trasportano –

Erano deserte, ma le vide affollate

Da quella schiera che sempre era cresciuta

Ed ancora cresceva.


Dell’uomo di oggi, di tutti gli uomini, si può annunciare, come «per un compagno che è caduto nelle mani degli hitleriani»:


È stato visto in carcere,

Appare forte e audace.

I suoi capelli sono ancora

completamente di colore scuro.


Nel carcere della vita, nelle sue prove che è necessario sostenere, con fervore e con esultanza, anche se la loro asprezza minaccia di imbiancare i capelli. Perché, come Brecht ha annunciato e ancora ripete, eterna è la lotta dell’uomo per la felicità a cui è negato, per la liberazione dai vincoli che sono insiti nella sua stessa natura: per una solidarietà che di continuo si spezza in una serie di ineliminabili contraddizioni, eppure feconda.


Vito Pandolfi


(Tratto da «Il Politecnico», n. 31-32, luglio-agosto 1946).


Note

1 Tradotta in seguito in L’opera da tre soldi (ndr).


Inserito il 4/4/2023.

Bertolt Brecht.

Fonte della foto: https://weberdmx.blogspot.com/2012/03/lista-de-preferencias.html

Bertolt Brecht

(1898-1956)

Domande di un lettore operaio
(1935)

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Domande di un lettore operaio

Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì?
Ci sono i nomi dei re, dentro i libri.
Son stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra?
Babilonia, distrutta tante volte,
chi altrettante la riedificò? In quali case
di Lima lucente d’ oro abitavano i costruttori?
Dove andarono, la sera che fu terminata la Grande Muraglia,
i muratori?

Roma la grande è piena d’archi di trionfo.

Chi li eresse?

Su chi trionfarono i Cesari?
La celebrata Bisanzio

aveva solo palazzi per i suoi abitanti?
Anche nella favolosa Atlantide,
la notte che il mare li inghiottì, affogavano urlando
aiuto ai loro schiavi.


Il giovane Alessandro conquistò l’India.
Da solo?
Cesare sconfisse i Galli.
Non aveva con sé nemmeno un cuoco?
Filippo di Spagna pianse, quando la flotta
gli fu affondata. Nessun altro pianse?
Federico II vinse la guerra dei Sette Anni.

Chi, oltre a lui, la vinse?


Una vittoria ogni pagina.
Chi cucinò la cena della vittoria?


Ogni dieci anni un grand’uomo.
Chi ne pagò le spese?


Quante vicende,
tante domande.

Una canzone contro la guerra

A Potsdam sotto le querce

Il corteo funebre di un soldato caduto in una delle sanguinose battaglie contro i francesi a Chemin des Dames diventa l'occasione per una manifestazione contro la guerra.

Bertolt Brecht scrisse questa canzone nel 1927, e venne poi musicata da Kurt Weill.

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A Potsdam sotto le querce

di Bertolt Brecht


A Potsdam sotto le querce

in pieno mezzogiorno un corteo,

davanti un tamburo e dietro una bandiera

e una bara nel mezzo.


A Potsdam sotto le querce

una bara, tra una polvere vecchia

di secoli, portavano in sei

con elmo e fronde di quercia.


E un verso, stava scritto

con il minio, sulla bara,

le lettere erano odiose:

«A ogni guerriero la sua casa!»


Questo per ricordare

i morti, erano tanti,

nati nella loro patria

caduti a Chemin des Dames.


Con la mano e con il cuore lui s’era

fatto fregare per la patria,

gli davano una bara in compenso.

A ogni guerriero la sua casa!


Cosí attraversarono Potsdam per l’uomo

dello Chemin des Dames, ma quelli

della polizia verde arrivarono,

li fecero a brandelli.

Ecco gli elmi dei vinti


Ecco gli elmi dei vinti, abbandonati

in piedi, di traverso o capovolti.

E il giorno amaro in cui voi siete stati

vinti non è quando ve li hanno tolti,

ma fu quel primo giorno in cui ve li

siete infilati senza altri commenti,

quando vi siete messi sull’attenti

e avete cominciato a dire sì.


Bertolt Brecht

Prossimamente: Alcune poesie delle varie fasi della vita di B. Brecht.